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Capitolo primo

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Capitolo primo

Alcuni cenni storici sul traffico di beni culturali nel Medio Oriente

Possiamo affermare con certezza che l'inizio della produzione umana di oggetti d'arte, sia per scopo semplicemente ornamentale, sia, soprattutto, con una funzione religiosa, ha immediatamente coinciso col fenomeno del loro furto e/o saccheggio, accompagnato anche da atti di vandalismo o di distruzione di questi. Infatti, il traffico illecito di beni culturali è un attività praticata fin dagli inizi della storia umana ovunque nel mondo, che ha subito nel corso dei secoli innumerevoli trasformazioni nelle modalità, nelle tecniche, nei manufatti interessati.

Sicuramente nel fenomeno si attestano, nel corso delle epoche, un cambiamento ed una evoluzione degli attori coinvolti, che risultano evidenti soprattutto nell'organizzazione del traffico. Si è passati infatti dai piccoli tombaroli agli ufficiali coloniali e ai diplomatici occidentali, per arrivare alle odierne organizzazioni criminali internazionali che sfruttano tale attività come fonte di finanziamento ma anche per il riciclaggio di soldi proveniente da altre attività illecite o come moneta di scambio nei pagamenti di altri traffici, come quello degli stupefacenti o quello delle armi.

L'unico aspetto del fenomeno rimasto immutato è lo scopo finale, e cioè il guadagno finanziario che si ricava dalla vendita dei manufatti.

Per le finalità dello studio, di seguito affronteremo un breve excursus della storia del fenomeno per quanto riguarda l'area del Medio Oriente, regione oggetto dell'analisi qui di seguito trattata. Inoltre, tralasceremo l'esame del fenomeno parallelo del vandalismo/distruzione del bene culturale, se non per brevi accenni, perchè anch'esso ha una storia molto lunga, e forse più conosciuta, e ci allontanerebbe dall'oggetto di questa trattazione.

L'attività di saccheggio, e del relativo traffico dei reperti, si manifesta fin da subito in due modalità e cioè, da un lato troviamo i piccoli ladrocini che riguardavano soprattutto siti funerari e aree sacre, dall'altro le grandi spoliazioni, in concomitanza con atti di vandalismo e distruzione come conseguenza dell'entrata degli eserciti nel territorio del paese sconfitto. Nel primo caso sono coinvolti gli strati più poveri della popolazione, come accade ancora oggi, che svolgono tale attività alla stregua di un lavoro stagionale e per motivi di sussitenza; nel secondo caso, invece, gli attori interessati sono più numerosi e anche le finalità aumentano: dal soldato semplice che considera il furto

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come integrazione del proprio stipendio, ai più alti ufficiali che selezionano gli oggetti da portare in patria come trofeo di guerra, da quelli da distruggere, imponendo così una sconfitta anche dal lato psicologico al territorio appena vinto. Certamente se pensiamo ai saccheggi di guerra, immediatamente pensiamo a quelli effettuati dagli eserciti napoleonici o quelli perpetrati dal regime nazista1, ma il fenomeno, anche se regolato e proibito da numerose norme internazionali, arriva, purtroppo, anche ai giorni nostri. Cronologicamente parlando, uno dei primi esempi storici è costituito dal saccheggio di Gerusalemme ad opera dell'impero babilonese nel 597 a.C. ed è una storia particolare poichè pochi decenni dopo, nel 539 a.C., lo stesso trattamento toccò all'impero babilonese da parte dell'eserito achemenide, che restituì gli oggetti religiosi superstiti alla città di Gerusalemme2. Questo ed altri esempi dimostrano come in tutta l'antichità gli oggetti sacri fossero ritenuti una categoria a parte, distinta dagli oggetti ornamentali e quindi rispettati anche se appartenenti a un credo religioso differente. Ulteriore conferma a quanto, appena descritto è il fatto che, anche se nell'impero romano il saccheggio era contemplato durante una campagna di conquista come mezzo di finanziamento dell'azione militare stessa, gli oggetti religiosi ne erano esentati mentre gli altri beni espropriati nei territori conquistati venivano venduti a compratori privati, spesso tramite aste pubbliche3.

