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Parte I Cenni storici sulla città di Pisa “Historical signs of the city of Pisa”

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Academic year: 2021

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Cenni storici sulla città di Pisa

“Historical signs of the city of Pisa”

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Breve storia della città di Pisa

“Brief history of the city of Pisa”

Le origini della città di Pisa si fanno risalire all’età romana. Gli storici e gli studiosi affer-mano infatti che tratti tipici degli accampamenti e delle conurbazioni romane quali la rete viaria ortogonale con “cardo” e “decumano”, sono tutt’oggi riscontrabili nel centro storico pisano. Lo si può riconoscere in Figura 1.1 dove sono evidenziati gli andamenti delle vie più antiche del centro. Come si vede è mantenuta l’ortogonalità tra il “cardo” ed il “decumano” tipica delle colonie romane, con l’unica eccezione che il tutto risulta ruotato di circa 20° in senso antiorario. In direzione nordovest-sudest si riconoscono rispettivamente gli allineamenti delle vie S.Maria - S.Antonio, Borgo Stretto, via S.Bibbiana, via S.Marta. Analogamente in direzione sudovest-nordest, procedendo dall’alto verso il basso incontriamo via dell’Arcivescovado - via S.Zeno, via S.Lorenzo - via Porta Buozzi, via S.Francesco, via Palestro, i Lungarni di Tramontana e Mezzogiorno, via S.Martino.

Come ulteriore conferma della presenza dei romani a Pisa troviamo ancora oggi, all’interno delle mura in corrispondenza di P.ta a Lucca, i resti di un edificio termale probabilmente fatto edificare dall’imperatore Adriano, ed oggi meglio noto con l’appellattivo “Bagni di Nerone” a seguito di una serie di vicende storiografiche.

Per il resto, del periodo romano di Pisa adesso non rimane più alcuna traccia cosicchè ogni ma-nufatto o costruzione storica ad oggi presente, appartiene inevitabilmente ad epoche successive. In particolare il periodo in cui Pisa fu più florida e nel quale essa conobbe la sua massima espansione, fu quello a cavallo tra la tarda età medievale ed i primi anni del Quattrocento. In questa età Pisa era una città-stato, una repubblica, e traeva la propria forza dalla fitta rete di commerci che aveva intessuti per via marittima con tutte le regioni del mediterraneo, fino a spingersi anche in Medio Oriente come ad esempio in Siria (vedi Figura 1.2). Grazie ai proventi di tali commerci Pisa viveva un periodo florido di grande prosperità, ed era senz’altro la maggiore delle città toscane. In breve essa conobbe un forte incremento demografico seguito da un altrettanto rapido sviluppo edilizio.

L’allargamento urbano non seguì però le metodologie classiche dell’aggregazione spontanea attorno al “castrum”, tipica di molte città di origini romane quali ad esempio Firenze, Lucca e Pistoia: a Pisa la nuova città si formò attraverso l’annessione al nucleo originario di tre ulteriori territori. Questi andarono a costituire integralmente i nuovi quartieri di Chinzica e Foriporta, e parzialmente quelli di Ponte e di Mezzo; essi furono quindi il risultato della scissione in

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FIGURA(1.1) Tracce del sistema viario romano

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FIGURA(1.3) Espansione di Pisa in età repubblicana

due parti della civitas altomedievale, e delle addizioni rispettivamente ad ovest e ad est come evidenziato in Figura 1.3.

Risale a questo periodo la realizzazione delle mura cittadine, parti delle quali sono tutt’og-gi visibili. Nell’anno 1115 ebbe inizio la prima fase di costruzione, ed i lavori proseguirono spediti fino al 1161 articolandosi in 7 lotti distinti. A questo punto il perimetro della cerchia di mura è completo, ma ancora non raggiunge dovunque l’altezza definitiva. D’ora in poi i lavori procedono con ritmo piuttosto rallentato ma senza sensibili interruzioni e si estendono fino al-l’anno 1261. Infine gli strati terminali sembrano risalire a quasi un secolo dopo, con gli ultimi rialzamenti che vennero commissionati nel 1346 (con riferimento alla porta del Parlascio ed alla porta Calcesana).

Per quanto riguarda le tecniche costruttive adoperate, i manoscritti dell’epoca riportano per cia-scun lotto di lavori il succedersi di due fasi ben distinte: una prima nella quale vengono scavate le “barbacane”, ossia il profondo fossato esterno, ed una seconda in cui si erigono le fortifica-zioni vere e proprie. L’esecuzione di queste viene portata avanti secondo precise metodologie dai magistri murorum, ovvero dalle squadre di operai dell’epoca, le quali realizzano la cinta sovrapponendo fasce orizzontali di muratura dell’altezza esatta di un “ponte”. Questa quantità non è altro che la distanza in altezza fra un ponteggio e l’altro, determinata evidentemente come quell’altezza del manufatto che un muratore poteva agevolmente compiere stando in piedi sul tavolato. Essa divenne ben presto fissa e si configurò come vera e propria unità di misura, indi-spensabile per calcolare la quantità di lavoro compiuta da una squadra di magistri, nonchè per procedere al saldo delle competenze degli stessi da parte del Comune. La misura del “ponte” è tutt’oggi deducibile osservando la distanza fra i vari ordini di buche pontaie ancora visibili sul paramento murario, riservate per inserirvi le travi di sostegno dei tavolati.

Dallo studio dei tratti di mura che si sono conservati si può inoltre puntualizzare la tecnica co-struttiva adoperata. Come si vede in Figura 1.4 la tecnica di posa dei conci, nonchè la qualità e la forma degli stessi, variano in funzione dell’altezza. Il “ponte” di fondazione ed i due im-mediatamente superiori, contrassegnati con la lettera A, sono quelli di migliore qualità: i conci

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FIGURA(1.4) Mura urbane (sec. XII), con indicazione dell fasi edilizie

sono ben squadrati, di grandi dimensioni e realizzati con calcare grigio di S.Giuliano di buone caratteristiche meccaniche. I tre ordini superiori (lettera B in Figura) sono invece realizzati con calcare grigio/giallo/rosa proveniente dalla zona di Asciano, di caratteristiche meccaniche peg-giori rispetto a quello di S.Giuliano.

La muratura è sempre del tipo a sacco dello spessore di circa due metri, mentre la tecnica di posa in entrambi i casi diviene sempre meno accurata procedendo dal basso verso l’alto.

Con la realizzazione delle mura si intendeva risolvere in modo defintivo il problema della protezione di aree già urbanizzate. Ma la cinta difensiva ebbe anche ulteriori risvolti: difatti anche attraverso il semplice scavo delle “barbacane”, i pisani già nel 1155 avevano definito il territorio urbano. Dunque è questo un momento particolarmente importante in quanto di fatto quel perimetro urbano resterà pressochè invariato fino ad oggi, come si può notare dal confronto della Figura 1.5 con una qualunque cartina del centro storico pisano.

Dall’osservazione di questa Figura si ottiene inoltre la conferma di quanto detto in prece-denza circa l’evoluzione urbana di Pisa nell’età del basso-medioevo. Come si vede i quartieri storici di Ponte (nord-ovest) e di Mezzo (nord) nascono come addizione di nuovi territori a quelli precedentemente appartenuti alla civitas medievale. Al contrario i quartieri storici di Foriporta (nord-est) e di Kinzica (sud) sorgono adesso, senza innestarsi su alcun tipo di preesistenza

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urba-FIGURA(1.5) Pianta schematica delle mura del 1155-1161

na, semplicemente come diretta conseguenza delle operazioni di tracciatura e costruzione della cinta muraria repubblicana.

Sempre dall’osservazione della Figura 1.5 si deduce, almeno in maniera approssimativa, il perchè alle mura sia stato assegnato quel preciso perimetro piuttosto che un altro.

