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Formazione civile e formazione religiosa: la questione delle “scuole di tendenza” e l’Islam

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Academic year: 2022

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Marco Parisi

(ricercatore di Diritto Canonico ed Ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi del Molise)

Formazione civile e formazione religiosa: la questione delle “scuole di tendenza” e l’Islam *

SOMMARIO: 1. Dalla “scuola dello Stato” alla “scuola delle autonomie” - 2. La

“difficile” parità scolastica nel sistema nazionale d’istruzione e la liceità di scuole islamiche parificate - 3. Il soddisfacimento delle esigenze dei gruppi etnico-sociali di recente insediamento nelle nuove modalità istituzionali di organizzazione dell’istruzione.

1 - Dalla “scuola dello Stato” alla “scuola delle autonomie”

Con una sufficiente dose di cinismo e di realismo politico, un uomo di governo abile ed esperto come Camillo Benso Conte di Cavour sosteneva, convintamente, che «(…) quando si vuole occupare la Camera interminabilmente e senza conclusione, basta gettare in preda agli onorevoli deputati un progetto di legge d’istruzione»

1

. Quasi a voler confermare quest’orientamento, teso ad evidenziare la vivacità delle discussioni parlamentari su questa materia, anche Vittorio Emanuele Orlando, nel suo ruolo di Ministro dell’Istruzione, commentava nel 1903 l’incapacità decisionale delle Camere in tema di educazione e formazione delle giovani generazioni, sottolineando come la scuola presentasse la caratteristiche di «(…) un organismo quanto mai delicato cui il medico può fare, forse, assai più il male che il bene, sì che qualche volta, l’astenersi è prudenza»

2

.

Si tratta di citazioni che, anche se datate, possono ritenersi attuali, soprattutto tenendo conto della ipertrofia normativa in materia d’istruzione, tale da distinguersi per la sua ampiezza e per la sua

* Intervento al Seminario di Studi su Europa e Islam. Ridiscutere i fondamenti giuridici per la disciplina delle libertà religiose, Università degli Studi di Salerno, Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di Teoria e Storia delle istituzioni, 3 dicembre 2007.

1 La citazione è tratta da L. PALMA, Studi di legislazione scolastica comparata, Firenze, 1875, p. 135.

2 L’espressione è citata da F. GRASSI ORSINI, Orlando, profilo dell’uomo politico e dello statista: la fortuna e la virtù, in V.E. ORLANDO, Discorsi parlamentari, Bologna, 2002, pp. 44-45.

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contraddittorietà, talvolta evidenziante radicali mutamenti di orientamento del legislatore anche in intervalli di tempo molto esigui.

Così, quasi a voler contraddire l’invito di Vittorio Emanuele Orlando, più che un atteggiamento astensivo del legislatore in materia si è storicamente registrata una tendenza al susseguirsi di progetti di riforma, che pretendevano di assumere il carattere della definitività, salvo poi essere modificati nel breve volgere delle legislature.

In effetti, non può negarsi che l’istruzione sia, per vari aspetti, al crocevia del dibattito politico-istituzionale e dei processi di riforma amministrativa che hanno ricevuto un significativo sviluppo in questi ultimi anni, i cui esiti non sempre sono sembrati essere all’altezza delle aspettative

3

. Quello dell’istruzione può essere considerato uno dei settori principali di emersione delle trasformazioni funzionali ed organizzative avviate, sia pure spesso in modo disorganico, a partire dai primissimi anni novanta del secolo scorso, dopo decenni d’inattuazione sostanziale dei principi fondamentali della Costituzione, in particolare di quelli legati al riconoscimento del pluralismo sociale ed istituzionale e alla valorizzazione delle autonomie.

Si è assistito, per tale via, al consolidamento nel nostro ordinamento giuridico di una serie di innovazioni legate essenzialmente alla cifra dell’autonomia. Ciò ha portato, tra l’altro, al riconoscimento di una realtà multiforme, aprendo spazi alla valorizzazione della differenziazione istituzionale e alle possibilità di responsabilizzazione dei corpi sociali nell’autogoverno del mondo dell’istruzione, nella prospettiva di sviluppo e di concretizzazione di quei principi costituzionali (contenuti negli artt. 2 e 5 della Carta del 1948) rimasti, per lungo tempo, attenuati per via delle ben note resistenze al cambiamento della burocrazia (molto forti anche nel settore della scuola) e della regionalizzazione riduttiva degli anni settanta

4

.

3 In dottrina A. SANDULLI, Il sistema nazionale di istruzione, Bologna, 2003, p. 12, sottolinea con vigore questa convinzione, ritenendo che il tema della scuola sia al centro del dibattito politico e giuridico «(…) in un periodo, quale quello attuale, dominato da spinte, in apparenza inconciliabili, di tipo particolaristico e, al contempo, globalizzanti, che, da un lato, preludono ad una necessaria rivisitazione dei caratteri tipici del Welfare State e, dall’altro, inducono a rinvenire proprio nelle antitetiche radicalità di tale rilettura i pericoli maggiori per la rottura dei delicati equilibri che sono alla base del patto sociale tra istituzioni e società civile».

4 I primi provvedimenti finalizzati a realizzare il trasferimento, quanto al mondo dell’istruzione, delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni sono adottati sulla base della legge delega 16 maggio 1970 n. 281, che poi ha condotto all’emanazione dei decreti legislativi delegati del 1972. In particolare, con i D.P.R. 14 gennaio 1972 n. 3, 15 gennaio 1972 n. 10 e, soprattutto, attraverso la legge delega 30

(3)

È noto, infatti, come fino all’approvazione della legge n. 142 del 1990 (Ordinamento delle autonomie locali) fosse, in sostanza, prevalso un modello organizzativo statocentrico

5

, di matrice napoleonica, fondato in buona parte sulla cultura della gerarchia, della dipendenza e dell’uniformità. Invece, con l’adozione di questo specifico provvedimento di organizzazione delle autonomie locali, si è cominciato ad abbozzare un disegno, sempre più determinato ed incisivo, di riconoscimento e di valorizzazione del policentrismo in un

luglio 1973 n. 477, si determinava l’estensione della formula partecipativo-democratica alla scuola, che veniva concepita come una comunità in grado di interagire con l’intera società politica e civile. La ratio politica ed istituzionale sottesa all’adozione di questo complesso normativo andava rinvenuta nel tentativo di democratizzazione del sistema d’istruzione a favore dei governi locali, a cui venivano riconosciute le prime modalità di partecipazione nell’organizzazione scolastica. Tuttavia, la presenza, in questi stessi provvedimenti normativi, di disposizioni tese a ricondurre, per certi aspetti, allo Stato funzioni già precedentemente trasferite, ha evidenziato la natura di

“mediazione” di queste riforme legislative, miranti, nel contempo, ad affermare il carattere statale del servizio scolastico e le nuove istanze di specifica autonomia della scuola. Per ulteriori indicazioni si veda A. SMORTO, Brevi note sul ruolo delle Regioni nel settore dell’istruzione pubblica dopo i decreti delegati, in AA. VV., I decreti delegati sulla scuola, Milano, 1978, p. 228: U. POTOTSCHNIG, I decreti delegati e l’ordinamento dello Stato, in AA.VV., La gestione democratica della scuola, Firenze, 1975, pp. 76 e ss.