Anche durante la conquista musulmana dei territori africani o europei molti oggetti religiosi furono risparmiati. La loro salvezza o distruzione era principalmente legata ai benefici economici che se ne potevano ricavare4, mentre le restituzioni erano più un fatto di strategia politica che una comprensione reciproca del retaggio culturale dell'altro.

Gli altri oggetti avevano, invece, una sorte ben differente: nella maggioranza dei casi, questi manufatti venivano saccheggiati e trasportati nella patria dell'esercito conquistatore. Le rappresentazioni artistiche a scopo politico formavano una categoria a parte: esse, spesso per cause logistiche, rimanevano nel proprio paese d'appartenenza e perciò era usuale che subissero vandalismi. Prendiamo ad esempio la "testa di Sargon il

1 Occorre aggiungere che le spoliazioni naziste furono eseguite anche contro la stessa popolazione del Reich, basandosi su un criterio etnico e riguardando principalmente le famiglie ebree.

2 S. A. Hardy, The conflict antiquieties trade: a historical overview, in F. Desmarais (ed.), Countering

illicit traffic in cultural goods. The global challenge of protecting the world's heritage, Paris, ICOM,

2015, pp. 21-22, disponibile al sito

http://icom.museum/fileadmin/user_upload/pdf/publications/Book_observatory_illicit_traffic_version_iss uu.pdf

3 Ibidem. 4 Ibidem.

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Grande" posta a Ninive e databile intorno al 2250-2200 a.C.: essa riporta numerose mutilazioni fatte intenzionalmente dall'esercito conquistatore a dimostrazione della sconfitta del sovrano rappresentato5. Spesso le mutilazioni o l'eliminazione dei volti dei governanti erano eseguiti con lo scopo preciso di distruggere l'dentità culturale e infondere nella popolazione un senso di debolezza ed inferiorità. Tutto questo comunque era già un problema compreso e affrontato all'epoca, tanto che gli artisti inserivano dei messaggi nelle loro opere, il più delle volte contenenti maledizioni o parole magiche, allo scopo di scoraggiare la loro eventuale distruzione. Esemplificativo è il caso della statua raffigurante la regina elamita Napir-Asu risalente al tredicesimo secolo a.C. che racchiude la seguente iscrizione: «Colui che preleverà la mia statua, [...] che distruggerà l'iscrizione e cancellerà il mio nome, sarà preso dalla maledizione»6. Andando avanti nel tempo, si può osservare che con l'inizio delle scoperte geografiche e delle spedizioni di viaggio a scopo scientifico, ma soprattutto come conseguenza della formazione di stretti rapporti commerciali fra i diversi paesi, si denota anche un parallelo traffico di antichità, concepite in quest'epoca come merce e non come un bene da preservare e rappresentante una specifica identità culturale. Destinazione finale principale di tali reperti furono le collezioni reali o nobiliari di tutta Europa, dove erano considerati come curiosità esotiche e costituivano con numerosi altri oggetti le famose Wunderkammer7, destinate a suscitare nei fortunati visitatori stupore e meraviglia. Con lo sviluppo dell'orientalismo come disciplina accademica, verso la fine del XVI secolo, prima in Francia e poi nel resto del continente la domanda di antichità orientali crebbe (a questo punto non si cercava solamente il reperto antico ma anche testi, pergamene e oggetti tessili) come conseguenza degli scopi scientifici e di ricerca della disciplina stessa. Quando nel XVIII secolo l'orientalismo iniziò ad influenzare molti settori della società e del costume fino a diventare una vera e propria moda, la domanda crebbe ulteriormente, provenendo anche dai settori della ricca borghesia, mentre i reperti acquisirono un semplice valore decorativo essendo considerati pezzi d'arredamento. Vista la crescente domanda, nei paesi orientali iniziò una produzione