A nord si può notare la presenza di un fiume oggi scomparso, al quale all’epoca ci si riferiva indistintamente con i nomi Auser, Ozeri, Ozzeri ed altri ancora (probabilmente esso coincideva con l’odierno Serchio, il quale ha poi cambiato corso, oppure con una diramazione dello stesso; ad ogni modo allo stato attuale delle conoscenze la suddetta corrispondenza non è ancora stata pienamente dimostrata). E’ quindi evidente come l’ubicazione delle mura cittadine nel tratto a nord sia stata indiscutibilmente definita da questo corso d’acqua.

A sud invece non si osserva alcuna sorta di confine naturale che possa aver influenzato, almeno apparentemente, la disposizione della cerchia muraria in questo tratto. Se però si presta atten-zione all’etimologia della parola Kinzica si può risalire alle ragioni di tale scelta. Difatti Kinzica è un nome di origine araba che significa “mercato pubblico”: è quindi probabile che le mura sul lato meridionale siano state tracciate in maniera da comprendere l’intero territorio del mercato e le strutture commerciali ad esso annesse.

La cinta difensiva fu terminata definitivamente attorno alla metà del 1300, ovvero nel mo-mento di massimo splendore per la città. L’affascinante Piazza dei Miracoli è stata ultimata ormai da anni, l’urbanizzazione del territorio interno alle mura è matura, le infrastrutture quali ponti e reti idrauliche sono tutte perfettamente realizzate e mantenute in ottimo stato, i com-merci sono floridi, gli scambi culturali con comunità lontane intensi, la città è all’apice del suo sviluppo come testimonia una anonima Descrizione fiorentina:

“(...) Questa città di Pisa ’e oggi dì si è la sua grandezza di giro di miglia tre et non fu mai maggiore ch’ell’è ogi, ciò è al presente, et è quasi quadra, et è in piano, et è presso alla marina, a miglia cinque, et per lo mezzo della città li passa un fiume reali che si chiama Arno, per lo

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quale vanno e vengono navili per mare carichi di mercanzia, la quale mercanzia si spande et manda per tutta Toscana et in molti luoghi.

Et sopra al detto fiume di Arno dentro alla città sono tre bellissimi ponti di pietra et di Mattoni lavorati, li quali nomi de’ ponti son questi: il primo ponte si è quello verso levante, ponte della spina, sono archi quattro ed è in fortezza: e lo secondo ponte si è il ponte vecchio con tre archi, ed è cosa magnifica ed è quasi per lo mezzo degli altri due ponti: lo terzo ponte si è quello di sotto verso la marina di verso ponente, et chiamsi lo ponte della Legathia et è in archi quattro et è in fortezza, et guardasi notte e dì et simile a quello della Spina.”

La Descrizione prosegue illustrando i singoli quartieri cittadini:

“E la città si è divisa in quattro quartieri: i nomi loro sono questi: prima quartieri di ponte; e ’l secondo quartieri, quartieri di mezzo; e ’l terzo quartieri si chiama quartieri di fuori di porta. E lo quarto quartieri si chiama chinzica più vaga stanza d’abitazione. (...)”

Per ciascuno di essi vengono descritti i monumenti presenti, le chiese, i monasteri, i palazzi nobiliari.

Quella citata è quindi una descrizione approfondita, capace di inquadrare anche la situazione culturale della città pisana nel medioevo, in funzione del suo isolamento politico rispetto all’en-troterra italiano e del robusto innesto di culture esterne dovuto ai legami commerciali attraverso il Mediterraneo.

I fasti della città-stato non erano però destinati a durare a lungo. Già alla fine del XIII secolo la forza della repubblica marinara pisana aveva subito un grave colpo a seguito della battaglia allo scoglio della Meloria. Qui la repubblica genovese aveva inferto una severa sconfitta ai pi-sani: la loro flotta era stata decimata (ben 49 galere erano stato perdute, quasi l’intera flotta), e la sorte dell’equipaggio non era stata migliore. Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila i prigionieri.

La deportazione forzata di tante migliaia di prigionieri depauperò spaventosamente la repubbli-ca pisana non solo della sua popolazione maschile, ma anche di gran parte del proprio esercito, lasciandola così indebolita e spopolata da causarne la progressiva decadenza.

Dovette comunque trascorrere più di un secolo prima che la nascente potenza fiorentina potes-se porre Pisa sotto il proprio dominio, al prezzo poi di un aspotes-sedio tremendamente lungo e feroce. Fu per questa serie di ragioni che quando nel 1406 i fiorentini entrarono a Pisa, trovarono una città stremata nelle sue possibilità di sopravvivenza, economicamente distrutta, affamata, con una organizzazione statale ridotta all’impotenza dalle strette dell’assedio. Eppure la resa all’assedio avveniva entro uno scenario che conservava i caratteri culturali d’una città cosmopo-lita, e lo splendore delle sue salde strutture edilizie ed urbanistiche. Il paesaggio cittadino si era straordiariamente conservato pressochè intatto, mentre la distruzione aveva operato dall’interno. Fu poi la politica della repubblica fiorentina verso la città secolarmente nemica e conquistata a durissimo prezzo, a rendere irreversibile il processo di sgretolamento della compagine urbana. Firenze instaurò una pesante politica fiscale nei riguardi di Pisa, ordinò deportazioni ed indusse esodi volontari, operò violenze di natura economica facendo prestiti a strozzo al Comune ed impossessandosi della maggior parte dei beni fondiari del territorio pisano.

La distruzione, il degrado e la miseria giunsero ad un punto tale per cui erano gli stessi proprie-tari degli immobili a procurare danno e rovina alle case, al fine di evitare di pagare le imposte. In altri casi si cercava di sottrarsi alla corresponsione delle stesse fingendo di donare i propri beni ad un qualche monastero, entrandone a far parte. Infine alcuni cedevano le proprie case senza pretendere l’affitto per evitarne la distruzione da parte dei soldati.

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Da tutta questa situazione derivò un deprezzamento dei beni immobiliari, che a sua voltà favorì il processo di aggregazione delle singole case-torri tipiche di ogni comunità medievale toscana, in edifici di maggior estensione. Tutto ciò ebbe risvolti anche sul piano urbanistico, provocando la scomparsa di un numero imprecisato di chiassi e di vicoli.

Infine il contesto di devastazione e di trasformazione urbanistica operato dai Medici si completa con gli sventramenti di due intere zone urbane ai lati estremi della città, rispettivamente orien-tale ed occidenorien-tale, al fine di ricavarne aree per la costruzione di opere militari. Risale infatti a questo periodo l’edificazione dei due bastioni difensivi interni alla cerchia murata, rispettiva-mente denominati “Cittadella Nuova” (ad est) e “Cittadella Vecchia” (ad ovest).

Il dominio fiorentino su Pisa venne quindi mantenuto e con misure economiche e con mi-sure militari: il controllo della città era infatti affidato ad un vero e proprio esercito di 1500 mercenari. Una cifra enorme se si pensa che la popolazione pisana, a seguito dell’assedio, della miseria, delle malattie quali la malaria e di varie altre ragioni legate al declino della potenza repubblicana, era diminuita da circa 13000 unità nel 1407 a sole 7000 agli inizi del XVI secolo. Queste rigide misure di controllo unite all’odio connaturato per i nemici fiorentini, rendevano il giogo mediceo particolarmente sgradito ai pisani. I quali tentarono più volte di ribellarsi all’op-pressione, riuscendovi infine nel 1494 in occasione della calata in Italia del re francese Carlo VIII, diretto verso Napoli. Da allora iniziò un lungo periodo di instabilità e di scontri continui con la repubblica fiorentina. I pisani erano sostenuti alternativamente dai lucchesi, dai venezia-ni, dai genovesi, dai milanesi, dai Borgia, dal re francese, in un intricato gioco di alleanze e di scontri tra poteri forti. In conclusione le truppe fiorentine riuscirono a bloccare ogni afflusso di risorse provenienti da Lucca e da Genova, e gli effetti si fecero sentire a breve. In una città che da più di una decade combatteva per la propria libertà i contadini iniziarono a premere perché si trattasse, cosicchè dopo alcuni giorni ed un ulteriore ultimatum rifiutato, l’8 giugno 1509 An-tonio da Filicaja, Averardo Salviati e Niccolò Capponi entravano in città alla testa delle truppe fiorentine.

