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Giurisprudenza di legittimità in materia penale militare

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Academic year: 2021

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Giurisprudenza di legittimità in materia penale militare

- Anno 2013 -

Anche per l’anno 2013 vengono raccolte in un unico documento le indicazioni ritenute più significative tra quelle emergenti dalle sentenze pronunciate dalla 1^ Sezione della Corte di Cassazione nei processi penali militari.

Tranne qualche necessario adattamento, i brani sono riportati in modo letterale e senza alcun commento perché lo spirito del lavoro è soltanto quello di fornire uno strumento ricognitivo che consenta di verificare con immediatezza l’eventuale esistenza di recenti decisioni del giudice di legittimità sulle singole questioni di interesse, ferma ovviamente restando la necessità di ricorrere al sistema ‘Italgiure’ ed alle usuali riviste giuridiche per consultare le sentenze nella loro interezza.

Proprio in ragione delle finalità eminentemente pratiche della raccolta, si è ritenuto di utilizzare talvolta sottotitolazioni generiche (ad esempio, per la parte di procedura, “Elementi probatori”) che però permettessero di evitare un’eccessiva parcellizzazione del materiale.

Nella stessa ottica, al fine di facilitare la ricerca dell’intera sentenza in atri siti, si è ritenuto opportuno riportare, per ogni provvedimento, gli estremi di entrambe le numerazioni in uso presso la Corte di Cassazione, quella del Registro Generale delle Sentenze e quella del Registro Raccolta Generale delle Sentenze.

Un’ultima avvertenza. Le date indicate si riferiscono all’udienza, così come imponeva il criterio di raccolta “anno per anno”, e non al deposito del provvedimento.

Luigi Maria FLAMINI Sost. Proc. Gen. Mil.

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Diritto sostantivo

a) Responsabilità colposa

In un caso in cui all’imputato era contestato il reato di distruzione colposa di opere militari (artt. 40 cpv e 167, commi 1 e 3, c.p.m.p), per aver omesso, nell’esercizio delle funzioni di comando, di provvedere, con specifiche disposizioni operative, ai mezzi necessari alla difesa della base affidatagli, trascurando, con imprudenza, imperizia e negligenza, di porla nelle condizioni di resistere all’attuazione di minacce terroristiche, la Corte, quanto ai rapporti tra prevedibilità e prevenibilità dell’evento, ha affermato: “o l'evento non era prevedibile perché le fonti informative riferivano in modo alquanto generico e non sufficientemente riscontrato di un pericolo di attentato mediante auto-bomba, e allora non è neanche il caso di addentrarsi nell'esame del profilo della prevenibilità; o l'evento, per quelle stesse fonti informative, generiche ma non al punto d'essere trascurate, era prevedibile e pertanto l'indagine sulla prevenibilità è assolutamente centrale” (sent. 102 del 30.01.2013; Racc. Gen. 11994/13).

Quanto ai criteri d’individuazione del cd. agente modello, la Corte ha inoltre precisato che: “Non è necessario, perché si definisca il parametro dell'agente modello, che il giudice si avvalga di un apporto peritale, dovendo di volta in volta valutarsi la sufficienza del contributo informativo proveniente dal testimone esperto, le cui dichiarazioni sono ammissibili ed utilizzabili nella parte in cui riferiscano di dati di fatto, sia pur nella percezione qualificata, consentita dalle speciali conoscenze - Sez. 2, n. 40840 del 19/9/2007 (dep. 7/11/2007), Ranieri, Rv. 238758” (sent. 102 del 30.01.2013; Racc. Gen. 11994/13).

b) Concorso di reati (falso e truffa)

Nel ribadire la configurabilità del concorso tra i reati di falso e truffa, si è affermato: “Palesemente erronea è, poi, la negata configurabilità del concorso dei reati di falso e truffa, poiché non ogni inganno presuppone il falso, sicché non è indispensabile una condotta di falso nei reati di frode, e non ogni falso postula un inganno finalizzato al conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno, essendo diversi gli elementi costitutivi e i beni giuridici tutelati dalle due fattispecie penali di falso e truffa, le quali pertanto possono concorrere (c.f.r., tra le molte conformi, Sez. 5, n. 21409 del 05/02/2008, dep. 28/05/2008, Franchi, Rv.

240081)” (sent. 87 del 30.01.2013; Racc. Gen. 19968/13).

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c) Prescrizione del reato (atti interruttivi)

Nell’esaminare la questione relativa all’efficacia interruttiva della prescrizione di un reato militare da parte di atti dell’A.G. ordinaria antecedenti alla trasmissione degli atti alla competente A. G. militare, la Corte ha affermato: “Da una attenta lettura della sentenza delle Sezioni Unite (Sez. Unite 25/1999) richiamata dalla difesa è dato cogliere che l'inesistenza dell'atto del giudice ordinario può inferirsi solo a fronte di un'accettata usurpazione del potere di giurisdizione , quando cioè l'atto sia affetto da vizi così radicali da essere costituzionalmente inidoneo a produrre alcun effetto giuridico al di fuori del processo. Laddove invece il difetto di giurisdizione sia interno ai confini delineati dall'art. 1 cod. proc. pen. per la giurisdizione penale e sia riconducibile ai profili considerati dall'art. 20 cod. proc. pen. per l'ipotesi meno grave di violazione delle regole sulla giurisdizione da parte del giudice ordinario rispetto a quello speciale, quale quello militare, "si versa in un'esorbitazione dalle rispettive sfere pur sempre interna al perimetro della giurisdizione penale" , di talché non può parlarsi di atto inesistente, relativamente al decreto interruttivo della prescrizione cui si ha riguardo. Il giudice ordinario penale ha correttamente rilevato il difetto di giurisdizione, attendendo la questione all'individuazione delle sfere di attribuzione del giudice ordinario e del giudice speciale, ma la sua attività non può essere considerata del tutto priva di rilievo, tanto da fare confluire i suoi atti nella categoria dell'inesistenza, poiché comunque essi sono dimostrativi dell'interesse dello Stato a perseguire la condotta illecita, sebbene inizialmente con l'adizione del giudice ordinario penale, in luogo di quello militare. Depone in favore di questo orientamento la considerazione che ai fini della interruzione del corso della prescrizione occorre riscontrare la concreta e specifica volontà dell'autorità giudiziaria - intesa in senso ampio - di procedere nei confronti di un soggetto per una determinata condotta.

Dunque anche l'attività compiuta dal giudice ordinario, poi dichiaratosi carente di giurisdizione a favore dell'autorità giudiziaria militare, conserva la sua idoneità a fare escludere l'inerzia dello Stato. Tanto più se si considera che la giurisdizione militare è stata considerata dalla Corte Costituzionale (sent. 271/2000) come una giurisdizione eccezionale, in deroga alla giurisdizione ordinaria: è infatti stato ripetuto che l'orientamento consolidato nella giurisprudenza costituzionale che l'art. 103 Cost., comma 3, nel consentire una giurisdizione dei tribunali militari anche in tempo di pace non pone, in loro favore, una competenza inderogabile in confronto del giudice ordinario, poiché è invece quest'ultima che deve essere considerata, per il tempo di pace, la giurisdizione "normale". Infatti è stato sottolineato che l'avverbio "soltanto", utilizzato nell'art. 103, non identifica il carattere esclusivo di una riserva, ma sta ad esprimere l'esigenza che la giurisdizione militare in tempo di pace sia rigorosamente circoscritta entro limiti invalicabili, nel senso che essa riguarda solo i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate, non potendo valere l'inverso.

Pertanto, l'atto interruttivo compiuto dal giudice ordinario che esercita la giurisdizione in via non eccezionale, non può non essere produttivo di effetti nell'ambito di una giurisdizione eccezionale e circoscritta. Corretta è stata quindi la decisione quanto alla non compiuta prescrizione al momento della pronuncia della sentenza di secondo grado” (sent. 95 del 30.01.2013; Racc. Gen. 6835/13).

