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CAPITOLO 1 LO SVILUPPO SOSTENIBILE.

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

LO SVILUPPO SOSTENIBILE.

LO SVILUPPO SOSTENIBILE: UNA DEFINIZIONE.

L’uomo trae i beni necessari alle sue attività primariamente dalle risorse che trova a disposizione nell’ambiente circostante. Queste risorse, così come si presentano in natura, spesso non sono utilizzabili direttamente: hanno bisogno di essere manipolate, riadattate e trasformate in qualcosa di diverso e che, pur discendendo da esse, abbia un’utilità maggiore. In economia si è soliti riferirsi a questo fenomeno parlando di ‘valore aggiunto’, ovvero si dice che un processo produttivo ha lo scopo di aggiungere valore a una materia prima, aumentandone l’utilità economica, ovvero la capacità di soddisfare bisogni.

Generalmente, nella rappresentazione di questo processo, non si tiene conto che il risultato complessivo di una trasformazione comprende non solo il risultato voluto, cioè il prodotto, ma anche scarti e inquinamento ambientale (risultato non voluto). Inoltre la somma di un grande numero di processi fa sì che una risorsa, seppur presente in grande quantità, tenda a esaurirsi se si rigenera con una velocità minore di quella con cui è consumata.

Da un punto di vista storico il moltiplicarsi dei processi è divenuto particolarmente rapido a partire dalla Rivoluzione Industriale, e sempre a partire dallo stesso periodo è aumentato velocemente il tasso di crescita della popolazione mondiale. In sostanza, l’aumento dei consumi e il moltiplicarsi dei processi produttivi e dei prodotti ha portato a:

− un progressivo esaurimento delle risorse non rinnovabili e di alcune categorie di rinnovabili (per esempio, le foreste);

− una produzione sempre maggiore di scarti da attività produttive e dal crescente consumo di prodotti;

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Il concetto di limite ha le sue origini nella storia del pensiero economico fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800. Più tardi, per indicare il problema del limite allo sviluppo rappresentato dai vincoli ecologici degli ambienti naturali, verrà coniato il termine ‘sviluppo sostenibile’.

Lo sviluppo sostenibile viene definito per la prima volta nell’ambito della Commissione ONU su Ambiente e Sviluppo all’interno del cosiddetto ‘Rapporto Brundtland’, dal nome dell’allora presidente della commissione, la norvegese Gro Harlem Brundtland. Questa definizione, oggi molto conosciuta e utilizzata, sottolinea come lo sviluppo in sé non possa garantire un futuro migliore all’umanità se non è sostenibile, ovvero se non è “uno sviluppo capace di soddisfare i bisogni materiali e spirituali dell’attuale generazione senza compromettere quelli delle generazioni future”. L’economista Hermann Daly ricondusse lo sviluppo sostenibile al soddisfacimento di tre condizioni fondamentali:

− il tasso di utilizzo delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione;

− lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo;

− l’immissione di sostanze inquinanti nell’ambiente non deve superare la capacità di carico dell’ambiente1 stesso.

Il concetto di sviluppo sostenibile, che trae origine dal problema ambientale, porta con sé inevitabilmente anche le questioni della distribuzione del reddito e della disparità di ricchezza fra Paesi ricchi e Paesi poveri.

Il riconoscimento da parte della Comunità Internazionale del problema dell’indirizzo dello sviluppo non solo verso una migliore ripartizione della ricchezza nel presente, o la difesa dell’ambiente inteso come patrimonio in sé, ma anche verso una preservazione delle risorse, inclusa quella ambientale, nell’interesse delle future generazioni, ha fatto avviare il lento cammino delle nazioni del mondo, e primariamente di quelle economicamente più avanzate, verso la strada dello sviluppo sostenibile.

1 Capacità di carico dell’ambiente: è la capacità dell’ambiente di sostenere un certo numero di individui, data

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Le tappe di questo cammino sono individuabili in una serie di incontri internazionali che hanno cercato di vincolare gli Stati al rispetto di alcuni impegni in campo ambientale e sociale.

I PASSI PIU’ IMPORTANTI DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE IN TEMA DI SVILUPPO SOTENIBILE.

Nel 1972 si svolge a Stoccolma, in Svezia, la prima conferenza mondiale sull’ambiente, con cui si arriva a sancire, nella cosiddetta Dichiarazione di Stoccolma, come l’ambiente sia un patrimonio comune, e la sua difesa e miglioramento debba diventare “uno scopo imperativo per tutta l’umanità”. Si istituisce inoltre un’apposita Organizzazione, la UNEP, United Nations Environmental Program, con sede a Nairobi (Kenya), con lo scopo di sorvegliare i cambiamenti ambientali e incentivare pratiche positive in materia di protezione della natura.

Quindici anni dopo, nel 1987, nell’ambito della commissione ONU presieduta dall’allora presidente norvegese Gro Harlem Brundtland, viene presentato un rapporto, chiamato appunto Rapporto Brundtland, in cui per la prima volta viene data una definizione di sviluppo sostenibile.

Nel 1992 si svolge in Brasile, a Rio de Janeiro, la Seconda conferenza mondiale sull’ambiente, meglio conosciuta dall’opinione pubblica col nome di Earth Summit. Contrariamente alla prima conferenza, a questa parteciparono le delegazioni di moltissimi paesi, segno che ormai il degrado ambientale era diventato un problema prioritario per i governi e una questione sentita dall’opinione pubblica. All’ordine del giorno dei lavori fu prevista una piattaforma programmatica intesa a porre le basi per un modello di sviluppo sostenibile da perseguire nel XXI secolo. Furono firmate delle importanti convenzioni sulla tutela della biodiversità, del patrimonio forestale, sulla lotta alla desertificazione e sui cambiamenti climatici.

Uno dei risultati più importanti di quella conferenza, la prima a livello mondiale sul tema dello sviluppo sostenibile, fu la stesura, nel 1997, del cosiddetto Protocollo di Kyoto, un trattato internazionale sottoscritto da più di centosessanta Paesi ed entrato

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in vigore nel 2005 dopo la ratifica da parte della Russia. Il trattato prevede l’obbligo, in capo ai Paesi industrializzati, di operare una drastica riduzione di emissioni di elementi responsabili dell’effetto serra in una misura non inferiore al 5,2% rispetto alle emissioni registrate nel 1990, preso come anno base.

Infine nel 2002 si è svolto a Johannesburg il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile, in cui è stata elaborata una dichiarazione, la ‘Dichiarazione di Johannesbourg sullo sviluppo sostenibile’, riguardante le tematiche dell’energia, del clima, dell’acqua, dei pesticidi e della biodiversità. Nella stessa Conferenza è stata adottata anche una dichiarazione politica al fine di rinnovare l’impegno degli stati più avanzati a favore della lotta alla povertà attraverso uno sviluppo economico svincolato dal degrado ambientale e dal consumo esasperato di risorse.

SVILUPPO SOSTENIBILE E DEMOGRAFIA.

Può essere interessante chiedersi per quale motivo l’umanità è arrivata, alle soglie del XXI secolo, a definire una politica internazionale per lo sviluppo sostenibile. Per fare questo ripercorreremo la storia demografica dell’uomo in quanto, se da una parte la crescita delle popolazioni è vincolata, oltre che dalla fecondità (numero di figli per donna) e dalla mortalità (speranza di vita alla nascita), anche dall’ambiente che le circonda, dall’altra l’impatto delle attività umane dipende in larga misura dalla numerosità della popolazione e dai suoi bisogni di cibo, energia, spazio.

Un autorevole studioso, Carlo Cipolla, ha messo in relazione incremento di popolazione con la disponibilità di energia, intesa come cibo (calorie), energia meccanica, combustibile. Ciò significa subordinazione all’ambiente naturale e alle sue risorse, che costituiscono quindi un vincolo al popolamento. Ciò è particolarmente evidente nell’uomo preistorico, dedito alla caccia e alla raccolta, dove la sopravvivenza dipende dalla disponibilità di risorse fornite dall’ambiente circostante. Tanto maggiore sarà il numero di piante e animali in una certa area, tanto più facile sarà la sopravvivenza. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la densità abitativa di una popolazione di cacciatori e raccoglitori che abitasse in una savana, su una superficie

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di dieci chilometri di raggio, potesse essere dodici volte maggiore di quella di un’analoga popolazione che vivesse su di una superficie altrettanto vasta, ma su un territorio artico.

