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Ho affrontato il linguaggio incolto di Rottenberg, quello propagandistico della conclusione di Gor’kij e dei paragrafi dedicati all’ingegner Maslov e a Frenkel’, il lessico tecnico del capitolo Assalto allo spartiacque

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Academic year: 2021

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5. COMMENTO TRADUTTOLOGICO

La natura ibrida del volume collettivo, unita alla decisione di tradurre quei brani che mi sono sembrati più significativi, ha fatto sì che i testi tradotti fossero molto diversi tra di loro per argomento, stile e lessico.

Ho affrontato il linguaggio incolto di Rottenberg, quello propagandistico della conclusione di Gor’kij e dei paragrafi dedicati all’ingegner Maslov e a Frenkel’, il lessico tecnico del capitolo Assalto allo spartiacque. Un corpus così eterogeneo ha richiesto delle microstrategie traduttive di volta in volta diverse e adeguate al testo e al caso specifico che mi si parava di fronte.

Pur nella specificità delle singole scelte, ho comunque cercato di elaborare un progetto traduttivo adeguato e coerente, rimanendo sempre consapevole del fatto che non esiste un progetto traduttivo migliore di un altro. Come spiega Laura Salmon, la traduzione è un lavoro di problem solving. «Per fare un progetto e decidere, in base a quello, cosa e come tradurre, si procede all’eliminazione delle opzioni che sono incompatibili con le finalità stabilite»

(Salmon 2003: pp. 197-198). È opportuno, quindi stabilire una gerarchia decisionale, perché ciò che il traduttore stabilisce all’inizio condiziona le strategie impiegate successivamente e guida il processo decisionale.

L’obiettivo che avevo in mente era quello di una traduzione equivalente sul piano funzionale, che conservasse nel TA «lo stesso potenziale

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comunicativo del TP, così da risultare equivalente sul piano funzionale»

(Salmon 2013: p. 815). Il merito del concetto di traduzione funzionale è quello di superare la dicotomia tra traduzioni fedeli e libere, in quanto tiene conti di più livelli del testo e aiuta a rispettare lo stile del testo.

Innanzitutto, ho cercato di immaginare un possibile lettore modello del volume collettivo. L’ho immaginato come un lettore colto, istruito e informato, che non ha certamente paura di confrontarsi con argomenti molto lontani da lui nello spazio e nel tempo, e che, verosimilmente, conosce bene la cultura e la storia russe. Per questo motivo, ho ritenuto che fosse opportuno, ad esempio, lasciare delle parole in russo, limitandomi a traslitterarle o a darne una spiegazione nel glossario, scelta che illustrerò nel dettaglio in seguito.

Alla individuazione del lettore tipo si accompagna quella della dominante, ossia «la componente attorno alla quale si focalizza il testo» (Cavagnoli 2012:

p. 25), sia a livello stilistico che di contenuto. Nei testi complessi è praticamente impossibile individuare una sola dominante, ma, nel mio caso, nonostante le differenze interne al testo, il contenuto ideologico, nonché la spinta propagandistica, costituisce sicuramente il perno intorno a cui ruota tutto il volume.

Secondo Eco, la traduzione è un’opera di negoziazione (Cfr. Eco 2003: p.

94). Tradurre significa trovare le strategie più appropriate per compensare quelle perdite di significato che sono praticamente inevitabili quando si trasporta nella propria lingua un testo che: «[…] Presenta elementi tipici dell’ambiente naturale, delle istituzioni e della cultura della sua area linguistica» (Newmark 1988: p. 24).

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Lo scopo ultimo del volume collettivo è quello di convincere il lettore circa il successo della politica rieducativa adottata all’interno del GULag. Si tratta di un tema fortemente connotato da un punto di vista storico, culturale e politico.

In effetti, i testi che hanno una forte caratterizzazione politica sono storicamente e culturalmente determinati e sono legati a una particolare idea o attività politica (Trosborg a cura di 1997: p. 119). Il nostro volume rientra in una categoria particolare: quella dei testi che hanno rilevanza politica e che sono realizzati da scrittori e intellettuali allo scopo di esprimere e avvalorare una determinata idea (Ivi, p.132).