La situazione che trovarono era ancora peggiore di quella descritta a seguito della prima con-quista. Eppure quell’anno 1509 segnò l’inizio di un minimo di ripresa, sia pur quella che poteva consentire una situazione disastrosa come quella della realtà pisana, con un tessuto sociale di-strutto o disperso a seguito delle deportazioni, degli esodi volontari o forzati e della indigenza diffusa. A memoria di questa triste situazione sono numerose le testimonianze sulla insalubrità dell’aria di Pisa di quegli anni: “(...) dilà dal campo santo nel piano di Pisa fuor delle mura ciè un padule che fa trista aria (...)”, come del resto sono altrettanto nutrite le voci secondo le quali i fiorentini omettevano volutamente la manutenzione dei fossi per favorire lo sviluppo della malaria nel pisano.

Per quanto riguarda le scelte urbanistiche compiute dai Medici nel corso di questo secondo periodo di dominio, si può affermare senz’altro che esse hanno inciso assai poco sulla struttura topografica originaria. Gli interventi effettuati ebbero il carattere di adattamenti indipendenti da ogni piano programmato, che non fosse altro che quello di distruggere ogni segno del vec-chio potere. Nonostante tutto i risultati di quegli interventi furono spesso rilevanti sul piano architettonico e su quello della scenografia complessiva della città. Vennero aperte nuove porte nelle mura (porta Nuova), abolite altre (porta del Leone), si costruì l’attuale Palazzo Reale e si realizzò l’odierna piazza delle Vettovaglie. Quest’ultimo fu forse l’unico intervento a carattere urbanistico degno di menzione, poichè comportò lo sventramento di quel che si suppone sia stato il più antico nucleo urbano di Pisa.

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Risale a questo periodo inoltre l’istituzione formale dell’Università a Pisa, dato che fino ad al-lora le lezioni venivano tenute per strada, oppure in casa degli stessi professori o nei chiostri di chiese e conventi. La trecentesca piazza del Grano venne destinata a sede dello Studio per volere di Cosimo I nel 1543, mentre sempre al XVI secolo risale l’edificazione del palazzo della Sapienza, attuale sede della Facoltà di Giurisprudenza.

La dinastia medicea reggerà le sorti del granducato fino alla morte di Gian Gastone (1737), quando la Toscana, priva di un erede legittimo, sarà concessa a Francesco III Stefano duca di Lorena, in base ad accordi già stipulati tra le dinastie europee nel 1735. Nell’ultimo secolo di reggenza però la situazione politica ed amministrativa era andata sempre più peggiorando, con il crescente lassismo nell’amministrazione della cosa pubblica ed il deterioramento dell’econo-mia.

Fortunatamente alla morte di Francesco III nel 1765 il titolo di Granduca di Toscana passa nelle mani del suo secondogenito, Pietro Leopoldo di Lorena (1765-1790), sotto il quale il grandu-cato conosce la fase più innovativa del governo lorenese, in cui una solida politica agraria si accompagna alle riforme del commercio, dell’amministrazione pubblica e della giustizia. Al-la sua venuta in Toscana però sarà egli stesso a sottolineare di aver trovato Pisa in “uno stato languido e povero, con un’aria malsana e i paduli cresciuti all’intorno ed una gran miseria e scoraggiamento provenuto dalla proibizione dell’esportazione di grano, olio e grasce, che aveva formato la rovina di quel paese. La bella situazione di questa città in una pianura fertile esige una grande attenzione per le acque stagnanti e fossi che la circondano e per la buona manutenzione delle fonti ed acquedotti, da cui dipende la salute del paese (...)”.

A parte un breve periodo compreso tra il 1796 ed il 1814, durante il quale il dominio sulla Toscana venne assunto prima da Napoleone, poi dai Borbone, ed infine da una delle figlie di Napoleone stesso, il governo lorenese sulla Toscana si protrasse fino all’unità d’Italia del 1861. Gli intricati avvenimenti politici di Toscana sulla fine del XVIII secolo e nei primi decenni di quello successivo, ebbero come riflesso un rallentamento delle vicende urbane di Pisa. Cio-nonostante l’evoluzione dei mezzi di produzione, l’aumento della popolazione e l’incisività di alcune riforme leopoldine determinarono profondi mutamenti di struttura. Ma è solo nell’ultimo scorcio del regime granducale, a partire dalla metà del secolo XIX, che la situazione pisana si va animando.

Tra le iniziative urbanistiche meritevoli, che peraltro sono giunte pressochè invariate sino ai giorni d’oggi, si può e si deve menzionare la realizzazione del “Passeggio delle Piagge”, inizia-to ai primi del 1847 dall’ing. Lorenzo Materassi e terminainizia-to due anni dopo nel quadro dei lavori di rettifica dell’alveo d’Arno. Ma l’avvenimento più importante degli ultimi anni dell’età lore-nese è la comparsa, nel 1852, del primo Piano Regolatore della città, ad opera dell’ing. Silvio dell’Hoste. E’ questo un fatto di notevole rilevanza perchè molte delle idee del dell’Hoste erano destinate ad avere largo seguito di consensi, e ad influenzare in notevole misura tante decisioni successive. Soprattutto anticipatrici, anche se negative, sono le soluzioni da questi trovate attra-verso gli sventramenti, al processo di saturazione edilizia della vecchia cerchia murata.

Nel 1871 viene approvato il Piano Regolatore dell’ing. Vincenzo Micheli, il quale come già detto mutua molte delle proprie scelte da quelle del tecnico suo predecessore. Viene completata la barriera delle Piagge, si dà inizio al ponte Solferino ed ovviamente si operano demolizioni e sventramenti sulle rive dell’Arno per aprire le due piazze d’accesso al suddetto ponte. In risposta alle molte alluvioni subite, ed in particolar modo a quella gravissima del 1869 in cui l’Arno ruppe al ponte della Fortezza allagando tutta la parte meridionale della città, fece crollare parte del ponte a Mare e rovesciò quasi interamente il muraglione del lungarno di Tramontana

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FIGURA(1.6) Chiesa della Spina

(A) Prima dei lavori di sopraelevazione

(B) Dopo i lavori di sopraelevazione

recentemente costruito dall’ing. Materassi, si decide di rialzare fino a più di un metro il piano stradale di alcuni punti del lungarno. Ciò comporta il vero e proprio smontaggio e rimontaggio della chiesa della Spina, un atto giudicato da molti storici e critici d’arte contemporanei un vero e proprio scempio. Infatti come già all’epoca sosteneva l’arch. Giuseppe Martelli, accanito op-positore dell’intervento, “una volta che fossero scompaginate le sue parti e gettati a terra quei ruderi, assai laceri e incotti, ben poco vi sarebbe da salvare per la sua ricostruzione, e rifatta a nuovo diverrebbe rispetto all’arte cosa moderna di ben poca importanza”.

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L’evento del XX secolo che ha influito maggiormente sull’attuale assetto urbanistico della città di Pisa è senz’altro la seconda guerra mondiale.

