Maria Luisa Amendola
VIAGGIARE ALLARGA LA VITA
Storie e suggestioni che non troverete in una guida
ARMANDO EDITORE
Sommario
Castelli di sabbia 9
Ottobre 1988
Anche i Faraoni non sono più quelli di una volta 20
Novembre 1990
Los Roques, le isole dei pirati 33
Febbraio 2003
Il senso del tempo lungo il Volga e la Neva 41
Luglio 2003
Lungo l’Elba, alla ricerca di Lutero 51
Agosto 2004
La fetta degli angeli 62
Agosto 2006
In Israele 71
Settembre 2007
Le Meteore, un bosco pietroso 83
Luglio 2008
Dai vicoli di Chartres a Omaha beach 88
Maggio 2011
Mantua me genuit… un mese prima del terremoto 95
Aprile 2012
Tornare a Berlino 101
Settembre 2012
L’aria di Barcellona 108
Novembre 2013
Dal Barocco di Noto al “Chilometro più bello 115
d’Italia”
Maggio 2014
Perdersi Tra Oriente e Occidente lungo il Dniepr 121
Luglio 2014
Con il postale tra fiordi e isole 131
Luglio 2015
Fantasmi a Istanbul 139
Novembre 2015
Longitudine Cuba 149
Febbraio 2016
Quando torniamo da un viaggio siamo una persona nuova, che ha avuto una ri-creazione.
Jack Kerouac Vivere in una sola terra è prigionia.
John Donne
Castelli di sabbia
“La ragione di un viaggio dovrebbe essere quella di mi- surare i limiti della propria conoscenza” ha detto il viaggia- tore, scrittore, premio Nobel, Le Clézio. Allora dobbiamo viaggiare tutti un po’ di più, avevo pensato. Si viaggia per nascere, travel travaglio, si affronta il travail, il lavoro, per entrare nella vita. Anche le parole fanno viaggi da paesi lontani, vengono da miti o da semplici suoni imitativi, per capirle, per carpire il segreto della loro origine, bisogna viaggiare con loro.
A Marrakech arrivammo che era quasi finito ottobre. In Italia pioveva da giorni. Qui, in un cielo fiammeggiante si stagliavano le nevi dell’Atlante, bianche, alte, vicine. Sem- brava impossibile d’essere in Africa. Subito dopo Bab el Khe- mis, (la porta del giovedì) – quel giorno si teneva il mercato degli asini – ci accolsero nella Medina i carretti carichi di aranci e di donne che venivano giù dall’Atlante, completa- mente vestite di nero, per vendere le loro mercanzie. L’aria era tiepida, ovunque auto, moto, asini e pedoni, la strada si restringeva verso il nostro albergo. Dal finestrino dell’auto, stretti tra i vicoli, potevamo sfiorare con le mani, i muri delle case di un rosa-rosso così speciale da far pensare a una magia. Narra una leggenda araba che un tempo il mondo
era coperto di giardini lussureggianti, palmeti ombrosi e ruscelli d’acqua fresca. Gli uomini nuotavano in grandi la- ghi (così come raccontano le pitture rupestri disseminate in tutto il Maghreb). Un paradiso in Terra nel quale gli uo- mini vivevano felicemente. Ma questo “Eden” non doveva durare. Gli uomini cominciarono a litigare e a dirsi bugie, per punirli Allah prese a gettare un granello di sabbia per ogni menzogna. Fu così che si formò il deserto di sabbia del Sahara, un solo luogo rimase verde e fiorito come un tem- po, ed è lì che è nata Marrakech. Trovai sul comodino del nostro magnifico albergo, uno splendido Corano in france- se, rimasi tutta la notte con Allah e i suoi tremila nomi, era quasi l’alba quando finalmente chiusi gli occhi, m’ero con- vinta che l’Occidente non deve guardare all’Islam come ad un nemico: si dovranno costruire ponti non confini. In Ita- lia, comunque, per fortuna, non avevamo avuto ancora veri attacchi islamici. Quando la sveglia per la colazione suonò stavo passando l’intonaco arrampicata nel vuoto, sull’arco del ponte che superava il fiume dopo la Valle del Dadès, la valle delle rose, che avremmo incontrato quattro giorni più tardi. Quando si dice: I sogni! Era il 1985, ancora non c’erano state le torri gemelle.