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d) Normativa penale – militare applicabile alle missioni all’estero

La Corte ha stabilito che "si applicano le disposizioni del codice penale militare di pace ai reati militari commessi nell'ambito delle missioni di cui alla L. 4 agosto 2006, n. 247, anche se antecedenti alla data della sua entrata in vigore, e quindi assoggettati alla più severa disciplina del codice penale militare di guerra prevista dalla normativa antecedente, a nulla rilevando la temporaneità di quest'ultima, in quanto la regola derogatoria al regime di retroattività della lex mitior stabilita dall'art. 2 c.p., comma 5 non trova ragione di applicazione […] in presenza di norme parimenti temporanee o eccezionali succedutesi l'una all'altra durante il periodo di vigenza ovvero durante la permanenza della situazione eccezionale, aventi la medesima ratio e dirette a una migliore messa a punto della normativa destinata a fronteggiare la medesima situazione"- Sez. 1, n. 31420 del 28/5/2008 (dep. 28/7/2008), P.G. in proc. Madonna e altro, Rv.

240672” (sent. 102 del 30.01.2013; Racc. Gen. 11994/13).

e) Attenuante di cui all’art. 48, u.p., c.p.m.p. (ottima condotta)

E’ stato precisato che “la circostanza attenuante di cui all'art. 48 c.p.m.p. per il provato valore espresso in operazioni militari non può essere invocata e pretesa per il solo fatto della partecipazione a missioni internazionali all'estero, pur di significativa importanza, dovendo comunque essere riservato al giudice del merito l'apprezzamento di specifici fatti che qualifichino specificamente il profilo professionale del singolo soggetto” (sent. 100 del 30.01.2013; Racc. Gen. 9396/13).

f) Violata consegna

Nel rigettare un ricorso del P.M. avverso una sentenza di condanna per violata consegna, la Corte ha così argomentato: “È stato insegnato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 263 del 6.7.2000 che l'incriminazione della violata consegna (collocata nel titolo 2^ del cpmp) è diretta a tutelare il servizio e non anche la disciplina militare, alla cui salvaguardia sono invece preordinate le fattispecie comprese nel titolo 3 del cpmp; si è aggiunto che il reato può essere commesso solo da un militare che sia comandato ad un servizio determinato ed al quale siano assicurati i mezzi per l'esecuzione della consegna e che con riguardo al contenuto di ciò che può costituire consegna, deve ritenersi che la consegna deve essere precisa, nel senso che deve "determinare interamente e tassativamente il comportamento del militare in servizio", Seguendo queste linee interpretative, questa Corte di legittimità ha avuto modo di chiarire che la nozione di consegna "comprende tutto quel complesso di prescrizioni tassative, generali o particolari, permanenti o temporanee, scritte o verbali, impartite per l'adempimento di un determinato servizio, al fine di regolarne le modalità di esecuzione, dalle quali non è possibile discostarsi" (Sez. 1, 11.7.2007, n. 30693).

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Nel caso di specie, nell'ambito della contestazione del reato di cui all'art. 120 c.p.m.p., la violazione della consegna è stata integrata da un lato nella violazione delle direttive impartite in ordine all'identificazione di soggetti stranieri, da compiersi ad opera del capo pattuglia ed a mezzo di controllo via radio presso la centrale operativa, radio la cui postazione ovviamente non poteva essere occupata per motivi di carattere personale (telefonate private, per quanto urgenti) proprio dal capo pattuglia che avrebbe dovuto in prima persona operare il controllo, anche in considerazione di ragioni di sicurezza pubblica e di urgenza (onde evitare ad es. che i soggetti si sottraggano al controllo). Dall'altro lato, la violazione della consegna è stata integrata dall'inosservanza dell'ordine di controllo di un preciso territorio, laddove l'imputato aveva contravvenuto a tale disposizione inducendo l'autista non solo ad entrare nel territorio riservato alla competenza della Polizia di Stato ma addirittura a spegnere il motore per consentirgli di fare un pisolino, così sottraendo la pattuglia ai compiti di istituto. È di immediata evidenza come nel caso di specie si abbia riguardo a violazioni attinenti il servizio e non la disciplina militare; non solo, ma le norme comportamentali del personale di servizio di pattuglia rivestono carattere integrativo delle consegne particolari, in quanto anch'esse prescrittive del comportamento da osservare nell'espletamento di un servizio (Sez. 1^ 28.4.2009, n. 19862), ragion per cui le doglianza avanzate dalla Procura militare suonano del tutto inadeguate, avendosi riguardo a violazione di veri e propri protocolli di comportamento, relativamente alla identificazione degli stranieri ed al controllo del territorio che costituiscono disposizioni tipo, impartite per operazioni di pattuglia, mirate al corretto svolgimento del servizio comandato. Nessuna arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale è dato cogliere, come adombrato dal ricorrente, atteso che nel comportamento tenuto dall'imputato non poteva non ravvisarsi la sottrazione alle più elementari regole Impartite per l'adempimento dei compiti d'Istituto” (sent. 88 del 30.01.2013;

Racc. Gen. 6832/13).

g) Ubriachezza in servizio

La Corte ha precisato che “le parole "essere colto in stato di ubriachezza" vanno interpretate nel senso che occorre che lo stato di ubriachezza del militare venga acclarato in modo certo ed evidente. La norma in esame non specifica poi chi possa accertare detto conclamato stato di ubriachezza, si che, conformemente alla giurisprudenza formatasi in ordine al reato di ubriachezza, in precedenza previsto dall'art. 688 c.p., ed oggi depenalizzato, non è necessario che esso venga constatato da agenti di p.g., essendo sufficiente che venga rilevata "de visu" in luogo pubblico od aperto al pubblico da qualsiasi privato cittadino (cfr. Cass. Sez.

5^ n. 5735 del 23/3/1981, Mitidieri, Rv. 149296)” (sent. 1165 del 9.07.2013; Racc. Gen. 33780/13).

h) Distruzione, alienazione, acquisto o ritenzione di effetti militari (artt.164-166 c.p.m.p.)

Nel valutare l’inquadramento della distruzione delle cartucce “a salve”, si è affermato: “La sentenza impugnata ha invero fatto proprio l'insegnamento della prevalente giurisprudenza di questa Corte (Sez. 1^,

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16.3.2000, n. 5982 e Sez. 1^ 3.4.1995, n. 5208) secondo cui le cartucce a salve non vanno ricomprese tra gli oggetti di armamento menzionati nell'art. 164 c.p.m.p., tutti riconducibili al concetto di complesso di mezzi e di strutture dotate di una specifica potenzialità offensiva. Tale requisito, infatti, non è riscontrabile nelle cartucce a salve impiegate per l'addestramento, che devono essere ricomprese nella categoria delle "altre cose destinate ad uso militare" di cui all'art. 166 c.p.m.p..

Il Collegio ritiene questa interpretazione più persuasiva di quella adottata da altra pronuncia di questa Corte (Sez. 1^, 30.1.2004, n. 6239) essendo insito nel concetto stesso di "armamento" cui l'art. 165 c.p.m.p. fa riferimento un'attitudine all'offesa che nelle cartucce a salve da esercitazione all'evidenza manca; e d'altra parte anche l'art. 165 c.p.m.p. applicabile nel caso di specie è posto a salvaguardia della integrità delle dotazioni delle forze armate” (sent. n. 93 del 30.01.2013; Racc. Gen. 6834/13).

i) Disobbedienza

Nel ribadire che l'art. 4 della legge n.382 del 1978 (norma vigente al momento del fatto, attualmente riprodotta nell'art. 1349 del d.Lgs. n. 66 del 15.3.2010) “pone l'obbligo di non dare esecuzione all'ordine costituente manifestamente reato”, si è precisato che “tale comportamento risulta del tutto autonomo dal successivo dovere informativo nei confronti dei superiori” (sent. 1671 del 27.11.2013; Racc. Gen. 8346/14).

l) Abuso di autorità e insubordinazione

Nell’esaminare la condotta tenuta da un maresciallo di secondo grado, consistita nelle parole: "adesso te ne devi andare... stai zitto", rivolte ad un tenente colonnello, accompagnate da un gesto della mano avente il significato di invito a lasciare la stanza dove l'imputato era stato raggiunto dal suo superiore, la Corte ha escluso la configurabilità del reato ritenendo che tale condotta “non costituisce un'offesa arrecata dall’inferiore in grado al patrimonio morale del superiore, bensì un comportamento irriguardoso, certamente rilevante sul piano disciplinare anche per l'uso della seconda persona singolare anziché della terza nella frase pronunciata, innescato dal contrasto insorto tra i due militari sulla concessione di una licenza richiesta dall’imputato e osteggiata dal superiore. Si tratta di una qualificazione nel merito della condotta contestata, che non viola la disposizione di cui all'art. 189 c.p.m.p., comma 2, la quale postula la pronuncia di parole ovvero il compimento di gesti di univoco significato offensivo, univocità che è stata esclusa nel caso di specie con le adeguate argomentazioni esposte nelle conformi sentenze di merito” (sent.