5 La “statalizzazione” del sistema scolastico, fortemente necessitata dalle esigenze di unificazione (anche) culturale dello Stato italiano unitario, si è realizzata per mezzo della scelta di avocare al potere statale il diritto-dovere di provvedere all’istruzione per mezzo della creazione di un Ministero ad hoc (1847) e con l’adozione delle leggi Boncompagni (l. n. 759 del 1848) e Casati (R.D.L. n. 3721 del 1859). Questo preciso orientamento del legislatore liberale ha subito, quindi, una notevole accelerazione agli inizi del Novecento, in concomitanza con l’aumento della domanda d’istruzione. Si inserivano in questo contesto la legge n. 407 del 1904, che aveva conferito agli organi centralo dello Stato la definizione del trattamento economico e normativo degli insegnanti e aveva elevato l’obbligo scolastico a dodici anni, la legge n. 487 del 1911 e il Regio decreto legge n. 786 del 1933, che disposero il passaggio allo Stato delle scuole elementari. Questi provvedimenti determinavano, tra l’altro, l’aumento secondo una progressione geometrica del corpo insegnante, il moltiplicarsi delle funzioni del Ministero della Pubblica Istruzione, l’aumento dei fondi stanziati nel bilancio dello Stato per l’istruzione e la cultura. Inoltre, l’avocazione dell’insegnamento elementare allo Stato conferiva all’amministrazione scolastica i caratteri della centralizzazione, nella veste di apparato di gestione statale diretta della scuola. Questo modello, peraltro, è passato, senza soluzione di continuità, anche attraverso la Costituzione repubblicana e (almeno sino alle riforme degli anni Novanta) si è tradotto in un’amministrazione strutturata in maniera gerarchica ed articolata in tre gradi: organi dell’amministrazione scolastica centrale (Ministero della Pubblica Istruzione e Consiglio Superiore della P.I.); organi dell’amministrazione scolastica periferica (Sovrintendente scolastico, Provveditorato agli Studi, Consiglio scolastico provinciale e Consiglio scolastico distrettuale); organi preposti alle singole scuole o istituti (Direttori didattici per le scuole elementari, Presidi per le scuole medie). Sul punto cfr.

G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana, Bologna, 1996, pp. 329 e ss.

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quadro di unità del sistema, avente ad oggetto le autonomie sociali e funzionali (anche del mondo della scuola)

6

, sulla base di una visione fortemente ispirata al principio di sussidiarietà

7

, nella sue due accezioni verticale ed orizzontale

8

.

6 L’obiettivo, sostanzialmente perseguito, mirava al superamento del modello burocratico, gerarchico e ministeriale dell’istruzione, basato su rigidi criteri di uniformità, in favore della realizzazione di una rete di Istituzioni scolastiche autonome, ciascuna in grado di proporsi come soggetto erogatore dei servizi educativi, con l’adozione di curricola calibrati rispetto alle diversità di esigenze socialmente rilevabili. Per approfondimenti cfr. G.C. DE MARTIN, Istruzione e formazione, in V. CERULLI IRELLI e C. PINELLI (a cura di), Verso il federalismo.

Normazione e amministrazione nella riforma del Titolo V della Costituzione, Bologna, 2004, pp. 141 e ss.

7 Si ricorda che il principio di sussidiarietà è stato elaborato dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica in epoca fascista, in risposta alla concorrenza ideologica del regime che tendeva a monopolizzare l’educazione delle giovani generazioni attraverso l’obbligatoria partecipazione di esse a formazioni collettive legate al partito fondato da Mussolini (Figli della Lupa, Balilla, Giovani Universitari Fascisti). L’obiettivo perseguito dalla Chiesa consisteva nell’affermazione del principio secondo cui anche i privati (e le organizzazioni confessionali in specie) potessero partecipare all’erogazione di determinati servizi (soprattutto quelli sociali), rompendo il rigido monopolio statale in materia. In proposito I. MASSA PINTO, Il principio di sussidiarietà. Profili storici e costituzionali, Napoli, 2003, pp. 175 e ss.; V. TOZZI, Chiesa cattolica, politica e partiti politici in Italia, in A. MUSI (a cura di), Forma-partito e democrazie dell’Europa mediterranea: origini, sviluppi, prospettive, Soveria Mannelli, 2007, p. 75. Più dettagliatamente sulle origini filosofiche ed ideali del principio di sussidiarietà, cfr. D. ANTISERI, Mercato, sussidiarietà, Europa nella tradizione del cattolicesimo liberale, in Instrumenta, 2003, 19, pp. 41 e ss.; G. BERTI, Principi del diritto e sussidiarietà, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2002, 1, pp.

381 e ss.; O. CONDORELLI, Sul principio di sussidiarietà nell’ordinamento canonico:

alcune considerazioni storiche, in M. PARISI (a cura di), Autonomia, decentramento e sussidiarietà: i rapporti tra pubblici poteri e gruppi religiosi nella nuova organizzazione statale, Napoli, 2003, pp. 41 e ss.; A. RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e modello d’analisi, in A. RINELLA,L. COEN,R. SCARCIGLIA(a cura di), Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali. Esperienze a confronto, Padova, 1999, pp. 18 e ss.

8 Com’è noto, si fa riferimento alla “sussidiarietà verticale” allorquando i soggetti del rapporto sussidiario siano costituiti da articolazioni dello Stato-apparato, o, più specificamente, da differenti livelli di governo; si parla, invece, di “sussidiarietà orizzontale” quando tale rapporto viene ad instaurarsi tra soggetti pubblici e soggetti privati, o meglio tra sfera pubblica e sfera privata. Queste due distinte applicazioni, tuttavia, debbono ritenersi combinate, anche se appare problematico ricostruirne una vera e propria interdipendenza, soprattutto ove si prenda in considerazione l’eterogeneità dei rispettivi contenuti. In ogni caso, sembra potersi affermare che, nonostante risulti arduo il tentativo di ricondurre ad unità le valenze funzionali incorporate, rispettivamente, dal principio che regola i rapporti tra soggetti pubblici di diverso livello, e quello che disciplina, invece, il modo in cui iniziativa pubblica e iniziativa privata possono concorrere nel perseguimento di obiettivi di interesse

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Tuttavia, il provvedimento normativo destinato a segnare una svolta rispetto al tradizionale modello dell’accentramento di funzioni nell’amministrazione statale è stata la legge n. 59 del 1997 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), la quale, nell’art. 21, ha portato a compimento il processo autonomistico delle Istituzioni scolastiche, grazie al conferimento ad esse della personalità giuridica. Si è trattato di una novità rilevante, in quanto si è consentito, in tal modo, il trasferimento agli istituti d’istruzione delle funzioni precedentemente esercitate dall’amministrazione statale e il conferimento ad essi di una specifica sfera di autonomia per il loro esercizio, con la sola riserva allo Stato degli elementi comuni all’intero sistema scolastico pubblico.

