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CAPITOLO SECONDO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO SECONDO

I NUOVI INDICATORI DI PERFORMANCE 2.1 Obbiettivi di impresa e misure di performance

L' azienda deve costantemente valutare se stessa per analizzare quanto valore sta creando. E' solo infatti dalla misurazione di tale valore creato a diversi intervalli di tempo che l'impresa riesce a comprendere la sua reale misura di performance. Tali misure di performance non possono essere espresse in modo adeguato da soli dati contabili, né da un loro aggiustamento tramite un processo di normalizzazione.

Possono essere forse solo parzialmente sostituibili tramite efficaci integrazioni quali sono i cosiddetti indicatori di valore creato, quali: l'EVA, il RR e il REIR.15 Sono infatti tutti indicatori che attraverso talune loro più raffinate derivazioni possono in qualche modo surrogare la dinamica del valore, cercando di sostituirlo nel breve termine.

Una misura di performance esige in ogni caso che sia i dati contabili sia altri elementi e informazioni vengano inquadrati in uno schema logico caratterizzato dalla previa identificazione di obbiettivi dell'impresa nel mondo moderno. Nell'ottica americana, ad esempio, la massimizzazione del valore per l'azionista è un obbiettivo largamente condiviso.

Esso suscita però minore consenso nell'Europa continentale e in Giappone, dove l'orientamento e la scelta politica è per un bilanciamento di interessi, del quale sono partecipi anche altri stakeholder.

In tutti i Paesi capitalisti si conviene peraltro su alcuni concetti base:

a) nelle economie avanzate l'impresa aperta al mercato è l'unico modo per realizzare il più alto benessere sociale in modo da organizzare in maniera economica l'attività degli individui. Ciò avviene nei vari Paesi con diversi modelli d'impresa, che presentano diverse caratteristiche, anche in termini

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di fissazione di specifici obbiettivi.

Oggi, pur rimanendo il sistema-Paese molto legato all'efficacia del raggiungimento degli obbiettivi, l'impresa privata è vista come il vero motore dello sviluppo economico.

b) Nella società odierna le imprese ricoprono varie funzioni, tra le più importanti ricordiamo la tutela dell'occupazione, il mantenimento di condizione di corretta convivenza ecc... Tutte queste funzioni sono derivate dalla finalità principale di ogni impresa, che è identificabile nell'obbiettivo di svilupparsi e durare a lungo mediante la creazione di valore economico.

Questa finalità è comune a tutte le aziende, in qualunque contesto e in qualunque situazione esse operino. Gli specifici obiettivi possono invece variare da un Paese all'altro. Nell'impresa Statunitense, ed esempio, c'è una forte propensione all'obiettivo di breve periodo che si traduce nella ricerca di un elevato profitto immediato. Tale orientamento non è però il frutto di una gestione erronea che non considera adeguatamente la lungimiranza e la prospettiva di lungo periodo ma il risultato di forti pressioni ambientali che spesso condizionano e vincolano le possibilità di conseguire obbiettivi di lungo respiro.

Nelle aziende giapponesi l'obbiettivo tipico è visto nell'incremento delle quote di mercato. Ad esempio tramite la continua ricerca di vuoti d'offerta e di nuovi spazi che caratterizza l'ingresso delle imprese nipponiche nei vari mercati geografici.

c) Dall'esperienza maturata è poi evidente come la storia di un'impresa sia un'alternanza di successi ed insuccessi i quali vanno al di là della ciclicità, ma sono originati da veri e propri fenomeni strutturali che esigono un'attenzione continua all'innovazione e all'adeguamento, senza i quali i livelli di performance decadono.

Quindi anche quando obiettivi, quali la redditività e l'efficacia vengono raggiunti devono essere costantemente monitorati e controllati. Non occorre molto perché simili condizioni, nell'arco di pochi anni ed anche in

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tempi più brevi, possano essere modificate da eventi esterni ed interni, che gradualmente le deteriorano. Gli equilibri,

anche i più solidi, possono essere costantemente cambiati e rimodellati. Le imprese che non sanno adattarsi all'ambiente possono subire processi di forte declino ed andare incontro a grosse crisi.

L'azienda ha quindi il principale obbiettivo di creare continuamente valore in modo da evitare il declino. Spesso ci si domanda se è possibile creare valore in modo da soddisfare le esigenze dei vari Stakeholder.

Si deve tenere in considerazione che le tipiche misure economico-finanziarie di misurazione delle performance pur cercando di soddisfare al meglio tutte le categorie di portatori di interessi, non riusciranno mai a soddisfare proprio tutti gli aspetti sociali, ecologici ed etici.

Così un'ottima performance finanziaria ottenuta in un Paese del terzo mondo a scapito di elementari regole ecologiche è giusto abbia la riprovazione della pubblica coscienza e vada contrastata con tutti i mezzi possibili. Ciò, comunque, va ricordato, non ha nulla a che vedere con i problemi aziendali di misurazione della performance, che non possono tenere in considerazione simili contenuti anche se la loro importanza deve essere condizionante.

Oggi giorno in questo contesto di iper-competizione sempre più agguerrita, le imprese per sopravvivere hanno urgente bisogno di disporre di adeguati mezzi finanziari. Senza di ciò, è pura illusione pensare ad una crescita rapida, nei termini in cui questa è richiesta dai mercati. Bisogna fronteggiare in questo contesto, investimenti urgenti che sono molto superiori rispetto a quelli che apparivano necessari per la difesa di quote di mercato nell'ambito nazionale. E' cosi necessario che il risparmio familiare di ogni paese si indirizzi verso il settore produttivo, e che sia in parte disponibile ad assumere i rischi tipici del capitale azionario. Ancora più problematica è nel nostro Paese la disponibilità del risparmio privato all'investimento nel capitale di rischio; condizione che risulta essere sempre più essenziale per garantire gli ingenti investimenti a lungo termine delle imprese in espansione, consentendole nel contempo di non correre i rischi di eccessivi livelli di indebitamento.

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La capacità di attrarre capitali di rischio in aree come il Medio Oriente rappresenta al giorno d'oggi un campanello dall'allarme per le economie Europee. In qualsiasi sistema Paese, se i fornitori di capitale non riceveranno un'adeguata remunerazione per i rischi supportati, indirizzeranno i loro investimenti altrove, oppure il tasso di risparmio comincerà ad abbassarsi. La conseguenza di ciò è che i Paesi che non terranno in dovuta considerazione il livello di performance basato sul valore, e quindi alla remunerazione degli investitori, non riusciranno a tenere il passo con lo sviluppo e l'effetto finale sarà l'aumento della disoccupazione e il regresso del livello di vita.

Generare valore è invece condizione necessaria per raggiungere l'equilibrio, la crescita e la sopravvivenza a lungo termine dell'impresa.

Un'adeguata misura di performance ed una corretta comunicazione esterna di tale risultato sono dunque occasioni importanti, non solo per guidare consapevolmente le imprese, ma per rendere possibili le scelte essenziali sul piano strategico, nell'interesse di tutti gli stakeholder e di tutta la società civile. Basti pensare ad alcune anomalie di questo processo di rilevazione-comunicazione. Così, ad esempio, l'ottica dei risultati contabili a breve termine, imposta talora alle Public Companies

dall'esigenza di risultati trimestrali, si è spesso dimostrata molto negativa nel senso di una ricerca molto frequentemente forzata verso risultati di breve periodo a scapito di investimenti immateriali come ricerca e sviluppo e quindi di risultati globali a medio-lungo termine. A volte anche la ricerca di un dividendo un poco più elevato può portare a sacrificare la creazione di nuovo valore a lungo termine, compromettendo le capacità prospettiche di reddito.

Un altro fattore che molto sovente porta alla distruzione di valore può essere la distorta o incompleta comunicazione della performance, per la quale occorrono poi tempi lunghi e grandi sacrifici per rimediare a simili errori.