Il 31 agosto 1943 si abbatté infatti sulla città un pesantissimo bombardamento americano. Fu-rono colpiti in particolare la zona della stazione e di Porta a mare, quartieri che vennero pra-ticamente rasi al suolo, ma anche parte dei quartieri di porta Nuova, porta a Lucca e porta Fiorentina. Circa un quarto del territorio urbano venne danneggiato o distrutto. I motivi che spinsero le autorità militari americane a un bombardamento così pesante furono di due ordini diversi. Innanzitutto si volevano colpire le infrastrutture di un importante nodo ferroviario che aveva nelle vicinanze diverse fabbriche riconvertite a scopi bellici, tra le quali in particolare la Piaggio che produceva motori per idrovolanti, ma anche la Saint Gobain e la Vis che produ-cevano vetro; secondariamente si voleva dare un segnale forte al governo italiano in una fase cruciale delle trattative per l’armistizio, che venne in effetti firmato appena tre giorni dopo. A ciò si aggiunsero i danni provocati dal fronte di guerra, arrestatosi sulla linea dell’Arno per l’intera estate del 1944, e poi quelli ingentissimi dovuti alla ritirata nazista: nel 1944 tutti i ponti cittadini vennero fatti saltare. Erano ponti storici meravigliosi, il più antico dei quali (ovvero il ponte della Fortezza) risaliva addirittura all’età repubblicana (fu costruito tra il 1261 ed il 1282). Con la fine del conflitto i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale si adoperarono imme-diatamente per dare vita alla prima Giunta democratica, la quale già il 26 ottobre di quello stesso anno (1944) nominò una Commissione Consultiva per il Piano di Ricostruzione della città. Il 21 giugno dell’anno successivo una conferenza pubblica tenuta da uno dei redattori del Piano, l’ing. Pera, mostrò però come il Piano non si limitasse inevitabilmente alla sola ricostruzio-ne delle aree distrutte e degli edifici abbattuti, bensì introducesse interventi di tipo urbanistico all’interno e all’esterno della cinta murata. Era quindi a tutti gli effetti un Piano Urbanistico, sfortunatamente insoddisfacente sotto vari aspetti.

Ben presto l’insorgenza di una complessa serie di problemi legati alla crescita della città, rivelò tutta l’insufficenza del Piano di Ricostruzione che quei problemi aveva eluso: in primo luogo quello dell’espansione urbana e quello dell’Università, la quale si andava configurando come nodo essenziale, e di difficile soluzione, della vita cittadina.

Era all’incirca il 1956 quando si ricominciò a parlare di Piano Regolatore. Esso venne redat-to ancora una volta da professionisti locali, il Comune lo approvò mentre nell’anno successivo il Ministero dei Lavori Pubblici lo respinse con numerose osservazioni. Vennero realizzate sva-riate revisioni del Piano da parte di commissioni di tecnici vecchi e nuovi, ma solo nel 1964 gli architetti Dodi e Piccinato riuscirono ad elaborare un Piano soddisfacente sia per l’amministra-zione comunale che per il Ministero. Tra gli indirizzi più innovativi in esso contenuti c’erano senz’altro quello dell’abbandono della vecchia idea d’uno sviluppo verso il mare, e quello rela-tivo all’ubicazione della zona industriale: la nuova città si sarebbe estesa nella zona di Cisanello, cioè a ovest della città vecchia (verrà chiamata Pisanova).

Nel centro urbano questi anni vedono un pò dovunque la speculazione privata attaccare le aree più prossime alle mura ed agli edifici storici, ed allo stesso tempo realizzare esagerati aumenti di cubatura. Gli effetti più gravi di questo tipo di ricostruzione si ebbero nelle zone più delicate, in specie sui lungarni, dove i volumi eccessivamente dilatati in larghezza ed in altezza andarono ad alterare il profilo complessivo del fronte edificato. Come se non bastasse, una progettazione scadente, sorda al valore di superficie continua che costituiva il carattere distintivo di quel-l’insieme edilizio storicizzato, vi s’inserì con zone di frazionamento chiaroscurale e cromatico particolarmente disambientate.

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tede-schi. Il ponte Solferino fu il primo ad essere ricostruito: nel 1947 era terminato, quasi identico al precedente ma in una prima fase ancora privo di decorazioni. La costruzione del ponte di Mezzo, ad unica luce su progetto dell’ing. Giulio Krall, ha invece termine nel 1950 così come quella del ponte della Vittoria. Il ponte a Mare è infine pronto nel 1957, mentre quella della Fortezza lo è solo nel 1959.

Intanto il problema dell’Università, dei suoi rapporti con la città, si fa sempre più pressante sia per l’elevatissimo incremento della popolazione studentesca (già nel 1950 contava 6609 iscrit-ti), sia per la difficoltà di reperire gli ambienti dove installare i nuovi istituti.

Infine l’anno 1966 fu uno dei più funesti della storia di Pisa. Nel novembre di quell’anno infatti Pisa come molte altre città della Toscana fu colpita da una tragica alluvione. In un primo momento i danni subiti dall’abitato parevano contenuti, ma di lì a pochi giorni doveva crollare il Ponte Solferino II e nei mesi che seguirono franò anche tutto il muro di sponda ed il piano stradale del lugarno di Tramontana. Quell’alluvione fu una catastrofe, dal sapore ancor più amaro se si pensa che a quella data lo Scolmatore d’Arno, i cui lavori erano iniziati nel lontanto 1947, era ormai pressochè ultimato. Eppure quest’importantissima opera idraulica rimase inutilizzata in quell’occasione, poichè per la mancanza degli ultimi fondi non erano state realizzate le opere di presa all’innesto con l’Arno.

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FIGURA(1.8) Pisa: Alluvione del 1966

(A) Ponte Solferino II investito dalle acque di piena

(B) Ponte Solferino II crollato dal lato di Tramontana

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I Ponti cittadini nella storia di Pisa

“The urban Bridges in the history of Pisa”

2.1

Ponte di Mezzo

In età medievale la prima citazione di un ponte sull’Arno a Pisa risale al 1092: esso era verosimilmente realizzato in legname, e poggiava su diversi sostegni di legname anch’essi. Il ponte, che nel 1154 con la delimitazione del nuovo circuito murato era divenuto urbano, rimase fino al 1182 il solo che la città avesse sull’Arno. E’ a quell’anno che risale infatti il secondo ponte costruito: da allora il nostro ponte perse la sua antica denominazione di pons de Arno per assumere quella di “Ponte Vecchio”, mentre l’altro fu detto “Ponte Novo”.

Dopo l’alluvione del 1179 fu ricostruito ancora in legname, e sembra sia rimasto tale fino al 1387, quando fu rifatto in pietra a tre archi come mostrato in Figura 2.1.

Nel frattempo erano stati costruiti altri due ponti nel tratto urbano dell’Arno: il ponte di Spina nel 1262 e il Ponte della Degazia al Mare attorno al 1327.

Dalla rifondazione urbana del 1154 il Ponte Vecchio è sempre stato il centro della vita cittadina, quello che per altre città è la piazza, principale punto di transito d’ogni traffico, luogo d’incon-tro e di raduno della gente. Per la sua centralità esso fu tead’incon-tro di avvenimenti che segnarono la storia della città. Fu di qui che nell’agosto del 1284 l’arcivescovo Ruggieri impartì la solen-ne besolen-nediziosolen-ne alle navi che si apprestavano ad affrontare l’armata genovese allo scoglio della Meloria, allorchè - segno nefasto rimasto inascoltato - cadde il crocifisso dallo stendardo della capitana.

Il ponte Vecchio era dotato di un arsenale e di una casa dell’Opera del ponte che funzionava da foresteria del Comune (in essa doveva abitare il pontonaio). Sul ponte, lungo le spallette, erano situate due file di botteghe particolarmente raffinate, di borsai e di guantai, e anche banchi di cambiatori. Per la loro posizione centrale queste botteghe avevano una posizione rilevante, ed è anche per tale motivo che la notte il ponte era custodito da due guardie, a spese per metà del pontonaio e per metà di chi vi aveva bottega.