Segnatamente, le forme di autonomia di cui le Istituzioni scolastiche sono fatte destinatarie si sono rivelate di notevole spessore, concernendo l’autonomia organizzativa, didattica, amministrativa e finanziaria al fine del raggiungimento dell’obiettivo fondamentale dell’autogoverno del mondo dell’istruzione.

Alla realizzazione del processo di progressiva autonomia

funzionale della scuola si è accompagnato quello più direttamente

concernente il decentramento amministrativo, in forza del quale si sono

delegate alle Regioni e agli enti locali nuove ed importanti funzioni, fra

cui quelle di carattere programmatorio in materia d’istruzione,

divenute oggetto di un’attività di gestione concordata con le Istituzioni

scolastiche. Si è, sostanzialmente, trattato della normativizzazione della

formula della concertazione tra Enti territoriali ed istituti d’istruzione

per la definizione delle politiche educative e di formazione, contenuta

nel D. lgs. n. 112 del 1998 (Conferimento di funzioni e compiti

amministrativi dello Stato alle Regioni e agli enti locali, in attuazione del capo

I della legge 15 marzo 1997, n. 59), e nel D.P.R. n. 275 del 1999

(Regolamento recante norme in materia di autonomia delle Istituzioni

scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59). In tal modo,

il legislatore riformatore, legando in un’unica prospettiva l’azione delle

collettivo senza esautorare il ruolo dell’una o dell’altra, le due declinazioni del principio di sussidiarietà sembrano tendere alla affermazione di una peculiare forma di “pluralismo diffuso”, finalizzato a decentrare le istituzioni, le funzioni pubbliche, l’organizzazione, l’iniziativa e le responsabilità. Ovvero, il principio, nel suo complesso, appare teso a favorire la realizzazione di un “pluralismo sussidiario”, tanto sul piano dei livelli di governo che su quello dell’articolazione del rapporto pubblico-privato. In dottrina cfr. P. DE CARLI, Sussidiarietà e governo economico, Milano, 2002, pp. 251 e ss.; P. RIDOLA, Forma di Stato e principio di sussidiarietà, in AA.VV., La riforma costituzionale, Padova, 1999, p. 206.

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comunità scolastiche e degli enti locali, è sembrato voler fugare il timore che la riconosciuta autonomia degli istituti scolastici potesse dar luogo alla recisione dei necessari rapporti tra le amministrazioni scolastiche e il complesso delle amministrazioni deputate ad esprimere, ai vari livelli territoriali, la sovranità popolare, favorendo la trasformazione della scuola in un corpo del tutto autoreferenziale

9

.

L’inclinazione a ritenere l’autonomia delle Istituzioni scolastiche un elemento irrinunciabile al fine di favorire l’esplicazione delle esigenze legate alle istanze territoriali locali e al pluralismo ideologico e culturale (di cui, peraltro, sono interpreti gli stessi fruitori dei servizi d’istruzione) ha trovato un positivo riscontro anche nella riforma del Titolo V della Carta costituzionale, grazie all’esplicita menzione, nel testo del rinnovellato art. 117 Cost., dell’autonomia delle scuole

10

. Infatti, nel comma III del norma riformata, anche se l’istruzione è inserita nel novero delle materie di legislazione concorrente, è stato operato un preciso riferimento all’autonomia degli istituti scolastici al fine di coordinare le esigenze del decentramento amministrativo con le aspettative di autogoverno gestionale ed organizzativo dei soggetti istituzionalmente deputati alla erogazione dei servizi d’istruzione.

Sulla scia di questa innovazione costituzionale, la legge n. 53 del 2003 (Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione

9 A. CORPACI, Art. 136, in G. FALCON (a cura di), Lo Stato autonomista, Bologna, 1998, p. 456-458; G. GASPERONI, L’organizzazione scolastica in Italia, in Le istituzioni del federalismo, 1999, pp. 1035 e ss.

10 La “clausola di salvaguardia” dell’autonomia delle Istituzioni scolastiche, esplicitamente prevista dal comma III dell’art. 117 Cost., sembra aver consentito il passaggio ad un modello d’istruzione completamente diverso dal sistema configurato nelle leggi Casati e Gentile, favorendo una maggiore flessibilità di un modello organizzativo che, per poter funzionare nel modo più compiuto, deve raccordare il rispetto dei programmi nazionali d’insegnamento con le nuove modalità di espressione della didattica. Ovvero, le Istituzioni scolastiche, grazie anche alla valorizzazione costituzionale della loro autonomia, hanno assunto il ruolo di principali gestori del processo formativo. Proprio in questo sembra risiedere il più autentico significato dell’autonomia loro riconosciuta, consentendo ad esse di modellare l’esercizio della funzione educativa in base alle esigenze della propria utenza e in relazione alle politiche territoriali del lavoro (nonché all’offerta di formazione superiore, sia universitaria che extra-universitaria). In quest’ottica, sembrano essere divenute centrali, per il concreto inveramento dell’autonomia delle Istituzioni scolastiche, l’autonomia finanziaria e gestionale, organizzativa e didattica, già riconosciute alle scuole dal D.P.R. n. 275/1999.

In dottrina si veda A. POGGI, Istruzione, formazione e servizi alla persona. Tra regioni e comunità nazionale, Torino, 2007, pp. 35-37; A. SANDULLI, Sussidiarietà ed autonomia scolastica nella lettura della Corte costituzionale, in Le istituzioni del federalismo, 2004, 4, pp.

552-556.

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professionale), meglio nota come riforma Moratti, ha impegnato il Governo a rispettare, nell’esercizio dell’azione di delega legislativa, il

«(…) principio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla Costituzione››. Per tale via, si è conseguito il risultato di delimitare la discrezionalità delle scelte legislative statali centrali in materia d’istruzione che, pur nella necessaria e puntuale definizione degli obiettivi minimi perseguiti dal sistema formativo nazionale, sono tenute a non mortificare le riconosciute capacità di gestione autonoma delle scuole, soprattutto sotto il profilo didattico e pedagogico

11

.