La presenza costante di riferimenti alla cultura, alle istituzioni, alla geografia russe ha rappresentato una sfida che ho cercato di risolvere adottando di volta in volta la strategia che mi sembrava più adeguata. Quando è stato possibile, ho cercato di fornire l’informazione necessaria all’interno del testo stesso. Nei casi in cui ciò si è rivelato difficile o controproducente per l’economia del testo, per compensare l’asimmetria tra la conoscenza enciclopedica del lettore russo e quella del lettore italiano, sono ricorsa al glossario, scelta che illustrerò nel dettaglio in seguito. Ho scelto di evitare l’uso delle note per non interrompere la lettura.

Pur avendo in mente come scopo della mia traduzione l’equivalenza funzionale, ho dato rilevanza anche alle parole di Newmark, il quale, parlando di opere con un forte sapore locale e legate a un particolare periodo storico, afferma:

L’opera può descrivere una cultura lontana dall’esperienza del secondo lettore, con cui il traduttore vuole portarlo a contatto. Egli non si comporterà come l’autore

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nei confronti del lettore originale, per il quale l’argomento era o è scontato, ma lo proporrà al suo lettore come qualcosa di nuovo, dotato di un suo interesse intrinseco (Newmark 1988, p. 31).

È stato poi necessario riflettere sulla natura dell’opera da me affrontata, che si colloca a metà strada tra il resoconto storico e la fiction, mescolando aspetti propri di generi diversi. Sono d’accordo con Laura Salmon, la quale sostiene l’impossibilità di suddividere i testi in tipologie testuali pure. Si tratta di una schematizzazione troppo rigida, che non tiene conto della fondamentale natura ibrida della stragrande maggioranza delle opere. Un testo non è mai puramente informativo o puramente creativo, non esistono testi che rispondono a una sola funzione e non si può neanche distinguere in modo rigido tra testi tecnico- scientifici e testi narrativi. Per questo non esiste una strategia di traduzione specifica per ogni tipologia testuale. Sta al traduttore fare la giusta ipotesi sulla base del contesto (Cfr Salmon 2003: pp. 133-135). Nel mio caso, è stato d’aiuto avere sempre chiara in mente l’intenzione dell’autore (in questo caso degli autori).

Nella gerarchia decisionale che si pone di fronte a un traduttore esistono diverse dicotomie: omologare o straniare, attualizzare o storicizzare, orientarsi verso il testo o verso la destinazione. Questi termini si riferiscono a un annoso problema: una traduzione deve portare il lettore a immedesimarsi nel testo, quindi in una certa epoca e in un certo ambiente culturale, oppure si devono rendere l’ambiente e la lingua del testo accessibili al lettore d’arrivo? Ritengo che il criterio di scelta debba essere flessibile e che possa essere negoziato nel corso del lavoro, pur all’interno di una cornice coerente. La scelta migliore è

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sembrata quella di una generale attualizzazione che conservasse comunque degli elementi stranianti, i quali permettono al lettore di percepire la distanza culturale rispetto al testo che ha di fronte.

Una sostanziale attualizzazione con elementi stranianti può costituire, nella gerarchia decisionale, un buon compromesso per chi voglia presentare un’opera straniera a un pubblico italiano. Non si deve trascurare il fatto che alcuni elementi di distanza culturale emergono da soli, non solo in base alla forma delle parole, ma anche in base a ciò di cui si parla e alle associazioni che si creano. […] Per ottenere un effetto estetico (gradito), non si deve eccedere in estraneità, si deve mantenere vivo un legame tra il testo e le attese del destinatario (Salmon 2003: p. 208).

Sulla base di ciò mi è sembrato opportuno adottare una strategia localizzante. La localizzazione è la:

tendenza in base alla quale i traduttori conservano nel testo LA le peculiarità culturali di un testo, i riferimenti a una realtà storica, geografica, artistica diversa da quella della LA, accentuando la sua caratterizzazione locale (Osimo 1998, p.