Al viaggio a Marrakech, latitudine 31°38’ 04’’, Nord, longitudine 7°59’ 99’’West, m’aveva idealmente spinto il bellissimo libro di Peter Bowles, scrittore americano che vi- veva a Tangeri, “Tè nel deserto”. Avevo letto di montagne imbiancate, di minareti tozzi e squadrati come parallelepi- pedi, tanto diversi da quelli snelli e appuntiti che avevo visto in Egitto, m’ero immaginata che anche la Koutoubía, che, dovunque andiamo ci segue qui con la sua ombra per se- gnalare la funzione di veicolo da Dio al cuore degli uomini,
fosse così. La grande torre, infatti, ci aveva accompagnato quel giorno fino a piazza Jemaa el Fna. Per i più piazza Jemaa el Fna, una piazza brutta, anche se piena di atmosfe- ra, è proprio il simbolo della città, forse è il suo nome che significa “Adunanza dei morti” perché qui venivano espo- ste le teste tagliate, o forse ci piace perché racchiusa in lei ci sono le nostre fantasie quando c’immaginiamo un certo tipo d’oriente. Turisti e viaggiatori sono soliti andarci di po- meriggio quando già le prime bancarelle si sono sistemate tutte intorno alla piazza con le loro spremute d’arancio e poi, torno, torno, le altre, quelle con le spezie, le erbe medi- cinali, i cesti di paglia, le magliette, e poi arrivavano i lustra- scarpe con il loro ombrello aperto per ripararsi dal sole, e i cavadenti con il banchetto giallo di molari e incisivi appena strappati, e i venditori d’acqua con i loro orci, e sempre più nel centro, i ballerini, i cantastorie, gli stregoni che fanno diventare fertili le donne, gli scrivani che non solo scrivo- no per gli analfabeti, ma scrivono perfino lettere d’amore per gli innamorati, come faceva settimanalmente Cyrano per la sua Rossana, e da ultimo gl’incantatori di serpenti.
Ci arrivammo quando il sole cominciava a calare, l’ombra della Koutoubía si disegnava sulla piazza e sugli uomini.
Ci sedemmo, come gli altri, al tavolino di un bar, che dalla terrazza al primo piano di una casa cadente dominava la scena. Sembrava una celebrazione. Tutti i piccoli bar intor- no erano ormai pieni di viaggiatori e vagabondi con il loro bravo tè alla menta, – un mazzo di menta nel bicchiere e tè bollente molto zuccherato – e mentre scendevano le prime ombre della sera, s’accendevano in piazza i fuochi dei ven- ditori di cibo, s’arrostivano le collane di salsicce e accanto a una ballerina in tutù che si esibiva in solitario, un uomo rigirava con il mestolo un pentolone di harira fumante,
una zuppa di carne pomodori e verdura. Insieme all’aroma delle spezie, aglio, coriandolo e pepe, salivano fino a noi i pensieri di quelli sulla piazza, si dilatavano sotto forma di brusio, di calpestio, di grida e di calore. Ognuno di noi,
“viaggiatori per caso”, diventava insieme scrivano e cuoco e indovino. Avevo voglia di farmi leggere la mano e ero scesa in mezzo alla calca, già l’indovina con il suo caffetano nero e giallo aveva preso la mia mano, già la carezzava, già mi stava dicendo qualcosa in francese, quando, terrorizza- ta, m’ero accorta di un serpente che, fregandosene della musica e del flauto del suo incantatore, s’era lasciato scivo- lare a terra e s’avvicinava ai miei piedi. È stato per questo che non ho mai saputo quando morirò, se sarò amata come lo sono stata fino ad oggi, se avrò una vita felice, Ho dovuto capirlo dalla vita stessa, senza l’aiuto dell’indovina.