1164 del 9.07.2013; Racc. Gen. 40813/13).

In altro caso la Corte ha rigettato il ricorso del difensore osservando: “La Corte di appello militare ha ritenuto che l'epiteto "scomposta", affibbiato all'azione di comando posta in essere dal superiore, ne offende certamente il prestigio e la reputazione mettendo in dubbio le competenze professionali, con

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particolare riguardo alla espressione secondo cui l'azione di comando del superiore "disturba sterilmente"

l'attività di istituto dell'imputato; ha ritenuto che le parole utilizzate dal ricorrente esulano completamente dal diritto di critica, risolvendosi in un generale e generalizzato giudizio negativo sulle attitudini al comando del superiore. Le argomentazioni svolte, incensurabili nel merito, sono giuridicamente corrette, dovendosi considerare la peculiare oggettività giuridica della fattispecie di insubordinazione prevista dall'art. 189 c.p.m.p., comma 2, la quale tutela non solo la dignità e l'onore del "superiore", ma l'integrità e l'effettività del rapporto gerarchico, che è funzionale al mantenimento della compattezza delle forze armate. Inoltre il particolare rigore cui sono improntati i rapporti nella disciplina militare, conduce a considerare offesa all'onore ed al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore ed anche il tono arrogante, perché contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il superiore deve essere tutelato non solo nell'espressione della sua personalità umana, bensì anche nell'ascendente morale che deve accompagnare l'esercizio dell'autorità del grado e la funzione di comando. (conformi Sez. 1, n. 7957 del 20/12/2006 - dep.

26/02/2007, Frantuma, Rv. 236355; Sez. 1, n. 1172 del 12/07/1989 - dep. 30/01/1990, Pesola, Rv. 183159)”

(sent. 1693 del 28.11.2013; Racc. Gen. 3971/14).

Sugli elementi costitutivi del reato di minaccia e ingiuria ad inferiore, si è affermato che il giudice del merito

“ha correttamente e logicamente evidenziato, in risposta alle opposte doglianze, che i reati di minaccia e ingiuria sono punibili a titolo di dolo generico e, quindi, integrati, nel caso di specie, dalla coscienza e dalla volontà del ricorrente di tenere gesti e di pronunciare parole, contestati nella imputazione e ripresi in motivazione, di chiara attitudine offensiva e intimidatoria in direzione di altro militare di diverso grado; ha sottolineato, richiamando pertinente principio di diritto (Sez. 1, n. 40811 del 27/10/2010, dep. 18/11/2010, Mecoli, Rv. 248411), che non rileva l'assenza di rapporti gerarchici diretti tra autore e vittima dell'illecito, ma la riconducibilità del fatto a un contesto militare, e ha coerentemente rappresentato che il chiarimento intervenuto successivamente tra il ricorrente e la persona offesa non incide sulla perseguibilità del reato ascritto” (sent. 1674 del 27.11.2013; Racc. Gen. 37566/14).

In più sentenze la Corte si è pronunciata sulle condizioni che, ai sensi dell’art. 199 c.p.m.p., comportano l’inapplicabilità delle fattispecie di abuso di autorità e insubordinazione:

- “Ai fini della configurabilità della causa di esclusione del reato prevista dall'art. 199 c.p.m.p., consistente nell'aver commesso il fatto per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, non rileva l'assenza di rapporti gerarchici diretti tra autore e vittima dell'illecito, ma la riconducibilità del fatto a un contesto militare (Sez. 1, n. 40811 del 27/10/2010 - dep. 18/11/2010, Mecoli, Rv. 248441); la condotta deve essere obbiettivamente correlata all'area degli interessi connessi al servizio o alla tutela della disciplina militare (Sez. 1, n. 16413 del 03/03/2005 - dep. 02/05/2005, Andresini, Rv. 231573).

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Nel caso di specie, pare evidente che la condotta non fu commessa "per cause estranee al servizio":

l'imputato, infatti, aveva reagito alla mancata protocollazione di una sua richiesta di accesso agli atti concernenti una vicenda disciplinare che lo riguardava; pertanto la causa della condotta erano vicende concernenti il rapporto di servizio” (sent. 90 del 30.01.2013; Racc. Gen. 11991/13);

- “Secondo la giurisprudenza di legittimità la punibilità dei reati di violenza contro un inferiore, di cui all'art.195 c.p.m.p., e di minaccia ad un inferiore, di cui all'art. 196 c.p.m.p. intanto può essere esclusa ai sensi dell'articolo 199 c.p.m.p. in quanto sia rivolta da un militare appartenente alle forze armate al di fuori dell'attività di servizio attivo e non sia obiettivamente riferibile all'area degli interessi collegati alla tutela della disciplina militare (cfr., in termini, Cass. 1^, 5.5.08 n. 19425, rv.240286).

La motivazione addotta sul punto dalla sentenza impugnata per ritenere sussistenti nella specie i reati di cui agli artt. 195 e 196 c.p.m.p. è pienamente condivisibile per avere essa fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità sopra richiamata.

La sentenza impugnata ha infatti da un lato rilevato, con valutazione incensurabile nella presente sede di legittimità siccome sorretta da motivazione priva di illogicità e di contraddizioni, che, nella specie, la persona offesa, in compagnia di altro militare, stesse effettivamente svolgendo un servizio militare attivo, essendo stato egli impegnato nella redazione di un sommario processo verbale inerente ad una violazione amministrativa commessa dal figlio del ricorrente; dall'altro ha rilevato come il ricorrente, peraltro anche lui militare, aveva pienamente percepito che la persona offesa, al momento del fatto, era un militare in attività di servizio che stava appunto svolgendo un servizio di istituto in compagnia di altro militare e cioè del capo pattuglia brig. […..]. Era pertanto da escludere che il ricorrente avesse procurato al […..] le lesioni accertate in atti ed avesse pronunciato nei suoi confronti le minacce indicate in imputazione per motivi privati o personali, avendo la sentenza impugnata correttamente rilevato come, a prescindere dai motivi di attrito personale, che pur sussistevano da lungo tempo fra il ricorrente e la parte offesa, il comportamento antigiuridico è stato tenuto dal primo durante l'espletamento, da parte del secondo, di un'attività di servizio, si che i fatti erano pienamente riconducibili ad un contesto militare e, come tali, erano da ritenere lesivi dell'interesse perseguito dalle norme violate, consistito nel preservare e tutelare la disciplina militare in ogni sua estrinsecazione” (sent. 1785 del 16.12.2013; Racc.

Gen. 14466/14).