125).

In seguito cercherò di illustrare nel dettaglio le singole strategie adottate per risolvere alcuni passaggi particolarmente delicati.

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5.1 . Termini istituzionali, culturali e geografici

Quando ci si trova di fronte a un testo in cui i riferimenti ai termini istituzionali, politici e geografici della cultura di partenza sono costanti è necessario trovare la strategia più adatta affinché la loro presenza nel testo non risulti ostica.

Per questo motivo la scelta più opportuna è sembrata quella di dotare il testo di un apparato paratestuale, perché si colmasse l’asimmetria tra la conoscenza enciclopedica del lettore russo e quella del lettore italiano. Ho creato, così, un glossario in cui vengono spiegati tutti quei termini verosimilmente ignoti al lettore italiano, ma importanti per la piena comprensione del testo. A sostegno di questa scelta, le parole di Osimo:

Sarebbe auspicabile commercializzare traduzioni che, a differenza di quelle che si prefiggono come obiettivo principale di non “affaticare” il lettore con note e introduzioni, avessero quel tanto di impostazione didascalica (nell’apparato) da poter essere lette e apprezzate anche dal lettore non specialista, consentendo nello stesso tempo al traduttore la massima adesione all’originale (Osimo, 1988: p. 39).

Per questo, il glossario contiene una serie abbastanza diversificata di realia ovvero di «oggetti di cui non esiste un equivalente in altre culture» (Osimo 1988: p.34). Si va dalle sigle, di cui si fa ampio uso nel testo, ai termini culturali, ovvero quelle parole-segnale fortemente legate alla cultura del testo di partenza. Nel caso delle sigle, avrei potuto fornire una spiegazione in nota o esplicitarle all’interno del testo stesso. Ma inserire una nota per ogni sigla presente nel testo, avrebbe fatto sì che il lettore dovesse interrompere spesso la

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lettura, di contro, inserire l’informazione all’interno del testo stesso, gli avrebbe tolto naturalezza e verosimiglianza, soprattutto nei dialoghi.

Per questo ho ritenuto che la scelta più opportuna fosse quella di spiegare il significato delle sigle nel glossario.

I termini culturali, invece, sono quei termini che, in un primo momento, aggiungono colore locale a qualsiasi descrizione del loro paese d’origine, ma a volte possono essere esportati e divenire noti anche nelle culture straniere (Cfr Newmark 1988: p.150). Per questo motivo termini noti come «intelligenty»,

«kulaki» o «samovar» non sono stati tradotti e non ho ritenuto necessario inserirli nel glossario, poiché è molto probabile che queste parole siano ormai conosciute anche da un ipotetico lettore italiano. D’altronde la scelta dei termini da inserire nel glossario o da lasciare traslitterati nel testo è legata a doppio filo all’individuazione del lettore modello: un lettore colto e di certo non pigro, che non ha paura di scontrarsi con cose che non conosce. Lasciare delle parole in russo con la sola traslitterazione permette di adottare una microstrategia straniante che fa sentire al lettore la distanza culturale con il testo che ha di fronte.

Anche il termine «Komsomolka» (p. 515) è stato lasciato in russo. Una traduzione, in questo caso, sarebbe stata fuorviante: una «komsomolka» è una donna iscritta alla gioventù comunista; tradurre come giovane comunista avrebbe indotto il lettore a credere che si trattasse semplicemente di una comunista di giovane età. Per evitare questa ambiguità, ho preferito lasciare il termine in russo e spiegare il suo significato nel glossario.

Altri termini, invece, hanno richiesto delle scelte di volta in volta diverse.

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Prendiamo, ad esempio, il termine «tuftá» (p. 411) che sta ad indicare una pratica molto diffusa tra la popolazione dei lager, sia tra gli ingegneri che tra gli operai. Essa consiste nel falsificare i dati di lavoro, riportando presso l’amministrazione del campo una quantità di lavoro superiore a quella effettivamente svolta. Al canale Mar Bianco-Mar Baltico era una pratica talmente pervasiva che si era diffuso il detto «senza la tuftá e l’ammonal non ci sarebbe il Belomorkanal» (Rossi 2006: p. 41). Dunque, si tratta di un termine molto specifico, gergale e strettamente legato alla realtà del GULag.