5 F. Kleiner, Ch. J. Mamiya, Gardner’s Art Through the Ages, "The Western Perspective", n.1, 12esima ed., Thomson Wadsworth, 2006, p. 26, in L.A. Amineddoleh, Cultural heritage vandalism and looting:

the role of terrorist organizations, public institution and private collectors, in "Santander art and culture

law review", n.2, 2015, p. 29, disponibile al sito https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm? abstract_id=2754843

6 Ibidem.

7 Con l'espressione Wunderkammer, in italiano camera delle meraviglie, si indicano particolari ambienti in cui, dal XVI al XVII secolo i collezionisti erano soliti conservare raccolte di oggetti giudicati straordinari e curiosi. La più famosa di queste è quella appartenuta a Rodolfo II d'Asburgo, a Praga.

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specificatamente realizzata per i mercati occidentali che, di conseguenza, introdusse nel mercato numerose copie e falsi8.

Ma per vedere la nascita di un vero e proprio traffico di antichità, nel senso moderno del termine, si deve aspettare fino al XIX secolo. Infatti questo periodo è testimone dello sviluppo del fenomeno chiave per l'evoluzione stessa del traffico illecito, ossia il processo di formazione degli imperi coloniali europei, che nell'area del Medio Oriente rosicchiarono piano piano province e territori all'Impero ottomano. Il colonialismo nel Medio Oriente portò con sè anche numerose conseguenze, come lo sviluppo di nuove discipline, tra le quali l'archeologia, o come la mutata concezione del reperto, che da mero oggetto ornamentale diventò un simbolo dello status del possessore. Infatti esso diventava un testimone dei viaggi affrontati (sia per motivi lavorativi o di studio/piacere come la pratica del Grand Tour) o della carriera come funzionario coloniale; inoltre attestava gli studi conseguiti e l'alta educazione ricevuta dal possessore, ed infine dichiarava l'appartenenza a una società e ad una nazione civile e progredita.

A maggior comprensione del pensiero europeo generale dell'epoca, riportiamo le parole di S. Troilo:

«la curiosità verso mondi altri, il desiderio di catalogare le differenze, [...]si erano allora configurati come elementi propulsivi della fiducia diffusa verso un progresso senza limiti. In questa prospettiva, accanto alle mete del Grand Tour avevano acquisito un certo appeal le rotte dell'est, [...]. Sognato da molti, praticato da pochi, il viaggio in oriente si era in seguito diffuso, riflettendo il crescente interesse europeo per l'antiquaria e il collezionismo.[...]. Ma al di là della Grecia altre terre avevano iniziato ad intercettare l'attenzione di esponenti di una borghesia colta e cosmopolita, attirata ad est da un interesse specifico per l'archeologia [...]. » E ancora: «l'interesse[...] nasceva innanzitutto dalla percezione dell'est come culla di civilizzazione. [...]il tema alimentava la competizione tra stati-nazione in gara per l'eredità simbolica di civiltà di cui si aspirava a ripercorrerere l'epica e la storia»9.

Infatti man mano che si intensificavano i rapporti con le popolazioni delle colonie medio orientali e la conoscenza di esse, sempre più crescente negli europei era l'idea che nell'Oriente i rapporti con l'antico fossero negativi, e cioè che le popolazioni non fossero interessate ad esso (venivano definiti indifferenti e/o insensibili verso le antichità del proprio paese), se non addirittura ignorassero il proprio patrimono fino al punto di manipolarlo o distruggerlo. Si trattava quindi di soggetti giudicati non adatti e non meritevoli di essere i custodi di tale ricchezza storica. Tante erano le prove fornite

8 Occorre specificare che il fenomeno riguardava maggiormente gli oggetti puramente decorativi piuttosto che le antichità vere e proprie.

9 S. Troilo, Levante. "Archeologi" britannici e percezione dell'antico nell'Impero ottomano (1840-1860), "Contemporanea" , n. 4, 2009, il Mulino riviste, p.652.