E il giorno dopo già andavamo verso sud est, alle nostre spalle i grandi boschi di palme, splendidi di verde, di fronte a noi la vallata del Tafilalet, valli grandi con le fruscianti palme da dattero, un deserto abitato da greggi di pecore e punteggiato da Ksour, castelli di sabbia, grandi e piccini co- struiti con fango e pisé, spezzoni di tronchi di palma inseriti nelle strutture per dargli qualche tocco di robustezza. Si er- gevano, per lo più abbandonati, e al turista non restava che visitarli, vuoti e solitari, racchiusi dalle loro mura di cinta, fango e pisé che sembravano eterni ed erano fragili. In uno avevamo contato decine di coppie di cicogne bianche con la loro apertura alare di un metro e mezzo che si davano da fare covando a turno i loro piccoli, nei comignoli senza più forma. Da dove erano arrivate? Forse da Gibilterra? Fango che si sbriciolava in un senso d’irrimediabilità dei destini umani, fango color rosa che grattato con un dito provocava
un rivoletto di sabbia. La stessa sabbia del deserto sulle cui al- ture ti eri inerpicato tu, già ammalato, – con quanta fatica –, ben eretto come al solito, la sabbia scivolava giù, sotto le tue assurde scarpe da ginnastica, e sul tuo viso abbronzato si era riposato l’ultimo raggio di sole, mi sarei innamorata di te se fossi stata cieca? Eravamo arrivati alla duna di Erfoud,
“la porta del Sahara”, dove avevo catturato in una foto, le ombre d’oro scuro dei cammelli, e il loro guardiano, e un ragazzino issato su uno degli animali con la galabia bian- ca e un piccolo fazzoletto sulla testa, le redini tra le mani, nel secondo scatto il deserto, solo ombre erano diventati i cammelli dalle gambe magre, e il guardiano intabarrato, un sogno sembravano, ma il ragazzino, vivo, reale, i capelli sfuggiti da quella specie di copricapo, e le gambette con i calzini corti, incitavano il cammello verso il nulla color cot- to. Le ombre in movimento, irrimediabilmente stavano per uscire dalla foto. Qualcuno è riuscito a fotografare soltanto le ombre?
E c’era stata la “festa dei datteri” a Erfoud, e avevamo mangiato datteri dolcissimi, i giovani marocchini avevano ballato al suono di un quartetto di flauti e piccole trombe chiamate n’fir, e noi con loro, e solo la nostra brava guida ci aveva evitato di perderci, sulle prime dune. Le molliche di Pollicino qui non erano state di nessun aiuto. La sabbia aveva coperto perfino i piloni della luce, la sera prima c’era stata una bufera di vento freddo. In questi luoghi gli eventi atmosferici la fanno da padrone. E poi c’era stato il tramon- to sulla duna mentre calava il gelo sulla sabbia bollente e noi ci scaldavamo con il fatidico té alla menta, e a Ait-Ben Haddou, sulla strada carovaniera, avevamo incontrato un bellissimo grande ksour in rovina, solo la porta era intatta,
intorno pecore e capre, e m’era sembrato di sentire nel buio della sera le tazze e le brocche di quelli che erano vissuti lì, pascià e schiavi, e c’era stato un lampo! E tutto quel che re- stava s’era illuminato, s’era accesa una lanterna moresca e avevo sentito un gorgogliare d’acqua, poi tutto era scompar- so. O l’avevo sognato? E c’era stata la notte a Ouarzazate, a 1100 metri sul livello del mare e avevamo visitato il set dei grandi film: dal Gioiello del Nilo ai Dieci Comandamenti, e già gli ksar (Ksar è plurale di ksour) più malandati stavano diventando teatri di posa. E andando a Tinehir i ragazzini spuntavano dal nulla, e ci ossessionavano offrendoci le “rose del deserto”, che sono delle pietre color deserto a forma di rose, e se l’auto si fosse fermata avremmo potuto cammina- re giorni e giorni in un immenso mare di sabbia, – quanti chilometri da noi a Timbuctù? – Ma finalmente eravamo arrivati alle gole del Todra, che sono delle immense magi- che grotte dove l’erosione aveva scavato la ”via delle capre”
a picco sul fiume Todra, e dove finalmente, avevamo dormi- to in un piccolo ksour riattato, accanto alla sorgente, che si chiamava: L’hotel des poissons sacrés, e le quattro stanze avevano tappeti berberi dai colori dell’arancio sul pavimento di terra battuta, e c’era una cucina con il forno a legna, e l’acqua della doccia arrivava con un tubo di gomma, ignorando i rubinetti, e non c’era altra traccia di civiltà, ma la televisione era sempre accesa.
