LA RESPONSABILITÀ DELL’AVVOCATO PER INIDONEA SCELTA DELLA STRATEGIA
PROCESSUALE O DELLE PROVE
Avv. Rodolfo Berti*
Quasi per una sorte di nemesi storica gli avvocati, deputati normalmente ad agire nell’interesse dei propri clienti contro terzi danneggianti, in questi ultimi tempi sono nell’occhio del ciclone, chiamati anch’essi da parte di altri avvocati che a loro volta tutelano quegli stessi clienti asseritamente danneggiati da errori professionali commessi dai loro ex avvocati: se il cerchio si chiuderà chi difenderà gli avvocati?
L’avvocato, come ogni professionista, assume contrattualmente nei confronti del proprio cliente l’obbligazione di adempiere diligentemente all’incarico affidatogli utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione per raggiungere il risultato più utile.
Per questo non vi è sostanziale differenza tra l’attività professionale di un legale e quella di un medico, o quella di un ingegnere, o di un commercialista o di un notaio ect..., semmai l’unica differenza c’è con il medico il cui l’errore determina quasi sempre un danno psico-fisico alla persona, cosa che invece difficilmente, se non in casi rarissimi, può succedere ad un avvocato che tutt’al più causa danni patrimoniali o, dopo le recenti pronunce giurisprudenziali di legittimità e costituzionali, un danno extrapatrimoniale da lesione di un diritto costituzionale della persona.
Non per questo però la responsabilità di un avvocato vale meno di quella di
* Avvocato, Ancona
un medico e soprattutto non per questo la responsabilità di un avvocato può risultare più limitata rispetto all’altra e soprattutto giudicata attraverso criteri diversi rispetto a quelli che la giurisprudenza ormai costantemente ritiene applicabili nella individuazione della colpa medica.
Non a caso da qualche tempo si parla anche di danno da perdita di chances.
L’argomento che mi appresto a trattare, a mio giudizio, è analogo a quella ipotesi di responsabilità sanitaria per errata diagnosi ed errata terapia.
E infatti la strategia processuale che l’avvocato decide di utilizzare nel caso che gli viene sottoposto, è del tutto analoga alla individuazione della terapia che il medico fa a seguito della diagnosi.
È diverso infatti il caso della omessa proposizione di una impugnazione, della mancata interruzione dei termini prescrizionali, della decadenza dalla domanda, dalla indicazione dei testi ect.., ove la responsabilità omissiva è pacifica, stando il problema nel giudizio, indubbiamente probabilistico, che deve essere fatto per valutare, ipotizzato come compiuto il comportamento omesso, quale sarebbe stato il risultato e ciò al fine di stabilire se sussista o meno il nesso causale con il danno.
Nel nostro caso invece non si tratta di un’omissione e, quindi, non vi è certezza di una conseguente colpa la cui individuazione deve necessariamente precedere l’accertamento del nesso causale con il conseguente danno, dovendosi invece valutare se, utilizzata una diversa strategia processuale o impostando la domanda in un diverso ambito o utilizzando un diverso istituto giuridico, il risultato sarebbe stato diverso e più proficuo per il cliente.
Poiché le cause non si perdono sempre e solo per colpa dell’avvocato, la sconfitta processuale non significa che vi sia responsabilità del professionista, sicché si dovrà stabilire quali siano state le cause del mancato risultato.
Come nelle ipotesi di responsabilità sanitaria per errata diagnosi e/o terapia, l’indagine deve avvenire attraverso un giudizio ex ante, ponendosi dunque nelle stesse condizioni in cui si trovava il professionista quando ha espresso la
“diagnosi”, cioè il parere, per accertare se, in quel preciso momento, valutate anche le cognizioni giuridiche, cioè “lo stato dell’arte”, la giurisprudenza in
tema, cioè “le linee guida”, la normativa in vigore, cioè i “protocolli”, diversa doveva essere la scelta della strategia processuale.