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a sostegno di questa tesi. Prima fra tutte la «pratica del riuso dell'antico che in Europa era a lungo invalsa, ma che ora nel Levante veniva sanzionata come vera barbarie. Edifici, mura [...] avevano nel tempo incorporato frammenti di sculture, colonne, [...] rivelando una forma di riconversione denunciata come distruttrice e irrimediabile»10. Nei diari di viaggio dell'epoca si ritrova di frequente l'accusa verso le autorità locali di essere ignoranti riguardo al patrimonio e di abbandonarlo al proprio destino: «il rapporto che [...]intrattenevano [...]era dunque deprecabile, ingiustificabile, inevitabile»11.

Da qui la convinzione di avere il diritto di salvare tali antichità, basato sul principio che solo l'europeo, fra tutti i popoli, fosse in grado di riconoscerne, e comprenderne, il valore e il significato, conservandole e salvandole dai luoghi natii dove si trovavano in pericolo; si può parlare di

«[un] diritto/dovere di acquisire i reperti e riportarli a casa, là dove la civilizzazione si era compiuta nelle sue forme più alte, in un contesto in cui potevano essere giustamente capiti ed ammirati [...] gli europei evocavano un dovere morale di civilizzazione, [...]. In questo modo il discorso dell'inferiorità non solo chiariva il destino dei reperti ma offriva anche all'Europa la possibilità di ribadire i contorni della propria superiorità e [...] di una relazione con il passato fondata sulla tutela dei suoi materiali»12.

In verità, occorre aggiungere che, almeno fino alla seconda metà dell'Ottocento, le autorità ottomane avevano un atteggiamento piuttosto ambivalente sul patrimonio presente nei loro territori: le antichità erano per lo più concepite o come strumento di scambio diplomatico13, e cioè regali privati a disposizione del sovrano e delle alte cariche governative, o come mera merce in vendita e abbondavano nei negozi e sui banchi degli antiquari. Le compagnie di scavo europee, nell'atto di acquisire i reperti da loro rinvenuti, si trovavano davanti pochi e deboli ostacoli. Infatti ben rare erano le contrapposizioni, da parte delle autorità provinciali, verso gli scavi effettuati e il recupero dei reperti, e quando venivano poste in essere, era perchè i lavori avrebbero dovuto eseguirsi in zone considerate sacre o perchè gli scavi venivano giudicati pericolosi. Ma anche se si esercitavano sospensioni o blocchi delle attività, essi si rivelavano sempre temporanei oppure facilmente aggirabili con il semplice appello ad una autorità superiore. Inoltre le potenze europee li ritenevano incomprensibili, ostili e dettati da invidia e gelosia per le tecnologie e la superiorità dimostrate dalle squadre occidentali durante i lavori di scavo.

10 Ivi, p. 663. 11 Ivi, p. 664. 12 Ivi, p. 668.

13 Spesso il governo di Costantinopoli concedeva manufatti e altri oggetti storico-culturali in nome di buone relazioni con i paesi occidentali.

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Quindi, in sintesi, si può affermare che la cessione delle province ottomane alle potenze europee scatenò un vero e proprio flusso di beni culturali che dai territori d'origine andava ad arricchire i vari musei ed istituti di ricerca dei governi coloniali, primi fra tutti la Gran Bretagna e la Francia.

Fu necessario attendere la seconda metà del XIX secolo per assistere a una presa di coscienza, e conoscenza, sulla questione: solo allora si iniziò a concepire le antichità non come oggetti commerciali, ma come oggetti culturali e si vide riconosciuto in loro un valore storico significativo per la nazione e, soprattutto, si comprese la necessità di cure e protezione delle antichità dentro i propri confini nazionali.

Dopo questo breve quadro introduttivo, di seguito viene presentata l'analisi della situazione in tre diverse province dell'Impero ottomano, e cioè Iraq, Libano e Turchia. Nei primi due casi si prende in esame l'arco temporale fra la seconda metà del XIX secolo e, all'incirca, gli anni Ottanta del Novecento, mentre l'esempio della Turchia è stato focalizzato principalmente sul periodo della prima guerra mondiale. Le tre province esaminate hanno consentito lo studio del traffico di antichità sia sotto amministrazione britannica sia sotto amministrazione francese e, parallelamente, hanno permesso di dare uno sguardo al comportamento delle autorità turche in riguardo al patrimonio culturale delle minoranze poste nei propri confini, più precisamente nei confronti della comunità armena.