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2.2 La performance contabile tradizionale

Le performance contabili sono rappresentate dai dati di bilancio, tipicamente utile e perdita, secondo i criteri classici di “ competenza temporale”; e dai flussi di cassa di periodo, che possono essere variamente definiti. Tali risultati possono essere espressi a più livelli: di società, di divisione, di “area d'affari, ecc.. La performance contabile rappresenta la misura primigenia dei risultati aziendali e precede addirittura il capitalismo industriale. Tale misura è l'unica che rispetta un'impostazione giuridico-formale, essendo una misura obbligatoria.

Oggi però si è sempre più scettici in ambito aziendalistico sulle effettive possibilità di tali misure contabili di rispecchiare una situazione veritiera dell'andamento aziendale e in particolar modo sulle sue capacità di evidenziare l'ammontare del valore creato.

I rilievi critici alla performance contabile si basano su alcune osservazioni, del resto ben note, che ci limitiamo a riassumere:

1) i risultati di bilancio sono fortemente condizionati da regole giuridico-formali. Si pensi ai principi spesso inappellabili e consacrati da una lunga

tradizione; come la regola del “prudente apprezzamento”, che conduce alla stima del valore delle varie categorie di cespiti con il metodo del costo storico: immobilizzazioni tecniche, titoli e partecipazioni, rimanenze ecc.. Tutto questo nasce dal fatto che gli amministratori di un'impresa hanno interesse a fornire informazioni favorevoli sui risultati e sullo stato delle proprie organizzazioni, dando in questo modo una valutazione troppo ottimistica e distorta della realtà.16

Altre motivazioni possono portare i managers a intraprendere tale atteggiamento:

− la necessità di evitare la ripartizione di utili non definitivamente conseguiti. − La necessità di non far apparire completamente tutti i risultati conseguiti per

meglio resistere alle continue pressioni degli azionisti in tema di dividendo. 2) i risultati di bilancio sono uno strumento utilizzato dalle imprese al fine di

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Ogni categoria di stakeholder ha all'interno dell'azienda esigenze diverse che si vanno a contrapporre. Per cercare un equilibrio tra tutti questi interessi divergenti le imprese hanno dato luogo alla creazione di politiche di bilancio. Esse consistono nel rispetto di regole giuridico-formali, quasi sempre caratterizzate da margini discrezionali, che cercano di esprimere una soluzione che consenta di esprimere un risultato che accontenti un po' tutti i vari portatori di interesse.

3) i risultati di bilancio spesso trascurano la dinamica dei beni immateriali17 . I beni rilevati attraverso il bilancio contabile, sempre meno

hanno fornito una rappresentazione accettabile delle risorse disponibili all'impresa per lo svolgimento della propria attività. Una categoria di beni, quella dei beni immateriali, fino a ieri considerati trascurabili, si è infatti dimostrata sempre più importante nella gestione dell'impresa.

4) i risultati contabili non tengono conto delle prospettive future e sono eccessivamente orientati al passato. Essi difficilmente tengono conto di

mutamenti che possono sconvolgere le prospettive formulate nel passato. Ciò significa che conservano ad oltranza i costi sopportati per l'acquisizione di immobilizzazioni tecniche e finanziarie, se non si rendono evidenti ragioni formali che inducano a usare differenti metodi di stima. In tal modo minus o plusvalenze che non sono solo potenziali rischiano di non venire alla luce.

5) i risultati contabili non scontano di modificazioni che avvengono nei rischi che gravano sull'azienda e sui suoi flussi reddituali. Il risultato

contabile può, quindi, essere ottenuto in differenti condizioni di rischio, che ne esprimono la volatilità cioè l'alea che esso possa poi riprodursi in misura molto minore o peggio ancore non riprodursi affatto.

Sia che il risultato sia stato conseguito accentuando i rischi e quindi compromettendo il futuro, sia che li abbia ridotti migliorando le prospettive, la performance contabile rimane insensibile e non riflette il fenomeno.

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l'insostituibile funzione della rilevazione contabile. Essa è alla base di qualsiasi giudizio di valutazione economico-finanziaria. Tale valutazione è il riferimento più importante della Corporate Governance, quindi indispensabile per il controllo. Ciò è possibile proprio perché tali rilevazioni sono caratterizzate dall'alto grado di rigidità e dall'alta libertà e opinabilità delle scelte che tanto fanno discutere.

Dai tradizionali indicatori contabili alle più recenti ed adeguate misure di performance.

Dai risultati contabili alle più efficaci misure di performance. Un quadro d’insieme.

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Per capire meglio il passaggio dai puri risultati contabili alle più efficaci misure di performance si deve sviluppare un percorso che coinvolge diverse fasi.

La prima direttrice è quella della normalizzazione-integrazione-depurazione. Composta quindi da tre stadi:

a) Fase della normalizzazione. In questo stadio abbiamo un'eliminazione

degli effetti distorsivi delle politiche di bilancio e di alcuni vincoli che possono intralciare un'efficace misura dei risultati effettivi. Un altro correttivo alla performance contabile riguarda la redistribuzione di componenti straordinari o estranei alla gestione ed eventualmente l'eliminazione degli effetti distorsivi dell'inflazione.

b) Fase dell'integrazione; che consiste nella ricerca di strumenti idonei per

esprimere quantitativamente le variazioni dello stock di beni immateriali e le variazioni delle plus e minusvalenze inespresse.

c) Fase della depurazione del risultato di periodo da tutti i capitali investiti.

Questa depurazione può partire da: - dal risultato cantabile.

- dal risultato contabile, previa una serie di interventi di normalizzazione e con integrazioni parziali del tipo misto (economico e finanziario);

- dal risultato economico integrato (REI).

Terminato questo stadio abbiamo ottenuto indicatori di creazione/distruzione di valore come il Reddito Residuale, l'EVA, e il REIR che, tranne il primo che affonda nel tempo le sue radici, le altre e più recenti formulazioni si collegano alla teoria di creazione del valore.

D'ora in poi andremo ad esaminare le varie misure di performance il base alla loro successione storica.

2.3 IL REDDITO RESIDUALE

2.3.1 La nozione generale di reddito residuale.

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del costo del Capitale Impiegato, sia esso ottenuto a titolo di debito o capitale proprio.18

Tale concetto diviene di interesse attuale visto il crescente uso che ne viene fatto per promuovere comportamenti orientati alla creazione di valore.

Questa nozione di reddito può essere inquadrata facendo riferimento a vari aspetti:

1) le possibili formulazioni del RR;

2) la dipendenza del significato del RR da quello del reddito al lordo del costo del capitale proprio;

3) il significato della deduzione del costo del capitale proprio dal “reddito lordo”.

1)Riguardo alle varie formulazioni del Reddito Residuale, una prima modalità di calcolo è la seguente:

Rrn(t)= Rn(t) – ik · K(t-1) dove:

Rrn(t)= reddito residuale al tempo t ottenuto facendo riferimento al reddito netto contabile;

Rn(t)= reddito netto contabile al tempo t;

ik= tasso di interesse che esprime il costo del capitale proprio; K(t-1)= capitale proprio contabile al tempo t-1.

In questo caso il Reddito Residuale si ottiene sottraendo dal reddito netto contabile il costo del capitale proprio. Il costo del capitale proprio si ottiene dal prodotto tra il tasso di remunerazione atteso dai portatori di tale fonte di finanziamento e l'entità stessa. Il reddito contabile considerato è al netto degli oneri finanziari espliciti sui debiti ed, eventualmente, delle imposte sul reddito imponibile aziendale.

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Rro(t) = Ron(t) – Cmpc · C(t-1) dove:

Rro(t) = reddito residuale al tempo t ottenuto facendo riferimento al reddito operativo al netto delle imposte aziendali;

Ron(t) = reddito operativo al tempo t al netto delle imposte aziendali;

Cmpc= costo medio ponderato del capitale (indicato anche con la sigla Wacc da

Weight Average Cost of Capital);

C(t-1)= capitale totale di derivazione contabile al tempo t-1 (pari al capitale proprio dei debiti finanziari).

Le differenze rispetto alla prima formulazione riguardano la considerazione del reddito operativo al posto di quello al netto degli oneri finanziari, del totale del capitale investito in luogo del solo capitale proprio e, infine, del costo medio ponderato del capitale invece del costo del capitale proprio.