Con la rivoluzione agricola del neolitico (10.000 a.C.), che avviene, seppur in modi diversi, presso la grande maggioranza dei popoli della terra, si espande enormemente la capacità produttiva, quindi la quantità di cibo e di energia che l’uomo ha a disposizione attraverso l’uso di animali e piante. Il fatto che le principali fonti di energia, oltre all’energia muscolare dei singoli individui, rimanessero gli animali e le piante pose però dei limiti all’espansione della sua disponibilità: il livello di disponibilità era infatti legato alla quantità di terra che si poteva utilizzare.

Ma la Rivoluzione Industriale aumentò improvvisamente le disponibilità energetiche, grazie all’invenzione di macchine per la conversione di materia in energia. Questo costituisce un punto di svolta nella storia demografica del mondo: dal 1910 al 1990 la popolazione mondiale triplica, con consumi di energia aumentati di quasi sedici volte. Viene spezzata la dipendenza dalla disponibilità di terra, e rimosso così un vincolo importante alla crescita della popolazione.

In sostanza, la storia dell’uomo, accennata adesso solo per brevissimi capi, ha dimostrato come le innovazioni radicali possano spezzare i vincoli alla crescita demografica. Secondo un noto studioso del passato, Malthus, la crescita di una popolazione è vincolata alla legge dei rendimenti decrescenti di uno stock di terra. Una certa popolazione al momento T0 si sostiene con le risorse alimentari rese

disponibili dall’utilizzo di una certa quantità di terra. Grazie a questa disponibilità la popolazione aumenta, e vengono colonizzate nuove terre, che hanno rendimenti più bassi dei precedenti, e i terreni già utilizzati vengono coltivati più intensamente diminuendo così la loro produttività. Quando poi tutta la terra sarà esaurita, nuovi incrementi di produzione potranno aversi solo intensificando il lavoro nei campi, ma anche questo avrà un limite in quanto la produttività marginale di una unità di lavoro aggiuntiva decresce fino ad annullarsi, in presenza di capitale costante. Quindi inevitabilmente ci sarà un momento in cui la disponibilità di cibo non sarà sufficiente per tutti gli abitanti, e in quel momento la fame e le carestie agiranno come vincoli repressivi alla crescita, ristabilendo un rapporto adeguato fra numero degli individui e

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risorse. Questo modello è valido in un ambiente fisso e con tecnologia che non varia, ed è utilizzato anche in biologia per spiegare come la crescita di una certa specie, in un ambiente limitato, sia funzione decrescente della densità. E’ valido cioè per spiegare l’andamento di una popolazione in presenza di risorse fisse. Nella specie umana però l’ambiente non è mai fisso, ma è dilatato dall’innovazione. Così, mentre fino a 10.000 anni fa la crescita demografica dell’umanità ha trovato un limite nell’energia disponibile derivante dalla caccia e dalla raccolta, e nella seconda fase dall’energia derivante da allevamenti e coltivazioni, acqua e vento, oggi i limiti alla crescita sono meno definiti, e forse connessi con l’avverso impatto ambientale dello sviluppo demografico e tecnologico

Secondo gli studi delle Nazioni Unite la popolazione mondiale è passata negli ultimi due secoli da 1 a 6 miliardi di abitanti.

Ad oggi le stime degli Organismi internazionali prevedono un consistente aumento della popolazione nel prossimo futuro.

Quale effetto può avere questo sull’ambiente naturale, e fino a che punto l’ambiente naturale può essere un vincolo alla crescita della popolazione? E’ molto utilizzata, nella trattazione di questi argomenti, la formula IPAT di Ehrlich, secondo cui l’impatto sull’ambiente (I) è funzione di P, quantità di popolazione, A, produzione o consumo o reddito pro capite, T, tecnologia, secondo la relazione:

I = P x A x T

Questa identità, pur non essendo agevolmente calcolabile, tuttavia ci può dare un’idea della relazione fra queste variabili. Quella che può essere più facilmente ipotizzata è P. Se davvero la popolazione mondiale passerà da 6 a 9 miliardi da qui al 2050, allora possiamo immaginare che più popolazione, con più alto livello di reddito (tutte le politiche economiche mondiali puntano all’aumento del PIL), porterà ad una maggiore incidenza ambientale, a meno che il loro effetto combinato non sia bilanciato dal progresso tecnologico. Pensiamo allora all’impatto che ciò può avere sulle risorse. Attualmente i paesi ricchi consumano le maggiori quantità di risorse: il rapporto è di 1 a 3 per il legno, 1 a 9 per i combustibili fossili, 1 a 17 per il rame e 1 a 20 per l’alluminio. Per il futuro si prevede però che i consumi da parte delle nazioni economicamente più avanzate restino costanti, sia per il cambiamento dei modelli di

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consumo nella direzione del riutilizzo, del rispetto dell’ambiente e dell’efficienza, sia perché la popolazione crescerà molto lentamente. Nel caso delle economie più povere se ne prevede invece lo sviluppo, e questo implicherà più materie prime per la produzione, più spazio per l’agricoltura, più energia per tutte queste attività. Considerando che queste popolazioni passeranno dagli attuali 4 agli 8 miliardi di persone, si può immaginare come questo genere di crescita non possa essere sostenuto a lungo. Inoltre la stessa crescita implicherà un’espansione della domanda di cibo, e questo genererà forti pressioni sullo stock di acqua, foreste, fauna marina e terrestre. La necessità di aumentare le rese dei terreni già coltivati porterà all’intensificarsi nell’uso dei fertilizzanti e dei pesticidi, prodotti chimici che intaccano le falde e distruggono la flora e la fauna. Infine il crescente volume delle attività umane, e in particolare il crescente uso di combustibili fossili, contribuirà ulteriormente ad alterare la composizione dell’atmosfera introducendo grandissime quantità di anidride carbonica. Alcune previsioni stimano un raddoppio delle emissioni ci CO2 per l’anno

2025, mentre c’è molto dibattito sull’intensità delle modificazioni climatiche che ciò può generare, visto che sull’esistenza del cambiamento climatico la comunità scientifica non discute più. Se c’è un legame diretto fra crescita della popolazione e livello del reddito con la produzione di anidride carbonica, starebbe quindi alla tecnologia trovare soluzioni che equilibrino la situazione. Ma è possibile che il progresso porti sempre una soluzione ai problemi?

RISORSE E INQUINAMENTO.

In conclusione, lo sviluppo economico e l’aumento dei consumi nel XX secolo da una parte ha portato al progressivo assottigliarsi della disponibilità di risorse che non possono rigenerarsi con la stessa velocità con cui sono prelevate, dall’altra ha aumentato il divario di ricchezza fra Paesi poveri e ricchi, dato che questi ultimi sono quelli che usufruiscono della maggior quantità di risorse. Inoltre le attività industriali e agricole e i comportamenti dei consumatori provocano effetti sull’ambiente che non sono trascurabili.

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Il consumo medio mondiale è aumentato raggiungendo oggi 6 volte il livello di spesa pubblica e privata del 1950. L’impiego dei combustibili fossili è aumentato di 5 volte dal 1950. Il consumo di acqua è quasi raddoppiato dal 1960, dallo stesso periodo la quantità di anidride carbonica in atmosfera è aumentata di 4 volte, la produzione di rifiuti si attesta ormai su 1,5 kg a persona (in Europa).

Quindi la crescita degli ultimi cinquanta anni ha portato a pressioni sull’ambiente molto forti. Queste pressioni alterano gli equilibri naturali del pianeta ed esauriscono le risorse a disposizione, sia per il loro utilizzo sproporzionato rispetto alla capacità di rigenero, sia per la loro contaminazione con agenti inquinanti.