D’altronde, i gruppi sociali, politici, professionali o confessionali che raggiungono un certo grado di omogeneità, tendono a creare un vocabolario specifico, un gergo, sia forgiando parole nuove, sia attribuendo a parole esistenti un nuovo significato. Qualsiasi possibile traducente come «truffa»,

«raggiro» o «inganno», mi sembrava povero al suo confronto e comunque non dotato di un significato così specifico. Per questo ho deciso di non “tradire” il testo e di non tradurre il termine, dandone una spiegazione nel glossario.

Come «tuftá», anche il termine «tridcatipjatniki» ha richiesto una profonda riflessione. Il termine sta ad indicare coloro che erano stati condannati in base all’articolo 35 del codice penale. In questo caso una traduzione era necessaria per un’ovvia considerazione: il termine risulta difficile da leggere e da pronunciare per qualsiasi lettore che non conosce il russo. Per questo ho creduto che una traduzione appropriata fosse «trentacinquini» (p. 452), ma che fosse comunque necessario spiegare al lettore il significato del termine.

Un termine che ha richiesto una strategia simile è «kirsanovščina» (p. 409).

Si tratta di un neologismo creato dagli autori unendo il nome Kirsanov al suffisso -ščina. Questo tipo di neologismo rientra tra gli eponimi, cioè quei

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neologismi basati sui nomi propri e si collega al significato secondario di antonomasia, ovvero l’uso di un nome proprio per descrivere un’idea generale (Newmark 1988: p. 69). Il suffisso russo -ščina ha una sfumatura di significato negativa e spesso viene utilizzato per indicare un periodo storico, un’epoca, un atteggiamento o un fenomeno. Gli autori lo utilizzano per riferirsi al caso dell’ingegner Kirsanov, che aveva arrecato grave danno al cantiere, dichiarando i lavori nella propria sezione praticamente conclusi. In seguito a ciò, una buona parte della manodopera e degli strumenti di lavoro era stata mandata al canale Mosca-Volga. Ma Firin si era accorto che i lavori erano ben lontani dall’essere conclusi. Kirsanovščina diventa, dunque, sinonimo di tuftá, in quanto si riferisce non solo all’ingegner Kirsanov, ma anche a tutti quelli che lo avevano coperto. Seguendo questo ragionamento, ho deciso di tradurre con «Kirsanovismo», sostituendo al suffisso -ščina il nostro suffisso -ismo, che ha una connotazione spesso neutra, ma è utilizzato comunque per derivare nomi astratti che indicano un periodo, un movimento o un fenomeno. Anche in questo caso ho ritenuto opportuno spiegare nel glossario la genesi di questo termine.

Una scelta diversa è stata fatta per quei realia verosimilmente sconosciuti al lettore italiano, ma che non hanno un peso marcato all’interno dell’economia del testo. È il caso di «pirožki» (p. 496) che è stato tradotto come «paninetti ripieni». Lasciarlo in russo traslitterato avrebbe attirato troppo l’attenzione del lettore sul termine che non svolge un ruolo marcato. Rientra semplicemente nell’elenco di cibi che Rottenberg poteva mangiare all’istituto ebraico di beneficenza. In questo caso ho consapevolmente scelto di addomesticare.

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Per quanto riguarda il termine «čekist» ho optato per un calco, aggiungendo il suffisso –a, e spiegandone il significato nel glossario.