Come ogni altro ponte aveva carattere sacro e pertanto era dotato d’un oratorio, Santa Maria di Ponte Vecchio, che si trovava a levante dalla parte di Chinzica. Ma oltre alla sacralità v’era anche un altro sentimento, laico, civico, che legava i cittadini al Ponte Vecchio come agli altri ponti della comunità: ne sono testimonianza le donazioni ed i lasciti registrati nei cartolari no-tarili.

Data la sua posizione il ponte aveva grande importanza per il controllo militare della città, e 17

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pertanto fu sovente teatro di scontri e spesso fu sbarrato.

Nel 1632 vennero esegutio degli scandagli dell’alveo del fiume Arno, i quali misero in evi-denza preoccupanti segni di erosione delle pile: il ponte crollò il 9 gennaio del 1637. La sciagura veniva a colpire una città appena uscita da un’epidemia devastante e che versava in una situa-zione negativa sia sotto il profilo sociale ed economico, sia sotto il profilo demografico.

Durante i 24 anni che videro trascinarsi la vicenda della ricostruzione del ponte, la città rimase tagliata in due essendo gli altri ponti militarizzati. Il collegamento fra le due rive dell’Arno, do-vette affidarsi a “scafe di passaggio” fino a che non fu costruito un ponte provvisorio in legname che, a prezzo di continue riparazioni, durò fino al 1659.

L’incarico di ricostruire il ponte fu affidato il 25 maggio 1640 all’ing. Bernardo Contini. Il progetto prevedeva tre archi con ubicazione in adiacenza a valle del vecchio, ma la soluzione non fu felice a causa delle numerose difficoltà insorte nella costruzione delle pile, provocate dalle continue piene che imponevano l’interruzione dei lavori. Ben presto il cantiere fu chiuso, e l’incarico della ricostruzione fu affidato dapprima a Pier Francesco Silvani e poi ad Alessan-dro Bartolotti. Quest’ultimo “(...) propose di fare il ponte, non con due, nè tampoco con una sola pila, ma con un arco solo, che, senza aiuto di pile, posasse sopra l’una e l’altra spalla del fiume; assicurando che in riguardo del gran vano, che dovea cavalcar l’arco, avrebbe la città di Pisa avuta la gloria di contenere in se stessa l’ottava meraviglia del mondo”.

Il progetto era tanto ambizioso quanto ardito: il giorno di capodanno del 1644 verso le otto di sera il ponte crollò, subito dopo la rimozione delle centine e la successiva inaugurazione. Il Granduca Ferdinando II fece dapprima imprigionare il Bartolotti, dopodichè nel 1659, scar-tati numerosi progetti provenienti un pò da tutta l’Italia, affidò l’esecuzione d’un nuovo ponte a tre archi al romano Francesco Nave, ingegnere dell’Ufficio dei Fossi. Egli scandagliò quanto

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FIGURA(2.2) Il Ponte di Mezzo di Francesco Nave del 1660, in due fotografie storiche

rimaneva del ponte del 1388 e di quello lasciato dal Contini nel 1640. Contrariamente a quanto si sosteneva, accertò che le fondazioni non erano “cavernose” nè bucate. L’alveo era quindi idoneo alla fondazione del nuovo ponte. I lavori procedettero speditamente e nell’ottobre 1660 la struttura era ultimata. Nella primavera successiva si tolsero le centine e si iniziò il rivesti-mento in verrucano con cornici e profilature in marmo su disegno del Nave. Adesso il ponte si presentava come riportato in Figura 2.2.

E’ di questi decenni il definitivo cambiamento di denominazione del Ponte Vecchio, che sempre più frequentemente nei documenti era chiamato ponte di “Mezzo”. La sua recente rico-struzione aveva reso obsoleto il nome tradizionale, e d’altronde il titolo di “Ponte Novo” con cui un primo tempo lo troviamo indicato, non poteva esprimere la centralità di funzioni da sempre svolta per il fatto di trovarsi in mezzo agli altri ponti e all’incrocio dei due massimi assi stradali urbani.

Nei tempi che seguirono la storia del ponte scorse tranquilla, finchè nel 1767 la Reggenza (i Lorena) riformò l’organizzazione militare dello Stato, il che comportò l’alienazione delle armi, delle artiglierie, delle navi, degli arsenali, delle “inutili fortezze”, e per Pisa l’abolizione delle servitù militari che gravavano sul ponte della Fortezza e sul ponte a Mare, che così furono ria-perti alla circolazione. In tal modo il ponte di Mezzo, dopo più di tre secoli, cessò di essere

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FIGURA(2.3) Il ponte di Mezzo alla fine della seconda guerra mondiale

(A) Ruderi del ponte di Mezzo dopo il passaggio del fronte nel 1944

(B) La passerella lignea sul ponte di Mezzo nell’immediato dopoguerra

l’unico di cui i pisani potevano servirsi.

Poi nel 1944 il bel ponte di Francesco Nave, travolto dagli avvenimenti della seconda guerra mondiale, concluse la sua storia nella tragedia: venutosi a trovare con gli altri ponti d’Arno sulla linea di fronte, fu oggetto di numerosi attacchi dei caccia bombardieri americani, finchè il 23 luglio fu fatto saltare in aria dai tedeschi in ritirata, assieme al palazzo Pretorio e alla torre civica. Passato il fronte, uno dei primi problemi affrontati fu quello della comunicazione fra le due rive della città, rimasta senza ponti. Nel 1945 si costruì una passerella appoggiata sulle pile del ponte di Mezzo, che ai primi del 1947 esisteva ancora.

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FIGURA(2.4) Il ponte di Mezzo ad un arco

Il 10 dicembre 1945 fu bandito un concorso di massima per la ricostruzione del ponte di Mezzo ad una o tre luci. L’amministrazione comunale propendeva per la soluzione a tre luci, ma alla fine prevalse l’orientamento del Ministero dei Lavori Pubblici per il progetto ad un’unica campata. Il ponte fu ricostruito alcuni metri più a valle del precedente. Lo spostamento fu deciso perchè il Piano di Ricostruzione prevedeva di aprire una strada parallela a Borgo ed una a corso Italia. I due funesti progetti non furono realizzati, e il ponte risultò quindi inutilmente deviato dal suo asse viario naturale Borgo - corso Italia.

Il nuovo ponte costruito su progetto dell’ing. Giulio Krall, fu inaugurato l’8 giugno del 1950. Ebbe un’unica luce di 72 metri, armonizzata con le linee del Lungarno: dopo tre secoli si realizzava così il sogno del Granduca Ferdinando II.

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2.2

Ponte Novo

Il ponte Novo sorse al termine del XII secolo in sostituzione di uno dei principali passi di barca che conducevano in Chinzica, in un punto particolarmente importante della città: allo sbocco sull’Arno della via Santa Maria, una delle due grandi arterie che percorrevano il terri-torio della Civitas da nord a sud, che otto anni dopo si sarebbe continuata oltr’Arno nella via Sant’Antonio.

Esso nacque per ragioni di lotte intestine tra le più potenti famiglie pisane. Un gruppo di queste, di cui facevano parte i Gualandi, i Duodi, i Gaetani, e gli abitanti dei quartieri di Ponte e di Porta a Mare, col consenso dell’arcivescovo e del Capitolo dei canonici, s’erano consorziate per costruire un ponte di cui avrebbero poi avuto il controllo, in alternativa al Ponte Vecchio di proprietà comunale. La scelta di ubicare il ponte allo sbocco di via S.Maria non fu quindi mo-tivata solo con l’importanza di questa strada, bensì dipese fortemente anche dal fatto che quel gruppo di famiglie consorziate avevano proprio qui le torri, le logge e le case, le quali avrebbe assicurato loro il completo controllo militare dell’opera, oltre che i proventi del pedaggio. Ma la scarsa manutenzione, unita forse anche alla insufficiente robustezza dell’opera stessa, fecero si che già nel secolo successivo il ponte versasse in condizioni precarie. E’ del 1307 un’ingiunzione del Capitano del Popolo con la quale questi intima alle famiglie proprietarie del ponte che esse “(...) rifacciano, u facciano rifare lo soprascripto ponte, sì ch’elli sia forte et si-guro, et sicuramente et sufficientemente per quel ponte si possa avere l’andamento delli uomini et delle bestie et delle carra”.