Un quadro generale del traffico illecito nell'area mediorientale dagli anni Novanta del Novecento ai giorni nostri, invece, sarà presentato nel secondo capitolo insieme alla descrizione e ai meccanismi del fenomeno del traffico illecito nel mondo contemporaneo.

Come già premesso, l'Impero ottomano disponeva dell'immenso patrimonio artistico presente nei suoi confini come strumento diplomatico o ne permetteva , in pratica, il saccheggio da parte delle potenze coloniali. Ma con la seconda parte dell'Ottocento la situazione nei territori della Sublime Porta iniziò a cambiare.

Per quanto riguarda la provincia dell'Iraq, dagli anni Quaranta del XIX secolo si formò un mercato illecito di antichità che andava di pari passo con le prime scoperte nelle aree archeologiche, e che nel giro di quattro decenni divenne talmente ben avviato fino a coinvolgere collezionisti e musei europei, e più tardi anche quelli americani14. Di

14 N. Brodie, The market in Iraqi antiquities 1980-2008, Archaeology Center Stanford University , 2008, disponibile al sito https://web.stanford.edu/group/chr/cgi-bin/drupal/files/Market%20in%20Iraqi %20antiquities%20(2008)%20txt.pdf

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conseguenza, come ci descrive P. Brusasco in uno dei suoi studi15, i primi nazionalismi iracheni cominciarono a rimproverare all'amministrazione ottomana il totale trafugamento degli oggetti presenti nelle reggie assire a beneficio del British Museum e del Louvre; ma, soprattutto, essi si opponevano alla più fallimentare regolamentazione che considerava questi beni come mere merci doganali e permetteva alle nazioni europee che effettuavano gli scavi di avere la totale proprietà su tutti i reperti trovati16. Fu necessario attendere il 1881 e la fondazione del primo nucleo del museo di Instanbul, per vedere la promulgazione di una legislazione che stabiliva la divisione paritaria dei reperti trovati durante le missioni archeologiche tra Impero ottomano e il paese europeo a cui apparteneva la missione di scavo. Tali leggi, però, non furono subito applicate in tutte le province dell'Impero e in Iraq si dovette attendere l'inizio del mandato britannico per vedere introdotte le prime legislazioni in materia. Nel 1922, l'amministrazione inglese creò un dipartimento delle antichità con il compito di stabilire nuove leggi che, però, in pratica, permettevano il traffico e lo facilitavano per le missioni europee17. Nel 1924 infine venne introdotta la vecchia normativa ottomana del 1881, soprattutto grazie agli sforzi della britannica Gertrude Bell18.

Soltanto nel 1936 si riuscì a creare il primo strumento utile per arginare l'emmorragia dei beni culturali iracheni dal paese. Avendo ottenuto l'indipendenza formale dal mandato inglese nel 1932, il nuovo stato iracheno, quattro anni dopo, promulgò la legge al-Husri (dal nome del direttore delle antichità dell'Iraq) che formalizzava la nazionalizzazione del patrimonio artistico-culturale della nazione e di tutti i reperti risalenti a più di due secoli. La legge, inoltre, spingeva le missioni archeologiche occidentali ad indirizzare i propri lavori di scavo verso altre aree, come la Siria, dove le leggi in materia erano ancora allo stato embroniale e più flessibili nei confronti delle potenze europee.19 La legge al-Husri restò in vigore fino al 1991 e riuscì a proteggere le antichità irachene, limitandone il commercio illegale, fino all'inizio delle ostilità della Prima guerra del golfo.

15 P. Brusasco, Tesori rubati: il saccheggio del patrimonio artistico in Medio Oriente , Milano, Bruno Mondadori, 2013, p. 33.