Solo in un caso è stato necessario inserire una nota. Nel capitolo conclusivo, riferendosi alle difficoltà che la scelta di essere uno scrittore ha comportato, Gor’kij dice: «C etogo momenta nastypajut tjažëlye dni, kogda ja načal ispytyvat’ “muchi slova”» (Gor’kij,p. 610). «Muchi slova», che ho tradotto come i «tormenti delle parole», è una citazione tratta da una poesia di Semën Nadson, poeta di fine ottocento. Gor’kij stesso vuole che la citazione venga colta dal lettore, infatti attira la sua attenzione su di essa, mettendola tra virgolette. Per questo motivo ho ritenuto opportuno fornire in nota questa informazione al lettore, ancora una volta per risolvere l’asimmetria tra la conoscenza enciclopedica del lettore russo e quella del lettore italiano.

Anche per quanto riguarda i termini geografici, la scelta è stata diversa a seconda del singolo caso. Quando gli autori fanno riferimento a nomi di città che hanno in italiano una traduzione accettata, ho adottato quella. Ho, invece, seguito le indicazioni di Newmark nei casi in cui il riferimento riguardava nomi geografici molto probabilmente sconosciuti al lettore italiano:

Quando le connotazioni di un nome geografico sono implicite in un testo storico o letterario, se è improbabile che i lettori le conoscano, il traduttore deve esplicitarle nella sua versione. Se la denotazione di un nome è sconosciuta o oscura, il traduttore spesso aggiunge il nome generico appropriato: «il fiume Rehe», «la città di Retheim»

(Newmark, 1988: p. 133).

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Per questo, quando gli autori fanno riferimento a fiumi o insediamenti verosimilmente non noti al lettore italiano, ho adottato la tecnica dell’esplicitazione. Così ho tradotto «il fiume Povenčanka», «il fiume Telekinka» «gli insediamenti di Nodvoicy, Tunguda e Sosnovec», aggiungendo appunto al nome geografico coniugato al nominativo quello generico, proprio come suggerisce Newmark. Ho fatto la stessa scelta anche quando gli autori, raccontando le origini di Frenkel’, nominano le Solovkí (p.

335). Ho tradotto «le isole Solovkí» per fare in modo che il lettore italiano riceva immediatamente la stessa informazione del lettore russo. In questi casi, dunque, è sembrato inevitabile adottare la tecnica dell’esplicitazione, che, come spiega Salmon:

Prevede nella maggior parte dei casi l’aggiunta o sostituzione (minima indispensabile) di un frammento di testo che renda al lettore italiano la stessa informazione disponibile in russo (Salmon 2013: p. 832).

5.2 . Storia di una riforgiatura

Il capitolo di Zoščenko Storia di una riforgiatura ha posto il problema di rendere il linguaggio incolto di Rottenberg in modo appropriato.

Nei casi in cui si ha a che fare con testi e linguaggi che si allontanano dalla lingua standard, Franca Cavagnoli suggerisce di attingere alle risorse dell’italiano parlato per contaminare la lingua scritta e marcare la differenza rispetto alla norma (cfr. Cavagnoli 2010, pp. 80-81). Ho seguito, dunque, le indicazioni della traduttrice: privilegiare la costruzione paratattica del periodo,

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usare congiunzioni che reggono l’indicativo come anche se, fare ricorso a frasi scisse, alle dislocazioni a destra e a sinistra del pronome, al gli polivalente per sostituire i pronomi plurali (Ivi, p. 82). Inoltre, nel linguaggio parlato si tende ad usare un numero maggiore di espressioni comuni e frasi colloquiali e preferire l’uso del di fare come verbo vicario.

Quello di Rottenberg è un linguaggio frammentario, fatto di frasi brevi, ripetizioni e da un uso delle congiunzioni che mima l’oralità. La mia scelta è stata quella di mantenere lo stesso tipo di linguaggio frammentario e le ripetizioni perché si tratta di elementi che hanno un peso marcato, in quanto caratterizzano il modo di esprimersi di Rottenberg. È stato necessario, invece, variare l’uso delle congiunzioni i, no e di vot.