Riguardo alle grandezze che si presentano in questa seconda versione del RR, trattasi, anche

in questo caso, di concetti noti alla dottrina economico-aziendale. Tenuto conto che la loro determinazione può avere diverse soluzioni, in prima approssimazione il reddito operativo può essere inteso come il reddito della gestione caratteristica prima del risultato della gestione finanziaria, mentre il capitale può essere ottenuto sommando agli investimenti di capitale fisso al netto degli eventuali fondi rettificativi, il capitale circolante netto e detraendo il fondo trattamento di fine rapporto, oppure, se si considerano le fonti di finanziamento piuttosto che gli impieghi, deriva dalla somma del capitale proprio e dei debiti finanziari.

La determinazione del costo medio ponderato del capitale (Cmpc) necessita di alcune precisazioni per chiarire meglio le relazioni tra due formulazioni del RR riportate.

Il costo medio ponderato del capitale deriva dalla ponderazione del costo del capitale proprio e dai debiti di finanziamento, come evidenziato dalla seguente formulazione:

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Cmpc = ik · Wm/ (Wm+Dm) + id ·(1-tc) · Dm/ (Wm+Dm) dove:

ik = costo del capitale proprio;

Wm = valore di mercato del capitale proprio; id = costo dei debiti finanziari;

tc = aliquota d'imposta sul reddito aziendale; Dm = valore di mercato dei debiti finanziari.

Ciò che distingue le due formulazioni del reddito residuale è la scelta del valore di mercato per effettuare le ponderazioni. Spesso infatti, essendo molto difficile determinare i valori di mercato, si usano i dati contabili per stimare il peso delle fonti di finanziamento. In questo modo le due iniziali espressioni portano agli stessi risultati. Al contrario le due formule mostrano risultati diversi se nella seconda il Cmpc è determinato attraverso valori di mercato. Questa differenza è però transitoria, scompare nel momento in cui le due configurazioni di RR si utilizzano per determinare la Cdv.

2)Il significato finale assunto dal reddito residuale dipende dale modalità con le quali si è determinato il reddito al “lordo” del capitale proprio. Per “reddito al lordo del costo del capitale proprio” si può intendere, come si è visto nel punto precedente, sia il reddito operativo netto, sia il reddito netto contabile. Come si è visto nel precedente capitolo, il reddito al lordo del costo del capitale proprio può assumere un differente significato, secondo la logica che presiede alla sua determinazione, ne segue che anche l'interpretazione del RR, in quanto grandezza dipendente da tale reddito, non prescinde dal significato di quest'ultimo. Si può intuire, ad esempio, la differenza concettuale e quantitativa, tra due valori del RR derivati dal reddito ottenuto la logica del rinvio dei costi piuttosto che quella dell'anticipazione dei ricavi.

3)Un comune denominatore tra le due configurazioni di RR proposte è costituito dalla sottrazione del costo del capitale proprio che rappresenta un onere figurativo normalmente non rilevato contabilmente. Ecco allora che, tenuto conto

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dell'influenza delle modalità di determinazione del reddito al lordo del costo del capitale sul significato ultimo del RR, la sottrazione del costo del capitale proprio può essere intesa come un avvicinamento al concetto di profitto.

Nel caso in cui non vi siano altri oneri figurativi oltre all'interesse di compito su capitale di proprietà, il RR è quindi assimilabile alla nozione di profitto e la deduzione dell'interesse sul capitale di proprietà assume significato in quanto operazione strumentale alla determinazione di tale grandezza.

2.3.2 Il reddito residuale nel bilancio di esercizio: la proposta di Anthony Il concetto di RR è stato congiuntamente applicato anche alla teoria dell'entità. Questo approccio considera l'azienda un'entità separata dai proprietari della stessa e si contrappone alla teoria della proprietà, secondo la quale l'azienda è uno strumento economico a disposizione dei proprietari per la produzione di ricchezza ad essi destinata.

Al giorno d'oggi data la conformazione stessa del capitale delle imprese la teoria della proprietà non appare più idonea a spiegare i più recenti assetti di governo delle aziende. In seguito all'affermazione delle organizzazioni a larga base azionaria, alla possibilità di scambiare titoli rappresentativi di capitale proprio ed alla separazione tra “proprietà” e “controllo”, la teoria dell'entità appare oggi più adatta a spiegare il fenomeno aziendale.

In questa teoria gli azionisti pur conservando le proprie peculiarità riguardo al percepimento della loro remunerazione, sono assimilati agli altri soggetti finanziatori.

Sono quindi ben distinti dall'azienda (entità), ed anche i sistemi contabili dovrebbero essere coerenti con tale impostazione. Anthony propone la distinzione tra capitale netto dell'azienda e quello proprio degli azionisti. Il capitale dell'entità, (azienda) infatti è pari alla sommatoria dei flussi netti di reddito, realizzati entro quella data, che residuano dopo aver remunerato adeguatamente i fattori produttivi impiegati, incluso il capitale proprio degli azionisti. Quest'ultimo valore non coincide con il capitale versato, poiché oltre

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all'effettivo apporto tiene anche conto degli interessi annuali sui versamenti e dell'addebito dei dividenti distribuiti; dovrebbero essere poi calcolati gli interessi figurativi annuali su tale ammontare di capitale attribuibile agli azionisti.

Anthony afferma che il tasso teoricamente corretto per determinare il costo del capitale è rappresentato dalla media ponderata dei tassi sui debiti e sul capitale degli azionisti. Una buona approssimazione del tasso che esprime il costo del capitale netto è dato dal tasso pagato sui debiti prima delle imposte. Gli azionisti infatti dovrebbero avere un tasso di interesse più alto rispetto a quello degli altri finanziatori proprio perché il loro investimento è più rischioso. Data però la detraibilità dell'interesse sui debiti (al contrario di quello sugli azionisti), secondo Anthony, l'adozione del tasso sui debiti al lordo del risparmio d'imposta come costo medio ponderato del capitale, rappresenta un giusto bilanciamento, in quanto sopravvaluta il costo del debito e sottovaluta quello del capitale degli azionisti per un importo pressoché identico.

Una soluzione alternativa a questa soluzione può essere quella di derivare il tasso medio di finanziamento da riviste finanziarie specializzate.

Nei registri contabili il totale degli interessi, (sia sui debiti che nei confronti degli azionisti) è iscritto in un conto “interessi”. L'interesse sul capitale azionario è generalmente considerato determinando il capitale netto degli azionisti all'inizio del periodo; è registrato nel conto interessi e contemporaneamente nel capitale netto degli azionisti, il quale sarà successivamente ridotto man mano dell'importo dei dividendi distribuiti. Il saldo di quest'operazione si somma al capitale degli azionisti andando così a formare la base per calcolare la remunerazione spettante a questi ultimi.

Gli interessi complessivi, sia relativi al capitale degli azionisti, sia relativi al capitale di terzi, vengono imputati, in parte a conto economico come componenti di costi di esercizio, ed in parte attribuiti a specifiche voci di bilancio dello stato patrimoniale.

In merito all'ammortamento, Anthony suggerisce di determinarlo secondo il metodo dell'annualità a meno che non ci siano degli elementi che varino da un periodo all'altro i benefici attesi da un bene. Il procedimento prevede quote di

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ammortamento crescenti di ammontare pari alla quota capitale di un prestito da estinguere secondo un piano a rate costanti, determinate facendo riferimento ad un tasso che esprime il costo del capitale. Come possiamo evidenziare dalle tabelle seguenti in questo modo riusciamo a stabilizzare sia il RR che il Reddito Netto.19

Secondo questo approccio il riferimento al RR presenta diversi vantaggi.

Per prima cosa il sistema di valori di bilancio sarebbe coerente con quanto indicato nella teoria dell'entità. Quindi se la teoria dell'entità spiega meglio il funzionamento della aziende rispetto alla teoria della proprietà, il cambiamento appena delineato rappresenta un potenziale miglioramento del sistema contabile. Inoltre si avvicina la contabilità all'economia in quanto si ottengono valori più

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significativi dal punto di vista economico.

La deduzione degli interessi dal patrimonio degli azionisti consente di evidenziare il risultato dell'attività aziendale senza distorsioni dell'effetto leva generato dalla soluzione di finanziamento prescelta. Tutto ciò porta ad una maggiore possibilità di confronto tra aziende con diversi rapporti tra capitale proprio e capitale di terzi.