Sostanzialmente, ne è conseguito che il riconoscimento (anche a livello costituzionale) dell’autonomia delle Istituzioni scolastiche ha favorito l’adozione di una maggiore flessibilità ed elasticità nella erogazione dei servizi d’istruzione, nella prospettiva non solo di determinare l’affermazione di un diverso modello organizzativo della scuola, ma anche di rendere quest’ultima sempre più in grado di rispondere alle nuove esigenze culturali rilevabili nelle singole comunità educative.

L’autonomia degli istituti d’istruzione, assistita dalla contestuale implementazione delle istanze autonomistiche espresse dagli artt. 5 e 117 Cost., è sembrata così, sempre più, in grado di rispondere alle esigenze di soddisfazione delle istanze educative poste dal crescente pluralismo ideologico e culturale, favorendo il superamento dell’uniformismo legato al pregresso sistema dell’accentramento statale delle competenze in materia di educazione. Ovvero la “scuola dell’autonomia”, valorizzando gli apporti alla formazione delle giovani generazioni provenienti dalle energie sociali di più diverso segno, ha gettato le basi, come vedremo, per dare concretezza alle esigenze della popolazione scolastica di qualsiasi orientamento fideistico (e quindi anche musulmana), sviluppando la naturale tensione della scuola al perfezionamento della personalità umana e all’inveramento del “bene comune”, nel solco dei principi costituzionali in materia d’istruzione.

2 - La “difficile” parità scolastica nel sistema nazionale d’istruzione e la liceità di scuole islamiche parificate

11 A. POGGI, Istruzione, formazione professionale e Titolo V: alla ricerca di un (indispensabile) equilibrio tra cittadinanza sociale, decentramento regionale e autonomia delle Istituzioni scolastiche, in Le Regioni, 2002, 4, p. 801, ricorda come qualsiasi processo di devoluzione debba ritenersi limitato dal rispetto dell’autonomia delle Istituzioni scolastiche (in ragione della esplicita tutela costituzionale ad essa riconosciuta), implicando, di conseguenza, l’osservanza, da parte del legislatore, di specifici vincoli nell’esercizio della funzione nomopoietica.

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È noto come il nostro ordinamento costituzionale (in particolare, per mezzo dell’art. 33, II e III comma) abbia disegnato un sistema scolastico fondato sulla necessaria compresenza della scuola pubblica e privata, secondo un modello pluralistico contrario, da un lato, alla surrogazione del pubblico con il privato e, dall’altro, favorevole al riconoscimento della libertà dei privati di istituire scuole

12

(con l’impegno, però, al non conferimento dei relativi oneri alla finanza pubblica

13

). Questa modalità di organizzazione dell’istruzione, definita nella Carta costituzionale solo nei suoi principi direttivi essenziali, è stata sottoposta, più di recente, ad una disciplina normativa ordinaria di dettaglio con l’adozione della legge n. 62 del 2000 (Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione), seguendo il modello elaborato in altri ordinamenti nazionali

14

, pur se con alcune peculiarità

12 L’articolazione pluralistica è una diretta conseguenza delle disposizioni preseti nell’art. 33 della Carta costituzionale, in quanto l’obbligo della Repubblica di provvedere all’istituzione di scuole per tutti gli ordini e gradi è accompagnato dalla contestuale garanzia del diritto di enti e privati di creare scuole ed istituti di educazione. Così, il modello organizzatorio in cui risultano, oggettivamente, compresenti scuole pubbliche e scuole private (neutre o ideologicamente orientate) permette che il diritto-dovere degli alunni e delle loro famiglie venga esercitato in un contesto ordinamentale in grado di rendere concrete le eventuali opzioni in linea con la personalizzazione del diritto fondamentale all’istruzione. In merito cfr. A.

MATTIONI, Libertà e autonomia nella scuola. I diritti della società, in Quad. dir. pol. eccl., 1997, 1, pp. 138-139.

13 Sulla problematica del finanziamento della scuola privata, e dei limiti posti dal comma III dell’art. 33 Cost., cfr. S. BERLINGÒ, Scuola privata ed oneri per lo Stato, in Educazione e matrimonio nell’Accordo di revisione del Concordato, Milano, 1989, pp. 63 e ss.

14 La creazione di un sistema nazionale, simile a quanto proposto dai modelli del Nord Europa (e, in particolare, della Svezia e della Danimarca), ha costituito uno degli elementi centrali della riforma della scuola che ha il suo compimento con le leggi nn.

59 del 1997, 62 del 2000 e 53 del 2003. Si è realizzato, infatti, il passaggio dalla “scuola di Stato” di tipo burocratico-ministeriale (nella quale un ruolo centrale era svolto dai Provveditorati e dall’amministrazione periferica, con gli insegnanti nel mero ruolo di funzionari statali inquadrati in un rapporto di servizio di tipo gerarchico e le singole scuole come semplici entità erogatrici dei servizi d’istruzione) ad un modello molto più complesso, basato sul decentramento e sulla sussidiarietà, che ha individuato nell’autonomia delle Istituzioni scolastiche lo strumento essenziale per il rinnovamento dell’ordinamento della scuola. Si è creato, ovvero, un modello

“orizzontale”, nell’ambito del quale le scuole sono impegnate a muoversi come corpi autonomi, ponendo in essere una fattiva strategia di collaborazione con gli enti locali e con le formazioni sociali presenti sul territorio. Cfr. A. MAIORANO, Riforme e controriforme nella scuola d’Europa, in Il Tetto, 243-244, 2004, pp. 122 e ss.; C.

RUBINACCI, Qualità dell’istruzione in Europa e valutazione dei sistemi educativi in Francia, Svezia, Spagna e Inghilterra, in Affari sociali internazionali, 2005, 2, pp. 141 e ss.;

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tutte italiane. Si è, così, dato vita ad un “sistema nazionale d’istruzione (…) costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali” (art. 1, comma I, legge n. 62/2000), sancendo la fine del (presunto) monopolio statale in materia di istruzione ed educazione

15

e accomunando scuole pubbliche e private (che abbiano, però, ottenuto la parità alle condizioni indicate dalla legge) all’interno di una complessiva strategia di soddisfacimento delle esigenze d’istruzione.

Pertanto, secondo le indicazioni della legge sulla parità scolastica

16

, è

S. VENTURA, Le politiche della scuola in Europa. Un’analisi comparata, in Rivista italiana di scienza politica, 1997, 2, pp. 307 e ss.

15 La tendenza monopolizzatrice dello Stato in materia scolastica ha avuto le sue origini nel XVIII secolo, allorquando l’educazione assumeva le caratteristiche di un fatto essenzialmente privato, in ragione del secolare assenteismo del potere civile in questo settore, e della conseguente forte presenza delle istituzioni ecclesiastiche.