L’acqua, fra tutte le risorse, è quella più direttamente legata alla vita e alla salute umana. Il sistema idrico è il terminale di tutte le sostanze inquinanti immesse nell’atmosfera e nel suolo, oltre che di quelle riversate direttamente nelle acque. Fino a pochi anni fa il problema dell’acqua consisteva nel renderla disponibile dove era scarsa, in quanto lo stock complessivo era considerato stabile; si trattava in sostanza solo di un problema di redistribuzione. In realtà l’acqua non può ad oggi essere considerata una risorsa rinnovabile, per via della progressiva riduzione delle risorse d’acqua dolce del pianeta, la loro crescente contaminazione e soprattutto il loro crescente sfruttamento. L’origine dell’inquinamento delle acque sta primariamente nelle attività industriali e agricole. Se fino ad alcuni decenni fa la ridotta quantità delle scorie e la loro biodegradabilità permettevano che l’inquinamento idrico fosse prevenuto dall’autodepurazione naturale, oggi la concentrazione e numerosità delle attività produttive, ma soprattutto l’uso intenso di sostanze chimiche in agricoltura, minaccia la disponibilità di questa risorsa.

Le foreste. Le foreste proteggono il suolo prevenendo l’erosione, regolano le scorte d’acqua, regolano il clima, limitano l’effetto serra assorbendo anidride carbonica. Il commercio del legname, la conversione dei terreni a pascoli e a coltivazioni, e l’urbanizzazione riducono le superfici boscose.

Il suolo. Ad oggi un sesto del suolo terrestre risulta degradato a causa delle pratiche di coltivazione e allevamento intensive. In particolare la desertificazione rappresenta la minaccia più consistente. La desertificazione è la progressiva incapacità degli ecosistemi di sostenere forme di vita animali e vegetali. Può essere innescata dalla

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riduzione delle risorse idriche, dall’aumento della siccità a causa dei cambiamenti climatici, dall’eccessivo sfruttamento dei terreni, dall’uso di tecniche agricole improprie. In particolare sono gli attuali metodi di coltivazione e allevamento ad essere notevolmente dannosi. Sebbene il suolo sia manipolato dall’uomo per l’attività agricola da diecimila anni, è solo nell’ultimo secolo che si è avuta una rivoluzione nel modo di condurre questo genere di attività con l’introduzione delle macchine e della chimica. Questo ha permesso di aumentare notevolmente la produttività per ettaro, permettendo così di far fronte alla continua crescita dei fabbisogni alimentari mondiali, alla necessità di mantenere bassi i prezzi degli alimenti, all’esigenza di coltivare anche in zone sfavorevoli e a quella di avere prodotti coerenti con gli standard qualitativi imposti dalle leggi e dall’industria. Tuttavia ciò ha avuto effetti sull’ambiente. In particolare risulta dannoso l’impiego di pesticidi e concimi, i primi per combattere le specie animali e vegetali nocive alle attività, i secondi impiegati per reintegrare e aumentare i nutrienti del terreno, provocando però un’erosione progressiva del suolo a causa della ridotta presenza di humus, e una salinizzazione dei terreni dovuta alla concimazione minerale.

Biodiversità. L’utilizzo di pesticidi, la deforestazione, la pesca indiscriminata, la standardizzazione delle produzioni agricole con varietà commercialmente convenienti, la riduzione delle aree incontaminate hanno ridotto la varietà di organismi viventi presenti nell’ecosistema e prodotto estinzioni di numerose specie animali e vegetali.

I rifiuti. La produzione di rifiuti in gran quantità è un fenomeno tipico dell’era moderna. Mentre nel passato il rifiuto era prevalentemente biologico, proveniente dall’agricoltura, oggi si hanno grandi quantità di rifiuti urbani e industriali. Si stima che un cittadino europeo produca ogni anno 1,5 kg di rifiuti, un americano 4,5 kg. Una gestione dei rifiuti non corretta provoca inquinamento del suolo e delle falde acquifere. Molte tipologie di materiali hanno un tempo di degradabilità di decenni o secoli, altri non sono biodegradabili.

Atmosfera. L’inquinamento atmosferico è una forma di inquinamento su cui l’opinione pubblica è molto sensibile a causa dei suoi effetti diretti sul cambiamento del clima. Quando si parla di inquinamento atmosferico si vuole indicare l’immissione

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nell’atmosfera di gas non naturalmente presenti, o l’immissione di gas che sono già presenti ma che diventano inquinanti perché superano le quantità normalmente esistenti nell’aria. Allo stato attuale inquinamento atmosferico significa primariamente immissione di anidride carbonica. Se è vero che anche un fenomeno naturale come un’eruzione di un vulcano può aumentare la quantità di CO2, tuttavia

nell’ultimo secolo si è assistito a un aumento della concentrazione di questo gas a causa dei trasporti, delle attività industriali, degli inceneritori e delle centrali elettriche a combustibili fossili. In queste centrali non si produce infatti solo energia, ma anche anidride carbonica. La grande immissione di anidride carbonica, unita alla deforestazione, è causa dell’aumento dell’effetto serra. L’effetto serra è un fenomeno naturalmente esistente che garantisce che la temperatura del pianeta mantenga valori ottimali per l’evoluzione della vita. La terra riceve i raggi del sole e li respinge verso l’esterno sotto forma di energia termica. Una parte di questa energia è assorbita dalle molecole di vapor acqueo e di CO2 presenti nell’aria, che intrappolano il calore

riflesso. L’aumento di CO2 provoca un aumento di calore trattenuto e quindi un

riscaldamento del pianeta, con cambiamenti climatici su larga scala, perché vengono influenzate le correnti marine e atmosferiche, si sciolgono i ghiacciai perenni e si inaridiscono i terreni. La combustione del carbone e del petrolio libera anche altri gas inquinanti, come l’ossido di carbonio, il metano, vari ossidi di azoto e l’anidride solforosa. L’anidride solforosa rappresenta un altro grave inconveniente nell’utilizzo dei combustibili fossili. Carbone e petrolio, quando vengono bruciati, liberano lo zolfo in loro contenuto, che, ossidandosi, forma anidride solforosa. Questa, reagendo col vapor d’acqua presente nell’atmosfera, forma sostanze nocive come l’acido solforico, i solfati e i solfiti, che i fenomeni atmosferici portano a terra sotto forma di piogge acide. Le piogge acide hanno effetti negativi sulla salute dell’uomo, danneggiano la vegetazione, corrodono gli edifici e i monumenti, avvelenano le acque dei laghi e dei fiumi.

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CAPITOLO 2

BELVEDERE SPA.

“Vi presento una storia che ha dell’incredibile. La storia di come una catastrofe possa trasformarsi in una risorsa. Peccioli, piccolo comune dell’entroterra toscano, vincendo l’iniziale ritrosia e ostilità di gran parte degli abitanti, con un sindaco, tosto, ha trasformato l’ostilità in favore e il rischio in profitto…” Corrado Augias – Rai3 Le storie di Corrado Augias

“Un posto sperduto in Toscana è diventato una città modello” Luca Frajoli – Il Venerdì di Repubblica

Il paese di Peccioli è un piccolo capoluogo di comune della zona dell’Alta Valdera, nella Provincia di Pisa. Conta meno di 5000 abitanti, e come tutti gli altri comuni della zona ha una forte identità rurale. A partire dagli anni ’50 la popolazione che lavorava in agricoltura è scesa drasticamente, passando da 3.103 impiegati nel 1951 a 204 nel 1991, ed è cominciata una forte emigrazione verso le città, in particolare verso Pontedera, dove gli stabilimenti Piaggio offrivano una possibilità d’impiego. Nel paese si avviano molte attività nell’ambito dell’artigianato del mobile, ma la gran parte di queste aziende, generalmente di piccole e piccolissime dimensioni, non reggerà ai cambiamenti di mercato degli anni ’80. Una differenza fra Peccioli e gli altri comuni della Valdera è stato il mantenimento di una discarica, la cui corretta gestione, esempio raro nel panorama nazionale, ha permesso di arricchire le casse comunali, migliorare i servizi, incrementare la qualità della vita.

Dopo aver visto cosa significhi sviluppo sostenibile e quali problematiche ambientali scaturiscano dagli attuali stili di consumo e produzione, introdurremo un caso, quello

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della Belvedere Spa, in cui un’azienda, consapevole delle ricadute sociali della propria attività, combina efficacemente profitto e rispetto della natura, e riesce a impostare iniziative che garantiscono ai cittadini del Comune di Peccioli e della Valdera una prospettiva di sviluppo futuro nel rispetto dell’ambiente e dei diritti delle prossime generazioni.

LA BELVEDERE SPA E IL SISTEMA PECCIOLI.