Contabilizzare l'interesse degli azionisti ha infine un altro vantaggio; consente di avvicinare la contabilità generale alla contabilità per la direzione. Quest'ultima solitamente tiene conto delle richieste delle azioni nel momento della scelta degli investimenti, del pricing dei prodotti e delle misurazioni dei risultati divisionali. La proposta di Anthony, pur tra dubbi e critiche, esprime quanto meno la capacità di neutralizzare gli effetti della leva finanziaria. I risultati reddituale dipendono, spesso in misure sensibili, anche dal “peso” degli oneri finanziari.

2.3.3 Il reddito residuale: pregi e limiti

Il reddito Residuale, nella sua formulazione “generale”, come misura di performance, presenta sia dei pregi che dei limiti che verranno evidenziati di seguito.20

Riassumendo quanto detto sopra i principali vantaggi che il Reddito Residuale può apportare, riferendoci in particolare al modello di Anthony sono:

• la capacità di far comprendere meglio la natura degli utili delle

società in generale, evidenziando che un'ampia porzione del reddito dichiarato è in realtà il rendimento per l'utilizzo del patrimonio netto degli azionisti;

• l'evidenziazione dell'interesse sul patrimonio netto degli azionisti

consente di evidenziare i risultati che riflettono “la percezione che il mercato ha delle reali caratteristiche di rischio delle società in modo più attendibile della misura convenzionale dell'utile;

• la possibilità di armonizzare la contabilità direzionale con quella di 20 A. AMADUZZI, Obbiettivi e valore dell'impresa: misure di performance, Il Sole 24 Ore, Milano,

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esercizio;

• consente di avvicinare il sistema americano (che pone massima

enfasi all'idea che le società vengano gestite nell'interesse degli azionisti) a quello di altri paesi, nei quali un peso di rilievo è riconosciuto ad altri stakeholder;

• la capacità di neutralizzare l'effetto “leva”, rendendo confrontabili i

risultati ottenuti da società che hanno un diverso indice debiti/patrimonio netto;

• avvicinare la contabilità all'economia, per la quale l'interesse è il

costo sostenuto per usufruire dei finanziamenti, indipendentemente dal fatto che questi derivino dagli obbligazionisti o dagli azionisti; Malgrado tali pregi il Reddito Residuale non considera e non consente di superare la distorsioni e i limiti derivanti da un approccio contabile alla misurazione della performance d'impresa.

La sua formulazione non ci consente poi, di poter distinguere tra decisioni operative e decisioni finanziarie. La determinazione del surplus, misurato dal Reddito Residuale, avviene confrontando il costo del capitale proprio con l'utile netto.

Per finire, tale formulazione non consente di poter agevolmente declinare la misura di performance all'interno dell'organizzazione aziendale. Tale obbiettivo è meglio conseguito da misure di profitto economico come l'EVA e l'Economic Prifit che confrontano rendimento e costo di tutte le risorse investite nell'impresa e non del solo capitale proprio.

2.4 IL RISULTATO ECONOMICO INTEGRATO ( REI )

Prima di trattare l'altro indicatore periodico di creazione/distruzione di valore (REIR) è necessario analizzare un indice di performance economica molto importante, il (REI).

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inteso solitamente come:21

 risultato di breve periodo, tipicamente su base annuale anche se

recentemente si sta accorciando il tempo di rilevazione anche a periodi infra-annuali;

 risultato puramente contabile, cioè legato ad una serie di convenzioni

giuridico-formali, in quanto bisogna rispettare determinate norme ai fini del controllo;

 risultato condizionato da finalità non coerenti ad una rilevazione

puramente razionale e neutrale.

Occorre però ripensare integralmente questa misura di performance economica senza condizionamenti e limitazioni. Per far ciò può essere d'aiuto il grafico seguente:

Ciò che in questa sede vogliamo affrontare nel dettaglio è il passaggio dal

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Prima di analizzare nel dettaglio i vari passaggi bisogna tener presente di alcuni passaggi preliminari che bisogna tenere in considerazione prima di affrontare il tema:

• il passaggio dal risultato economico storicamente accertabile alla misura

dei flussi attesi. Quest'ultima rappresenta la base indispensabile per poter calcolare la reale dinamica del valore economico;

• la stima del valore economico deve tenere conto dei tassi di investimento

alternativi e dei rischi specifici che si devono affrontare;

• della “diffusione del valore”, cioè del valore creato nei prezzi di mercato o

di specifiche negoziazioni.

Il risultato economico non è ben espresso dall'utile di bilancio, esso infatti ne da spesso una rappresentazione incompleta ed inquinata.

I teorici della finanza sono molto critici riguardo all'approccio contabile proprio in ragione dell'incompletezza e dalle distorsioni che spesso caratterizzano le sue motivazioni. Essi supportano invece la dinamica dei flussi finanziari per diverse finalità operative, tra le quali la valutazione delle aziende.

Il flusso contabile deve essere, ai fini valutativi, rettificato ed integrato attraverso una serie di interventi riassumibili in tre processi:

a) il processo di normalizzazione;

b) il processo di integrazione;

c) il processo di adeguamento/allineamento, solo nel caso sia necessario eliminare gli effetti distorsivi dell'inflazione.

I passaggi sopra elencati, ed in particolare i primi due (in condizioni di bassa inflazione), sono necessari per ricondurre il flusso contabile ad esprimere il flusso

economico, che ci permette di rappresentare al meglio i risultati reddituali.

Le imprese che non attuano questo processo di trasformazione rischiano di basarsi su risultati che non danno una rappresentazione veritiera della redditività sociale, con il rischio di attuare politiche miopi che possono portare a problemi insanabili. Per questi motivi è necessario impegnarsi a tutti i livelli aziendali per riuscire ad esprimere a tutti gli interlocutori sociali le reali capacità dell'azienda di produrre valore, così da poter sopravvivere e competere anche nel futuro.

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2.4.1 La normalizzazione.

La normalizzazione rappresenta il primo punto di questo processo di trasformazione. Questa elaborazione tecnica comprende:

 la redistribuzione nel tempo di proventi e oneri straordinari;  l'eliminazione di proventi e costi “estranei alla gestione”;

 la neutralizzazione di politiche di bilancio giudicate distorsive rispetto al

fine.

 L'eliminazione degli effetti distorsivi dell'inflazione.

Questo processo ha il principale fine di ricondurre le varie componenti di reddito ad una situazione di effettiva competenza con il periodo di riferimento. Si interviene quindi tramite una serie di aggiustamenti rettificativi che ci permettono di avere un 'informazione maggiormente attendibile:

I. una rettifica molto comune è rappresentata dai costi e proventi

straordinari, i quali possono essere definiti come componenti rilevanti

non ripetitivi del reddito d'esercizio; vanno pertanto eliminati per poter esprimere un risultato “normale”. Se per provento intendiamo un realizzo di importanti cespiti attivi, come partecipazioni ed immobili, non si tratta di una vera e propria eliminazione, ma di una redistribuzione nel tempo per non annacquare troppo il capitale dell'anno in corso.

Così come per i proventi, anche i costi straordinari (calamità naturali, scioperi prolungati, costi di ristrutturazione ecc..) dovranno essere ripartiti nel tempo in modo da sostituire ad una grandezza casuale e straordinaria un valore medio;

II. i proventi ed i costi estranei alla gestione hanno una duplice derivazione:

• da beni giudicati “estranei”;

• da fatti che non hanno attinenza alla gestione caratteristica.

Riguardo ai beni giudicati estranei alla gestione, si hanno, tra gli economisti, opinioni discordi in merito alla distinzione se tali beni possono essere o meno pertinenti alla gestione oppure estranei. Altro quesito che viene portato

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spesso alla luce, riguarda il modo con cui il risultato da essi generato vada sostituito o corretto.