Tale valutazione va fatta attraverso il criterio della media diligenza, quello richiamato dall’art. 1176 II co. c.c., cioè quella diligenza proporzionale alla materia da trattare, trovando applicazione la norma di tutela, ormai peraltro estremamente residuale, di cui all’art. 2236 c.c. solo in caso di imperizia in questioni di difficile soluzione, atteso che, come per i medici, l’imprudenza e la negligenza non possono essere perdonate a nessuno e dunque espongono il professionista al risarcimento del danno anche in caso di colpa lieve.
Tenuto conto che in ogni caso l’obbligazione dell’avvocato, come qualsiasi esercente una professione intellettuale, è un’obbligazione di mezzi e non di risultato, l’interprete dovrà, nell’effettuare quella valutazione attraverso un giudizio ex ante, tenere anche conto delle varianti che possono intervenire, rendendo imponderabile il già incerto esito processuale, varianti che dipendono da quanta verità il cliente ha comunicato all’avvocato, dalla difesa della parte avversa, dai mutamenti giurisprudenziali che purtroppo sovente, nel lungo iter processuale, intervengono e, soprattutto, dal Giudice che dovrà decidere il giudizio.
Spesso leggiamo sentenze, per di più di merito, profondamente errate le cui conseguenze però non possono essere addebitate all’opera infausta dall’avvocato qualora non risulti per certo l’errore da lui compiuto nella gestione della lite, e quindi il giudizio che eventualmente si dovrà compiere per stabilire se, assunta una diversa linea di difesa, il risultato sarebbe stato diverso, sostanzialmente equivale ad un secondo grado di giudizio, cioè ad un riesame dell’intera questione.
Per non rendere ancor più volatili i già evanescenti limiti del nostro diritto è dunque necessario che il nesso casuale abbia almeno la “certezza processuale”.
Se la prova dell’errata strategia ricorre senz’altro nel caso in cui, per esempio, l’azione sia stata impostata al fine di ottenere una quanti minoris piuttosto che la risoluzione del contratto, o quando si sia agito nel presupposto di una responsabilità oggettiva, che invece non ricorreva nella specie e dunque
la domanda viene respinta perché non provata, molto spesso la linea difensiva, che è una prerogativa dell’avvocato, dipende dagli atti, documenti e dagli altri elementi che gli vengono forniti dal cliente, dall’esame dei quali egli esprime il proprio parere, né più e né meno di quello che i medici fanno all’esito della
“anamnesi clinica” quando pronunciano la diagnosi.
In tal modo l’avvocato prospetta al cliente quelli che potrebbero essere i risultati e quelli che potrebbero essere i rischi.
Come per i medici è necessario oggi dimostrare di aver ottenuto un consenso ampiamente informato dal paziente, anche l’avvocato dovrà così comportarsi con il cliente e dunque mettere per iscritto il proprio parere evidenziando che a tanto è giunto sulla scorta delle informative, notizie e documenti che il cliente gli ha fornito sicché, a meno che non risulti un marchiano errore nonostante l’evidenza, difficilmente potrà essergli imputata una carenza di difesa.
Recentemente ho difeso un collega che era stato accusato dai propri ex clienti di non aver proposto un tempestivo ricorso per la cassazione di una sentenza penale di assoluzione dell’imputato con la formula “il fatto non costituisce reato” e di aver altresì omesso di riassumere nei termini la causa civile, sospesa in attesa dell’esito del penale, facendo così maturare la prescrizione del loro diritto al risarcimento di un gravissimo danno valutato in € 900.000,00 per la morte di un congiunto e un gravissimo danno permanente di un bambino.
La realtà era ben altra, perché il collega aveva consigliato i clienti di non perseguire ancora la strada penale in quanto la sentenza di appello era totalmente in fatto riguardando l’esclusione del nesso causale materiale sicché improduttiva di qualsiasi risultato utile sarebbe stata la causa e anche di non continuare in sede civile posto che, al di là della formula assolutoria, la sentenza precludeva l’azione civile in quanto facente stato nei confronti delle parti civili: si trattava di un vecchio rito penale, fatti cioè che risalgono agli inizi degli anni ’90.