Infatti, la maggior parte delle scuole erano espressione della Chiesa, che aveva sempre dimostrato una decisa sensibilità per i problemi dell’educazione, tanto è vero che nella sua più che millenaria storia numerosi ordini e congregazioni religiose erano sorti col preciso scopo dell’insegnamento e della educazione. La progressiva laicizzazione e monopolizzazione della scuola si realizzava, poi, con l’avvento dello Stato italiano unitario che, sulla scia della legislazione eversiva finalizzata a realizzare lo scioglimento degli enti religiosi dediti all’istruzione, si distingueva per l’adozione di una serie di provvedimenti normativi finalizzati a sottrarre all’ingerenza delle autorità ecclesiastiche le competenze di educazione e formazione delle giovani generazioni conferendole alla naturale esplicazione da parte delle pubbliche potestà (legge 15 luglio 1877 n. 3968; legge 23 giugno 1877 n. 3918; legge Daneo-Credaro 4 giugno 1911 n.

487). Solo con l’adozione della riforma Gentile (legge 6 maggio 1923 n. 1054, e successivo regolamento attuativo 6 giugno 1925 n. 1084) si determinava un mutamento della concezione della scuola, con l’effetto del parziale superamento del pregresso laicismo e della riapertura dell’istruzione all’insegnamento della religione e all’attività degli istituti privati e liberi. Poi, con il nuovo atteggiamento del Fascismo nei confronti della Chiesa, si realizzava, grazie anche alla Conciliazione del 1929, il superamento delle posizioni separatiste ed anticlericali del periodo liberale.

L’adozione della Costituzione repubblicana e la realizzazione normativa e fattuale del pluralismo ideologico e religioso hanno, infine, pienamente legittimato e promosso l’attività delle scuole private (laiche e confessionali), evidenziando il definitivo superamento di qualsiasi (eventuale) aspirazione monopolizzatrice dello Stato democratico contemporaneo nella erogazione dei servizi educativi. Per approfondimenti cfr. E. BOSNA, Stato e scuola. Materiali per una storia della scuola italiana, Bari, 2000, pp. 9-221; G. DALLA TORRE, Sulla libertà della scuola in Italia, in Arch. Giur. “Filippo Serafini”, 1975, 1-2, pp. 96-109.

16 Si tratta dei criteri indicati nei commi II, III, IV, V e VI dell’art. 1 della legge n.

62/2000. Secondo il comma IV: «Si definiscono scuola paritarie, a tutti gli effetti degli ordinamenti vigenti, in particolare per quanto riguarda l’abilitazione a rilasciare titoli di studio aventi valore legale, le Istituzioni scolastiche non statali, comprese quelle degli enti locali, che, a partire dalla scuola per l'infanzia, corrispondono agli ordinamenti generali dell'istruzione, sono coerenti con la domanda formativa delle famiglie e sono caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia di cui ai commi 4, 5, 6». Il comma III, invece, prevede: «Alle scuole paritarie private è assicurata piena

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del tutto possibile che una scuola islamica possa aspirare alla piena legittimazione giuridica, purché questa Istituzione educativa disponga di un progetto formativo in armonia con i principi della Costituzione, presenti una offerta educativa in linea con gli ordinamenti e le disposizioni vigenti, sia in grado di attestare la titolarità della gestione e la pubblicità dei bilanci, consenta l’istituzione di organi collegiali improntati alla partecipazione democratica, garantisca l’iscrizione alla scuola per tutti gli studenti i cui genitori ne facciano richiesta (in sintonia con il principio costituzionale dell’apertura a “tutti” della scuola), applichi le norme vigenti per favorire l’inserimento degli

libertà per quanto concerne l'orientamento culturale e l'indirizzo pedagogico- didattico. Tenuto conto del progetto educativo della scuola, l'insegnamento è improntato ai princípi di libertà stabiliti dalla Costituzione. Le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap. Il progetto educativo indica l'eventuale ispirazione di carattere culturale o religioso.

Non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l'adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa». Quindi il comma V specifica: «La parità è riconosciuta alle scuole non statali che ne fanno richiesta e che, in possesso dei seguenti requisiti, si impegnano espressamente a dare attuazione a quanto previsto dai commi 2 e 3: a) un progetto educativo in armonia con i principi della Costituzione; un piano dell'offerta formativa conforme agli ordinamenti e alle disposizioni vigenti; attestazione della titolarità della gestione e la pubblicità dei bilanci; b) la disponibilità di locali, arredi e attrezzature didattiche propri del tipo di scuola e conformi alle norme vigenti; c) l'istituzione e il funzionamento degli organi collegiali improntati alla partecipazione democratica; d) l'iscrizione alla scuola per tutti gli studenti i cui genitori ne facciano richiesta, purché in possesso di un titolo di studio valido per l'iscrizione alla classe che essi intendono frequentare; e) l'applicazione delle norme vigenti in materia di inserimento di studenti con handicap o in condizioni di svantaggio; f) (…); g) personale docente fornito del titolo di abilitazione; h) (…)». Infine, il comma V prevede: «Le istituzioni di cui ai commi 2 e 3 sono soggette alla valutazione dei processi e degli esiti da parte del sistema nazionale di valutazione secondo gli standard stabiliti dagli ordinamenti vigenti. Tali istituzioni, in misura non superiore a un quarto delle prestazioni complessive, possono avvalersi di prestazioni volontarie di personale docente purché fornito di relativi titoli scientifici e professionali ovvero ricorrere anche a contratti di prestazione d'opera di personale fornito dei necessari requisiti», mentre il comma VI specifica che: «Il Ministero della pubblica istruzione accerta l'originario possesso e la permanenza dei requisiti per il riconoscimento della parità».

Queste indicazioni non hanno subito modifiche sostanziali con l’approvazione della legge 3 febbraio 2006 n. 27 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 5 dicembre 2005, n. 250, recante misure urgenti in materia di università, beni culturali ed in favore di soggetti affetti da gravi patologie, nonché in tema di rinegoziazione di mutui), ove si prevede all’art. 1-bis (Norme in materia di scuole non statali), comma II, che «La frequenza delle scuole paritarie costituisce assolvimento del diritto-dovere all'istruzione e alla formazione, di cui al decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 76. (…)», confermando nella sostanza l’impianto della legge n. 62/2000.

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studenti in condizioni di svantaggio, abbia personale docente fornito del titolo di abilitazione e, infine, assicuri contratti di lavoro per il personale dirigente ed insegnante rispettosi dei contratti collettivi nazionali di settore. Ne consegue che dalla verifica della presenza di tali requisiti, per le scuole islamiche istanti non potrà negarsi la parità scolastica, a meno di non voler determinare una sostanziale violazione dello spirito della Costituzione e delle previsioni contenute nella legge n. 62/2000

17

.