La Belvedere Spa, nata nel 1997, è una società a capitale misto pubblico-privato e ad azionariato diffuso che conta attualmente su 850 soci piccoli risparmiatori. Questi detengono il 44,2% del capitale sociale per un valore complessivo di 4.846.580 euro e nella gran parte dei casi risiedono nel comune di Peccioli e negli altri comuni dell’Alta Valdera. La quota di controllo (55,8%) è invece detenuta dal Comune di Peccioli. Con un patrimonio netto, al 31/12/2006, di 13.136.368 euro, e ricavi netti per 17.798.650 euro, si pone come entità di rilievo in ambito provinciale. La società, costituita inizialmente per gestire la discarica, include nella propria mission anche la promozione economica del territorio e nel suo sviluppo.

E’ stato calcolato che, solo in termini di benefici indiretti sul territorio, la società abbia contribuito, fino al 2006, per 92.266.785 euro, sotto forma di utili distribuiti (6.404.980 €), tasse locali (8.445.322 €), acquisti da aziende del territorio (77.416.483 €). Grazie al contributo della Belvedere Spa, solo nel 2006 il Comune di Peccioli ha speso 1.495.362 euro per i servizi sociali, e 850.000 euro per la cultura.

Con le sue attività e le sue società ha contribuito alla creazione del cosiddetto Sistema Peccioli, un vero e proprio sistema di sviluppo del territorio gestito dallo stesso Comune. Attraverso il controllo della principale fonte di reddito per le casse comunali, la discarica, di un’ampia porzione del proprio territorio rurale, di una ricchissima Fondazione e, come vedremo più avanti, di altro ancora, il Comune di Peccioli è diventato, attraverso la Belvedere Spa, l’autentico protagonista nella determinazione del proprio futuro. Si tratta di un futuro in cui cultura, sviluppo economico compatibile con la preservazione dell’ambiente, miglioramento dei servizi

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e promozione del territorio sono i termini con cui si descrive la strada intrapresa dagli amministratori pubblici per fornire una prospettiva di sviluppo al comune.

Nel 2005 le Nazioni Unite, attraverso l’iniziativa IDEASS, che promuove le migliori esperienze di trasferimento di innovazione al fine di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni che hanno difficoltà di accesso al progresso tecnico, hanno invitato la Belvedere Spa in Colombia per far conoscere i risultati della sua attività e i suoi meccanismi di gestione.

LA DISCARICA DI LEGOLI.

Una delle attività più importanti della Belvedere Spa è la gestione della discarica comunale.

In Italia il problema dei rifiuti solidi urbani si è manifestato in tutta la sua gravità a partire dagli anni ’70, quando ormai lo sviluppo industriale aveva portato alla produzione e al consumo di grandissime quantità di materiale non degradabile. A Peccioli, fino a quegli anni, il servizio di nettezza urbana consisteva semplicemente nel prelevare i rifiuti dalle case e portarli in un’area al di fuori del paese priva di qualsiasi tipo di controllo chiamata San Sebastiano. Non esisteva una politica di gestione dei rifiuti, perché non esisteva né una coscienza ecologica, né una vera legislazione dei rifiuti che comparirà solo a partire dagli anni ’80 col D.P.R. 915/1982 e successivi interventi. Naturalmente gli effetti ambientali di una tale pratica non erano difficili da comprendere, così gli amministratori di allora identificarono una nuova collocazione della discarica in un sito che avesse dei requisiti sicuri. Venne individuata una zona collinare scarsamente popolata nei pressi della frazione di Legoli, piccolo centro abitato di 290 abitanti. Il sito sarebbe sorto a circa 300 metri dal paese, con rari insediamenti civili a distanze minori, e comunque non inferiori ai 250 metri. La zona destinata all’interramento avrebbe occupato il fondo di una profonda depressione originata dall’erosione di una spessa formazione geologica resa impermeabile da oltre 25 metri di argilla naturalmente presente sotto il livello del terreno, distante da alvei fluviali alluvionali, da falde acquifere e dai punti di

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approvvigionamento dell’acqua potabile. Il bacino è attraversato da un torrente in cui sarebbero confluite le acque meteoriche raccolte dai lotti chiusi e dal piazzale inferiore della discarica e che termina nel laghetto artificiale della Cerbana.

La discarica di Legoli venne aperta nel 1978, prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 915/1982 che, sostituendo una vecchia legge del 1941, non più adeguata ai tempi, cercava di integrare le nuove esigenze della società dei consumi con la tutela della natura, della salute dell’uomo e l’economicità nello smaltimento dei rifiuti. I primi depositi avvennero in maniera non ottimale. I rifiuti venivano depositati sul fondo della valle e ricoperti con terreno, senza nessuna opera di “inerbimento”, che avrebbe permesso un maggiore controllo dell’erosione del pendio grazie a un migliore drenaggio delle acque e un più facile consolidamento, a cui si aggiunge il non gradevole impatto visivo. Le infiltrazioni causavano una produzione molto elevata di percolato (il percolato si forma a causa delle infiltrazioni di acqua piovana, che dilavano la superficie dei rifiuti arricchendosi di sostanze inquinanti) che fuoriuscendo inquinava l’ambiente circostante e minava la stabilità del monte rifiuti, galleggiante sopra migliaia di litri di percolato. Inoltre il biogas, un prodotto dell’azione di batteri anaerobici su materiali organici biodegradabili che consiste in una miscela di metano, biossido di carbonio e altri gas, non era controllato. La sua produzione, che continua anche molti anni dopo il deposito del rifiuto, portava a fughe sulla superficie che generavano cattivi odori, compromettevano la possibilità di ricoltivare l’area e soprattutto causavano a improvvisi incendi di superficie allorché il gas entrava in contatto con l’ossigeno presente nell’atmosfera. Non esisteva un impianto di captazione del biogas, un sistema di monitoraggio delle acque né un impianto antincendio.

Le nuove disposizioni normative del 1982 introdussero una serie di vincoli nella gestione dei siti di smaltimento. Ben presto l’Amministrazione si rese conto che per far fronte ai nuovi obblighi in tema di gestione della discarica e risanamento ambientale non sarebbero state sufficienti le risorse comunali. Ma, di fronte alla possibilità di chiudere il sito lasciando invariata la situazione di degrado ambientale, come peraltro una buona parte dell’opinione pubblica del comune richiedeva, e in primis gli cittadini dell’abitato di Legoli, intimoriti per l’inquinamento e per le

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conseguenze sulla salute e sulla sicurezza della loro comunità, la Giunta Comunale di allora preferì aumentare il conferimento di rifiuti, sperando così di trovare risorse sufficienti per far fronte alla grave minaccia ecologica che la discarica rappresentava. Così nel 1988 la Provincia di Pisa, ente preposto alla pianificazione in tema di smaltimento di rifiuti, scelse il sito di Legoli come deposito per i comuni della Valdera (Capannoli, Palaia, Terricciola, Ponsacco, oltre naturalmente a Piccioli). Nello stesso anno la Regione Toscana stanziò un contributo di 5 miliardi di lire per la riprogettazione, l’ampliamento e la costruzione di un nuovo sistema di infrastrutture per la discarica. L’ampliamento sarà inaugurato nel 1990. Legoli diventerà la discarica in cui saranno conferiti i rifiuti delle Province di Firenze, Lucca, Massa e Pistoia.

La nuova discarica, denominata “Legoli 1”, venne costruita al di sopra della vecchia, con caratteristiche però ben diverse dalla precedente. Il deposito venne realizzato in modo da avere una superficie esterna con inclinazione pari a 20 gradi, al fine di favorire una diminuzione delle infiltrazioni di acqua piovana, responsabili della formazione del percolato, e creare una pendenza in armonia con le colline circostanti. Venne avviata una copertura dei rifiuti con 130 cm di argilla e 20 cm di terreno vegetale inerbito. A valle fu costruita una diga d’argilla per contenere il percolato, e un impianto per la captazione del medesimo. A seguito dell’ampliamento del 1995, sarà progettato un ulteriore sistema di raccolta. Per un migliore processo di captazione, operazione particolarmente importante al fine di evitare accumuli indesiderati che provochino fuoriuscite e dispersioni nell’ambiente e compromettano la stabilità del deposito rifiuti, nel 2003 sono stati installati dei pozzi piezometrici dotati di pompe pneumatiche per un controllo automatico del livello, che hanno permesso fra le altre cose di drenare la discarica in zone in cui il drenaggio principale posto sul fondo non era più sufficiente. Nel 2006 è entrato in esercizio anche un impianto di depurazione del percolato che permette di evitare il trasporto di percolato presso altri impianti distanti (due autobotti al giorno per tutto l’anno). Il depuratore è costituito da tre parti principali: nella prima l’acqua contenuta nel percolato viene evaporata in una caldaia a due stadi, utilizzando il calore recuperato dall’impianto di combustione del biogas, per raccogliere un concentrato di tutti i Sali contenuti nel

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percolato, che viene reimmesso in discarica. Nella seconda parte l’acqua condensata raccolta viene trattata per l’eliminazione dell’ammoniaca e dalla separazione dell’ammoniaca si ottiene solfato di ammonio, un composto utilizzabile in agricoltura. Nella terza parte l’acqua subisce un trattamento biologico per depurarla dalle sostanze biodegradabili. La depurazione termina con disinfezione con ipoclorito e filtrazione. L’acqua depurata è raccolta in un serbatoio e può essere usata per i servizi, gli usi di cantiere e l’antincendio.