- “La causa di esclusione di cui all'art. 199 c.p.m.p. deve trovare applicazione nei casi in cui il fatto criminoso si ponga al di fuori del servizio militare svolto dal soggetto agente o, comunque, sia collegato in modo del tutto estrinseco all'area di rilevanza degli interessi connessi alla tutela del servizio e della disciplina, si da porsi in relazione di mera occasionalità, e ciò pur quando inerisca al servizio miliare della persona offesa - in tal senso, cfr. Sez. 1, n. 19425 del 5/5/2008 (dep. 15/5/2008), Carofalo, Rv, 240286,

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che si pronunciò in un caso per alcun aspetti simile a quello oggetto del ricorso de quo, trattandosi allora di un ufficiale dell'Esercito che, in abiti civili, proferiva parole ingiuriose nei confronti dei militari della Guardia di Finanza che lo avevano fermato per contestargli alcune infrazioni al codice della strada. Detto principio di diritto non può però essere invocato per la soluzione della questione ora in esame, dal momento che, come precisato in esordio di motivazione dalla sentenza impugnata (fl. 12), l'imputato sin dall'inizio si qualificò come ufficiale della Marina militare con i carabinieri intervenuti sul posto e in tale qualità si relazionò con loro. È quindi corretta l'affermazione del giudice del merito (fl. 16), secondo cui, per una volontaria determinazione dell'imputato, il rapporto con i carabinieri - da lui poi offesi -, che aveva trovato causa in ragioni del tutto estranee al servizio miliare, fu attratto nell'ambito di rilevanza delle relazioni gerarchiche e della disciplina militare” (sent. 84 del 30.01.2013; Racc. Gen. 9393/13).

- “L'articolato discorso motivazionale che sorregge la decisione impugnata si muove in totale sintonia con i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità con riguardo agli artt. 189, 196 e 199 c.p.m.p., laddove la prima ha riconosciuto che la lesione del bene della disciplina militare giustifica il trattamento penale più severo dei reati previsti nel titolo 3^ del libro 2^ del c.p.m.p., sul presupposto di una obiettiva correlazione del fatto all'area degli interessi connessi alla tutela del servizio e della disciplina militare (Corte cost, sent. n. 22 del 1991 e n. 45 del 1992; ord. n. 367 del 2001); e la seconda, in coerenza con i principi affermati dal giudice delle leggi, ha escluso la ricorrenza dei reati previsti dagli artt. 189 e 196 c.p.m.p. in situazioni denotanti l'assenza della predetta correlazione (Sez. 1, n. 41703 del 2002, Rv. 223064; n. 16413 del 2005, Rv. 231573; n. 14353 del 2008, Rv. 240015; n. 19425 del 2008, Rv.

240286; n. 1429 del 2009, Rv. 242481).

La Corte militare di appello, dopo aver richiamato i principi in diritto suindicati, ha dunque legittimamente ritenuto, senza incorrere nella violazione di legge denunciata, che le minacce e le ingiurie pacificamente indirizzate [dall’imputato] a [XY], superiore gerarchico di [XX, figlio dell’imputato], ingiustamente trasferito, secondo il genitore, ad altra sede di servizio, fossero state proferite per cause non estranee alla disciplina militare e, anzi, in aperto contrasto con il provvedimento di trasferimento, comunicato proprio da [XY] all'interessato che, a sua volta, ne aveva immediatamente informato il genitore, subito scatenatosi per telefono contro [XY], ritenendolo responsabile del giudizio negativo espresso nei confronti del giovane [XX] e del conseguente spostamento di quest'ultimo ad altra sede.

Al riguardo va osservato che, nell'applicazione degli artt. 189 e 199 c.p.m.p., devono tenersi distinte la causa e il motivo delle ingiurie e minacce rivolte dal militare imputato al militare di grado superiore: la prima attiene al contesto storico-fattuale in cui si colloca la condotta che consente obiettivamente di rilevare o di escludere, a seconda dei casi, la correlazione esistente tra la disciplina militare e il fatto reato, operando pertanto su un piano oggettivo; mentre il secondo consiste nella spinta psicologica

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all'azione che può essere, in concreto, la più varia e si pone, come tale, su un piano squisitamente soggettivo connesso alle caratteristiche personali di ciascun Individuo.

Nel caso di specie tale distinzione è stata apprezzata dalla Corte militare di appello che ne ha fatto corretta applicazione ritenendo, come si è detto, sussistente la causa di servizio del reato continuato commesso, senza ignorare, contrariamente all'assunto del ricorrente, le altre scriminanti previste dall'art. 199 c.p.m.p., dando atto che [l’imputato] aveva agito fuori dal servizio, e dalla presenza di militari riuniti per servizio, poiché dalla propria privata abitazione aveva telefonato a XY, il quale si trovava invece sulla nave [….] e aveva attivato il sistema di comunicazione in "viva voce", consentendo in tal modo agli altri militari che erano con lui di ascoltare le ingiurie e le minacce rivoltegli [dall’imputato].

In proposito, va precisato che l'esimente di cui all'art. 199 c.p.m.p. non opera e si configura, pertanto, il reato contro la disciplina militare come insubordinazione o abuso di autorità quando manchi anche una sola delle tre condizioni di inapplicabilità previste dalla stessa norma: commissione del fatto per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio, da militare che non si trovi in servizio o a bordo di una nave militare o di un aeromobile militare. E la sentenza impugnata ha legittimamente rilevato che, nel caso esaminato, erano presenti le due ultime condizioni ma non la prima, risultando il fatto commesso proprio in un contesto oppositivo alla disciplina militare, senza la necessità di un rapporto gerarchico diretto tra l'autore del reato e la persona offesa, l'uno e l'altro in servizio presso uffici diversi, essendo solo il figlio dell'imputato gerarchicamente dipendente dal soggetto passivo del fatto (c.f.r., sul tema della relazione gerarchica, Sez. 1, n. 40811 del 2010, Rv.

248441) ” (sent. 97 del 30.01.2013; Racc. Gen. 19970/13).

Il reato militare di insubordinazione con minaccia o ingiuria è punibile pur quando il soggetto agente commetta il fatto fuori dal servizio, ove si qualifichi come militare nei confronti dei superiori persone offese (Sez. 1, n. 14351 del 12/03/2008, dep. 07/04/2008, Spano, Rv. 240014).

La circostanza che, in sede di formale identificazione, [l’imputato] esibì la patente di guida e non il tesserino militare, e che la condotta degli avieri fu inizialmente qualificata dai verbalizzanti ai sensi dell'art. 336 cod. pen., non esclude il fatto storico, emerso dalle testimonianze delle persone offese, ritenute attendibili dai giudici di merito con motivato apprezzamento, che [l’imputato] si fosse già dichiarato "militare" al cospetto dei suoi controllori, manifestando, anche con l'esibizione di tale qualifica, la propria contrarietà al controllo, accompagnata dalle espressioni ingiuriose contestate”

(sent. 1487 del 23.10.2013; Racc. Gen. 48159/13)

La Corte militare di appello, procedendo secondo linee logiche e giuridiche congruenti con la decisione di primo grado, i cui riferimenti in punto di diritto all'orientamento di questa Corte ha apprezzato come opportuni, è, infatti, pervenuta al rilievo conclusivo della esclusione della dedotta estraneità del fatto al

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servizio e alla disciplina rilevando, con congruo richiamo ai dati fattuali, che all'origine della vicenda vi è stata una questione relativa all'utilizzo di un veicolo dell'amministrazione militare, il cui concreto impiego dipendeva dalla persona offesa e la cui disponibilità per problematiche di servizio era stata richiesta dall'imputato, ricorso, dinanzi al rifiuto oppostole, a offesa e minaccia, e ragionevolmente evidenziando l'attinenza non occasionale del tema (utilizzo di un bene dell'amministrazione per questo o quel servizio) all'area degli interessi connessi all'espletamento del servizio militare. Né tale connessione con il servizio è incisa negativamente dal dedotto comportamento non corretto della persona offesa, che, peraltro, non ritenuto provocatorio dal primo Giudice con decisione non oggetto di impugnazione, non esclude all'evidenza l'obiettiva correlazione della condotta ascritta alle funzioni ed al servizio svolti da entrambi i soggetti coinvolti nella vicenda (sent. 1674 del 27.11.2013; Racc. Gen. 37566/14).