Tuttavia, ciò che, allo stato dell’arte, può risultare interessante, nell’esame del provvedimento normativo sulla parità scolastica, è l’indicazione contenuta nel comma III dell’art. 1, ove si fa chiaramente riferimento all’esplicazione di un “servizio pubblico” da parte delle scuole paritarie. Si tratta di una previsione che, seppure in linea con le acquisizioni della contemporanea e più avvertita dottrina

18

, presenta

17 In realtà, ben prima della polemica proposta di apertura di una scuola islamica parificata a Milano (risalente alla primavera del 2006), è sembrato ignorarsi il dato di fatto della operatività di scuole musulmane aperte ai sensi dell’art. 366 del D. Lgs. n.

297 del 16 Aprile 1994 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), del D.P.R. n. 389 del 18 Aprile 1994 (Regolamento recante semplificazione dei procedimenti di autorizzazione al funzionamento di scuole e istituzioni culturali straniere in Italia) e del D.M. n. 5 del 13 Gennaio 1999 (Disciplina del funzionamento di scuole e di istituzioni culturali straniere in Italia), modificanti la pregressa legislazione, adottata in epoca fascista, concernente questo tipo di scuole (ovvero la legge 30 Ottobre 1940 n. 1636, Disciplina delle scuole e delle istituzioni culturali straniere in Italia). In particolare, l’attività di due scuole libiche a Roma e a Milano, di una scuola tunisina a Mazara del Vallo ed una egiziana a Milano, benché inizialmente proiettata ad offrire l’immagine di un Islam rivolto al Paese di origine (a causa dello stretto legame con le rappresentanze diplomatiche degli Stati di cui sono espressione), attualmente sembra proporre le caratteristiche di un Islam stanziale e di stabile insediamento.

Per un commento della vicenda del Liceo Agnesi di Milano, e di altra analoghe iniziative, si rinvia a P. BRANCA,La scuola islamica di Milano, in Il Dialogo- Al Hiwâr, 2005, 5, pp. 12 e ss.; M. PARISI, Tra scuola pubblica e privata (laica e confessionale). A proposito della vicenda della scuola islamica di Milano, in Dir. soc., 2007, 2, pp. 267 e ss.

18 Secondo A. BETTETINI, La (im)possibile parità. Libertà educativa e libertà religiosa nel «sistema nazionale di istruzione», in Dir. Eccl., 2005, 1, p. 59, l’educazione, quale che sia il soggetto erogatore, assume le connotazioni di un servizio alla società e, in quanto tale, di un servizio pubblico. Ciò, nell’opinione dell’Autore, anche se il soggetto che provvede ad impartire i servizi educativi sia un soggetto non statale, come nel caso dei privati. Questo orientamento sembra godere di un discreto seguito anche nella dottrina amministrativistica, ove, fino a qualche decennio fa, le principali nozioni proposte erano riconducibili ad una concezione soggettiva e ad una oggettiva di servizio pubblico. Secondo la prima visione, si è in presenza di un servizio pubblico quando esso è espletato da un pubblico potere; per la seconda esistono servizi che, intrinsecamente, sono pubblici per l’interesse generale che è sotteso alla loro erogazione ed a prescindere dal soggetto che li presta. La concezione soggettiva, però,

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aspetti di notevole problematicità, in quanto pone l’esigenza di verificare quali siano, in concreto, le caratteristiche di pubblicità di un servizio che è, nei fatti, erogato da un soggetto non statale ideologicamente orientato. Più precisamente, potrebbero indicarsi due elementi, concernenti l’esplicazione concreta dei servizi d’istruzione da parte di una scuola paritaria privata (anche ad ispirazione religiosa, come le scuole musulmane), tali da suscitare fondate perplessità: il mancato rispetto del principio di neutralità

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e la compressione della libertà d’insegnamento.

è stata posta in crisi prima dal codice penale (che all’art. 358 del vecchio testo indicava, fra gli incaricati di pubblico servizio, anche qualsiasi persona che prestasse, temporaneamente o permanentemente ed a qualsiasi titolo, un pubblico servizio) e, poi, dall’art. 43 Cost. Quest’ultimo, infatti, presuppone, da un lato, che i servizi pubblici essenziali, o di preminente interesse generale, possano essere prodotti ed erogati originariamente da privati (diversamente non avrebbe senso prevederne il trasferimento in mano pubblica), e, dall’altro, consente che produzione e gestione possano essere trasferite autoritativamente da privati ad altri privati. Sulla base del dato costituzionale, così, la dottrina si è sempre più orientata a valorizzare l’aspetto funzionale del servizio pubblico, tenendo conto che l’obiettivo di utilità sociale investe aspetti organizzativi, finanziari, programmatori, di controllo, di equilibrio fra intervento pubblico e privato, gestionali e di coordinamento tra disciplina privatistica e pubblicistica. Può, quindi, dirsi che i pubblici servizi riguardano le prestazioni di interesse generale che l’ordinamento vigente ritiene siano effettuate, da soggetti pubblici o privati, in favore di terzi. Ma, ad evitare tautologie, deve precisarsi che gli elementi caratterizzanti sono: la finalizzazione all’interesse generale; il provvedimento con cui l’amministrazione determina l’assunzione del servizio; la situazione soggettiva riconosciuta alla generalità dei soggetti che versano nella situazione di fatto prevista come legittimante; la presenza di una delle forme di organizzazione eventualmente tipizzate dall’ordinamento. Per ulteriori approfondimenti cfr. P.

BILANCIA, La riforma dei servizi pubblici locali nell’ottica della sussidiarietà orizzontale, in Non profit, 2000, 2, pp. 215 e ss.; R. CAVALLO PERIN, I principi come disciplina giuridica del pubblico servizio tra ordinamento interno ed ordinamento europeo, in Dir. amm., 2000, 1, pp. 41 e ss.; F. GIGLIONI, Osservazioni sull’evoluzione della nozione di ‘servizio pubblico’, in Foro amm., 1998, 7.8, pp. 2265 e ss.; A. MONTEBUGNOLI, Sulla nozione di servizio pubblico, in Economia pubblica, 1992, 1-2, pp. 3 e ss.; G. PASTORI, Diritti e servizi oltre la crisi dello Stato sociale, in Studi in onore di Vittorio Ottaviano, Milano, 1983, pp.

1081 e ss.; E. PICANIO, La scuola: un servizio pubblico per il terziario avanzato, in Studi economici e sociali, 1987, 4, pp. 93 e ss.; C. PINELLI, Privatizzazione dei servizi pubblici locali in Italia ed in Francia. Profili di diritto costituzionale e comunitario, in Reg. gov. loc., 1966, pp. 783 e ss.; F. SALVIA, Il servizio pubblico: una particolare conformazione dell’impresa, in Dir. pub., 2000, 2, pp. 535 e ss.