16 Ibidem.

17 N. Brodie, op .cit.

18 Gertrude Bell (1868-1926), archeologa, politica, scrittrice e agente segreto britannica. Durante il primo conflitto mondiale, svolse per conto del governo britannico un'attività clandestina di sostegno alla rivolta araba come azione di supporto al ruolo principale di Laurence d'Arabia. Finita la guerra diventa un personaggio chiave per la crezione del moderno stato dell'Iraq, contribuendo alla definizione dei suoi confini e di norme legislative.

19 Inoltre, da notare che paesi come la Siria e il Libano nel 1936 erano ancora sotto mandato francese (l'indipendenza verrà ottenuta soltanto alla fine del secondo conflitto mondiale).

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Nel 1974 entrò in vigore la nuova normativa sul patrimonio iracheno, che andò ad affiancare e a potenziare la precedente legge al-Husri: essa è definibile come la prima vera legislazione a protezione dei beni culturali iracheni, poichè finalmente in essa era contenuta, tra le altre norme, la totale proibizione ad esportare qualsiasi reperto archeologico, eccezione fatta per i campioni utilizzati per le analisi scientifiche. Si deve aggiungere, poi, il fatto che nel decennio 1970-1980 il ministero per le antichità iracheno godeva di numerosi fondi dovuti ai ricavi guadagnati dalla vendita del petrolio e quindi poteva permettersi personale altamente qualificato e, soprattutto, di mettere in sicurezza più di 1600 siti archeologici. Di fatto il saccheggio e il traffico illecito erano quasi del tutto scomparsi dal territorio nazionale iracheno. La situazione si deteriorò negli anni Ottanta del Novecento a causa del lungo conflitto con l'Iran che stremò l'economia irachena seguita, poi, dal tracollo finale che impose la Prima guerra del Golfo.

Esperienza diversa è quella vissuta dal Libano. Anche qui, come per le altre province ottomane, non esistevano leggi a difesa del patrimonio e, come descrive in un saggio A. Seif20, i diplomatici europei assoldavano direttamente lavoranti locali per condurre scavi. I reperti così trovati venivano poi venduti ai musei europei o a collezionisti occidentali. Interessante è il fatto che in queste aree troviamo l'intero traffico e la vendita di antichità in mano a specifici gruppi familiari, sia locali che occidentali. Esemplare è il caso della famiglia francese dei Durighello, impiegata nelle rappresentanze diplomatiche francesi su territorio libanese. Essa si occupava della vendita dei reperti trovati negli scavi da loro stessi finanziati direttamente al museo del Louvre, e lo fece indisturbatamente per un periodo che va dal 1882 al 190621. A loro, tra l'altro, si deve la celebre scoperta del Mitraeum nel sito di Saida: la maggior parte delle statue che lo adornavano si possono vedere ancora oggi al Louvre.

Altro caso di famiglia che gestiva la catena del traffico illecito di antichità, è costituito dal clan libanese dei Farh che risiedevano a Tiro. Anch'essi rifornivano il Louvre e li possiamo trovare nei registri dei venditori ufficiali per un periodo che va dal 1880 al 1911; essi fornivano non solo le collezioni orientali del museo francese ma anche quelle greche e romane. Il traffico di antichità costituiva per i membri della famiglia la

20 A. Seif, Illicit Traffick in Cultural Property in Lebanon: A Diachronic Study , in F. Desmarais (ed.),

Countering illicit traffic in cultural goods. The global challenge of protecting the world's heritage, Paris,

ICOM, 2015, p. 65, disponibile al sito

http://icom.museum/fileadmin/user_upload/pdf/publications/Book_observatory_illicit_traffic_version_iss uu.pdf

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principale fonte di finanziamento, e spesso essi facevano svolgere i lavori di scavo e recupero durante la notte per avere la possibilità, il giorno seguente, di spedire subito le antichità trafugate direttamente a Parigi.

Come visto precedentemente, seguendo l'esempio occidentale, nel 1881 il sultano Abdul-Aziz fondò il museo di Istanbul che avrebbe avuto sede nel Palazzo del Topkapi; ma è al suo successore, il sultano Abdul Hamid II, che si deve l'ampliamento delle collezioni, principalmente effettuato tramite il prelievo dei reperti da ogni provincia dell'impero tra cui il Libano dove fu rinvenuto a Sidone nel 188722 il famoso sarcofago di Alessandro, oggi esposto ad Istanbul.