In un caso la Corte ha escluso il reato rilevando che “Il carattere "militare" in sostanza seguiva solo al fatto che occasionalmente fu commesso in luogo militare, ma non fu in rapporto di derivazione immediata e diretta con il servizio e la disciplina militare, che ne costituiscono la ragione determinante”

(sent. 1697 del 28.11.2013; Racc. Gen. 3974/14).

Nel cassare la sentenza del GUP che - previa derubricazione dell’originaria imputazione, elevata ai sensi dell'art. 196, commi 1 e 2, c.p.m.p., nei reati di cui agli artt. 226 e 229 c.p.m.p. - aveva pronunciato sentenza di non luogo a procedere per mancanza della condizione di procedibilità della richiesta di procedimento di cui all'art. 260, la Corte ha affermato: “in linea di principio, secondo la giurisprudenza di questa Corte suprema di cassazione, la punibilità dei reati di ingiuria e minaccia ad un inferiore, di cui all'art. 196 commi primo e secondo cod. pen. mil. pace, intanto può essere esclusa, ai sensi dell'art. 199 cod. pen. mil. pace, in quanto sia rivolta da un militare appartenente alle forze armate al di fuori dell'attività di servizio attivo «e non sia obiettivamente correlata all'area degli interessi connessi alla tutela della disciplina» militare (cfr., in termini, Cass. 1A, 5.5.08 n. 19425, rv.240286). Orbene, il giudice a quo è incorso in errore di diritto, laddove ha reputato che sussistesse la clausola di esclusione per l'applicazione dell'art. 196 cod. pen. mil. pace, prevista dalla citata disposizione di cui all'art. 199 cod.

pen. mil. pace, in quanto non ha tenuto conto dell'accertato contesto della vicenda. Per vero, nella specie, l'imputato era un militare in servizio presso il [….]; le persone offese erano militari, in atto impegnati nello svolgimento di un servizio militare attivo, in quanto, al momento dei fatti, espletavano in divisa il servizio di controllo del territorio all'ingresso dell'edificio del Tribunale ordinario di […..]; e di tanto era ben consapevole il caporal maggiore […..], odierno ricorrente. Sicché, ai sensi del combinato disposto dell'art. 8, comma 1, del D.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, recante Approvazione del regolamento di disciplina militare, e del richiamato art. 5 della legge 11 luglio 1978, n. 382, recante Norme di principio sulla disciplina militare, il caporal maggiore […..] era soggetto alla disciplina in parola, ricorrendo per l'appunto la ipotesi, contemplata (disgiuntamente) dalla seconda previsione della lettera d) del comma terzo dell'articolo 5, cit, e cioè, il caso del militare il quale «si rivolg[e] ad altri militari in divisa». Reputa,

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pertanto, la Corte di non doversi uniformare, in considerazione della ridetta, puntuale previsione normativa, all'indirizzo che, ai fini della applicazione dei Capi III e IV del Titolo III del Libro II del Codice penale militare di pace, richiede il concorso della ulteriore condizione della correlazione tra la azione delittuosa e l'espletamento di «compiti di servizio» da parte del soggetto attivo del reato (v. da ultimo:

Sez. 1, n. 8495 del 28/09/2012, P.G. Mil. vs Pozzani, Rv. 254923), trattandosi di condizione che è, invece, richiesta (soltanto) dalla prima previsione (alternativamente contemplata) della medesima lettera d) del comma terzo dell'articolo 5, cit. (sent. 1786 del 16.12.2013 ; Racc. Gen. 22361/14).

m) Peculato militare

Quanto al reato di peculato militare, la Corte, anche in termini ricognitivi, ha affermato: “Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di peculato, la nozione di possesso di denaro deve intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del denaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione (V. Sez. 6 sentenza n.6753 del 4.6.1997, Rv.211008).

E stato anche precisato, in tema di reati militari, che il delitto di peculato (art. 215 cod. pen. mil. pace) presuppone che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, nel momento in cui pone in essere la condotta appropriativa, abbia già, in via esclusiva o congiuntamente ad altri, un potere materiale (possesso) o giuridico (disponibilità) sulla cosa mobile altrui, e, inoltre, che gli artifici e i raggiri o le falsità servano ad occultarlo. La truffa (art. 234 cod. pen. mil. pace), al contrario, ricorre quando la condotta fraudolenta sia predisposta al fine di consentire al soggetto agente di entrare in possesso della provvista in vista della successiva condotta appropriativa. Il discrimine tra peculato e truffa (aggravata ai sensi dell'art.

61 n. 9 cod. pen.) deve essere, pertanto, individuato nella strumentalità dei comportamenti fraudolenti rispetto al conseguimento del potere materiale o giuridico sulla cosa mobile altrui, tipica della truffa e incompatibile con il peculato, nel quale gli artifici, i raggiri, le falsità tendono necessariamente ad un risultato ulteriore e diverso (V. Sez. 1 sentenza n.17320 dell'11.4.2006, Rv.234133).Nel caso di specie l'imputato aveva la disponibilità delle somme di cui si è appropriato, avendo agito in concorso con il contabile agli assegni” (sent. 1507 del 24.10.2013; Racc. Gen. 22355/14).

n) Falso in fogli di licenza, di via e simili

Sull’ambito di applicabilità dell’art. 220 c.p.m.p., si è affermato: “Questa Corte ha già riconosciuto la corretta configurazione del reato di cui all'art. 220 c.p.m.p., nel caso di formazione di un falso foglio di viaggio, essendo tale foglio equiparabile al foglio di via, che è espressamente elencato tra i documenti

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contemplati dalla suddetta norma (Sez. 1, 29/10/1986, Castagna, in Rass. Giust. Mil. 1987, 90), ed ha escluso che tale interpretazione determini l'applicazione analogica della norma penale stante la non tassatività della tipologia degli atti falsificabili, desumibile dalla stessa rubrica dell'art. 220 cit., intitolata

"falso in fogli di licenza, di via e simili" (Sez. 1, n. 14524 del 08/02/2012, dep. 17/04/2012, Di Castro, Rv.

252228, in tema di alterazione da parte del militare dei fogli di marcia del veicolo da lui condotto al fine di appropriarsi il carburante)” (sent. 87 del 30.01.2013; Racc. Gen. 19968/13).

o) Diffamazione

Si è stabilito che, anche nel caso in cui non sia stata contestata all'imputato l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati, nel valutare la sussistenza del reato di diffamazione (art.227 c.p.m.p), assume rilievo la questione attinente alla veridicità o meno dei fatti narrati e tale rilevanza “riguarda sia la valutazione del rispetto del criterio di continenza, dovendosi riconoscere anche ai militari […] il diritto costituzionale di critica che, peraltro, deve essere esercitato secondo i limiti generali elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, sia - nel caso il giudice ritenesse non rispettato il limite della continenza - la valutazione complessiva della responsabilità dell'imputato e, quindi, della determinazione della pena: ad esempio, potrebbe non risultare più aderente al fatto e alla personalità dell'imputato la valutazione sull'intensità del dolo operata dalla Corte per negare la prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti ritenute” (sent. 94 del 30.01.2013; Racc. Gen. 22051/13).

p) Furto militare e furto militare d’uso

Nell’escludere la configurabilità del reato di furto militare d’uso (prospettato dal ricorrente) anziché di quello di furto militare (ritenuto dal giudice del merito) si è affermato che “La qualificazione del fatto, operata dal giudice del merito, è corretta e non merita considerazione il rilievo di ricorso circa l'applicabilità della fattispecie di furto d'uso militare, dal momento che la restituzione del bene non fu per nulla volontaria, ma fu conseguenza dell'iniziativa della persona offesa che chiese al ricorrente di poter ispezionare la di lui autovettura, evidentemente per il sospetto che questi potesse essere l'autore del furto. È principio giurisprudenziale pacifico che "per la configurabilità del furto d'uso occorrono due elementi essenziali: il primo caratterizzato dal fine esclusivo di fare uso momentaneo della res sottratta; l'altro, dal carattere oggettivo, concernente la restituzione che, dopo l'uso, deve essere effettuata. Tale restituzione deve essere volontaria, e ciò deve presentarsi come libera attuazione dell'iniziale intenzione di restituire. Tutte le cause, pertanto, che determinano una coazione alla restituzione, rendono applicabile il titolo comune di furto, e così pure tutte le cause, anche indipendenti dalla volontà del colpevole, che impediscono la restituzione" - Sez. 2, n. 9090 del 7/3/1989 (dep. 22/6/1990), Nicosia, Rv. 184695 -. La restituzione volontaria, nel caso in esame, non vi fu, e quindi bene ha operato il giudice del merito nella qualificazione del fatto” (sent. 99 del 30.01.2013; Racc. Gen. 9395/13).