Purtroppo il collega non aveva messo per iscritto tale suo giustissimo parere
volto ad evitare l’inutilmente dispendioso corso delle cause.
La Cassazione, con sentenza recente , ha affermato che “il difensore che non coltiva una procedura inconcludente e dannosa per il proprio cliente non viola il mandato ricevuto né a titolo di colpa né di illecito ma tale condotta rientra nei comportamento di etica deontologica” (Cass. Civ. Sez. III 14/9/2000 n. 12158).
Infatti il nostro Codice di Deontologia all’art. 36 comma 1, rimasto invariato nonostante le più recenti modifiche, prevede appunto che “l’avvocato non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose, né suggerire comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità” sicché il collega si era comportato secondo i principi di deontologia professionale con competenza, lealtà e probità ma non era in grado di poter dimostrare che il suo consiglio era stato accettato dai clienti.
Per fortuna il Tribunale ha respinto la domanda attrice perché ha ritenuto non provato il nesso causale tra il fatto omissivo e l’evento di danno valutando che il proseguimento della lite sia in penale che in civile avrebbe comportato, quasi certamente, la reiezione di tutte le pretese.
Come per gli altri tipi di colpa professionale di cui prima accennavo dei quali hanno parlato i precedenti relatori, come tardiva impugnazione, prescrizione e decadenze, appurato che l’avvocato ha sbagliato la strategia difensiva o, relativamente alle prove, ha indotto a testi persone che nulla sapevano o non ricordavano, o addirittura contrarie alle tesi del proprio cliente, va comunque dimostrato se tale errore diagnostico e terapeutico sia in nesso causale con l’evento di danno, ma prima dovrà dimostrarsi il danno che, solo dopo la prova del collegamento eziologico con l’errore, diventa ingiusto.
Nessuna differenza credo ci sia con l’accertamento del nesso causale in tema di responsabilità sanitaria che oggi, soprattutto dopo la pronuncia delle Sezioni Unite Penali della Cassazione con la sentenza del luglio 2002, il cui principio trova applicazione anche nel processo civile, deve essere accertato non più in percentuale probabilistica ma con un criterio di “razionalità giuridica”
che consenta al giudice di stabilire, con probabilità più vicina all’uno, che quel
comportamento errato, qualora fosse stato correttamente tenuto, avrebbe portato ad un risultato diverso.
Si tratta del cd. “giudizio controfattuale” attraverso la cd. “doppia formula”
consistente nelle due proposizioni “la condotta umana è condizione necessaria all’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; la condotta umana non è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe ugualmente verificato”.
In tal modo il giudice potrà giungere a quella “certezza processuale” fondata sulla “credibilità razionale “ della sussistenza o meno del nesso causale, altrimenti, sussistendo il ragionevole dubbio, la domanda va respinta.
Con tale pronuncia le Sezioni Unite hanno non già introdotto un nuovo principio di indagine sul nesso causale, ma hanno semplicemente riordinato i principi informatori della ermeneusi che, in forza di una certa corrente giurisprudenziale, avevano travalicato i confini della certezza processuale attestandosi sul cd. principio probabilistico fondato su basi statistiche sicché anche di fronte a percentuali inferiori alla metà di probabile esito favorevole se il comportamento fosse stato corretto, vi era la responsabilità.
Questo certo rigore nell’accertamento del nesso causale, che aveva in qualche modo ridato speranza di una certa serenità nei giudizi di responsabilità sanitaria, è stato però superato dalla stessa giurisprudenza di Cassazione che ha introdotto il diverso danno da perdita di chances.