Con la fine del Primo conflitto mondiale, l'Impero ottomano, che ne usciva da sconfitto, essendosi alleato con gli imperi centrali, si dissolse e molti dei suoi ex territori vennero posti sotto mandato internazionale e affidati principalmente a Gran Bretagna e Francia23. Durante i primi anni del mandato francese sul Libano, era l'esercito coloniale che aveva in affidamento il cosidetto Service des Antiquites, e cioè il compito di scoprire e investigare i siti archeologici24; tale attività era supervisionata dallo stesso museo del Louvre e dalla Academie Française des Inscriptions et des Belles Lettres. Fino al 1920 tale funzione fu svolta interamente dai militari, poi fu lasciata in mano a studiosi ed archeologi.

Allo scopo di regolamentare e controllare la circolazione delle antichià l'autorità francese, in collaborazione con il governo del grande Libano25, nel 1926 promulgò la legge numero 65126 che proibiva l'importazione di reperti dall'Iraq e dalla Palestina se sprovvisti di certificazioni dei loro paesi di origine. Dietro alla legislazione, però, si celava un accordo bilaterale con la Gran Bretagna, allo scopo di organizzare i rispettivi mandati e regolare le attività di scavo e indagine.

Successivamente, nel 1933 fu varata la legge 166 (scritta con il contributo dell'archeologo francese Charles Virolleaud), che organizzava il mercato delle antichità fornendo agli antiquari il diritto di vendere e comprare secondo precise regole, fra le quali spiccava l'obbligo di avere un permesso direttamente dal direttorio generale delle

22 Ivi, p. 66.

23 Nel diritto internazionale il Mandato è uno strumento giuridico creato dall'art. 22 del patto istitutivo della Società delle Nazioni per la tutela delle popolazioni considerate incapaci di autogovernarsi. Alla conclusione del secondo conflitto mondiale e con lo scioglimento della Società delle Nazioni, il Mandato, nei territori che non raggiunsero l'indipendenza, fu sostituito dallo strumento di amministrazione fiduciaria (o Trusteeship) sotto egida ONU.

24 Ibidem.

25 Cioè la provincia libanese e quella siriana insieme.

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antichità per poter commerciare, rinnovabile annualmente27.

Anche se l'indipendenza dalla Francia fu ottenuta subito dopo il termine del secondo conflitto mondiale, si dovette aspettare il 1988 per avere una nuova legislazione per la regolamentazione del fenomeno. Infatti, il Ministero per il Turismo, dopo 13 anni di guerra civile e presa in considerazione la degenerazione e la mancanza di controlli nel mercato interno delle antichità, promulgò il decreto ministeriale numero 8 che proibiva ogni tipo di eportazione di reperti del patrimonio libanese al di fuori del territorio. Pochi mesi dopo seguì il decreto ministeriale numero 14 che cercava di porre una regolamentazione nel mercato interno di antichità. Nel 1990, poi, i due provvedimenti furono uniti nel decreto ministeriale numero 8, che al divieto di esportazione di reperti aggiungeva il divieto di vendita anche all'interno del paese. Ma, contrariamente a quanto pensato, invece di porre il governo libanese in una posizione di comando, esso portò a una perdità di controllo da parte delle autorità, anche a fronte della crescita del mercato nero illecito e dei suoi collegamenti con il crimine transnazionale. C'é da aggiungere che solo negli anni Novanta il Libano arrivò a ratificare la Convenzione UNESCO del 1970 sul traffico illecito di beni culturali, ma anche se questa aggiunse la protezione a reperti che ne rimanevano sprovvisti nella legislazione nazionale, purtroppo essa non è applicabile retroattivamente e di fatto rimasero fuori dalla tutela normativa tutti gli oggetti sottratti illegalmente durante la lunga guerra civile.