Una discreta maggioranza di economisti sostiene che la distinzione suddetta vada applicata a beni di peso rilevante e chiaramente “estranei” alla gestione caratteristica. In un'azienda industriale, beni come una vecchia fabbrica abbandonata, un palazzo ad uso uffici non utilizzato, rappresentano sicuramente beni estranei alla gestione. In queste ipotesi, la “normalizzazione” consiste nel sostituire al flusso reddituale da tali beni generato, un flusso di reddito allineato ad investimenti normali. Un altro esempio di costi non attinenti alla gestione, riguarda l'ipotesi di un'azienda familiare in cui vi siano compensi eccessivi ai proprietari oppure ad amministratori-proprietari, oppure, per inverso, mancanza o insufficiente remunerazioni degli stessi. In entrambi i casi, i costi vanno ricondotti ad equa misura;

III.il tema di maggior interesse in merito alla normalizzazione riguarda

l'eliminazione delle politiche di bilancio, giudicate distorsive rispetto al

fine di una corretta misura dei risultati conseguiti. Quando si adottano politiche di bilancio, si può andare ad influire su diversi valori (fondi rischi su crediti, fondi rischi nelle imprese industriali, ammortamenti, magazzini ecc..) che mi andranno poi a modificare il risultato di fine periodo. L'argomento in questione risulta quindi molto vasto e variegato, a noi interessa in questa fase solo ricordare che la revisione deve ispirarsi all'adozione di soluzioni tecnicamente razionali, escludendo qualsiasi intento contrastante con una corretta ed equilibrata determinazione del risultato contabile. E' necessario, per esempio, neutralizzare intenti riduttivi del reddito imponibile ai fini tributari ( accantonamenti a fondi rischio in percentuali prefissate, ammortamenti accelerati ecc..) ed intenti ispiratori di particolari politiche di bilancio (sostegno dei prezzi di borsa, mantenimento della fiducia dei creditori, ecc..).

IV. Un altro aspetto della normalizzazione, anche se poco considerato nei Paesi caratterizzati da moderati o bassi livelli d'inflazione, riguarda

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In tempi d'inflazione, anche se contenuta in limiti moderati, l'applicazione del metodo reddituale alla valutazione della aziende esige notevoli cautele metodologiche, che generalmente modificano i criteri adottati.

Per fare chiarezza è utile distinguere il problema in due parti:

 un primo punto riguarda gli aggiustamenti da apportare ai dati di reddito, i

quali possono essere di due tipi:

• per allinearli e renderli omogenei nel tempo;

• per eliminare utili e perdite puramente illusorie ed apparenti

 il secondo punto attiene invece alla coerenza ed all'omogeneità tra redditi

e tassi di capitalizzazione.

Per ciò che riguarda l'aggiustamento di primo tipo, l'allineamento dei dati di reddito va inteso sia con riferimento ai redditi futuri utilizzati per il calcolo, sia con riferimento ai redditi storici usati per le proiezioni. Quando si intende aggiustamento ai redditi futuri significa che nel caso di attualizzazione di Budgets o di Piani che assumono anno per anno ipotesi sull'andamento dell'inflazione (esprimendo tramite valori correnti i risultati economici degli anni a venire), tali risultati devono essere riportati al metro monetario del momento nel quale si effettua la stima.

Questo significa che quando siamo alle prese con valori storici, questi devono essere rivalutati e riespressi in euro correnti dell'ultimo anno. Tale operazione andrà a incidere in modo sostanziale sia con la media del periodo, sia con l'andamento e la tendenza della serie di dati considerata.

Per quanto riguarda l'eliminazione degli utili e delle perdite illusorie ed apparenti, cioè più in generale della correzione del reddito espresso a costi storici dalla contabilità tradizionale, sono necessari alcune riflessioni.

L'intento perseguito è la separazione tra utili o perdite reali (risultati reali) e risultati apparenti ed illusori, in quanti in parte determinati da valori non omogenei. Difficilmente l'esperto chiamato a valutare l'azienda riuscirà ad apportare dei correttivi integrali e sistematici che si traducono nella cosiddetta contabilità del valore. Di solito, proprio per la difficoltà a intraprendere tale contabilità per le aziende, si effettuano correttivi riferendoci ai fenomeni di

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maggior peso, limitandosi a qualche rettifica parziale.

Lo operazioni più note applicate in periodi di contenuta inflazione sono i seguenti:

1) l'adozione di un procedimento Lifo nella valutazione delle rimanenze di

prodotti, materie prime e semilavorati. Il Lifo è un procedimento noto perché evita il formarsi dei cosiddetti profitti illusori di magazzino;

2) adeguamento delle quote di ammortamento degli immobilizzi tecnici ai

costi di ricostruzione, cioè ai valori aggiornati accolti nelle stima;

3) la determinazione dei risultati economici della posizione monetaria. Per

posizione monetaria intendiamo l'insieme dei debiti e dei crediti (attività e passività monetarie), il cui saldo può essere positivo o negativo.

Se abbiamo una posizione monetaria che nel corso di un certo periodo è stata positiva di 3000 e nello stesso arco temporale l'inflazione è stata del 10%, la nostra attività finanziaria ha subito un decremento di 300. Quindi alla fine del periodo il valore iniziale di 3000 è diventato in termini reali di 2700. Il decremento esprime una “perdita attinente alla gestione dei

valori monetari” pari a 300.

Tale perdita va messa poi in relazione agli interessi attivi effettivamente conseguiti derivanti dal credito concesso alla clientela, e dall'altra parte agli interessi passivi implicitamente o esplicitamente sopportati.

Va ricordato infine che, mentre per i correttivi 1) e 2) c'è da parte degli economisti una larga accettazione sul piano concettuale, il terzo correttivo suscita diverse perplessità, soprattutto per le aziende fortemente indebitate per le quali si possono calcolare rilevanti correttivi monetari che possono capovolgere i risultati negativi espressi nel bilancio.

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Il Reddito Normalizzato che ricaviamo procedendo alle rettifiche e integrazioni

suddette assume un importante significato in base prospettica. Esso è infatti configurato in modo tale da rappresentare le probabili attese di risultato reddituale ricavabili dall'investimento nel capitale aziendale. Ed è per tali ragioni che esso, dopo essere stato sottoposto ai consueti processi di attualizzazione/ capitalizzazione, consente di definire il valore economico dell'impresa.

In questa prospettiva, il reddito normalizzato ci consente di superare alcuni limiti riscontrati analizzando gli indicatori tradizionali; per altri aspetti però esso rappresenta ancora un indicatore incompleto in particolar modo per la misurazione del valore creato in un dato esercizio.

Tale forma di reddito aiuta l'amministrazione aziendale a superare diversi limiti. Il principale limite, proprio del reddito di esercizio, che viene superato dal reddito normalizzato, è la capacità di quest'ultimo di riflettere l'attitudine dell'azienda di produrre reddito in prospettiva futura. Come abbiamo già analizzato in precedenza, tale prerogativa non apparteneva affatto ai tradizionali indicatori contabili, i quali avevano una visione “miope” finalizzata principalmente al risultato di breve periodo. Ciò è dovuto principalmente alla presenza, nel reddito di esercizio, di componenti straordinari e in particolar modo dall'assenza di investimenti per il futuro che, da un lato consente di liberare risultati positivi per l'immediato, ma dall'altro decreta il declino prospettico per l'impresa. Se, per inverso la nostra azienda è lungimirante ed oculata nel saper cogliere le prospettive future di mercato riuscirà, con investimenti mirati ad ottenere un posizionamento vantaggioso per il domani, pur sacrificando l'attuale reddito di esercizio.

Il reddito normalizzato procedendo alle varie rettifiche e integrazioni, “destoricizza” i normali risultati contabili e li riesprime in chiave prospettica, sottolineando ciò che essi esprimono in termini di capacità dell'impresa di produrre in futuro risultati reddituali e smussando, per altro verso, tutti quei componenti di reddito che appartengono alla storia.