I continui afflussi di rifiuti portarono l’Amministrazione a progettare, nel 1993, un ampliamento della discarica, che venne approvato dai competenti organismi regionali e ultimato nel 1995 (Legoli 2). A seguito dell’ampliamento venne realizzata anche una diga in cemento armato avente la funzione di contenere il fronte dei rifiuti, il già ricordato ampliamento del sistema di raccolta del percolato (rete di drenaggio, pozzi e cisterna) e un sistema di raccolta del biogas con impianto di cogenerazione.

E’ da ricordare che, nello stesso anno, la discarica è individuata come “discarica di interesse regionale destinata a sopperire a situazioni di necessità e urgenze” dal D.P.G.R. 128/1995 ai sensi della L.R. 4/1995.

Attualmente è realizzato un terzo e ulteriore ampliamento della discarica per una superficie di 10 ettari, leggermente inferiore ai 13 ettari della superficie attuale. Di fronte alla previsione dell’aumento della produzione di biogas, sono già stati installati nuovi motori per la generazione di energia elettrica. Si tratta di un motore Deutz TBG620 da 730 Kw di potenza elettrica nominale e un Jenbacher JES212 da 511 Kw.

Come già ricordato uno dei problemi principali della discarica è l’emissione di biogas, una miscela volatile prodotta dalla decomposizione di rifiuti biodegradabili composta per il 50% da metano, pericoloso e inquinante. La captazione del biogas ha inizio nel 1990, con una rete di raccolta che convogliava la sostanza a una torcia automatica di combustione. Con l’ampliamento del 1995 si profila però la convenienza economica a utilizzare il biogas per produrre energia. Venne così installato, nel 1996, un impianto di cogenerazione, la cui produzione di energia elettrica e termica, iniziata nel 1997, è entrata a regime nell’ottobre del 1998.

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L’impianto di cogenerazione è una delle peculiarità della discarica di Legoli. Cogenerazione significa produrre contemporaneamente, da fonte rinnovabile o non rinnovabile, energia elettrica e calore. Le centrali termiche per la produzione di energia elettrica hanno, spesso, una bassa efficienza energetica: soltanto il 40-50% dell’energia termica contenuta nei combustibili fossili viene trasformata in energia elettrica, mentre la rimanente quantità è scaricata nell’ambiente senza alcun utilizzo. Nei casi più virtuosi, tuttavia, tale calore residuo trova impiego nell’industria, ad esempio sotto forma di vapore, oppure è destinato ad usi civili, come il riscaldamento degli edifici. La produzione combinata di energia elettrica e termica presuppone la possibilità di utilizzare il calore in prossimità del luogo stesso di produzione, dato che trasmettere il calore a grande distanza non è tecnicamente realizzabile, a causa soprattutto dell’ elevata dissipazione che si avrebbe durante la trasmissione. Per questo motivo, gli impianti di cogenerazione sorgono di solito in prossimità degli utilizzatori termici. Se il calore viene prodotto a temperatura relativamente bassa, può trovare impieghi di tipo civile, come il riscaldamento di ambienti o il teleriscaldamento urbano; il fluido vettore è quasi sempre acqua. Se il calore prodotto ha temperatura e pressione elevate può essere utilizzato, sotto forma di vapore, in lavorazioni industriali.

Nella discarica di Legoli il biogas, raccolto dalla rete di captazione, viene inviato all’impianto posto a valle del sito, dove i motori recentemente installati e dotati di circuito integrato di recupero termico dai fumi di combustione e dal raffreddamento trasformano il gas in energia, con una potenza elettrica installata di 2,5 MW, soddisfacendo il bisogno di 2600 famiglie. L’acqua calda del circuito di raffreddamento è utilizzata per il trattamento del percolato e per il teleriscaldamento delle abitazioni e dell’acqua nella vicina frazione di Legoli, per un totale di potenza termica installata di 3 MW, mentre l’energia elettrica è ceduta all’Enel. Per diminuire la dispersione del biogas in atmosfera, sulla parte chiusa della discarica, al di sotto della copertura definitiva, è stata installata una rete di captazione superficiale. Questa rete non capta gas utile per la combustione, in quanto essendo in prossimità della superficie è povero di metano e ricco di aria, ma gas potenzialmente inquinante, quindi l’estratto è inviato direttamente a una torcia ad accensione automatica dove

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viene bruciato. Il sistema è stato progettato e installato quindi con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’aria.

Il biogas è una sostanza inquinante che contiene una grande quantità di metano. Esso è però anche una fonte rinnovabile di energia e la sua combustione non contribuisce all’effetto serra perché la quantità di anidride carbonica emessa è la stessa che le sostanze biodegradabili che formano il biogas hanno intrappolato in molecole organiche sottraendole all’atmosfera durante la loro crescita. Al contrario, maggiore è la quantità di gas bruciata, minore è quella dispersa in atmosfera. La sua produzione è aumentata nel corso degli anni a causa del sempre maggior collocamento di rifiuti; in compenso è aumentata anche l’efficienza nella sua raccolta: nel 2005 la captazione nella discarica di Legoli aveva raggiunto il 49,3% del biogas totale generato, con un miglioramento costante a partire dall’anno 2000 (si considera un successo la captazione del 40% del biogas prodotto in una discarica).

La discarica di Legoli è uno dei pochi esempi di sito di smaltimento dei rifiuti che ha ottenuto la Registrazione EMAS. Il raggiungimento, nel 2002, di questo importante traguardo è considerato un importante successo da parte del Comune di Peccioli e della Belvedere Spa, perché dimostra la ragionevolezza della scommessa sulla discarica e riconosce definitivamente la capacità di aver trasformato un’emergenza ambientale in un esempio da imitare.

IL REGOLAMENTO EMAS.

Che cos’è EMAS.

E.M.A.S. (Regolamento N. 761/2001) è l’acronimo inglese di Environmental Management and Audit Scheme, ovvero Regolamento per il management e l’audit ambientale, approvato dal Parlamento europeo il 14 Febbraio 2001 ed entrato in vigore il 27 Aprile dello stesso anno. Questo Regolamento, direttamente applicabile nel nostro Paese, illustra le modalità attraverso cui un’organizzazione può adottare un

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sistema di gestione che punti al miglioramento delle proprie performance ambientali, ottenendo la Registrazione e la possibilità di utilizzare il Logo EMAS.