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q) Truffa

Quanto all’elemento psicologico del reato di truffa, si è precisato che “l'intenzionalità presuppone una chiara percezione, da parte dell'agente, della arbitrarietà della richiesta di attribuzione economica” (sent.

2587 del 9.07.2013; Racc. Gen. 43497/13).

Nell’annullare una sentenza di non luogo a procedere, la Corte ha altresì affermato che, profilandosi “tutta da verificare” l’ipotesi “che l'imputato non fosse gravato da alcun obbligo nei confronti dell'Amministrazione che per ben sei anni gli corrispose un'indennità pacificamente non dovuta”, si imponesse “un serio confronto con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui configura artifizio o raggiro il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere di farle conoscere, indipendentemente dal fatto che dette circostanze possano essere conosciute dalla controparte con ordinaria diligenza” (sent. 358 del 30.01.2013; Racc. Gen. 6854/13).

Nel rigettare il ricorso del P.M. avverso una sentenza di assoluzione, la Corte ha affermato che “sia il mancato adempimento dell'impegno ad inviare certificazione medica, che l'asserita allegazione di uno stato patologico non conclamato non configurano di per sé artifici o raggiri, poiché non hanno attitudine a metter in scena una realtà diversa dal reale che al più è rappresentata, ma non accreditata per farla passare come vera, e dunque non attentano alla libera determinazione del soggetto a cui la rappresentazione è diretta.

Non è dato quindi ravvisare i presupposti del reato contro il patrimonio che è stato ipotizzato” (sent. 89 del 30.01.2013; Racc. Gen. 6833/13).

In un caso in cui la pubblica accusa prospettava il reato di truffa sulla base di annotazioni orarie non veritiere di attività di servizio, la Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la sentenza assolutoria osservando: “In particolare, la configurazione in termini colposi e, quindi, penalmente irrilevanti delle annotazioni orarie non veritiere è stata plausibilmente fondata dalla Corte di merito su plurimi elementi, sia di natura oggettiva sia di natura soggettiva, già sopra ricordati e qui sinteticamente richiamati.

Sul piano oggettivo è stato rilevato: l'esiguità delle presunte falsificazioni, solo otto ritenute provate nell'ambito dei quasi due anni esaminati, in relazione al notevole numero di voli privati (circa cento) effettuati dell'imputato; i contenuti delle medesime falsificazioni, risultando le sovrapposizioni tra attività privata e orario di servizio frammentarie e, in alcuni casi, limitate a brevi lassi temporali (come quelle del 7/06/2007, 17/09/2007 e 25/07/2008), come tali sintomatiche dell'inesistenza di un disegno criminoso unitario deliberatamente concepito; le modalità di compilazione dei fogli di presenza, differite rispetto ai giorni di effettivo svolgimento del servizio, con aumento delle probabilità di errori per dimenticanza o negligenza nelle relative annotazioni; l'accertamento di errori di segno opposto e, certamente, non

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vantaggiosi per l'imputato, nell'indicazione delle ore di lavoro prestato in misura inferiore a quelle del servizio effettivamente svolto nei giorni di riferimento.

Sul piano soggettivo, sempre ragionevolmente, sono stati valorizzati: il comportamento professionale [dell’imputato] costantemente ispirato a dedizione professionale e disponibilità al lavoro anche oltre l'orario quotidianamente previsto; la sua scelta di parziale commutazione di quindici giorni sui trenta di congedo per malattia riconosciutigli in conseguenza di un incidente stradale in altrettanti giorni di licenza ordinaria per ferie; la mancata rivendicazione dei pur non irrisori crediti accumulati nei confronti dell’Amministrazione per lavoro straordinario prestato e non retribuito” (sent. 1707 del 3.12.2013; Racc. Gen. 12920/14).

r) Art. 3 L. 9 dicembre 1941, n. 1383

La Corte ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 3 L. 1383/41 in una fattispecie in cui era contestata la “mera detenzione di gasolio ottenuto da miscelazioni, non autorizzate, di carburante destinato all'autotrazione con carburante funzionale ad altri usi” (sent. 86 del 30.01.2013; Racc. Gen. 19967/13).

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Diritto processuale

a) Organi giudiziari militari

Nel dichiarare manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale della normativa in materia di composizione degli organi giudiziari militari, la Corte ha affermato: “la L. 7 maggio 1981, n. 180, artt. 2 e 3 che dettano la composizione dei tribunali militari e della corte militare d'appello manifestamente non si pongono in contrasto, con riguardo alla presenza, in detti organi, di militari aventi grado di ufficiale, con gli artt. 3 e 24 Cost., art. 101 Cost., comma 2, art. 106 Cost., comma 1, art. 108 Cost., comma 2, atteso che: quanto agli artt. 3 e 24, la loro ipotizzata violazione per la mancanza di un preventivo avviso ai difensori nella fase di formazione di ciascuno di detti organi appare insussistente, trovando la detta mancanza ragionevole giustificazione essenzialmente nel fatto che gli organi in questione, a differenza delle corti d'assise e di assise d'appello, non sono costituiti in vista di una sessione determinata; quanto alle altre richiamate disposizioni costituzionali, poste in vario modo a presidio dell'indipendenza dei giudici, la loro violazione, ipotizzata a cagione del rapporto di dipendenza esistente tra gli ufficiali investiti della funzione giudicante e l'Amministrazione militare, appare parimenti insussistente, dal momento che il detto rapporto non si differenzia, sostanzialmente, da quello che lega anche i magistrati ordinari all'Amministrazione dello Stato ed ai detti ufficiali sono, inoltre, applicabili, durante lo svolgimento delle loro funzioni, le disposizioni di legge in vigore per i magistrati ordinari" (Sez. 1, n. 461 del 06/11/2000, dep. 19/01/2001, Perrucci, Rv.

217818; conformi: n. 7523 del 1983 Rv. 160249 e n. 7523 del 1983 Rv. 160250)“ (sent. 1166 del 9.07.2013;

Racc. Gen. Corte Cass. n. 40814/13).

Nel respingere un’eccezione di nullità fondata sull’asserita violazione della normativa in materia di individuazione del magistrato militare assegnatario delle funzioni di GUP, la Corte ha così argomentato: ”È consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio che le disposizioni relative all'assegnazione di processi a sezioni, collegi e giudici di un medesimo ufficio giudiziario non si considerano attinenti alla capacità del giudice, a norma dell'art. 33, comma 2, cod. proc. pen., e la loro eventuale violazione non dà luogo alla nullità prevista dall'art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. (tra le altre, Sez. 2, n. 27948 del 18/06/2008, dep. 08/07/2008, Impala, Rv. 240697; Sez. 2, n. 6505 del 14/01/2011, dep. 22/02/2011, Puzio, Rv. 249450), poiché l'assegnazione dei processi in violazione delle tabelle di organizzazione dell'ufficio costituisce solo una irregolarità amministrativa (tra le altre, Sez. 2, n. 17510 del 17/03/2004, dep.

15/04/2004 Carrabs, Rv. 229702; Sez. 3, n. 4841 del 18/07/2012, dep. 1/01/2013, Mocanu Sticlaru e altri,

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Rv. 254406), salvo che non si determini uno stravolgimento dei principi e dei canoni essenziali dell'ordinamento giudiziario per la violazione di norme, quali quelle riguardanti la titolarità del potere di assegnazione degli affari in capo ai dirigenti degli uffici e l'obbligo di motivazione dei provvedimenti (tra le altre, Sez. 6, n. 46244 del 15/11/2012, dep. 27/11/2012, P.G., Filippi e altri, Rv. 254284; Sez. F, n. 35729 del Ol/OS/^^dep. 29/08/2013, Agrama e altri, Rv. 256570).