19 Il pericolo non è dato solo dalla evidente impossibilità del rispetto dei principi di neutralità e di non identificazione, ma l’indiscriminato coinvolgimento delle scuole private (soprattutto se confessionali) nel sistema dei servizi pubblici rischia di pregiudicare l’effettiva tenuta dei principi costituzionali di dignità umana, di giustizia ed eguaglianza sostanziale, di solidarietà sociale, sulle cui fondamenta si è col tempo strutturato il modello dello Stato sociale «(…) e, per tale via, l’effettiva priorità dei

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Sotto il primo profilo, pur dovendo le scuole paritarie predisporre uno specifico progetto educativo nel quale rendere note le finalità della loro proposta didattica e i metodi necessari al loro perseguimento, in modo da consentire, per tale via, ai potenziali utenti di conoscere preventivamente le caratteristiche “di tendenza”

dell’istituto scolastico (art. 1, commi II e III, legge n. 62/2000), la carenza di neutralità sembra preludere inevitabilmente all’impossibilità per questo tipo di istituti d’istruzione di garantire l’accesso a tutti (come invece dovrebbe essere per qualsiasi comunità scolastica contraddistinta dai caratteri della pubblicità). Questa difficoltà sembra essere stata nota agli estensori della legge, inducendoli ad inserire, in questo stesso provvedimento, una clausola normativa potenzialmente atta a fornire una soluzione, piuttosto pasticciata invero, alla conciliazione della libertà “di tendenza” della scuola con la libertà di scelta dei genitori e dei discenti; una norma secondo cui «(…) non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa» (art. 1, comma III, legge n. 62/2000).

Nonostante la buona volontà dimostrata dal legislatore riformatore nella individuazione di un meccanismo di esenzione dalla frequenza obbligatoria delle attività più ideologicamente caratterizzate, previste soprattutto nell’offerta formativa degli istituti privati “di tendenza”, il mancato rispetto di uno dei canoni tipici del servizio pubblico, qual è la neutralità

20

, non può non integrare una

diritti sociali, la cui tematizzazione costituisce, ad un tempo, acquisizione maggiormente significativa e fondamento valoriale di quel modello». Così G.

D’ANGELO, Il principio di sussidiarietà tra «devoluzione» ed «integrazione»: recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali, in G. CIMBALO e J.I. ALONSO PÉREZ (a cura di), Federalismo, regionalismo e principio di sussidiarietà orizzontale. Le azioni, le strutture, le regole della collaborazione con enti confessionali, Torino, 2005, pp. 445-446.

Di diverso avviso, invece, G.P. CALABRÒ, Il principio di sussidiarietà e la de- sacralizzazione dei diritti: tra crisi del diritto positivo e l’impossibile ritorno del diritto naturale, A. DE OTO e F. BOTTI (a cura di), Federalismo fiscale, principio di sussidiarietà e neutralità dei servizi sociali erogati. Esperienze a confronto, Bologna, 2007, p. 469, il quale ritiene che la visione mirante ad attribuire un ruolo centrale ai pubblici apparati (neutrali) nello svolgimento di attività di interesse generale (e nella indicazione dei soggetti privati chiamati sussidiariamente ad intervenire) si caratterizzi per un eccessivo e superato statalismo.

20 Ricordiamo che il dovere costituzionale di mantenersi in condizione di equidistanza dalle credenze di fede, positive o negative che esse siano, e dai più diversi orientamenti ideologici, stante l’impossibilità di valutarne la conformità a canoni prefissati e di esprimere giudizi comparativi di meritevolezza, comporta che organi e funzionari dello Stato (e anche tutti quelli generalmente ritenuti pubblici) debbano caratterizzare il loro operato al pieno rispetto del dovere dell’imparzialità.

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contraddizione, difficilmente sanabile con correttivi o palliativi di alcun genere, tra l’asserita universalità e pubblicità dei servizi erogati dalle scuole paritarie private e il perseguimento di uno specifico orientamento ideologico o fideistico.

Identiche constatazioni possono effettuarsi a proposito della limitazione della libertà di insegnamento, la quale mal si concilia con la erogazione di un servizio (solo presuntivamente ritenuto) pubblico da parte delle scuole paritarie. Com’è ben noto, la libertà d’insegnamento è costituzionalmente garantita (art. 33, comma I), e, in una situazione pregressa di monopolio statale tendenziale nella erogazione dei servizi pubblici scolastici, la convivenza pacifica tra le esigenze di libertà della scuola e di libertà del docente è sembrata realizzarsi senza grandi difficoltà. Invece, con l’adozione della legge n. 62/2000 la questione è sembrata proporsi in termini di notevole complessità, al punto che il legislatore ha cercato di risolvere i problemi insorgenti prevedendo, al comma III dell’art. 1 del provvedimento sulla parità, che «(…) l’insegnamento è improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione», pur dovendosi tener conto del complessivo progetto educativo della scuola e della sua «(…) eventuale ispirazione di carattere cultuale o religioso». Tuttavia, sembra chiaro come una simile soluzione risulti debole, e non possa non far ritenere fondati i dubbi sulla idoneità, sotto questi specifici profili, della proposta legislativa contenuta nella legge n. 62/2000 e, al tempo stesso, concrete le denunce di anomalia nella qualificazione di servizio pubblico per l’attività scolastica offerta dagli istituti d’istruzione non statali.

In una siffatta organizzazione del mondo della scuola, nella quale la pubblicità del sistema d’istruzione non pare essere riconducibile alla natura formalmente pubblica o privata delle soggettività erogatrici dei servizi d’istruzione, ma alle prestazioni che tali soggetti forniscono alla collettività nel perseguimento di uno dei fini irrinunciabili dello Stato (ovvero la finalità dell’istruzione, connessa all’obiettivo del miglioramento e dello sviluppo complessivo della personalità umana), il nodo problematico ulteriore pare essere costituito dai criteri fissati per l’ammissione delle agenzie formative private al sistema nazionale d’istruzione e dall’incidenza di queste condizioni sulla qualità di soggetto ideologicamente orientato dell’istituto

Ciò determina che essi debbano tenere condotte omogenee ed uniformi nei confronti di tutti gli orientamenti ideologici e politici (e, quindi, anche fideistici, così come pure nei riguardi dei soggetti e delle organizzazioni di tendenza portatrici di convinzioni negatrici della spiritualità. Per una autorevole conferma dottrinale cfr. G.

CASUSCELLI, La laicità e le democrazie: la laicità della «Repubblica democratica» secondo la Costituzione italiana, in Quad. dir. pol. eccl., 2007, 1, pp. 182-183.

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scolastico privato

21

. O, per meglio dire, nel riformato sistema d’istruzione, che si è caratterizzato, rispetto alle pregresse forme organizzative dell’educazione, per aver posto al centro della sua azione le esigenze dell’utente e il livello qualitativo dei servizi erogati, compito irrinunciabile dei pubblici poteri centrali non può non essere la definizione degli standards minimi per la valutazione e il riconoscimento delle agenzie formative (pubbliche e private, laiche e confessionali) impegnate nell’attività di formazione e di educazione.