Il giorno dopo eravamo in viaggio verso la valle del Da- dès, altrimenti detta “valle delle rose selvatiche”, purtroppo eravamo a Ottobre e nemmeno un fiore rosso rallegrava questa bellissima vallata di terra rossa, con un fiume in mezzo e la vista delle montagne come sfondo. La leggenda racconta che queste rose erano state portate da Damasco,
rosa damascena si chiama infatti questo fiore. Era usanza che mercanti e pellegrini che tornavano dal pellegrinaggio alla Mecca portassero con sé piante e semi che l’avevano colpiti per bellezza e profumo. E quando è maggio ogni donna della vallata va e raccoglie tre o quattro chili di rose al giorno. Sappiamo tutti quanto è leggera una rosa… “una rosa è leggera come i messaggi di un dna, gl’impulsi dei neuroni e dei neutrini vaganti sin dall’inizio dei tempi”… E cerco d’immaginarmi questa vallata colma di rose di quel rosso/rosa speciale, è Maggio, e le donne camminano con i loro cesti che si vanno riempiendo di rose e i bambini, pic- coli, attaccati alle lunghe vesti delle madri stanno cogliendo le roselline rampicanti, che non sanno dove arrampicarsi in questa infinita pianura colorata, e le rose entreranno nelle distillerie, nella fabbrica dell’“acqua di rose” Roberts, con il suo inconfondibile flacone blu, che viaggerà e arriverà in tutte le profumerie del mondo, è io m’immagino tutti questi miei pensieri racchiusi in un iceberg che ancora non si è sciolto perché siamo a ottobre, ma arriverà maggio e l’iceberg si scioglierà e finalmente potrò immaginare tut- te le rose e inebriarmi di profumo, anche se sarò ormai tornata in Italia.
Per andare a Fès, invece, una delle città imperiali del Maghreb, non è necessario seguire indicazioni, basta sol- tanto seguire l’odore acre delle pelli conciate, non credo che sia cambiato negli anni. Quella volta entrammo da Bab Boujelloud, la Porta ad arco che ha una faccia turchina e l’al- tra verde. Tutto quello che è progresso, qui è sconosciuto.
Le pelli dai cento colori se ne stanno laggiù lungo il fiume che scorre ai piedi del suk. Ogni via di questo suk sconfi- nato è coperta di stuoie, da una casa all’altra, così la luce è
morbida, passa solo qualche raro raggio di sole, e ogni don- na che cammina completamente coperta dal suo caftano nero ricamato d’oro mi appare bellissima e misteriosa. I vicoli in certi punti sono così stretti che un uomo deve strin- gere le braccia, solo i muli passano trotterellando, carichi di merce, e quando sentite “Balak, balak” scansatevi! sta arri- vando un mulo. Ogni tanto arrivano zaffate, l’odore forte della tintura delle pelli, una puzza salmastra, resinosa, am- morbante. Laggiù nel fiume gli artigiani usano da sempre lo zafferano per fare il giallo, il papavero per il rosso, l’in- daco per il blu e l’antimonio per il nero, il tanfo mi strin- ge la gola, lo sento ancora a distanza di anni come allora, e pensare che il torrente nel quale le pelli trovano il loro colore definitivo dopo la conciatura, si chiama, ambiziosa- mente, “Fiume delle perle”. Nelle stesse pozze tingevano le stoffe i discendenti degli Uomini Blu, predoni del deserto sahariano divenuti stanziali, impantanati ormai nella vita civile… Camminiamo io e S., tra la calca, lo perdo, ho pau- ra, poi lo ritrovo, qualcuno ha appuntato sul suo golf verde un camaleonte violetto, sotto i miei occhi il piccolo rettile sta cambiando colore si mimetizza a poco a poco, da viola diventa verde, si fa fatica a distinguerlo nella foto, Poverino!