Anche la cornice al racconto ha posto dei problemi, soprattutto per la polisemia di alcuni termini su cui Zoščenko stesso attira l’attenzione del lettore, mettendoli tra virgolette. Si tratta di termini particolarmente significativi, in quanto sottolineano il rapporto tra Zoščenko editore e Rottenberg autore della storia. I termini sono il verbo «pričesat’» (p.496) e il participio «obvedënnaja» (Ivi). Nel primo caso, ho tradotto con il verbo

«levigare», sebbene il significato letterale del termine sia pettinare. Zoščenko lo usa per descrivere il lavoro delicato e scrupoloso che ha dovuto compiere per rendere fruibile la biografia di Rottenberg, che senza una sua correzione non avrebbe potuto essere pubblicata. Nel secondo caso ho optato per il participio passato «ripassata». Il verbo obvesti può voler dire condurre, guidare, portare intorno, oppure disegnare i contorni di qualcosa. Entrambi i significati in questo caso hanno valore, in quanto Zoščenko guida la biografia di Rottenberg con la propria penna, ma al contempo, cercando di non cambiare

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troppo le caratteristiche della sua scrittura, ne traccia i contorni con delicatezza. Ma abbiamo già detto che spesso tradurre significa fare delle scelte, e chi traduce sa che, a volte, quando privilegia un campo, un significato, una particolare sfumatura, perde qualcos’altro. Ho scelto il verbo ripassare per sottolineare il fatto che la biografia era stata scritta sì da Rottenberg, ma sistemata poi dalla mano non invasiva di Zoščenko.

C’è stato un caso in cui non è stato possibile compensare una perdita. Il paragrafo in cui Zoščenko spiega che il suo atteggiamento nei confronti della rieducazione degli uomini era inizialmente scettico si intitola «zaklučenie» (p.

494). Come ho già spiegato nel capitolo precedente, questo termine significa sia conclusione che detenzione. La polisemia del termine qui ha una valenza fondamentale: vuol dire che la conclusione positiva, cioè il successo del processo di rieducazione è scontato, ma dipende proprio dal fatto che Rottenberg e gli altri detenuti hanno soggiornato nel campo di lavoro. Non è stato possibile rendere tale polisemia e ho semplicemente dovuto prendere atto della perdita.

Un altro caso particolarmente complesso si è presentato all’inizio della cornice introduttiva. Zoščenko sta spiegando qual era il tipo di detenuto che attirava la sua attenzione: «Na belomorkom kanale mnja zainteresovali ne te ljudi, katorye to li v silu slučajnosti ili, kak skazal odin zaključennyj, v silu

“musornych obstojatel’stv” stali pravonarušiteljami» (p. 493). Ho tradotto:

«Al Belomorkanal non mi interessavano quegli uomini che, magari per caso, o come disse uno dei detenuti, per “circostanze torbide” erano divenuti dei trasgressori». Ho deciso di rendere «musornye obstojatel’stv» come

«circostanze torbide», perché una traduzione letterale sarebbe stata

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impossibile, ma l’aggettivo torbido conserva comunque il senso di sporcizia proprio dell’ aggettivo musornye.

5.3 I dialoghi

Il capitolo di Zoščenko e il paragrafo intitolato Dopo l’assalto hanno poi presentato la sfida di tradurre i dialoghi in modo adeguato. Il rischio che si corre, quando si ha a che fare con l’oralità, come afferma Franca Cavagnoli, è che la lingua viva dei dialoghi nel testo tradotto non conservi la freschezza originaria (Cavagnoli 2012: p. 75).

Questi dialoghi contengono molti termini colloquiali, che si allontanano dal russo standard. La mia scelta è stata quella di usare delle espressioni e una sintassi che suonassero colloquiali anche in italiano. Un esempio: l’assalto allo spartiacque è concluso, il canale è quasi completato e gli scrittori si chiedono come mai i lavoratori si rifiutino di accettare le agevolazioni che hanno ottenuto e di tornare a casa prima del tempo stabilito. Uno di loro risponde così: «Da znaeš’, sovestno kak-to. Načali bol’šoe chozjajstvo, a tut vzjal, da i brosil, ne dokončil […]. Detiški, da i nebos’ vec’ gorod načnët poprekat’, deskat’, struxnuli» (p. 454). Questa frase contiene espressioni del prostorečie e colloquiali, che contribuiscono a un abbassamento dello stile. Date queste premesse, la mia traduzione suona così: «Sai che è, ci vergogniamo. Abbiamo iniziato ‘sta grande opera e prendi e la lasci così, senza finire. […] I bimbetti e pure tutta la città ce lo rinfacceranno, come a dire, guarda quelli che se la sono squagliata».