Un caso particolare che merita una descrizione a sè, invece, è la situazione che si delineò in Turchia all'indomani della rivolta dei Giovani Turchi28. Il comitato di Unione e Progresso (in turco Ittihat ve Terakki Cemiyeti), dopo essersi stabilito al potere nel 1913 e avere aderito alla coalizione degli imperi centrali nel primo conflitto mondiale nel 1914, varò un programma di "ottomanizzazione" dei territori della Sublime Porta. Volendo omogeneizzare la società, il programma, tra le altre cose, disponeva di una vera e propria campagna di espropriazioni statali nei riguardi delle comunità non turche e non musulmane, giustificata soprattutto con la finalità di finanziare gli sforzi bellici della nazione. Il sistema di espropriazioni fu poi sfruttato come uno degli elementi costituenti il genocidio della comunità armena. Infatti, dopo la deportazione forzata della popolazione, la maggior parte degli oggetti, soprattutto quelli religiosi, furono distrutti anche se era molto frequente che case, interi villaggi, chiese e monasteri venissero saccheggiati e poi, totalmente in blocco, messi all'asta.

27 La legge rimase in vigore fino agli anni Ottanta del Novecento. 28 Il caso è trattato nel saggio di S. A. Hardy, op. cit., pp. 23-24.

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Durante il periodo di belligeranza e il proseguimento del genocidio armeno, il regime istituì commissioni per le proprietà considerate abbandonate (in turco Emval-i Metruke Komisyonlarì) con la finalità di cercare di legalizzare l'abbandono forzato, a seguito delle deportazioni, delle proprietà stesse, e per regolare le compensazioni dei sequestri perpetrati dalle autorità statali. Contemporaneamente furono costituite anche commisisoni di liquidazione (in turco Tasfiye komisyonlari) allo scopo di preparare la documentazione, ordinata da una corte, per le confische, le ridistribuzioni e le vendite a mezzo di aste pubbliche. Il ricavato di tali vendite veniva diviso fra i locali e le comunità musulmane turche rifugiate, incentivando quest'ultime a partecipare attivamente al genocidio.

Bisogna aggiungere che i beni culturali di minore dimensione venivano principalmente venduti nei bazaar locali, dove essi raggiungevano i mercati nazionali ed internazionali attraverso il polo primario di Costantinopoli.

Tutti i furti perpetrati, quindi, furono legalizzati attraverso le leggi sulle proprietà abbandonate (in turco Emval-i Metruke Kanunlari), che furono promulgate dal 1915 fino al 1930. Infatti anche dopo la fine del conflitto e la creazione della repubblica turca guidata da Ataturk, le espropriazioni continuarono con la motivazione di finanziare i debiti del conflitto mondiale e le spese per la guerra di indipendenza del 1919-1922. Insieme alle confische furono imposte anche delle tasse obbligatorie nazionali (in turco Tekalif-i Milliye) che colpivano maggiormente i beni degli esiliati e delle comunità minoritarie.

In conclusione, si è appena descritto come il patrimonio artistico-culturale ha da sempre affrontato minacce alla sua stessa esistenza e come i pericoli maggiori giungessero dalla stessa nazione di appartenenza, che invece di fornire la giusta protezione in molti casi incentivava la sua dispersione. Il Novecento è stato testimone delle prime legislazioni a difesa e conservazione dei beni culturali nazionali da parte di stati che, nella maggior parte dei casi, solamente da pochi anni aveva raggiunto una indipendenza completa. Purtroppo l'instabilità politica e i conflitti, che dal secolo scorso continuano e si ripercuotono anche ai giorni nostri, ha contrastato ed annullato gli effetti positivi di tali normative. Ad oggi il patrimonio culturale si trova ad affrontare forse la minaccia più grande che gli si è mai posta davanti, ovvero lo sfruttamento da parte del crimine transnazionale e dei gruppi terroristici. Nel prossimo capitolo illustreremo come è strutturato il traffico illecito contemporaneo, i suoi attori e le sue meccaniche, e analizzeremo la situazione ad oggi nei vari paesi medio orientali.

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