La principale differenza del reddito normalizzato rispetto a quello contabile risulta essere proprio l'orientamento temporale. Nelle misure tradizionali di

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performance il risultato contabile era astrattamente riferibile ad un determinato periodo, storicamente concluso, mentre con la misura di reddito normalizzato l'azienda riesce a esprimere quanto di quel reddito storico può essere ritenuto ripetibile in futuro. Tuttavia, tale misura, pur aiutando molto il manager ad avere sempre più una visione prospettica, presenta ancora tutti i limiti tipici del reddito. Questa determinazione è sempre inspirata ad una logica prudenziale anche se attenuata in ragione delle varie modifiche (integrazioni/rettifiche) effettuate. Per esempio, tale determinazione non tiene conto della crescita del valore delle immobilizzazioni materiali e immateriali, o delle lievitazioni dei valori che interessano il portafoglio partecipativo. Mentre, analogamente, essa riflette gli eventuali accantonamenti, stanziati per fronteggiare perdite future giudicate probabili.

Inoltre, come il reddito d'esercizio, il reddito normalizzato riflette non solo quantità economiche, ma anche congetture, ipotesi e stime normalmente presenti nelle misure tradizionali di performance; molto spesso addirittura in dosi maggiori. Molte delle rettifiche

ed integrazioni apportate fanno base su astrazioni, previsioni e ragionamenti che si ripercuotono in componenti di reddito che non rappresentano certo quantità economiche. Se ne deduce, che come il reddito di esercizio, anche il reddito normalizzato non fornisce una misura della performance di impresa oggettivo. Altri aspetti che limitano l'efficacia di tale misura di performance riguardano l'assenza (come nel reddito di esercizio) della considerazione della congrua remunerazione del capitale proprio investito per la produzione di quel reddito e del profilo di rischio associato al medesimo flusso di risultato. Tale limite potrebbe essere attenuato tramite un'adeguata attualizzazione/capitalizzazione, ma in tal caso si entra nel contesto delle valutazioni del capitale economico allontanandoci dal campo intrapreso di misurazione delle performance.

Un ultimo fattore che ne limita l'applicazione sono i limiti “finanziari” tipici del reddito di esercizio. La grandezza espressa dal RN (reddito normalizzato) non è finanziariamente fruibile da parte degli azionisti anche perché quest'ultimo non è rilevante nella formulazione delle politiche di dividendo, dal momento che esso

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si concretizza sul piano extra-contabile ed è privo di riconoscimento giuridico. Tuttavia se non si considerano i limiti di carattere monetario e si assume la possibilità finanziaria di procedere alla distribuzione dei dividendi, in questo caso si può osservare che il RN rappresenta una misura il linea di principio distribuibile. Se viene prelevato dall'impresa la misura del RN non si altera in alcun modo la capacità attuale dell'azienda di produrre redditi. Questa distribuzione può avvenire grazie a due peculiarità del RN:

 tiene conto degli investimenti necessari per mantenere in prospettiva

l'attuale assetto produttivo:

 elimina i profitti effimeri, generati in condizioni straordinarie che

difficilmente si ripetono in maniera periodica.

Sotto questo profilo, quindi, il RN è una grandezza maggiormente significativa rispetto al reddito contabile, al fine di effettuare un congrua politica dei dividendi.

Fino ad adesso ci siamo occupati del processo di normalizzazione, dei suoi vari sottoprocessi, e in ultima istanza delle peculiarità (limiti e vantaggi) del reddito normalizzato.

Tuttavia per giungere ad un flusso contabile ben rappresentativo della situazione economica si deve intraprendere un processo di integrazione che va a “toccare” diversi aspetti:

• le plusvalenze inespresse;

• i beni immateriali nelle imprese industriali

• il “valore della raccolta” nelle banche ed il “valore del portafoglio premi”

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2.4.2 L'integrazione.

Il processo di integrazione è un tema poco trattato e a volte ignorato dalla letteratura. L'argomento parte dalla considerazione che alcuni valori, riferiti sia a beni materiali ma soprattutto immateriali, non sono adeguatamente rilevati in contabilità o ancor peggio, non lo sono per nulla. I beni immateriali sono quelli che risentono di più della problematica di errata imputazione nel bilancio in quanto generano essenzialmente costi di sicura utilità pluriennale, i quali vengono imputati al conto economico via via che si manifestano. Una categoria di valori che subisce tale errata imputazione sono le plusvalenze. Esse solo in parte vengono realizzate, mentre per l'altra parte il realizzo è sistematicamente protratto nel tempo. Nel tempo si forma quindi gradualmente una differenza tra plusvalenze realizzate e plusvalenze generate, per cui abbiamo:

∆Pn = ∑ PGi - ∑Pri in cui:

PG = plusvalenze generate; PR = plusvalenze realizzate; ∆P = plusvalenze accumulate.

A differenza della fase precedente di normalizzazione, in cui ci occupavamo della distribuzione nel tempo delle plusvalenze realizzate e contabilizzate, in questa fase di integrazione sono considerate le plusvalenze inespresse (∆P) la cui accumulazione acquista peso rilevante anche per i possibili riflessi sulla misura dei redditi.

La sommatoria delle plusvalenze accumulate in un determinato momento (Tn) può avere una duplice valenza:

• esprime valori patrimoniali latenti;

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redditi annuali che fanno riferimento al periodo considerato.

Facendo un esempio, se un istituto di credito ha accumulato negli ultimi dieci anni plusvalenze inespresse per 150 milioni di euro e nell'ultimo anno in particolare per un valore di 25 milioni di euro, vuol dire che bisogna sommare tali plusvalenze al reddito di esercizio.

Se tale reddito si aggira attorno ai 50 milioni di euro potrebbe passare a circa 75 milioni di euro.

Le plusvalenze accumulate per essere sommate al reddito di esercizio devono avere determinati requisiti:

dovrebbero essere attendibilmente misurabili, sia nel loro valore globale

che nella loro distribuzione nel tempo. A questo punto si aprono due scenari:

• per quanto riguarda le plusvalenze attinenti a cespiti attivi, il

riferimento a prezzi di mercato assicura tale condizione;

• in merito alle plusvalenze insite in accantonamenti del passivo (fondi

rischio), devono essere stimabili su probabilità statistiche o quantomeno su stime analitiche e documentate;

si dovrebbe trattare di plusvalenze realizzabili, in questo caso sarebbe utile

capire se si tratta di realizzabilità autonoma dei singoli beni oppure in senso più ampio come realizzabilità dell'impresa nel suo complesso;

 in terzo luogo bisogna assicurarsi che la traduzione delle plusvalenze

inespresse in quote di risultati economici non comporti duplicazioni di valori che andrebbero solo ad annacquare il capitale.

I punti sopra elencati fanno riferimento per semplicità alle plusvalenze inespresse ma possono riguardare anche le minusvalenze o la contemporanea presenza di entrambe.

Le plusvalenze accumulate ∆P esigono di un'opportuna distinzione tra : 1) ∆P su beni strumentali;

2) ∆P su beni non strumentali;

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Per le prime due categorie si può trattare di beni con o senza prezzi di mercato. I beni strumentali fanno riferimento alle immobilizzazioni tecniche ed alle immobilizzazioni finanziarie. Nei grandi Gruppi Industriali esse sono in genere entrambe presenti e pongono problemi di stima correlati:

per le immobilizzazioni tecniche, ciò che più desta problemi di

valutazione, riguarda il confronto tra i valori di carico contabili (costi al netto degli ammortamenti) e i costi di riproduzione o di ricostruzione al netto dei deperimenti ed obsolescenza;

per le immobilizzazioni finanziarie, si fa riferimento al confronto tra i

valori di carico e i valori di capitale economico (per le partecipazioni) o valori attuali (per i crediti).

In ogni modo, come possiamo dedurre, si pongono non semplici problemi di stima: diviene molto difficoltosa ed onerosa la ripetizione delle stime a brevi intervalli di tempo, cioè anno per anno.

Per ciò che concerne le immobilizzazione tecniche strumentali, l'accertamento delle plusvalenze, va subordinato all'esistenza di comprovate capacità reddituali, tali sia da assicurare il servizio dei futuri ammortamenti, sia capace di evitare la generazione di “badwill” in sede di verifica reddituale complessiva del maggior valore patrimoniale emergente.

Queste ultime condizioni non si pongono, ovviamente, se si accertano minusvalenze: in tal caso il write-off è necessario; e talvolta può porsi anche quale problema di contabilizzazione formale. Basti pensare a quanto accade nelle fasi iniziali di un turnaround, dopo l'accertamento dello stato di crisi, quando simili tagli di valore sono o dovrebbero essere la regola, almeno in presenza di minusvalenze rilevanti.