dice uno dei nostri amici, ha paura. Ma sono io che ho pau- ra, sono io che ho paura di perdere il mio amore, paura di perdermi. Accanto a me sta passando un cieco, si fa strada tastando i bulloni su uno zoccolo di legno, fissato al muro, che arriva fino alla Moschea Kairouine. Cammino dietro all’uomo cieco che si sta avvicinando alla moschea e vede la luce, e mi perdo nel suk del rame, e l’uomo che lo batte ritmicamente per plasmarne le forme, sembra suonare una danza berbera, e entro nella bottega delle babouches di pelle sottile, dove le provo di tutti i colori, ma poi non le compro,
invece m’innamoro di un fazzoletto blu e nero, il venditore me lo drappeggia intorno al viso, restano solo in evidenza gli occhi, da quel momento mi sembra di essere cambiata, faccio parte anch’io degli uomini blu, i famosi nomadi del deserto che non ci sono più, ma io ci sono, sono una noma- de come loro, domani cavalcherò un cammello entrando nel deserto, la sera però, rientrata in albergo, ho dovuto strofinare molto per ottenere una faccia vagamente azzurro chiaro. Una svolta, un gomito, la minuscola strada si al- larga, ed eccola la Moschea luminosa con tante finestrelle nel soffitto ricoperto di legno di cedro, dove il cieco è final- mente arrivato. La semplicità delle linee e delle proporzioni sono pensate per non distrarre il credente dalla preghiera, il suo aspetto rappresenta gl’ideali dell’Islam: fuori scarno e senza fronzoli, ma decoratissima la porta d’accesso che porta in un cortile con la vasca per le abluzioni. Dentro la grande sala della preghiera, divisa in due navate, una per gli uomini e l’altra per le donne, un tappeto immenso ne copre il pavimento scabro, le pareti decorate fittamente con motivi tratti dal Corano e ripetuti all’infinito, in fondo un mihrab indica la direzione della Mecca, e a destra un minbar, un pulpito, dove l’imam sale per spiegare i versetti del Corano. In questa specifica Moschea di Fès, la moschea Kairouine, molto conosciuta in tutto il Marocco, su una pa- rete è ritratta l’immagine di un grande ksar con le sue mura a torrette, con la porta fatta a forma di serratura e le pareti decorate a zellige, e mattonelle turchine e verdi, un castel- lo di sabbia nel quale il signore accoglieva i contadini in tempo di guerra. Chi non è islamico non può entrare nella Moschea: noi eravamo rimasti fuori, occhieggiando dalle finestrelle, come bambini di fronte ad una vetrina, avevamo adocchiato un dolce che non si poteva mangiare.
Era successo di tutto il giorno dopo, mentre salivamo verso la vetta, in montagna, verso il tizi, il passo, sulla cate- na del medio Atlante che ci avrebbe portato sulla strada per Meknès: la macchina s’era fermata, eravamo a 2.240 metri s.l.m e faceva freddo, ma non avevamo aspettato molto, an- che nell’Islam coranico sono previsti gli angeli, e ecco che, con la rapidità vertiginosa che esiste solo nei sogni, avevo sentito uno sbatter d’ali, era solo la frenata di un pulmino, il guidatore, un ragazzetto di Marrakesh con gli occhi nerissi- mi era sceso, aveva confabulato con l’amico che guidava la nostra 4 x 4, e dopo aver trafficato un poco con un coltello dalle cento lame, le mani nere come un cielo senza stel- le, aveva riconsegnato la chiave dell’auto al nostro amico.