La Corte di merito, che ha osservato che l'ufficio del Giudice dell'udienza preliminare è un'articolazione del Tribunale, e non un ufficio a sé stante, ha rimarcato l'irrilevanza - ai fini della validità dell'atto - dell'assegnazione del magistrato alla sezione, in risposta alla eccezione del ricorrente, tra le altre prospettate con l'atto di appello come ragioni di nullità del procedimento e della sentenza di primo grado, in ordine allo svolgimento dell'udienza e alla pronuncia della sentenza da parte del dott.

[…]

, giudice del Tribunale militare di Napoli e non titolare dell'ufficio del giudice dell'udienza preliminare.

Tale apprezzamento, concorde con i condivisi principi di diritto ed espresso, in coerenza con la doglianza difensiva, con motivazione completa e non manifestamente illogica, resiste alle deduzioni del ricorrente, che, mentre oppone in termini generici l'inesistenza e la contraddittorietà della motivazione, si limita a contestare un'affermata violazione tabellare senza specificamente dedurre profili di arbitrarietà della destinazione del magistrato giudicante, non sorretta da uno specifico provvedimento di assegnazione del presidente, titolare del relativo potere e dunque legittimato a disporre la modifica tabellare” (sent. 1674 del 27.11.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n. 37566/14).

b) Competenza e giurisdizione

Nel respingere, perché fuori termine, un’eccezione di incompetenza del giudice militare fondata sulla connessione del reato militare con un reato comune più grave, oggetto di procedimento presso l’A.G.

ordinaria, la Corte ha precisato: ”Nel caso in esame non ricorre un' ipotesi di difetto di giurisdizione rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell'art. 20 c.p.p., posto che il reato di abbandono di posto giudicato dal Tribunale militare è oggettivamente un reato previsto dal c.p.m.p.. L'eccezione proposta rientra invece nell'ambito delle questioni attinenti alla competenza per connessione specificamente prevista dall'art. 13 c.p.p., comma 2, alla quale è applicabile la disciplina generale sulla rilevabilità della incompetenza prevista dall'art. 21 c.p.p., comma 3, secondo cui l'incompetenza per connessione è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro i termini previsti dal precedente comma 2, vale a dire prima della conclusione dell'udienza preliminare. Nel caso in esame è pacifico che l'eccezione di incompetenza per connessione del giudice militare non è stata formulata nel corso dell'udienza preliminare ma soltanto nel giudizio di primo grado, con conseguente preclusione per intervenuta decadenza” (sent. 1698 del 28.11.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n. 3975/14).

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c) Questioni sul rapporto processuale, sulle parti e sulla loro regolare costituzione

In relazione agli avvisi conseguenti a rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore, si è stabilito: “Questa Corte ha più volte condivisibilmente affermato che il difensore, che abbia ottenuto la sospensione o il rinvio della udienza per legittimo impedimento a comparire, ha diritto all'avviso della nuova udienza solo quando non ne sia stabilita la data già nella ordinanza di rinvio, posto che, nel caso contrario, l'avviso è validamente recepito, nella forma orale, dal difensore previamente designato in sostituzione, ai sensi dell'art. 97, comma 4, cod. proc. pen., il quale esercita i diritti e assume i doveri del difensore sostituito e nessuna comunicazione è dovuta a quest'ultimo (Sez. U, n. 8285 del 28/02/2006, dep. 09/03/2006, Grassia, Rv. 232906; e, tra le successive, Sez. 6, n. 19831 del 20/03/2009, dep. 09/05/2009, Bartolucci, Rv.

243855; Sez. 5, n. 28818 del 11/05/2010, dep. 08/07/2010, Terlizzi, Rv. 247897), a nulla rilevando che il giudice abbia comunque disposto la comunicazione della data della nuova udienza (Sez. 5, n 36643 del 04/06/2008, dep. 24/09/2008, Sorrentino, Rv. 241721; Sez. 5, n. 20863 del 24/02/2011, dep. 25/05/2011, Sechi, Rv. 250451)” (sent. 1167 del 9.07.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n. 15598/14).

d) Azione penale

Sui rapporti tra azione penale ed azione disciplinare è stato affermato: “Il D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, art.

1362, comma 7 prevede che con tale sanzione disciplinare possono essere puniti i fatti previsti come reato e sottoposti alla particolare condizione di procedibilità di cui all'art. 260 c.p.m.p. lì dove il comandante di corpo non ritenga di chiedere il procedimento penale.

Da ciò deriva che lì dove la fattispecie di reato non preveda una sanzione superiore a sei mesi è effettivamente facoltà del comandante di corpo non promuovere il procedimento penale e consumare il potere punitivo attraverso la sanzione in parola. Tuttavia, da ciò non discende la conseguenza, invocata dal ricorrente, per cui l'avvenuta applicazione della sanzione disciplinare della consegna di rigore (peraltro per una fattispecie non sottoposta alla applicazione dell'art. 260 c.p.m.p., essendo punita con la reclusione fino a un anno) escluda la punibilità in sede penale per il medesimo fatto.

Ben può, infatti, un soggetto sottoposto alle particolari regole dell'ordinamento militare essere punito sul piano disciplinare e su quello penale in rapporto alla medesima condotta, non rinvenendosi nel sistema un principio generale di alternatività tra le due sanzioni, al di là del caso espressamente considerato dall'art.

1362, comma 7 rapportato, a ben vedere, ad una legittima scelta del comandante di corpo di non promuovere l'azione penale. La questione è stata affrontata anche in sede di giudizio di costituzionalità, con la decisione n. 406 del 31.7.2000 Corte Cost.. In tale decisione, sia pure in via incidentale, la Corte Costituzionale ha in sostanza escluso che l'applicazione della consegna di rigore possa ritenersi caratterizzata da quelle componenti di afflittività tipiche della sanzione penale, il che porta ad escludere il

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dubbio di costituzionalità in rapporto ad una duplice conseguenza negativa rapportata al medesimo fatto.

Da ciò, pertanto, deriva il rigetto del primo motivo addotto” (sent. 1169 del 9.7.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n. 43467/13).

e) Decreto di archiviazione

Sulle modalità di presentazione dell’opposizione alla richiesta di decreto di archiviazione è stato precisato:

”L'opposizione alla richiesta di archiviazione non ha il contenuto di un atto di impugnazione, non essendo diretta alla richiesta di riesame di un provvedimento giurisdizionale; pertanto ad essa non è applicabile l'art.

583 cod. proc. pen. che consente la spedizione dell'atto di impugnazione a mezzo raccomandata, con individuazione della data di proposizione dell'impugnazione in quella di spedizione della raccomandata.

L'atto di opposizione previsto dall'art. 410 cod. proc. pen. costituisce espressione specifica della generale facoltà delle parti di presentare richieste al giudice stabilita dall'art. 121 c.p.p., comma 1, con la previsione che le richieste debbano essere presentate "mediante deposito nella cancelleria", (conforme Sez. 5, n. 1623 del 12/04/1999, Magi, Rv. 213807). Poiché, nel caso in esame, tale procedura non è stata seguita e l'atto di opposizione irritualmente spedito a mezzo posta è pervenuto alla cancelleria del Giudice delle indagini preliminari dopo l'emissione del decreto di archiviazione, non si è verifica alcuna nullità suscettibile di denuncia con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 409 c.p.p., comma 6” (sent. 1594 del 23.04.2013; Racc.