Dopo aver osservato come i cosiddetti sistemi di ‘command & control’2 non fossero riusciti ad indirizzare il comportamento delle imprese verso un maggior rispetto dell’ambiente, sia per il disinteresse di queste a rispettare dei vincoli esterni e delle imposizioni dalla cui osservanza non avrebbero tratto alcun beneficio diretto, sia per la difficoltà per gli organismi di controllo di vigilare sul rispetto dei vincoli di legge, l’Unione Europea decise di cambiare totalmente politica ambientale sposando l’idea di ‘far lavorare il mercato per l’ambiente’, ovvero rendere conveniente alle imprese il non inquinare. Nel 1993 venne così emanato il primo Regolamento EMAS (EMAS I), cui seguirà una revisione (EMAS II) entrata in vigore nel 20013. Secondo uno schema già utilizzato dalle norme della serie ISO 14000, che identificano una serie di standard internazionali relativi alla gestione ambientale delle organizzazioni, il Regolamento EMAS prevede che una qualsiasi organizzazione, definita come “società, azienda, impresa, autorità o istituzione, o parte o combinazione di essi, con o senza personalità giuridica pubblica o privata, che abbia amministrazione e funzioni proprie” (articolo 2, punto s)), possa volontariamente scegliere di implementare un sistema di gestione ambientale (che nel resto della trattazione può essere abbreviato come SGA), iniziando un percorso, dettagliatamente disciplinato, che le permetta di migliorare le proprie performance ambientali, controllare fonti di costo prima non monitorate e quindi raggiungere nuovi risultati nella riduzione dei costi, aumentare la motivazione del personale, consapevole di far parte di un’organizzazione che fa degli sforzi per la tutela dell’ambiente, migliorare l’immagine aziendale. Peraltro EMAS fa un profondo riferimento alle ISO 14000, e in particolare alla ‘ISO 14001:1996, sistemi di gestione ambientale – requisiti e guida per l’uso’, in tema di sistema di gestione ambientale. Le norme ISO sono specifiche tecniche, approvate da un organismo riconosciuto a svolgere attività normativa la cui osservanza non sia obbligatoria, che definiscono le caratteristiche standard in termini di dimensioni, prestazioni, sicurezza, aspetti

2 I meccanismi di command & control definiscono dei parametri da rispettare, come per esempio il divieto di

superare un certo valore nell’emissione di una data sostanza nociva per l’ambiente, e vengono fatti applicare attraverso prescrizioni legislative e connessa vigilanza da parte di organismi preposti.

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ambientali, ecc. di un prodotto, processo o servizio. La definizione di questi standard spetta, a livello internazionale, a ISO, organizzazione non governativa il cui nome deriva dal greco antico ‘isos’, che significa ‘uguale’. Queste norme possono poi essere recepite in Europa dal CEN, Comité Européen de Normation, e di qui obbligatoriamente in tutti gli stati membri, fra cui l’Italia, dove acquistano la sigla UNI EN. Una delle principali differenze fra EMAS e ISO è che, mentre quest’ultima ha fonte giuridica privata, derivante da un mutuo riconoscimento degli organismi internazionali di normazione, EMAS ha natura giuridica pubblica ed è pertanto regolamentato da organismi pubblici. Il motivo per cui EMAS fa riferimento alla ISO 14001 è:

1. ISO costituisce uno standard affidabile e collaudato;

2. la grande familiarità del mondo produttivo con le norme ISO, soprattutto in tema di qualità, ne ha consentito un’ampia diffusione. Al Gennaio 2006, nell’Unione Europea, le registrazioni EMAS erano 3.157, contro 37.281 certificazioni ISO 140014.

Secondo quanto stabilito dall’articolo 3, comma 2, punto a) del Regolamento, “per la registrazione ad EMAS un’organizzazione deve […] attuare un sistema di gestione ambientale che soddisfi tutti i requisiti di cui all’Allegato I […]”. L’Allegato I, nella sezione A, intitolata appunto “Requisiti del sistema di gestione ambientale”, stabilisce come “il sistema di gestione ambientale deve essere attuato in conformità dei requisiti EN ISO 14001:1996”, che lo stesso Allegato si cura di riportare.

Nonostante l’ampia ispirazione che trae dalla ISO 14001, il Regolamento EMAS presenta alcune peculiarità che rappresentano peraltro i tre pilastri fondamentali su cui detto Regolamento si basa (Allegato I, sezione B):

− La conoscenza e il rispetto di tutte le pertinenti normative ambientali come prerequisito per ottenere la registrazione;

− l’impegno per il miglioramento continuo delle performance ambientali da parte dell’organizzazione;

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− l’esistenza di uno strumento di comunicazione verso l’esterno chiamato Dichiarazione Ambientale, e della possibilità per le aziende registrate di utilizzare il Logo EMAS;

− il coinvolgimento dei dipendenti nel processo teso al costante miglioramento delle prestazioni ambientali dell’organizzazione.

Per comprendere bene cosa significhi per un’organizzazione aderire ad EMAS è utile fare un breve cenno ai passi principali che è necessario intraprendere per ottenere la registrazione.

I passi per aderire ad EMAS.

Analisi ambientale iniziale. Il Regolamento definisce l’analisi ambientale come “esauriente analisi iniziale dei problemi, dell’impatto e delle prestazioni ambientali connesse all’attività di un’organizzazione” (articolo 2, punto e)), sottolineando, al successivo articolo 3, comma 2., punto a), come sia necessaria per la registrazione EMAS, conformemente agli Allegati VI e VII. E’ una sorta check-up che consente l’acquisizione di una serie di informazioni utili a tracciare un quadro sulle caratteristiche ambientali dell’organizzazione, alla luce del cui esito impostare il sistema di gestione ambientale. L’analisi ambientale deve coprire cinque settori chiave (Allegato VII):

− prescrizioni legislative, regolamentari e di altro tipo cui l’organizzazione si conforma;

− identificazione di tutti gli aspetti ambientali che hanno un impatto ambientale significativo;

− descrizione dei criteri secondo cui valutare l’importanza dell’impatto ambientale;

− esame di tutte le pratiche e procedure gestionali esistenti in materia di ambiente;

− valutazione dell’insegnamento tratto dall’analisi di incidenti precedenti.

In questa fase è decisiva l’identificazione degli aspetti ambientali significativi e la definizione dei criteri con cui valutare l’importanza dell’impatto ambientale. Per

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‘aspetto ambientale’ lo stesso Regolamento indica, sempre all’articolo 2, “un elemento delle attività, dei prodotti o dei servizi di un’organizzazione che può interagire con l’ambiente”, e che è classificato come ‘significativo’ se “ha o può avere un impatto ambientale significativo”. Per ‘impatto ambientale’ si intende “una qualsiasi modifica dell’ambiente, positiva o negativa, derivante in tutto o in parte dalle attività, dai prodotti e dai servizi di un’organizzazione”. Nell’Allegato VI, intitolato ‘Aspetti ambientali’, si indica come un’organizzazione che intenda procedere con un’analisi ambientale debba considerare tutti gli aspetti ambientali delle sue attività e dei suoi prodotti e servizi, e decidere, sulla base di specifici criteri, quali aspetti ambientali abbiano un impatto significativo e da lì muovere per stabilire i suoi obiettivi e target ambientali. I criteri di significatività non sono indicati dal Regolamento, ma la loro determinazione è affidata all’organizzazione stessa, sulla base della propria esperienza e conoscenza. Questo perché la significatività può variare in funzione della fragilità dello specifico ambiente interessato, o della frequenza dell’impatto considerato e della sua reversibilità, o di altri aspetti. E’ evidente infatti come lo scarico di gas inquinanti nell’atmosfera abbia un impatto maggiore in una riserva naturale protetta piuttosto che in un’area industriale posta alla periferia di una città. EMAS impone però che siano generali, verificabili, riproducibili e pubblicamente disponibili. Indica inoltre un elenco non esaustivo di aspetti da tenere presenti nel fissare i criteri secondo cui valutare la significatività degli aspetti ambientali di un’organizzazione:

1. informazioni sulla situazione dell’ambiente per identificare le attività e i prodotti e servizi che possono avere un impatto ambientale;

2. dati dell’organizzazione su materiali ed energia in entrata, scarichi, rifiuti ed emissioni;

3. opinioni dei soggetti interessati;

4. attività ambientali dell’organizzazione già disciplinate; 5. attività di approvvigionamento;

6. progettazione, sviluppo, fabbricazione, manutenzione, uso, riutilizzo, riciclaggio e smaltimento dei prodotti dell’organizzazione;

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7. attività dell’organizzazione con i costi ambientali e i benefici ambientali più elevati.

Politica ambientale. La politica ambientale è l’insieme degli “obiettivi e principi generali di azione di una organizzazione rispetto all’ambiente, ivi compresa la conformità a tutte le pertinenti disposizioni regolamentari sull’ambiente, e l’impegno a un miglioramento continuo delle prestazioni ambientali […]” (articolo 2, punto a)). La politica ambientale illustra i principi e gli impegni che la direzione intende assumersi in campo ambientale a seguito dello studio sulla situazione operato attraverso l’analisi ambientale iniziale. Tali principi e impegni sono il quadro all’interno del quale vengono definiti gli obiettivi e i target ambientali.