Probabilmente gli angeli islamici hanno le ali trasparenti, si vedono appena, e con difficoltà, nelle miniature, i nostri angeli occidentali invece, hanno, nei quadri, ali flessuose, sfumate, lievemente colorate e comunque visibili. E così eravamo arrivati a Meknès, un’altra città imperiale costru- ita su un altopiano. Ma dov’era quel paesaggio di sabbia che mi aveva conquistato? Questa città ha 25 chilometri di mura fortificate che riflettono tutto il suo passato splendore, e magnifici palazzi, e possiede una splendida manifattura di tappeti berberi, ci sono moschee, giardini, ma nemmeno una di queste meraviglie risplende di vita come nel sud.
Sembra una città addormentata, in attesa che la principes- sa della “Bella Addormentata nel bosco” con i suoi scu- dieri, tutti, si sveglino, in attesa del bacio del principe. Il progresso sta cancellando la bellezza e il fascino della città.
Era stato il sanguinario Moulay Ismahil, nel milleseicento, a cambiare la piccola città di provincia, quando aveva deci- so di farne la capitale del Marocco. L’aveva fatto rubando i marmi da una città romana poco lontana: Volubilis.
Addormentata da duemila anni, l’antica città romana di Volubilis, si trova a circa venticinque chilometri da Meknès.
Merita una visita anche se le sue statue più belle sono sta- te portate al museo di Rabat. Camminavamo quel matti- no luminoso verso la porta della città come se noi, romani moderni, fossimo venuti a far festa a quel tempo, a quella vita, alla cultura che in fondo è la nostra. La città era stata abbandonata nel III secolo d.C. per le invasioni delle tri- bù berbere. Eravamo passati attraverso la porta di Cesare, costruita da Marco Aurelio in onore di Caligola. Davanti a noi il decumano maximo, la via centrale delle antiche città romane si perdeva nella vallata di mandorli, ulivi e palme. Ai bordi del decumano, le case, arricchite di splen- didi mosaici dai colori vivaci, splendidamente conservati, la più bella, la casa di Orfeo, era rappresentato Orfeo che am- mansiva gli animali feroci con la sua lyra, Orfeo che pian- geva la perdita della bella Euridice, uccisa da un serpente.
Orfeo, che variabile, incerto, volubilis, si voltava indietro per guardare ancora una volta, l’amata Euridice. M’ero voltata anch’io, un ultimo sguardo ai colori dei mosaici, sapevo, sentivo che non sarei mai più tornata in Marocco. Era la fine di un ottobre del 1985.
Anche i Faraoni non sono più quelli di una volta
Da Luxor ad Assuan
Davanti ai geroglifici scolpiti sulle colonne del Tempio di Karnak pensavo a Champollion, al suo arrivo in Egitto, figlio di un archeologo francese, uno che l’archeologia l’a- veva nel dna, in compagnia di un folto gruppo di studiosi al seguito di Napoleone. Con lui tutta l’avventura era co- minciata.
Sono tornata in Egitto dopo vent’anni, molte cose sono cambiate, gli egiziani non accolgono più tutte le religioni, le donne girano velate dalla testa ai piedi. Uguale a se stesso, accogliente, il grande Nilo perdona anche i turisti che vo- ciano, oggi, come sempre. Avverto l’acqua che scorre sotto la chiglia della mia navetta. Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito. Dall’acqua sale una nebbia leggera che avvolge la base delle colonne del tempio di Karnak, sfumano i gerogli- fici complicati, un gran silenzio tutt’intorno, scendo, avan- zo allegra, e decisa ad entrare nella Storia, dentro mi risuo- na la marcia trionfale dell’Aida. Anche Radames deve aver avuto dentro questa sensazione di conquista, marciando verso il canale contro gli eterni nemici, gli Hiksos, che ave- vano conquistato Babilonia e – era il 1376 a.C. – e avevano