Risale poi al 1322 la decisione da parte del Consiglio del Senato di costruire l’attuale chiesa di Santa Maria del Ponte Novo, che sarà poi detta della Spina. Si decise di fondare in Arno un’adeguata palificata, una gettata o un muraglione, per costruirvi ed ampliarvi l’oratorio esi-stente, e pertanto si ordinò al pontonaio di cedere in perpetuo all’oratorio stesso due botteghe poste accosto al ponte.

Ai primi dell’anno successivo il ponte andò distrutto a seguito di un incendio di natura dolo-sa. Vi furono difficoltà nella ricostruzione ma sicuramente nel 1355 esso era già stato realizzato dato che risale a quest’anno la cronaca che riporta il cruento combattimento contro gli uomini di Carlo IV, avvenuto proprio su tale ponte.

Alcuni anni dopo, nel 1366, le famiglie patrone del ponte, Gualandi, Gaetani, Lanfreducci, Upezzinghi e Bocci lo fecero restaurare, ma, minacciando ancora rovina, nel 1382 lo cedettero al Comune nella persona del capitano del Popolo, che era allora Piero Gambacorta, e degli An-ziani, riservandosi tuttavia il diritto di eleggere il pontonaio.

Nell’anonima Descrizione di Pisa scritta alla fine del terzo decennio del Quattrocento, che fissa l’immagine della città nel momento in cui il suo massimo splendore già comincia ad ap-pannarsi, i ponti citati sono soltanto tre. Il Ponte Novo scomparve infatti fra il 1412 ed il 1419. Nessuna fonte parla di questa vicenda, avvenuta nei cupi momenti della prima occupazione fio-rentina, e la memoria del ponte rimase solo nel titolo della sua cappella, oraculum Sancte Marie de pede Pontis Novi, più tardi noto col nome di Santa Maria della Spina per una reliquia che vi era stata donata nel 1333.

La cronaca di Giovanni Sercambi dà notizia d’una alluvione che nel 1418 provocò la caduta in Arno dell’oratorio che era in capo del Ponte Vecchio: ad un evento del genere, se non proprio a quello, si può attribuire la scomparsa del Ponte Novo.

(23)

Ad ogni modo anche una volta caduto, il ponte continuava ad essere soggetto giuridico e rima-neva come riferimento topografico.

L’unico documento figurativo che riguardi il ponte è la citata pianta di Pisa non finita (Figura 2.6). I ruderi delle due pile formati di calcestruzzo ordinario su palificazioni di sostegno, furono identificati e rimossi dal Genio civile, quello di destra durante la prima guerra mondiale e quello di sinistra nel 1923.

FIGURA(2.5) L’oratorio di Santa Maria del Ponte Novo, costruito ai primi del Trecento sulla spalla del Ponte Novo (disegno di Emilio Burci, 1847)

(24)

La corrispondenza sulle opposte rive del fiume di due strade importanti come la via Santa Maria e Sant’Antonio, non poteva non suggerire l’idea di tornare a congiungerle con un ponte che sostituisse il passo di barca esistente da secoli in quel punto.

Nel 1825 venne sottoposto al Granduca Leopoldo II da Ridolfo Castinelli, figura di spicco del-l’architettura pisana della prima metà dell’ottocento, un progetto di ponte pedonale sospeso a tre travate metalliche. Il progetto fu accolto dal sovrano ma non attuato per la situazione del bilancio statale.

Nel 1852 troviamo un nuovo ponte in ferro fra le previsioni del Piano Regolatore dell’ing. Silvio Dell’Hoste, ma nè questo nè altro analogo progetto presentato nel 1857 ebbero miglior fortuna. Più di recente, nel 1967, in sostituzione del Ponte Solferino II caduto per l’alluvione dell’an-no prima e nel medesimo punto dove si trovava il Ponte Novo, fu costruita dal Genio militare una passerella “Bailey” per permettere il passaggio dei pedoni e dei veicoli a senso alternato; fu demolita nel settembre 1975.

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FIGURA(2.7) Il ponte Bailey costruito in sostituzione del Ponte Solferino sul sito dell’antico Ponte

Novo (1967-1975)

(A) Vista nel momento subito dopo l’inaugurazione

(B) Vista delle pile alla vigilia della demolizione

(C) Mezzi meccanici che da un pontone sull’Arno si accingono a demolire le pile

(D) Demolizione dei ruderi delle pile mediante microcariche esplosive

(26)

2.3

Ponte alla Fortezza

La costruzione di questo ponte ebbe inizio nel 1261. Esso ebbe molti nomi, in un’epoca in cui la toponomastica era un dato variabile, nomi legati al luogo dove sorse o a edifici posti nelle vicinanze, e così fu chiamato “Ponte Novo di Spina” perchè tale era il nome della località della riva destra dell’Arno dove fu fondato, contrassegnata da certe opere idrauliche dette spina. Si chiamò anche “Ponte di San Barnaba” perchè era stato costruito vicino ad una chiesa dedicata a quel Santo. Si chiamò anche “Ponte delle Piagge” perchè a monte di esso si stendeva un vasto arenile del fiume.

Sul nome del ponte, come s’è visto, si fece confusione da parte degli eruditi locali, vale a dire che a causa del nome Pons Spine fu scambiato per il “Ponte Novo” ai piedi del quale era l’ora-torio “della Spina”, che in quel caso era la reliquia d’una spina della corona di Gesù. In genere il nome usato nelle carte della repubblica e in quelle del governo fiorentino, fu “Ponte (novo) di Spina”, mentre localmente divenne prevalente quello di “Ponte alla Fortezza”. Questa denomi-nazione rimase anche quando la Fortezza prese a chiamarsi Giardino Scotto ed è corrente anche oggi.

Le notizie sul ponte sono abbastanza scarse. Sappiamo che non aveva botteghe costruite sopra il piano di transito, come invece avevano il Ponte Vecchio ed il Ponte Novo, perchè qui, come per il Ponte a Mare, n’era vietata l’installazione per ragioni difensive.

La storia del ponte registra soprattutto opere di fortificazione e fatti d’arme. Ubicato com’è al margine orientale della città murata, sulla direzione delle invasioni fiorentine, era munito di merli e torrette e dotato di particolari sistemi di difesa per impedire infiltrazioni nemiche che potevano avvenire per via fluviale: furono inizialmente delle cateratte di legname, poi sostitutie nel 1327 da catene. Presso il ponte stazionavano anche scafe armate.

Fino all’ottobre del 1399 il ponte era di legno su pile in muratura, come la maggior parte dei ponti di quel tempo, tanto che certi transiti vi erano vietati. Quell’anno il comune decise di farlo demolire e di ricostruirlo in pietra o di mattoni. E’dunque possibile che la forma di ponte in mattoni a quattro luci, attestata dalla citata “Descrizione” quattrocentesca e dalla pianta di Pisa “non finita” riportata in Figura 2.9, risalga al 1399.

Quando Pisa fu presa per la prima volta dai fiorentini il ponte fu chiuso al traffico civile e rifortificato per inserirlo nel complesso dispositivo di difesa allora eretto.

Nei quindici anni della “recuperata libertà” che seguirono la venuta di Carlo VIII del 1494, durante i quali Pisa fu sottoposta a un estenuante assedio, il Ponte di Spina fu probabilmente coinvolto in un fallito tentativo d’invasione della città per via d’Arno da parte dei fiorentini. In tale occasione pare che il ponte sia stato danneggiato: forse era stato coinvolto nel grave dissesto che si era verificato nella parte terminale della “Cittadella Nuova”. In un documento del 1509 si forniscono infatti istruzioni per costruire un nuovo ponte, e già nel 1511 con ogni probabilità esso era stato riedificato.