Programma ambientale. E’ la “descrizione delle misure (responsabilità e mezzi) adottate o previste per raggiungere obiettivi e target ambientali, e relative scadenze” (articolo 2, punto h)). In base alla politica ambientale di un’organizzazione e agli aspetti ambientali ritenuti significativi vengono definiti gli obiettivi generali, successivamente scomposti in target da raggiungere per conseguire gli obiettivi medesimi. Il programma ambientale prevede il tipo di azione da intraprendere per raggiungere il target e l’obiettivo, definendo i tempi, i mezzi finanziari e tecnici a disposizione, le responsabilità all’interno dell’organizzazione.

Implementazione del sistema di gestione ambientale. Un sistema di gestione ambientale è definito come “parte del sistema complessivo di gestione comprendente la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le pratiche, le procedure, i processi e le risorse per sviluppare, mettere in atto, realizzare, riesaminare e mantenere la politica ambientale” (articolo 2, punto k)). Per l’implementazione di questo sistema, cuore del Regolamento EMAS, l’organizzazione deve sviluppare le capacità e i meccanismi di supporto necessari a perseguire la politica ambientale, gli obiettivi e i target. Secondo quanto previsto dal Regolamento, ispirato alla norma ISO 14001, la fase di implementazione è articolata nei seguenti componenti:

− struttura e responsabilità (punto I-A.4.1.). La direzione deve fornire le risorse indispensabili per attuare e controllare il sistema di gestione ambientale, in termini di risorse umane, competenze specialistiche, risorse finanziarie e

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tecnologie. Deve definire la struttura organizzativa coinvolta nella realizzazione dell’SGA, definendo, documentando e comunicando ruoli e

responsabilità. Deve infine nominare uno o più responsabili

dell’implementazione del sistema di gestione ambientale, che abbiano la funzione di operare affinché i requisiti dell’SGA siano applicati e affinché riferiscano all’alta direzione sulle prestazioni del sistema di gestione ambientale al fine del riesame e del miglioramento;

− formazione, sensibilizzazione e competenze (punto I-A.4.2.).

“L’organizzazione deve esigere che tutto il personale che svolga attività con significativo impatto ambientale abbia ricevuto una formazione appropriata”. Deve quindi formare i dipendenti sull’importanza della conformità alla politica ambientale, alle procedure e ai requisiti del sistema di gestione ambientale, sugli impatti ambientali significativi conseguenti alle attività che svolgono e i benefici per l’ambiente dovuti al miglioramento della loro prestazione individuale, sui ruoli e responsabilità che hanno per raggiungere la conformità alla politica ambientale, alle procedure e ai requisiti dell’SGA, sulle potenziali conseguenze di scostamenti rispetto alle procedure operative specificate;

− comunicazione (punto I-A.4.3.) L’organizzazione deve instaurare un dialogo aperto con il pubblico e gli altri soggetti interessati, ricevendo e rispondendo alle richieste provenienti da soggetti interessati esterni, e dotarsi di adeguate procedure che consentano la comunicazioni fra i diversi livelli e le diverse funzioni dell’organizzazione;

− documentazione del sistema di gestione ambientale e controllo della documentazione (punto I-A.4.4. e I-A.4.5.). Tutti i documenti riguardanti il sistema di gestione ambientale devono essere predisposti, identificati, facilmente localizzabili e resi disponibili in tutti i luoghi dove sono effettuate operazioni essenziali all’efficace funzionamento dell’SGA;

− controllo operativo (punto I-A.4.6.). L’organizzazione deve definire procedure documentate che consentano di condurre in maniera non difforme rispetto alla politica ambientale, agli obiettivi e ai target le operazioni e le attività associate agli aspetti ambientali significativi;

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− preparazione alle emergenze e risposta (punto I-A-4.7.). “L’organizzazione deve predisporre procedute di emergenza che permettano di rispondere a eventuali incidenti o situazioni di emergenza e prevenire e attenuare l’impatto ambientale che ne può conseguire”.

Oltre ai componenti sopra elencati, il Regolamento elenca anche altri requisiti del sistema di gestione ambientale che ISO 14001:1996 non prende in considerazione, in particolare per quanto riguarda la comunicazione esterna e la partecipazione dei dipendenti. Sulla comunicazione, all’articolo 1, comma 2, si stabilisce che “l’obiettivo di EMAS consiste nel promuovere miglioramenti continui delle prestazioni ambientali delle organizzazioni mediante: […] c) l’informazione sulle prestazioni ambientali e un dialogo aperto con il pubblico e gli altri soggetti interessati”. In più, oltre a quanto già espresso all’interno dell’Allegato I sezione A, anche nell’Allegato I sezione B si ribadisce come “le organizzazioni devono poter dimostrare di avere un dialogo aperto con il pubblico e i soggetti interessati, comprese le comunità locali e i clienti, circa l’impatto ambientale delle loro attività e dei loro prodotti e servizi per identificare le questioni che preoccupano il pubblico e i soggetti interessati”. In questo senso è specifica di EMAS l’introduzione della Dichiarazione Ambientale, un documento pubblico che indica l’impegno dell’azienda in campo ambientale. Sulla partecipazione dei dipendenti, sempre nella sezione B, punto 4., si stabilisce come “i dipendenti devono essere coinvolti nel processo teso al costante miglioramento delle prestazioni ambientali dell’organizzazione”. A tal fine lo stesso Regolamento suggerisce di introdurre forme appropriate di partecipazione, riportando anche l’esempio del libro dei suggerimenti o dei comitati ambientali.

Controlli e azioni correttive.

Il Regolamento EMAS, rifacendosi ancora a quanto stabilito dalla norma ISO 14001:1996, prevede, a seguito della fase di attuazione, una fase di controllo dell’SGA, utile a fornire indicazioni per eventuali azioni correttive sullo stesso in caso di non conformità. Questa operazione di controllo è chiamata col nome di “Audit ambientale interno”, e, come è stabilito nello stesso regolamento, “gli audit interni garantiscono che le attività di una organizzazione vengano svolte in conformità delle procedure stabilite. Gli audit possono anche individuare eventuali problemi

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nell’ambito di queste procedure stabilite oppure possibilità di un loro miglioramento […]” (Allegato II, punto 2.1.). Il Regolamento dedica l’intero Allegato II alla definizione dei requisiti concernenti l’audit ambientale interno, mentre nell’Allegato I, punto A.5., elenca gli strumenti metodologici dell’attività di audit così come presenti nella norma ISO 14001:1996. Di fronte a questa apparente incongruenza l’organizzazione deve comportarsi prendendo in considerazione quanto previsto da EMAS sull’esecuzione degli audit ambientali interni e utilizzando le procedure e le metodologie estratte dalle norme della serie ISO 14000. La ragione dell’esistenza di questo doppio binario sta nella diversa accezione del termine ‘audit’ in EMAS e in ISO:

− la ISO 14001 prevede l’esecuzione di audit che verifichino solo la corretta implementazione del sistema di gestione ambientale;

− EMAS richiede che l’audit consideri anche le performance ambientali dell’organizzazione.

Così, pur rifacendosi in gran parte a ciò che la ISO 14001 stabilisce in tema di implementazione e controllo di un SGA, il Regolamento EMAS ha dovuto introdurre alcune peculiarità in tema di audit proprio per le differenti finalità che ad esso si attribuiscono.

L’audit ambientale è definito da EMAS come “strumento di gestione comprendente una valutazione sistematica, documentata, periodica e obiettiva delle prestazioni dell’organizzazione, del sistema di gestione e dei processi destinati a proteggere l’ambiente, al fine di facilitare il controllo gestionale dei comportamenti che possono avere un impatto sull’ambiente, e valutare la conformità alla politica ambientale compresi gli obiettivi e i target ambientali dell’organizzazione” (articolo 2, punto l)). Il periodo di tempo necessario per completare gli audit di tutte le attività è definito ‘ciclo di audit’, e in un dato arco di tempo tutte le attività di una organizzazione devono essere sottoposte ad audit. L’Allegato II stabilisce, sempre al punto 2.1., che gli audit devono essere effettuati da persone sufficientemente indipendenti dall’attività oggetto di audit in modo da garantire imparzialità, e possono essere soggetti interni o esterni all’organizzazione.