I dialoghi, inoltre, pongono un problema di natura pragmatica: quello di adottare la giusta forma di cortesia. Nella mia traduzione Rottenberg dà quasi

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sempre del tu alle persone con cui parla, dai delinquenti che incontra sulla sua strada fino agli educatori del campo, sebbene nel testo di partenza in alcuni casi (ma non sempre) dia del voi. Ho fatto questa scelta perché trovavo più verosimile che un delinquente desse del tu sia ad altri delinquenti come lui che agli educatori del campo, poiché all’inizio non ha alcun rispetto per loro. Ho fatto questa scelta, dunque, perché ho reputato gli scambi che impegnavano Rottenberg come simmetrici. Altri personaggi, come Frenkel’ e Maslov, invece, danno del voi. Ho reputato questa scelta più consona alla loro posizione, nonché alla loro professione. Ho, invece, del tutto escluso l’uso del lei, perché anacronistico.

5.4 . Il lessico tecnico e politico

Un testo ibrido come il volume collettivo presenta numerosi termini legati all’ingegneria, all’idrologia, ai lavori di sterro e agli scavi nella roccia. E non solo, naturalmente sono tanti anche i termini legati al lessico politico. Con questo non voglio dire che siamo di fronte a un testo tecnico-scientifico o a un discorso politico, ma piuttosto di fronte a un testo che presenta un lessico che può assumere carattere tecnico o politico. Come sostiene Dobrenko, avere a che fare con questo testo significa trattare innanzitutto di letteratura.

(Dobrenko 2007: p. 170).

Nel caso del lessico legato all’idrologia e ai lavori nella roccia, la sfida maggiore è stata posta non tanto dalla difficoltà del lessico stesso, quanto piuttosto dalla necessità di rendere il riferimento in modo adeguato. Eco spiega così il riferimento:

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Un atto linguistico mediante il quale, dato per riconoscibile il significato dei termini che si usano, si punta su individui e situazioni di un mondo possibile […]

e diciamo che in una data situazione spazio-temporale si dà il caso che ci siano determinate cose o si verifichino determinate situazioni (Eco : p. 141).

Per rendere i riferimenti nel modo adeguato, per esempio nel capitolo in cui si descrive l’assalto allo spartiacque, ho usato enciclopedie e immagini che mi permettessero di associare il termine russo (la gru, la miccia, i fori nella roccia, la paratia etc.) al giusto traducente italiano. Secondo le parole di Newmark, in questi casi il problema maggiore è stato posto dalla categoria della denotazione, ossia: «il significato diretto e specifico di una parola», che però, può essere «messo in luce nel modo più efficace con mezzi concreti (es.

una foto)» (Newmark 1988: p. 209). Trattandosi di un lessico specifico e tecnico, con cui non avevo grossa familiarità, il rischio di fraintendere il testo russo era qui maggiore.

Per quanto riguarda il lessico politico, il rischio che si corre è quello di non cogliere o fraintendere le informazioni e le parole chiave del testo legate alla cultura di partenza, trattandosi appunto di un testo legato a doppio filo alla cultura di origine. Parola chiave di questo testo, nonché il fulcro intorno a cui ruota tutta l’opera e la propaganda creata per giustificare l’esistenza stessa del GULag, è il termine «Perekovka». Ho scelto di tradurre come «riforgiatura», perché mi sembrava il termine più adatto a rendere il cambiamento totale, la ricostruzione della coscienza che riguarda i detenuti, che vengono appunto riforgiati grazie al lavoro e all’educazione socialista.