La Cassazione ha di recente affermato che in tema di responsabilità sanitaria, pur riaffermando i criteri ermeneutici sul nesso causale espressi dalla richiamata sentenza Francese, attraverso una sorta di escamotage giuridico afferma che, di fronte all’inadempimento della corretta prestazione sanitaria, ancorché in presenza di fattori di rischio legati alla gravità della patologia o alle precarie condizioni di salute del paziente, sussiste l’aggravamento della possibilità che l’evento negativo si produca e che causi al paziente la perdita delle chances di conseguire il risultato della guarigione (Cass. Civ. Sez. III 4/3/2004 n. 4400).
Essendo la perdita di chances un danno emergente, i supremi giudici hanno affermato che tale danno è diverso da quello conseguente alla perdita di salute, cioè al fatto illecito o all’inadempienza contrattuale, e quindi deve essere chiesto e dimostrato e solo in tal caso risarcito proporzionalmente alla probabilità che quella chance si sarebbe realizzata: ciò significa che anche laddove non vi sia quella “certezza processuale” della sussistenza del nesso causale tra il fatto e l’evento di danno, in caso di inadempienza contrattuale può essere risarcito il danno causato dalla perdita della possibilità, cioè dalla perdita delle probabilità di ottenere un probabile risultato utile.
Che cosa impedirà di applicare anche in tema di responsabilità degli avvocati tale principio?
Peraltro la Cassazione anche in passato ha affermato che il creditore che voglia ottenere, oltre al rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti da perdita di chances, cioè da quella concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, ha l’onere di provare, anche in modo presuntivo, che le sue aspettative si sarebbero realizzate qualora il professionista non avesse tenuto quella condotta errata (Cass. Civ. Sez. II 18/3/2003 n. 3999).
Recentemente ho esaminato la pratica di un avvocato penalista per conto della sua assicurazione. Costui è stato accusato dal proprio cliente, condannato in modo definitivo a 6 anni di reclusione per il reato di violenza carnale su una minorenne, di aver ritardato di un giorno il deposito dell’appello, determinandone quindi l’inammissibilità e il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
Il suo avvocato, conscio che difficilmente la sentenza di primo grado sarebbe stata riformata in appello qualora i termini della proposizione dell’impugnazione fossero stati rispettati, abilmente ha spostato la questione nell’ambito della perduta possibilità di avere altri due gradi di giudizio, appello ed eventuale cassazione, il che avrebbero potuto favorire la possibilità che, nel frattempo, si maturassero i termini prescrizionali o entrasse in vigore una normativa più favorevole sulla prescrizione (citando appositamente il cd.
decreto salva Previti) o che venissero promulgati provvedimenti di clemenza, tipo amnistie o indulti, dei quali si è recentemente parlato.
Prescindendo dalla fondatezza o meno di simile pretesa, il cui discorso ci porterebbe lontano, ciò che rileva è la conferma che la giurisprudenza sulle chances perdute sta suscitando grande interesse.
Il passo infatti è molto breve tra il giudizio probabilistico circa il risultato che si sarebbe conseguito qualora non vi fosse stato l’errore e la perdita delle chances di ottenere quel risultato se vi fosse stato un puntuale adempimento.
Quando si tratta di probabilità, indubbiamente si tratta di occasioni, aspettative e quindi chances perdute sicché è soltanto proporzionalmente a quelle che si sarebbero potute realizzare che deve essere commisurato il risarcimento.
In questo riesame che il Giudice deve compiere per accertare quante probabilità di buon risultato ci sarebbero state se l’avvocato avesse assunto una diversa strategia più diligente e giuridicamente valida, gioca però un ruolo fondamentale anche la valutazione del comportamento deontologico del professionista che, come prima si diceva, deve saper dare al proprio cliente il migliore dei consigli possibili e non, pro domo sua, speculare sulla litigiosità, sul desiderio di vendetta o sull’intento di perseguire questioni di puro principio non produttive di risultati pratici, dispendiose e quindi utili solo per la parcella.