Negli anni che seguono, ed in particolare dal seicento in poi, iniziano a manifestarsi problemi di assetto idraulico legati alla particolare posizione del ponte, ubicato proprio in corrispondenza di un punto in cui l’Arno compie una brusca curva. Nei documenti dell’epoca si riportano disposi-zioni secondo le quali occorreva “ampliare le luci dei ponti di Pisa, che troppo anguste riescono alla mole dell’acqua che vi deve passare, e dal perpetuo rialzamento del letto dell’Arno sempre più si vanno angustiando”.

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FIGURA(2.8) Il Ponte della Fortezza nella pianta di Pisa “non finita” (XV-XVI sec.)

(28)

Il ponte rimase chiuso al traffico civile fino al 1781. A quella data la reggenza lorenese decise di abolire, disarmare e vendere la fortezza della Cittadella Nuova, cosicchè il Ponte della Fortezza fu riaperto al pubblico. La Fortezza fu venduta a Pietro Chiesa, che vi costruì sopra un palazzo.

Nel 1847 l’ingegner Lorenzo Materassi fece un progetto di modifica del ponte che prevedeva l’allargamento e altri lavori al piano di transito, e il rifacimento delle arcate: ne fu attuata solo la parte che riguardava il rifacimento delle spallette e la costruzione di torrini sulle pile, terminati in altrettante piccole terrazze semicircolari.

I problemi di carattere idraulico non vennero quindi affrontati neppure in quest’occasione. In-fatti essendo il ponte più antico era anche il più basso, così che quando l’Arno era in piena le acque traboccavano dalle spallette sul piano di transito; ai due imbocchi venivano pertanto collocate, facendole scorrere su guide appositamente predisposte, delle paratie di legno e ferro per impedire all’acqua che tracimava di inondare la città.

Il 20 luglio del 1944, assieme al Ponte Solferino, il Ponte alla Fortezza, lungamente attaccato dai caccia bombardieri alleati, venne fatto saltare dai tedeschi e fu così che scomparve il ponte più antico di Pisa.

Nel 1945 sui resti delle pile fu costruita una passerella che rimase in funzione fino al 1957. In quell’anno, su progetto dell’architetto Riccardo Gizdulich e del Prof. Letterio Donato si cominciò a ricostruire il ponte a tre luci che nel giugno del 1959 entrò in funzione. Questa struttura è giunta fino ai giorni nostri ma, seppur funzionale e capace di rispondere ai requisiti di carattere idraulico, si presenta fortemente disambientata nella cornice del Lungarno.

FIGURA (2.10) Il Ponte della Fortezza nell’assetto ottocentesco, prima della sua distruzione nel 1944

(29)

FIGURA(2.11) La passerella del Ponte della Fortezza (1945)

(30)

2.4

Ponte a Mare

Non è chiaro in quali circostanze sia stato fondato il quarto ponte, detto Pontenovo della Degazia (o Legazia), ossia della dogana, e anche Ponte della Degazia a Mare, perchè contiguo alla Porta alla Degazia del Mare, o di Ponte (perchè posto nel quartiere di Ponte), e più sem-plicemente Ponte a Mare per la sua posizione a ponente della città. Ciò che è certo, perchè testimoniato da documenti storici, è che nel 1333 il ponte già esisteva da alcuni anni in quanto necessitava di essere restaurato.

La ricostruzione avvenne in tempi lunghi: le pile furono rifatte in pietra rispettivamente nel 1337 e nel 1340, mentre l’impalcato, per essere stato fatto in scadente legno di pioppo, adesso richiedeva d’essere sostituito con legname di rovere. Nel 1355 il ponte fu ricostruito interamen-te in pietra dal capomaestro Sinteramen-tefano Del Sordo e da un gruppo di venti maestri.

Come il Ponte di Spina aveva le luci sbarrate con catene. Nella trasformazione dell’Arsenale della Cittadella, avvenuta sulla fine del Trecento, il Ponte a Mare andò sempre più assumendo una fisionomia e funzioni difensive che poi con l’occupazione ebbero carattere predominante, tanto che ne fu precluso il transito ai cittadini: i due accessi erano costituiti da grandi archi aperti entro due fortificazioni che si fronteggiavano sulle due rive del fiume.

Era però un ponte nato male e destinato ad una vita incerta, come vedremo.

FIGURA(2.13) Il Ponte a Mare e la Cittadella Vecchia nella pianta di Pisa “non finita” (XV-XVI secolo)

(31)

Nel 1415 la Signoria Fiorentina accese un mutuo di 3000 fiorini d’oro per il restauro, cifra significativa che fa supporre una situazione di degrado avanzata. Nel 1426 anche Filippo Bru-nelleschi venne impiegato in un’ulteriore risistemazione del Ponte e della Cittadella Vecchia. A questi anni risale la costruzione delle torrette sulle pile, analogamente a quanto avvenne sul Ponte di Spina.

Durante il secondo assedio il ponte fu seriamente danneggiato dalle artiglierie, cosicchè nel 1513 la Balia di Firenze commissionò un preventivo di spesa. Già nel 1529 si provvide poi a rifondare le pile, per di più con scarsi risulati.

La vicenda andava trascinandosi sconclusionatamente fra periodiche piene, cedimenti, sopral-luoghi, perizie, problemi di finanziamento, interventi mai risolutivi. Anche per quanto riguarda-va l’apparecchiatura difensiriguarda-va la situazione era precaria. In una relazione il commissario Gioriguarda-van Battista Tedaldi scriveva: “sotto un arco del ponte a mare si può facilmente entrare et uscire, massime per non vi essere più le catene et per non vi si fare guardia alcuna come si potrebbe”. Nel 1634 fu deciso di abbattere il ponte e di ricostruirlo. Mezzo secolo dopo però la precarietà della situazione tornava ad essere quella di sempre, in un quadro urbano segnato da una sequen-za di disastri, dalla peste degli anni 1630-1633 che provocò circa 6000 morti su una popolazione di poco più di 16000 abitanti alla caduta del Ponte Vecchio nel 1637 ricostruito solo dopo 24 anni, a incendi di chiese, a carestie.

Le vicende dei restauri continui e mai definitivi continuarono quindi a ripetersi monotonamente, mutando solo il nome dei protagonisti. Difatti l’eccezionale piena che il 10 dicembre 1869 ave-va rotto gli argini alle Piagge e fatto crollare sessanta metri di spallette fra il Ponte alla Fortezza e il Ponte di Mezzo, scardinò le vecchie strutture del ponte: quando dieci giorni dopo le acque si ritirarono, si trascinarono dietro tre arcate e la seconda pila da destra. Fu una grave perdita che mise in crisi la rete stradale dell’intera città, rimasta con i soli ponti di Mezzo e alla Fortez-za. Nella primavera successiva fu installata una passerella provvisoria di legno appoggiata su quanto era rimasto in piedi delle pile. Il 15 aprile, alla vigilia dell’apertura al pubblico transito, la passerella fu portata via da una violenta libecciata.

Il ponte a Mare nella sua posizione originaria non fu mai più ricostruito.

Eppure l’importanza di quell’arteria di comunicazione sull’Arno era vitale per la città, cosicchè in breve si dovette far ricorso ad una soluzione alternativa. Nella primavera del 1871 furono esercitate pressioni sulla Società delle Ferrovie dell’Alta Italia, affinchè modificasse il ponte ferroviario allora esistente sull’Arno per consentirvi il traffico stradale. A seguito del responso negativo circa tale allargamento, occorse ristudiare tutto il problema dei ponti, tenendo presente la superiore utilità di un Ponte a Mare. Fu così che il 28 maggio 1872 l’Amministrazione Comunale decise la costruzione d’un ponte a travate metalliche, posto pochi metri a valle del Ponte a Mare caduto, secondo il progetto dell’ingegner Alfredo Cottrau. Fu inaugurato nel 1878 dal sindaco Tommaso Simonelli e correntemente denominato, senza molta fantasia, “Ponte di Ferro”: anonimo com’era, nessuno ebbe il coraggio di chiamarlo Ponte a Mare come il suo predecessore.