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Nei paragrafi dedicati a Maslov, a Frenkel’ e nella conclusione ho cercato di mantenere lo stesso lessico altisonante, di modo che quella che ho individuato come la dominante, ossia la spinta propagandistica, non venisse mai persa di vista.

5.5 . Le espressioni idiomatiche

Le espressioni idiomatiche sono quelle espressioni che danno colore a un testo e la loro assenza di conseguenza lo impoverisce. Non sempre hanno un equivalente nella lingua in cui si traduce e in questo caso possono essere tradotte con un’espressione non idiomatica. Ma se si adotta con regolarità questa soluzione, la traduzione rischia di risultare piatta. Esistono poi gli pseudo-idiomi, cioè quelle espressioni che si basano su un idioma, variandone la struttura (Cfr. Trosborg p. 110).

Ho cerato di tradurre le espressioni idiomatiche in un’ottica di equifunzionalità. Ecco alcuni esempi.

Quando Rottenberg incontra un amico ad Alessandria d’Egitto, questi gli dice di avere visto la compagna con un altro uomo. Rottenberg non prende bene la notizia e l’amico gli dice: «Ty belyj kak bumaga» (p. 511). Ho tradotto con «sei bianco come un cencio», espressione idiomatica italiana e che rende lo stesso effetto.

In un altro caso, invece, non ho potuto tradurre l’espressione idiomatica russa con un’altra italiana. Quando Rottenberg litiga con il soldato che si era innamorato della compagna, racconta di essere piuttosto brillo. Scrive: «Ja byl nemnogo pod muchoj» (p. 502). Non ho trovato un’espressione idiomatica italiana che avesse lo stesso significato, per questo motivo ho dovuto

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normalizzare e tradurre: «ero piuttosto bevuto». Ho cercato, comunque, di mantenere la connotazione colloquiale del modo di dire, utilizzando il participio italiano bevuto. In entrambi i casi ho utilizzato la strategia della compensazione:

La tecnica della compensazione si usa quando, in caso di asimmetria tra le due lingue, la funzione di un elemento del Testo di Partenza o della sua morfologia viene compensata da un altro elemento linguistico nel Testo di arrivo (Salmon 2013, pp. 831-832).

Un altro esempio: quando gli scrittori ci spiegano il segreto del metodo di Frenkel’, ossia la concretezza, affermano che chiunque può imparare tale metodo e diventare un organizzatore capace tanto quanto lui. D’altronde, questo è il principio che sta alla base della perekovka: chiunque, se guidato bene, può cambiare e può imparare a padroneggiare delle qualità che prima non sapeva di avere. Per dire tutto questo, gli scrittori usano l’espressione «ne Bogi gorški obžigajut». L’espressione sta ad indicare che ogni uomo può fare qualsiasi cosa, anche se inizialmente non ha le competenze. Per questo ho ritenuto che una traduzione di questa espressione che si adattasse al contesto in cui viene usata, fosse: «Nessuno nasce maestro».

Nel suo Making History for Stalin, Ruder analizza la traduzione inglese del volume collettivo pubblicata da autori anonimi già nel 1935. Questa traduzione non rispetta il testo originale né nella progressione degli eventi, né nella suddivisione dei paragrafi e dei capitoli, né spesso nel contenuto delle singoli frasi. Da questo lavoro emerge il giudizio positivo dei traduttori inglesi circa la

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politica adottata dall’Unione Sovietica all’interno dei campi di lavoro. La traduzione, infatti, mette in luce alcuni aspetti, oscurandone altri e modificando del tutto la struttura del testo. Ma questa non è più una traduzione, bensì un’interpretazione (Cfr. Ruder 1999: pp. 193-198). Ritengo che lo scopo di una traduzione non sia questo e che da una traduzione non debba trasparire alcun giudizio morale.

Pur essendo consapevole del fatto che il testo non potrebbe essere letto oggi allo stesso modo in cui gli autori volevano che fosse letto negli anni ’30, ho cercato di mantenere e di rispettare il loro stile e il loro tono, perché sia il lettore a farsi la propria idea e a trarre le proprie conclusioni semplicemente leggendo.

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