Però oggi se i laureati in medicina sono tantissimi ed ognuno cerca il proprio posto e la propria affermazione, a discapito spesso della professionalità e preparazione, ancor di più sono i laureati in giurisprudenza e i corridoi dei tribunali sono pieni di giovani che si affacciano al mondo del lavoro nella speranza di piazzarsi in qualche modo, a volte sgomitando per non soccombere, essendo molto lunga e difficile la qualificazione professionale di un legale.
Si parla sempre più spesso di “libero mercato”, di abolizione degli ordini professionali, di abolizione delle tariffe per equiparare le professioni al commercio ove la libera concorrenza fa sì che emerga il più qualificato: non sempre è vero e ben difficile potrebbe esserlo per chi fa l’avvocato.
Sappiamo tutti che gli enti pubblici, le grandi società di assicurazioni, le banche, più che al risultato guardano all’economia della prestazione e quindi la concorrenza si farebbe assolutamente spietata laddove non vi fossero regole, limiti e vigilanza.
È ormai utopia anacronistica sperare nel “numero chiuso”, non essendo certamente quella degli avvocati una casta ma tanto meno potrà mai diventarlo oggi che quella legale è diventata una professione facilmente accessibile.
La posizione dell’avvocato oggi è sostanzialmente identica a quella del medico, ma mi auguro che nei nostri confronti non avvenga quella caccia spietata che c’è contro i sanitari anche se la professione forense è indubbiamente scaduta suscitando nella clientela quelle stesse reazioni di rivalsa causata dalla delusione che la professione medica suscita nei pazienti vittime spesso di superficialità e strafalcioneria.
Mi capita sempre più spesso di vedere cause sconclusionate, atti giudiziari mal proposti, lunghe elencazioni di inutili per quanto inammissibili capitoli di prova su fatti che risultano già da documenti incontestabili, capitoli infarciti di valutazioni soggettive, con indicazione di testi che, essendo tecnici, periti o medici sono chiamati a esprimere giudizi personali e valutativi, e come tali inammissibili, o addirittura testi del tutto incompatibili ai sensi dell’art. 246 cpc: si tratta indubbiamente di gravi errori nella scelta della strategia che si esprime anche attraverso le prove che l’avvocato deve saper scegliere privilegiando quelle documentali, in quanto ineccepibili, piuttosto che quelle orali che molto spesso portano delle grosse sorprese.
A differenza del penale, ove sono ammesse le indagini difensive e quindi l’interrogatorio pre-processuale del teste da parte dell’avvocato, nel civile tali colloqui sono sostanzialmente sconsigliabili per cui l’avvocato si trova molto spesso a dover contare su testi che gli sono stati indicati dal cliente sulle cui risposte però non sempre può contare.
La scelta dei testi, la formulazione dei capitoli di prova richiedono una certa abilità soprattutto perché meno testi si sentono, meno rischi si corrono perchè
spesso, vuoi per scarsa memoria, vuoi per un certo timore, vuoi anche per un certo senso di protagonismo, sovente i testi vengono a dire cose completamente contrarie a quelle nelle quali si sperava.
Non potrà l’avvocato rifugiarsi dietro la scusa “ma lei mi aveva detto che il teste era favorevole”, perché l’esperienza comune a tutti i professionisti deve insegnarci a fare una più oculata a precisa scelta di testimoni certi e non fidarsi mai troppo di quello che ci dicono i clienti ponendoci sempre nell’altra posizione, cercando di capire quello che potrebbe succedere o meglio quello che potrebbe sostenere controparte.
La causa non è un gioco, ma l’abilità, l’esperienza ed anche una certa furbizia, ma soprattutto la prudenza, danno ottimi frutti e risultati.
Il giudizio sull’errore di strategia non potrà tener conto di queste componenti, in quanto personalissime, ma dovrà basarsi su quella media capacità professionale che ogni avvocato deve avere.