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L’Allegato II si articola poi in una serie di punti, che definiscono gli elementi concernenti l’audit ambientale interno:

− gli obiettivi (punto 2.2.);

− la portata dell’audit (punto 2.3.);

− l’organizzazione e le risorse (punto 2.4.);

− la pianificazione e preparazione dell’audit (punto 2.5.); − le attività di audit (punto 2.6.);

− il rapporto sui risultati e sulle conclusioni dell’audit (punto 2.7.); − l’esito dell’audit (punto 2.8.);

− la frequenza dell’audit (punto 2.9.).

Invece le metodologie con cui svolgere l’audit sono estratte da ISO 14001 e riportate nell’Allegato I. Così sono elencate dalla norma:

− sorveglianza e misurazioni (punto I-A.5.1.). “L’organizzazione deve stabilire e mantenere attive procedure documentate per sorvegliare e misurare regolarmente le principali caratteristiche delle sue attività e delle sue operazioni che possono avere un impatto significativo sull’ambiente […]”. L’organizzazione deve individuare delle procedure e degli indicatori che le consentano di monitorare le performance in rapporto agli obiettivi e ai target ambientali, ivi inclusa anche la valutazione periodica della conformità a leggi e regolamenti ambientali applicabili;

− non conformità, azioni correttive e preventive (punto I-A.5.2.). “L’organizzazione deve stabilire e mantenere attive procedure per definire responsabilità ed autorità per trattare e analizzare le non conformità5, per decidere le azioni per attenuare qualsiasi eventuale impatto causato, per iniziare e per completare le azioni correttive e preventive […]”;

− registrazioni (punto I-A.5.3.). Devono esistere procedure per l’identificazione, la conservazione e la rimozione delle registrazioni. Le registrazioni rappresentano l’evidenza dell’esistenza e implementazione del sistema di

5 Le non conformità riguardano in generale il mancato soddisfacimento dei requisiti prestabiliti per quanto

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gestione ambientale. La norma stabilisce come debbano essere redatte, archiviate e conservate;

− audit del sistema di gestione ambientale (punto I-A.5.4.). “L’organizzazione deve mantenere attivo un programma, o programmi, e procedure per svolgere periodicamente l’audit del sistema di gestione ambientale […]”. Il programma e le procedure dovrebbero considerare lo scopo e il campo di applicazione degli audit, la loro frequenza, le responsabilità e i requisiti per l’esecuzione degli audit e per il resoconto dei risultati, la metodologia dell’audit.

Gli standard ISO 14010, ISO 14011, ISO 14012 e ISO 19011 costituiscono le linee guida per l’audit dei sistemi di gestione ambientale cui è possibile fare riferimento per la definizione delle relative procedure.

Riesame della direzione e miglioramento.

L’alta direzione dell’organizzazione deve, a intervalli di tempo determinati, riesaminare il sistema di gestione ambientale per assicurarsi che continui ad essere adeguato ed efficace, e, se i risultati dell’audit lo richiedono, modificare la politica, gli obiettivi e gli altri elementi dell’SGA al fine di adattarsi ai cambiamenti della situazione e al fine di ottenere il miglioramento continuo. In particolare il miglioramento continuo, seppur evidenziato anche da ISO 14001, è decisamente importante in EMAS, dove è vincolato al mantenimento della certificazione. Nell’Allegato I, sezione B, intitolato “Questioni che le organizzazioni che applicano l’EMAS devono prendere in considerazione”, che elenca le questioni specifiche relative alla registrazione EMAS non mutuate dalla ISO 14001:1996, si stabilisce infatti, al punto 2., che “l’organizzazione deve anche impegnarsi a migliorare continuamente le proprie prestazioni ambientali […]”.

La comunicazione pubblica.

Mentre nelle fasi di attuazione del sistema di gestione ambientale il Regolamento EMAS non si discosta sostanzialmente dalla ISO 14001:1996, cui anzi fa esplicitamente abbondanti richiami, nell’esito della procedura sceglie una via originale, in ottemperanza al desiderio di fornire un maggior rilievo ai risultati dell’impegno dell’organizzazione in campo ambientale. La differenza fra le due procedure discende direttamente dalla natura delle stesse: mentre lo standard ISO

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14001 ha natura privata, il Regolamento EMAS costituisce un’iniziativa di tipo pubblico, e di conseguenza l’adesione porta ad una Dichiarazione pubblica sull’impegno in campo ambientale. Ai fini della registrazione la Dichiarazione, unitamente all’intero sistema di gestione ambientale, deve essere convalidata da un verificatore, inviata all’organismo competente per ricevere l’iscrizione nel Registro degli enti aderenti ad EMAS, e infine messa a disposizione del pubblico. Per mantenere la registrazione poi saranno necessarie verifiche periodiche dell’SGA e aggiornamenti annuali della Dichiarazione, nonché una revisione completa di tre anni in tre anni.

Il Regolamento dedica un intero allegato, il numero III, alla Dichiarazione Ambientale. Nel punto 3.1. si stabilisce: “la dichiarazione ambientale serve a fornire al pubblico e ad altri soggetti interessati informazioni sull’impatto e sulle prestazioni ambientali dell’organizzazione nonché sul continuo miglioramento della prestazione ambientale. Essa è altresì un mezzo che consente di rispondere a questioni che preoccupano i soggetti interessati […]”. All’articolo 3.2. si stabiliscono i requisiti minimi di una Dichiarazione:

− “una descrizione chiara e priva di ambiguità dell’organizzazione che chiede la registrazione EMAS e un sommario delle sue attività e dei suoi prodotti e servizi, nonché delle sue relazioni con qualsiasi eventuale organizzazione madre;

− la politica ambientale dell’organizzazione e una breve illustrazione del suo sistema di gestione ambientale;

− una descrizione di tutti gli aspetti ambientali significativi, diretti e indiretti, che determinano impatti ambientali significativi dell’organizzazione e una spiegazione della natura degli impatti connessi a tali aspetti;

− una descrizione degli obiettivi e target ambientali in relazione agli aspetti e impatti ambientali significativi;

− un sommario dei dati disponibili sulle prestazioni dell’organizzazione rispetto ai suoi obiettivi e target ambientali per quanto riguarda gli impatti ambientali significativi. Il sommario può includere dati numerici su: emissioni inquinanti, rifiuti generati, consumo di materie prime, di energia e di acqua, emissioni

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sonore e altri aspetti indicati nell’Allegato VI. I dati dovrebbero consentire il raffronto fra i diversi anni ai fini della valutazione dell’andamento delle prestazioni ambientali dell’organizzazione;

− altri fattori concernenti le prestazioni ambientali, comprese le prestazioni rispetto alle disposizioni di legge per quanto riguarda gli impatti ambientali significativi;

− il nome e il numero di accreditamento del verificatore ambientale e la data di convalida”.

LA FONDAZIONE PECCIOLI PER L’ARTE, LA CULTURA, LA SOLIDARIETA’.

La Fondazione ‘Peccioli per’ nasce nel 2004 e inizia la sua attività nel 2005 per volontà del Comune di Peccioli, che contribuisce con 500.000 euro, e della Belvedere Spa, che contribuisce con 300.000 euro. La Fondazione nasce con l’obiettivo di avvicinare il pubblico all’arte e alla storia, salvaguardare le origini culturali della zona, promuovere il comune di Piccioli in Italia e all’estero.

Si occupa della gestione dei tre musei presenti nel paese, tutti sorti negli ultimissimi anni. Il Museo di Icone Russe “F. Bigazzi”, allestito in collaborazione con l’Hermitage Museum di San Pietroburgo, raccoglie la collezione di icone risalenti al XIX e XX secolo che il giornalista, per lunghi anni corrispondente da Mosca, ha donato al Comune di Peccioli, una collezione già esposta negli Usa, in Sicilia, a Roma, Milano, Venezia e Malta. Il Museo Archelogico ospita i ritrovamenti di alcune importanti campagne di scavo su un sito nelle colline dell’entroterra pecciolese. Risalenti al IV secolo a.C., coprono un periodo della storia etrusca della Valdera e del volterrano rimasto a lungo piuttosto oscuro. La Collezione Incisioni e Litografie “Vito Merlini”, l’esposizione più recente, raccoglie 250 grafiche della seconda metà del novecento donate dall’ex medico condotto del paese recentemente scomparso.

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