Sessantacinque anni dopo, nell’agosto del 1944, il ponte saltò in aria ad opera dei tedeschi in ritirata. Nel 1958 fu costruito al suo posto il nuovo Ponte a Mare a tre luci, sottile, lineare, realizzato dall’ingegner Giulio Krall (lo stesso che pochi anni prima aveva progettato il Ponte di Mezzo).

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FIGURA(2.14) Veduta del Ponte a Mare in un disegno del 1862-1863

(33)

FIGURA(2.16) Il Ponte di Ferro, progettista Alfredo Cottrau (1878)

(34)

2.5

Ponte Solferino

La caduta del Ponte a Mare avvenuta nel 1869 aveva messo in crisi il sistema delle comu-nicazioni della città, specialmente nella parte occidentale, colpendo in primo luogo il traffico commerciale e quello delle carrozze. Era necessario che Pisa si dotasse di un nuovo collega-mento tra le due sponde dell’Arno, quindi nel 1870 il Comune deliberò di porre mano immedia-tamente alla costruzione di un ponte in ferro fra le vie di San Cassiano e Solferino. Fu indetto un concorso al quale partecipò solamente una ditta straniera, la belga Finet-Charles & Co., pertanto nell’estate dell’anno successivo il Sindaco Giuseppe Bianchi rese noto che ricorreva il caso del concorso mancato.

Il fallimento della gara ebbe come conseguenza il ripensamento su tutta la questione, e sem-pre nell’estate del 1871 il Consiglio riunito in seduta straordinaria, nominò una commissione per valutare la proposta del Consigliere Garzella, secondo il quale si doveva abbandonare il progetto del ponte in ferro e stabilirsi l’immediata esecuzione di un ponte in muratura: questa scelta, oltre ad essere preferibile esteticamente, avrebbe comportato un risparmio. Dopo appena dieci giorni la Commissione lesse la propria relazione in Consiglio Comunale, in cui asseriva di accordare la propria preferenza al progetto di un ponte in muratura proposto dall’architetto Vincenzo Micheli in fase di redazione del Piano Regolatore. Le motivazioni addotte erano “la maschia solidità, la bellezza e l’armonia delle forme”, nonchè un risparmio di circa il 20 per cento sull’importo totale.

L’iter della realizzazione procedeva però in mezzo a contrasti e polemiche. Al progetto stesso erano state mosse varie critiche, soprattutto quelle di essere una cattiva imitazione del Ponte Santa Trinità di Firenze. Ad ogni modo la costruzione partì ed il 10 aprile 1875 il Ponte Solfe-rino veniva aperto al pubblico. L’accusa al Micheli di aver distrutto la prospettiva del Lungarno era infondata.

La vita dell’ultimo dei ponti storici di Pisa durò 69 anni. Il 20 luglio 1944 fu fatto saltare

(35)

dai tedeschi assieme al Ponte alla Fortezza.

Nel giugno del 1945 il nuovo Ponte Solferino fu posto in gara d’appalto. Fu il primo ponte ricostruito poichè già nel 1947 era terminato: abbastanza simile al primo, ma con arcate leg-germente diverse, e più largo. Risultò una struttura senza pretese formali, al rustico, fatta a economia, anche troppo, utilizzando le fondazioni del ponte saltato in aria.

Quindici anni dopo si cominciò a pensare che era giunto il momento di porre fine a quella si-tuazione di provvisorietà, e di dare al ponte una veste consona all’ambiente del Lungarno. Nel 1960 il ponte riebbe il suo rivestimento di marmo come il precedente. Ma era un manufatto fra-gile, poggiato su fondazioni poco profonde ed indebolite dalle esplosioni, un “ponte di guerra”, e l’alluvione del 1966 lo portò via. Era il 13 novembre, il mattino alle 7 e 30. Rimase in piedi l’arcata meridionale, ma anch’essa dovette essere demolita.

FIGURA(2.19) Il Ponte Solferino II a rustico (1945)

(36)

Nel febbraio del 1967 il Provveditorato alle Opere Pubbliche della Toscana bandiva un ap-palto concorso per un ponte a tre luci, largo 25 metri (la richiesta partita da Pisa era stata di 33 metri), vale a dire che prevedeva una carreggiata adatta a un’autostrada a quattro corsie, che avrebbe creato un tunnel in mezzo al Lungarno. Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici re-spinse il progetto e lo stesso accadde per tutti quelli, estremamente numerosi, presentati nei 4 anni successivi. Infine il 3 novembre 1971 il Consiglio Comunale approvò il progetto del grup-po Maffey-Bellucci-Moroli-Pagani, sul quale finalmente nel dicembre il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici espresse parere favorevole. Il nuovo ponte sarebbe stato a tre arcate e largo 18,50 metri (di cui 15 di carreggiata e 3,50 di marciapiedi). Il 29 giugno 1974 venne inaugurato.

(37)

2.6

Ponte della Vittoria

Con quel titolo si volle richiamare la vittoria conseguita dall’Italia nella prima guerra mon-diale, lasciando comunque intendere altre probabili vittorie.

L’idea di costruire un ponte a monte di quello della Fortezza cominciò a prendere piede sulla me-tà dell’ottocento, precisamente nel Piano Regolatore disegnato dall’ingegner Silvio Dell’Hoste. Ma fu solo nel 1870 che il Consiglio Comunale dispose, secondo il Piano Regolatore di Vin-cenzo Micheli, la costruzione di un ponte in muratura fuori della Barriera delle Piagge.

La situazione urbanistica in piena evoluzione nelle zone interessate forniva ogni giustificazione alla costruzione del nuovo ponte: sulla riva sinistra nel 1845 era sorto un importante polo di traffico con l’apertura della stazione della ferrovia Livorno-Firenze, la Leopolda, mentre sulla riva destra era stato realizzato il “Passeggio delle Piagge”, ed iniziava a prendere forma la nuova zona urbana di Cisanello.

Comunque prima che il ponte fosse realizzato passarono 58 anni. Solo nel 1928 il Ministero dei Lavori Pubblici bandì il concorso nazionale.

Il ponte era destinato a collegare il nodo viario della piazza Guerrazzi con la grande strada anch’essa prevista verso Cisanello. Era stato concepito come opera monumentale, sia per il rivestimento in pietra da taglio, sia per l’aspetto formale.

Sabato 22 Dicembre 1934 i lavori erano conclusi e il giorno dopo il podestà Flaminio Bozza avrebbe dovuto inaugurarlo, ma alle ore 21,30 le tre arcate crollarono.

Il secondo Ponte della Vittoria fu costruito sei anni dopo con impalcatura in cemento armato a travata Gerber a tre luci, da un più nutrito gruppo di ingegneri. Benchè più modesto del primo, del quale riutilizzò le spalle rimaste in piedi dal crollo, aspirava anch’esso alla monumentalità e alla scenografia, affidata alle ampie scale d’accesso al fiume.

Ebbe vita più lunga del primo, e se anch’essa fu breve (soli cinque anni), questa volta non fu per colpa degli ingegneri: difatti venne fatto saltare dai tedeschi nel 1944.

Il terzo ponte fu ricostruito tra il 1949 ed il 1950 appoggiato ancora alle spalle del primo rimaste in piedi, e sempre a tre luci. Curiosamente i marciapiedi sono così stretti da costituire barriera architettonica.

(38)

FIGURA(2.23) Il Ponte della Vittoria II (1939)

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