Sul piano sostanziale si possono trarre le medesime considerazioni anche per le immobilizzazioni finanziarie; specie per le partecipazioni di controllo: anche qui le plusvalenze patrimoniali trovano un limite ed un correttivo nell'emergenza di un “badwill” per la controllante. Mentre le minusvalenze dovrebbero essere

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sempre considerate (specie se di un certo rilievo e tendenzialmente non recuperabili.

Se invece consideriamo il ∆P per i beni non strumentali, come i beni immobili non direttamente utilizzati, partecipazioni non strumentali, il discorso è meno complesso.

Se tali beni hanno un valore di mercato, il periodico accertamento di ∆P deve ispirarsi ad esso, quindi ci riferiamo a prezzi correnti per titoli pubblici, prezzi di azioni quotate, ecc...

Quando non si hanno riferimenti del valore di mercato ci riferiamo al più probabile valore di realizzo, desunto per via comparativa da quotazioni di beni similari (prezzi di immobili comparabili, valori di titoli a reddito fisso equivalenti, moltiplicatori di società comparabili o desunti dal mercato ecc...) Per le attività non strumentali anche i ∆P positivi non sono condizionati alla redditività dell'impresa o del gruppo, in quanto essi fanno in sostanza riferimento a prezzi di liquidazione a breve termine. Per ciò che invece attiene ∆P sulle poste contabili del passivo (fondo svalutazione crediti, fondi di previdenza, riserve matematiche e riserve sinistri nelle compagnie assicurative), il loro acclaramento ha unicamente attinenza alla verifica della congruità o di eventuali eccedenze. Quando gli accantonamenti risultano incongrui, vengono alla luce ∆P negativi; nella misura in cui eccedono grandezze ragionevolmente probabili e credibili, vengono alla luce ∆P positivi. Controlli di questo tipo, non sempre avvengono nell'ambito dei normali accertamenti contabili di bilancio, specialmente in presenza di eccesso di accantonamenti, in quanto atteggiamenti “prudenziali” delle stime sono in sostanza ammessi dalle regole di comune accettazione anche quand'esse chiaramente sottintendono la sopravvalutazione dei rischi.

Un altro fattore molto importante di cui si discute negli ultimi anni riguarda l'integrazione dei beni immateriali nelle imprese industriali. Gli investimenti in

beni immateriali hanno raggiunto negli ultimi periodi somme sempre più

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al primo posto nel mondo come livello di tali investimenti. Occorre quindi, trovare delle procedure contabili che permettano di evidenziare al meglio tale categoria di beni.

Il reddito espresso dai bilanci, molto spesso, non rileva affatto, o rileva in misura molto limitata e saltuaria la dinamica dei beni immateriali; ciò può distorcere anche in maniera considerevole la dinamica dei risultati economici effettivamente sostenuti. Se, per esempio, un'impresa nel corso dell'anno investe molto in ricerca e sviluppo è probabile che si ridurrà il suo reddito a breve ma ne beneficierà nel medio-lungo periodo. Quindi, quando si ricorre a straordinari investimenti immateriali, sia in diminuzione, che in aumento, il reddito apparente può essere sottostimato oppure sovrastimato.

Le ragioni per le quali non è agevole esprimere nei conti la dinamica dei beni immateriali sono fondamentalmente due:

• la difficoltà di misurazione del fenomeno;

• le conseguenze fiscali che conseguentemente ad una capitalizzazione di

tali beni porterebbero ad un'anticipazione delle imposte.

Il primo punto rimane di facile intuizione, in quanto i beni immateriali essendo di definizione molto meno agevole rispetto ai beni materiale sarà complicata anche una loro classificazione. Molto spesso le aziende industriali raggruppano tali beni in due ampie classi:

 i beni immateriali inerenti al marketing;

 i beni immateriali inerenti alla tecnologia dei prodotti e dei processi

produttivi.

La stima di tali beni può avvenire secondo due modalità: - con criteri analitici – in tal caso ci si basa su dati documentali; oppure – con criteri empirici – in tal caso si fa una valutazione basata su dati dedotti e soggetti all'esperienza maturata. Nelle aziende industriali si fa quasi sempre ricorso a criteri di natura analitica in quanto i riferimenti empirici sono molto rari. Ci si basa principalmente su due tipi di criteri:

 del “valore residuo dei costi sostenuti”  del “costo di rimpiazzo”

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Il procedimento del “valore residuo dei costi sostenuti” si basa sull'accertamento dei costi che si sono dimostrati storicamente necessari per la formazione dei beni immateriali, al netto del degrado eventualmente intervenuto. Questo procedimento è speculare a quello effettuato per le immobilizzazioni tecniche quando il criterio di stima è basato sul costo storico. L'azienda può incontrare dei limiti molto importanti nell'attuare tale tipo di procedura, in quanto gli elementi storici possono avere scarsa significatività, soprattutto quando il processo di formazione del costo riguarda un lungo periodo trascorso.

L'altro procedimento riguarda il costo di “rimpiazzo” o riproduzione. Esso consiste nel calcolare gli oneri che l'azienda dovrebbe sostenere per ricreare i beni immateriali in suo possesso. Tale stima può essere condotta:

voce per voce, individuando, ad esempio, in vista di un certo obbiettivo di

notorietà, i volumi di attività necessari (quanti avvisi pubblicitari occorrono) e i prezzi unitari od oneri aggiuntivi necessari;

tramite indici; individuando dei coefficienti che esprimono la percentuale

di costi sulla spesa annuale supportata. Tali indici sono espressivi dell'impegno economico necessario per riprodurre, a prezzi correnti, i beni in questione. Di contro, il problema di tale metodologia si ha quando si hanno progressi tecnologici molto veloci.

Il costo di riproduzione va poi ridotto per tenere conto dello stato d'uso del bene. Questa riduzione sarà inversamente proporzionale alla vita residua del bene, che può essere condizionata anche dai concorrenti con le loro iniziative ed i loro comportamenti.

Per quanto riguarda gli investimenti immateriali in marketing, si considerano solo quei costi

sostenuti una sola volta nell'arco di vita di un prodotto, cioè quelli relativi alla fase del lancio e di consolidamento. Vengono escluse quindi dal conteggio tutte quelle spese di marketing che non hanno natura di investimento in quanto si limitano al mantenimento dell'immagine, della notorietà e della fedeltà alla marca già raggiunte presso i consumatori (pubblicità, sponsorizzazione, promozione ecc..). Si fa quindi riferimento all'investimento cumulativo che l'impresa ha

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sostenuto per garantire l'affermazione sul mercato del proprio marchio.

Come si può evincere dalle suddette riflessioni, i criteri analitici per la stima dei beni immateriali hanno in comune la difficoltà di applicazione, è dunque molto complicato inseguire una standardizzazione dei calcoli. Diviene molto complicato misurare l'incremento dello stock dei beni immateriali a brevi intervalli di tempo.

La concreta possibilità di misurare il REI comprensivo della variazione annuale dello stock di beni immateriali, presuppone che sia disponibile un meccanismo semplice ed attendibile per la stima annuale di tale misura. Questo meccanismo non è ancora disponibile benché si siano fatti negli ultimi anni grandi passi avanti.

Quando non si dispone di adeguati riferimenti empirici e il ricorso a stime con cadenza annuale è impossibile, ci dobbiamo limitare a procedure semplificate e in parte convenzionali come le seguenti:

costi storici con deduzione degli ammortamenti; si considera il valore

dello stock dei beni immateriali originariamente sopportato applicando in riduzione le quote di ammortamento rapportate alla loro vita utile,

• sommatoria degli investimenti eccedenti e carenti rispetto al livello di

mantenimento;

i vari addendi devono essere monetariamente allineati. 2.4.3 I problemi del Rei per diventare strumento operativo

Per diventare strumento operativo, il REI deve superare una serie di ostacoli ed essere adeguatamente sperimentato. In particolare,l'aspetto riguardante gli Intangibles presenta una serie di problemi da risolvere adeguatamente.