Gen. Corte Cass. n.28477/13).

f) Elementi probatori (natura, formazione, utilizzabilità, valutazione)

A proposito della testimonianza si è stabilito: “Non v'è poi alcuna contraddizione o logica incoerenza nel ritenere, alla luce di un complessivo esame delle dichiarazioni rese da uno stesso testimone e delle quali possa apprezzarsi la sostanziale continuità e uniformità, che quelle rese in prossimità all'evento narrato siano fisiologicamente più precise, per l'evidente maggiore nitidezza dei ricordi, senza che ciò implichi un giudizio di inaffidabilità delle successive, magari rese nella fase dibattimentale, e caratterizzate da qualche incertezza. Si può anzi osservare che imprecisioni e incapacità di riferire i dettagli di una vicenda ad una consistente distanza temporale dai fatti di riferimento, dopo che nella fase delle indagini quello stesso soggetto descrisse anche i particolari della vicenda di rilievo, siano il segno della genuinità della sua deposizione testimoniale, il cui valore probatorio resta integro, sempre che ovviamente sia ribadito e confermato il nucleo centrale del racconto. Una volta che sia definito il materiale informativo utilizzabile come prova all'esito del giudizio, anche le dichiarazioni predibattimentali, ivi eventualmente comprese, concorrono legittimamente alla formazione del convincimento giudiziale e di esse può quindi valutarsi, nella comparazione con quelle rese in dibattimento da uno stesso soggetto, la maggiore precisione nella descrizione anche di dettaglio” (sent. 100 del 30.01.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n. 9396/13).

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Quanto alle dichiarazioni spontanee rese in dibattimento dall’imputato, si è precisato: “le dichiarazioni spontanee, che l'imputato ha facoltà di rendere in ogni stato del dibattimento ai sensi dell'art. 494 cod.

proc. pen., in via personale e a condizione che siano pertinenti all'oggetto della imputazione e non intralcino l'istruttoria dibattimentale (Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, dep. 29/08/2013, Agrama e altri, Rv. 256575), possono avere vario contenuto, quale fornire elementi per negare gli addebiti mossi dall'accusa, contenere ammissioni o confessioni o avere contenuto accusatorio nei confronti dei coimputati (Sez. 5, n. 4384 del 08/01/1999, dep. 08/04/1999, Pesenti, Rv. 213105); sono rimesse, per il principio dispositivo che regola il processo penale, al potere discrezionale e allo ius dicendi e postulandi dell'imputato nella piena libertà di autodifesa (Sez. 5, n. 4384 del 08/01/1999, dep. 08/04/1999, Pesenti, Rv. 213105); valgono, quando hanno contenuto accusatorio nei confronti dei coimputati, quali vere e proprie chiamate in correità, da valutarsi dal giudice del merito come elementi di prova a carico dei chiamati ai sensi dell'art. 192, comma 3, cod.

proc. pen. (Sez. 5, n. 10041 del 13/06/1998, dep. 22/09/1998, Altissimo, Rv. 211392); non sono idonee, ove rese da più imputati che si sono avvalsi della facoltà di non sottoporsi ad esame nel contraddittorio fra le parti, per quanto convergenti tra loro, a svalutare l'efficacia probatoria di una chiamata in correità, resa da altro imputato, purché sorretta da ampi e pregnanti riscontri (Sez.l, n. 25239 del 20/5/2011, dep.

21/06/2011, Milici S., Rv. 219432), e non possono essere equiparate a dichiarazioni rese in sede di esame (Sez. 6, n. 13682 del 27/11/1998, dep. 28/12/1998, Craxi e altri, Rv. 212088), né a nuove prove che possano giustificare l'interruzione della discussione (Sez. 1, n. 1708 del 23/11/1993, dep. 10/02/1994, Morgante, Rv.

196401)” (sent. 1692 del 28.11.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n.41087/14).

La Corte ha anche ribadito che “è prova decisiva, la cui mancata assunzione è deducibile come motivo di ricorso per cassazione, solo quella prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 3, n. 27581 del 15/06/2010 - dep. 15/07/2010, M., Rv. 248105)” (sent. 85 del 30.01.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n. 11990/13).

A proposito degli atti d’indagine di cui sia stato omesso il deposito unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, si è affermato: “Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il mancato deposito, unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, di parte della documentazione relativa alle indagini espletate non è causa di nullità della richiesta stessa, ma comporta soltanto l'inutilizzabilità degli atti non trasmessi (Sez. 4, n. 47497 del 19/11/2008, dep. 22/12/2008, Giangrasso, Rv. 242762; conformi: n. 4108 del 1996 Rv.

204434, n. 4707 del 1999 Rv. 213025, n. 18362 del 2002 Rv. 221444, n. 33067 del 2003 Rv. 226651, n.

21376 del 2004 Rv. 228990).

Discende, nel caso in esame, che il preteso tardivo deposito delle relazioni di servizio, peraltro neppure specificate per data e contenuto, non è sanzionato dalla nullità di tutti gli atti successivi all'avviso previsto dall'art. 415/b/s cod. proc. pen., ma solo dalla inutilizzabilità di quelle relazioni; ma la lettura delle sentenze di merito rivela che la dichiarata responsabilità dell’[imputato] non si fonda sul contenuto di quegli atti

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tardivamente depositati, bensì sulle testimonianze delle persone offese, i carabinieri [………], legittimamente acquisite in dibattimento nel contraddittorio delle parti, con la conseguenza che la denunciata inutilizzabilità è rimasta priva di alcuna incidenza sull'impianto probatorio a sostegno della pronunciata condanna” (sent. 1487 del 23.10.2013; Racc. Gen. Corte Cass. n. 48159/13).

In un caso in cui è stata affermata l’inutilizzabilità degli esiti di investigazioni difensive per vizi nella verbalizzazione degli avvertimenti cui è tenuto il difensore, la Corte ha così argomentato: “Si rileva in diritto che, in sede di investigazioni difensive, il difensore o il sostituto, che, a norma dell'art. 391-bis, comma 2, cod. proc. pen., possono chiedere alle «persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell'attività investigativa», come indicate nel comma 1, una dichiarazione scritta ovvero di rendere dichiarazioni da documentare secondo le modalità previste dall'art. 391-ter cod. proc. pen., «in ogni caso ... avvertono» le stesse persone, a norma dell'art. 391-bis, comma 3, cod. proc. pen., «a) della propria qualità e dello scopo del colloquio; b) se intendono semplicemente conferire ovvero ricevere dichiarazioni o assumere informazioni indicando, in tal caso, le modalità e la forma di documentazione; e) dell'obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o imputate nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato; d) della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione; e) del divieto di rivelare le domande eventualmente formulate dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date; f) delle responsabilità penali conseguenti alla falsa dichiarazione», e riportano, tra le altre indicazioni, l'attestazione di avere rivolto gli avvertimenti previsti da detta norma nella relazione, cui deve allegarsi la predetta dichiarazione scritta, da redigersi dal difensore o dal suo sostituto secondo quanto disposto dal richiamato art. 391-rercod. proc. pen.

Il sesto comma dello stesso art. 391-bis cod. proc. pen. dispone, nella prima parte, che «le dichiarazioni ricevute e le informazioni assunte in violazione di una delle disposizioni di cui ai commi precedenti (e quindi anche delle disposizioni di cui al secondo e al terzo comma) non possono essere utilizzate" e aggiunge, nella seconda parte, che «la violazione di tali disposizioni costituisce illecito disciplinare ed è comunicata dal giudice che procede all'organo titolare del potere disciplinare».

Questa Corte, in coerente lettura di tali disposizioni normative, ha più volte affermato che, in tema di dichiarazioni e informazioni raccolte dal difensore in sede di investigazioni difensive, gli avvertimenti che il difensore deve rivolgere al soggetto dichiarante, ai sensi dell'art. 391-bis, comma 3, cod. proc. pen. a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni, devono essere specificamente verbalizzati, mentre non può essere ritenuta sufficiente la semplice attestazione in merito effettuata dal difensore ex art. 391-ter, comma 1, lett.

e), cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 2017 del 15/07/2003, dep. 22/01/2004, Laghezza, Rv. 227390; Sez. F, n. 34554 del 25/07/2003, dep. 20/08/2003, Jovanovic, Rv. 228394).

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