È evidente che se la materia da trattare comporta un alto grado di specializzazione, l’avvocato che comunque assume l’incarico pur sapendo che la sua preparazione non è all’altezza della questione, commette fin da subito una grave negligenza ed imprudenza non trattandosi certamente di imperizia, perchè è suo dovere avvertire il cliente o della necessità di affiancarsi uno specialista, che magari può indicargli, o di rifiutare l’incarico.
Le conseguenti errate strategie difensive sono indubbiamente frutto di tali negligenze che non possono certamente perdonarsi a nessuno.
Un fallito chiede il risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non patrimoniali ad un avvocato, al quale aveva affidato la questione relativa alla situazione economica finanziaria della sua azienda, una SAS, sostenendo che il professionista gli avrebbe consigliato, dopo aver esaminato tutto l’incartamento, di chiedere l’amministrazione controllata senza tener conto però che l’azienda aveva già cessato ogni attività sicché inevitabile fu il parere negativo del Tribunale.
A questo punto il professionista lo aveva consigliato di proporre un concordato preventivo che prevedeva il pagamento della percentuale del 70%
dei crediti chirografi.
Ammesso alla procedura, il commissario giudiziale verificava però che i numeri non tornavano perché non vi era stato un preciso accertamento del debito verso l’Erario e il valore degli immobili, che avrebbero dovuto essere venduti, era stato sopravvalutato e per di più il proponente l’acquisto aveva poi rifiutato di consegnare una fideiussione bancaria a garanzia del prezzo, sicché inevitabile fu la dichiarazione di fallimento oltre che della SAS anche dello stesso socio accomandatario.
Costui si rivolse ad altro professionista, questa volta specializzato in materia fallimentare che, esaminati gli atti e documenti, accertò che se quel concordato preventivo fosse stato proposto ad una percentuale più bassa, e se fosse stata consegnata assieme alla istanza di ammissione anche la fideiussione, i conti avrebbero quadrato e la procedura avrebbe avuto buon fine evitandosi in tal modo il fallimento.
Il nuovo professionista chiese ed ottenne il concordato fallimentare che fu adempiuto, dopo l’ammissione, attraverso il pagamento del 60% dei crediti chirografi, e del 100% dei crediti privilegiati, tutti pagati con realizzazione degli immobili i cui acquirenti erano stati ricercati dallo stesso professionista.
Siamo di fronte ad un caso, quello del primo avvocato, non solo di errore di strategia, ma addirittura di grave negligenza nell’aver assunto un incarico così delicato che ben sapeva di non poter assolvere senza l’ausilio di un esperto.
Un altro collega ha proposto, nell’interesse di un medico condannato in solido con l’Azienda sanitaria di appartenenza al risarcimento di ben € 2.000.000,00 in favore di una giovane danneggiata da un grave errore sanitario, opposizione al decreto ingiuntivo con il quale l’Azienda, condannata ultramassimale, svolgeva azione di regresso nei confronti del proprio dipendente.
L’opposizione è stata respinta dal Tribunale perché il professionista non aveva contestato la improponibilità dell’azione di regresso non essendo stata accertata la percentuale delle rispettive colpe concorsuali, per cui sostanzialmente l’Azienda aveva svolto una azione di rivalsa per colpa grave
contro il proprio dipendente di fronte al giudice ordinario quando invece avrebbe dovuto agire in sede erariale di fronte alla Corte dei Conti, previo parere autorizzativo della Procura Generale.
Tale errore ha esposto alla pretesa dell’azienda con tutto il suo patrimonio immobiliare il medico.
Prima di intraprendere l’azione di responsabilità nei confronti dell’anziano collega, gli ho per correttezza telefonato per sapere se fosse assicurato: mi ha risposto “io no e lei lo è?” il che mi ha lasciato perplesso e mi ha fatto riflettere sul fatto che accusavo un collega di un errore di strategia o di scelta processuale, cosa che poteva succedere anche a me, perché tutti possiamo sbagliare, per cui mi sono andato a rivedere le mie polizze assicurative per la responsabilità professionale.