Come primo problema, si pone l'attenzione sull'inadeguatezza degli strumenti concettuali cui si dispone. Partendo dalla definizione di bene immateriale, si possono evidenziare le seguenti caratteristiche:

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2) il bene deve essere trasferibile;

3) il bene deve essere misurabile nel suo valore. I problemi del REI

Senza ombra di dubbio il requisito della trasferibilità risulta molto rilevante. Con esso si intende che il bene può essere ceduto estraendolo dall'azienda in cui si è formato; può essere tuttavia concesso che tale cessione possa avvenire congiuntamente ad uno od altri pochi beni materiali o immateriali.

Nel caso in cui un costo, pur dotato di utilità differita non sia in alcun modo cedibile od estraibile, tale costo non può essere annoverato nella categoria dei beni immateriali. In questi casi, ai fini della misura del reddito, si può solo configurare una posta contabile pluriennale.

Il requisito della trasferibilità risponde ad una esigenza fondamentale per l'individuazione e la classificazione dei beni immateriali: essa infatti protegge dal rischio di sovrapposizione e duplicazioni, che avvengono molto frequentemente in questa materia. Nel campo del marketing si citano come esempi di beni immateriali, le quote di mercato, la rinomanza del nome, i marchi, i prodotti, le reti di vendita, un management commerciale efficiente e così via. Diverse delle voci suddette, sono in realtà differenti modi per enunciare le stesse cose. Per ciò che riguarda il requisito della cedibilità, ogni rischio di duplicazione cade, in quanto si possono cedere solo i prodotti, i marchi, le reti di vendita e nient'altro.

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Questi ultimi sono, quindi, i soli beni immateriali.

Un altro esempio di oneri ad utilità in parte differita (con qualche approssimazione anche misurabili), ma non cedibili separatamente, riguarda i costi di addestramento del personale.

La loro cedibilità si realizza, infatti, solo cedendo l'impresa od un ramo di impresa. Questo sta a significare che essi non hanno un valore autonomo. Tuttavia, in caso di cessione di impresa, si tiene conto anche di essi pur in maniera indiretta. E' questo il caso dell'“avviamento”; esso rappresenta il modo mediante il quale si apprezzano sinteticamente:

 sia le varie condizioni che, pur concorrendo efficacemente alla produzione

del reddito, e pur costruite nel tempo in modo oneroso e con utilità almeno parzialmente differita, non hanno però un valore autonomo;

 sia il maggior valore che i beni generano in quanto organizzati

dall'azienda in modo da produrre adeguati flussi di reddito futuri.

Nelle imprese quindi i beni immateriali riguardano principalmente le aree del marketing e della tecnologia. Altre condizioni, come la capacità del personale e del management di creare reddito, sono difficilmente all'origine di beni immateriali. Essi possono riflettere condizioni rilevanti per conservare e sviluppare la capacità dell'impresa di produrre reddito, ma l'assenza del requisito della trasferibilità non consente di classificarli come beni dotati di valore autonomo.

Il seguente grafico consente di dare una rappresentazione che evidenzia il significato del valore attribuibile a specifici beni immateriali, nel processo di stima di aziende, mano a mano che la redditività dell'impresa cresce.

Come si può evincere dal suddetto grafico, la situazione base (rappresentata dal caso 2) corrisponde ad un'azienda stimata pari al suo valore “di libro”, non esprimendo quindi alcuna maggiorazione né per plusvalenze su beni materiali (caso 3), né tanto meno per beni immateriali (caso 4) e per avviamento(caso 5). Il caso 1 riguarda le aziende il cui valore contabile è al di sopra di W. Nel caso 5 la differenza tra W – (VC + P) è parzialmente attribuita a beni immateriali specifici (BI) e in altra parte attribuibile all'avviamento (A).

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Gradi di redditività e possibili strutture di capitale.

Una simile scomposizione ha le seguenti caratteristiche:

 permette di definire in modo quantitativo lo stock di beni immateriali, la

cui variazione nel tempo (a causa di cessione e deterioramenti) è significativa;

 la distinzione tra la componente BI ed A rimane in molti casi indicativa e

di larga massima, in quanto le note problematiche metodologiche ed applicative non consentono l'adeguata stima degli specifici beni immateriali;

 la riconoscibilità dei valori BI ed A è strettamente legata alle capacità

reddituali delle aziende considerate, le quali necessitano di livelli reddituali compatibili.

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plusvalenze e di valori di beni immateriali.

In problema molto sentito riguarda la difficoltà di rilevare la dinamica annuale dei beni immateriali. I metodi più utilizzati ma in parte ancora indefiniti per la determinazione dei beni immateriali sono:

• determinazione del valore residuo dei costi effettivamente sostenuti per il

loro ottenimento;

• attualizzazione dei costi che l'azienda dovrà sopportare per un eventuale

loro riproduzione;

• attualizzazione delle perdite che si dovrebbero sostenere a seguito della

privazione di tali beni;

• approccio di mercato basato sui prezzi di compravendita comparabili o sui

tassi di royalty.

Per il primo criterio è stata applicata in alcuni casi una formula semplificatrice di tipo contabile basata sulla capitalizzazione dei costi ad utilità differita e sul loro graduale ammortamento secondo regole stabilite.

Un lungo lavoro rimane ancora da compiere su questa materia, al fine di assicurare credibilità alla stima dei beni immateriale e sicure basi logiche. Tutto questa è avvalorato dal fatto che la stima del REI non può essere limitata a complesse e onerose ricerche svolte a lunghi intervalli di tempo, ma deve essere ripetuta almeno annualmente. Ciò significa che i due requisiti, della sopportabilità degli oneri e della relativa semplicità, sono necessarie componenti dei parametri di cui occorre disporre. Andrà quindi sviluppato in un futuro prossimo un lungo lavoro che vada in tale direzione.

Si conoscono e sono sufficientemente definite le circostanze, in cui criteri empirici standardizzati e di generale accettazione rendono spedito l'accertamento periodico (annuale e infra-annuale) della dinamica dei beni immateriali.

I casi più noti sono i seguenti:

• nelle banche: il valore della raccolta diretta e indiretta, stimato con

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• nelle assicurazioni: grazie al totale dei premi raggiunti nelle varie

categorie di rischi si stima il valore del “portafoglio premi”; in questo settore si sono affermati da tempo anche procedimenti puramente attuariali di stima del portafoglio premi, basati sull'embedded value;

• nel commercio al dettaglio organizzato e in quello tradizionale: il

cosiddetto “valore dell'autorizzazione”, con percentuali differenziate sul valore annuo delle vendite;

• in un limitato di settori industriali, il “valore del portafoglio prodotti”,

espresso con diverse formule empiriche. Caratteristico è il caso del “valore delle testate giornalistiche” nel campo dell'editoria, legate alle vendite periodiche e alla pubblicità annua;

• nelle società di gestione patrimoniali con proprie reti distributive e di

gestione di fondi di investimento, il “valore del portafoglio” con percentuali differenziate applicate alle diverse categorie di gestione di fondi;

• in varie categorie di società di servizi ( agenzie pubblicitarie, società di

relazioni pubbliche, società di consulenza, studi professionali, servizi di revisione contabile, agenzie di viaggio), il “valore del portafoglio clienti” con percentuali molto differenziate da un settore all'altro, applicato all'importo medio annuo delle vendite.

L'interpretazione di tipo “contabile” del criterio del costo storico residuo può in certi casi essere assimilabile proprio per l'automatismo e la standardizzazione che la caratterizza. Ciò accade quand'essa consista semplicemente:

 nella capitalizzazione ( ovviamente al di fuori della contabilità di

esercizio), anno per anno di tutti gli oneri aventi un'utilità pluriennale, distinti per grandi progetti o aree: costo di ricerca e sviluppo, costi di ricerca tecnologica, costi pubblicitari e di marketing al di là del livello “di conservazione” dell'esistente, costi di ristrutturazione produttiva e di altre funzioni aziendali eccetera. Un tipico esempio sono i costi dell'esplorazione mineraria (petrolio e gas naturali): tali costi saranno capitalizzati indipendentemente dal successo di specifiche iniziative;

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