Così come è compito della potestà statale (per espressa indicazione del rinnovellato art. 117 Cost.) la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e la determinazione delle norme generali per il settore dell’istruzione

22

.

21 R. BOTTA, La parità scolastica e la laicità “latitante”. Il sistema nazionale di istruzione tra riforme legislative e diritto comunitario sui servizi alla persona, in C. CARDIA (a cura di), Studi in onore di Anna Ravà, Torino, 2003, p. 169.

22 Ricordiamo che il diritto, costituzionalmente garantito, all’istruzione e alla formazione in quanto diritto sociale fondamentale va inteso, correlativamente, come diritto all’eguaglianza sostanziale, ovvero alla rimozione da parte dei pubblici poteri delle situazioni di impedimento all’esercizio di tali diritti. Sotto questo punto di vista, la realizzata differenziazione e l’attuale policentrismo del sistema d’istruzione non devono determinare sostanziali diversità nel godimento di uno dei più importanti diritti sociali contemporanei. Ne consegue che l’esercizio della potestà legislativa esclusiva statale in materia di norme generali sull’istruzione e di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, comma II, Cost.) va ricostruita e riempita di contenuto in relazione alla finalità di garantire, negli aspetti più generali ed essenziali, l’eguaglianza sostanziale su tutto il territorio nazionale. Ciò sta a significare che lo Stato (e, in ogni caso, la pubblica potestà in genere) sia competente a fissare per tutto il territorio nazionale le condizioni in presenza delle quali si possano assumere come assicurati i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali. A sostegno di tale orientamento, appare opportuno ricordare che la differenza tra le classiche libertà dello Stato liberale e i diritti sociali dello Stato costituzionale contemporaneo va individuata, essenzialmente, nel fatto che, mentre le prime tutelavano una sfera dell’individuo lasciata alla sua libera operatività, i secondi richiedono l’intervento dei pubblici poteri al fine di soddisfare alcune esigenze essenziali dei consociati, avendo come ulteriore obiettivo la realizzazione dell’eguaglianza (o, meglio, una sintesi fra libertà ed eguaglianza, vale a dire la

“libertà eguale”). Così, gli interventi finalizzati a rimuovere le disuguaglianze di fatto esigono che la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche o politiche del Paese. Sulla base di questa esigenza, ovvero quella di garantire uno statuto comune in settori particolarmente sensibili per il benessere collettivo (com’è, per l’appunto, l’ambito dell’istruzione e della formazione) deve ritenersi legittima e fondamentale l’azione di definizione di standards minimi di qualità delle prestazioni sociali che tutti i soggetti erogatori devono essere chiamati ad assicurare. Si può, pertanto, dire che «(…) l’esplicito legame tra determinazione di un livello prestazionale ed i diritti civili e sociali ha consentito di individuare in questa clausola il “ponte” di collegamento tra la prima e la seconda parte della Costituzione, identificando nella potestà statale (…) uno dei principali strumenti di armonizzazione

(16)

Per essere più precisi, con l’avvenuta ammissione di una pluralità di soggetti nel campo dell’istruzione, prescindendo dalla natura pubblica o privata delle entità coinvolte, sembra essere di un certo rilievo la valutazione dell’idoneità dei servizi offerti rispetto a fondamentali standards di qualità, nel novero dei quali assumono centralità la funzionalità del servizio proposto alla crescita della persona umana e il rispetto di una sufficiente dose di pluralismo per la libera formazione delle idee

23

(e non solo per la acquisizione di nozioni e di informazioni sulle più diverse branche del sapere). Rispetto a questa esigenza sembra definirsi la non sostituibilità da parte di terzi del ruolo dello Stato

24

, a cui spetta, sempre e comunque, di assolvere

del principio di autonomia con il principio di uguaglianza, affidando a questa clausola il compito di definire il punto di equilibrio tra le esigenze di uniformità e le ragioni del decentramento e dell’autonomia». Così E.A. FERIOLI, Sui livelli essenziali delle prestazioni: le fragilità di una clausola destinata a contemperare autonomia e uguaglianza, in Le Regioni, 2006, 2-3, p. 564. In argomento si veda anche S. GAMBINO, Diritti sociali e Stato regionale. L’esperienza italiana nell’ottica comparatistica, in L. CHIEFFI (a cura di), Evoluzione dello Stato delle autonomie e tutela dei diritti sociali. A proposito della riforma del Titolo V della Costituzione, Padova, 2001, pp. 73 e ss. Invece, sulla sanzione dei diritti sociali nella Carta costituzionale, si veda A. BALDASSARRE, voce Diritti sociali, in Enc. giur., Vol. XI, Roma, 1989, pp. 6 e ss.; M. MAZZIOTTI, voce Diritti sociali, in Enc.

dir., vol. XII, Milano, 1964, pp. 805 e ss.; B. PEZZINI, La decisione sui diritti sociali.

Indagine sulla struttura costituzionale dei diritti sociali, Milano, 2001, pp. 95 e ss.

23 Simili valutazioni sembrano trovare una conferma nelle previsioni dell’art. 119 Cost., ove il nesso tra garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti sociali ed uguaglianza sostanziale riceve sostanza dalla previsione della possibile operatività di due strumenti: il fondo perequativo e la destinazione di risorse ed interventi speciali da parte dello Stato. Il primo dimostra la preoccupazione del legislatore costituzionale di assicurare su tutto il territorio nazionale l’effettivo esercizio dei diritti; i secondi, invece, sono previsti allo scopo, tra l’altro, di «(…) rimuovere gli squilibri economici e sociali» e «(…) per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona» (art. 119, comma V, Cost.). Ovvero, nell’attuazione del principio solidaristico, di cui all’art. 2 Cost., spetta alle pubbliche potestà far valere, a titolo di solidarietà e di coesione sociale, tutte quelle garanzie che concorrono, insieme al principio di eguaglianza sostanziale, a favorire il massimo sviluppo della personalità umana. Al riguardo cfr. E. BALBONI, Il concetto di «livelli essenziali e uniformi» come garanzia in materia di diritti sociali, in Le istituzioni del federalismo, 2001, 6, pp. 1103 e ss.;

S. GAMBINO, Cittadinanza e diritti sociali fra neoregionalismo e integrazione comunitaria, in Quad. cost., 2003, 1, pp. 82-83.

24 Secondo R. MAZZOLA, Chiesa cristiane, pluralismo religioso e democrazia liberale, in F. BOLGIANI,F. MARGOTTA BROGLIO,R. MAZZOLA (a cura di), Chiese cristiane, pluralismo religioso e democrazie liberale in Europa, Bologna, 2006, p. 45, i pubblici poteri chiedono garanzie ai soggetti religiosi nel momento in cui essi diventano partners con i quali instaurare un rapporto di collaborazione, in quanto la centralità ordinamentale dei principi di laicità e di neutralità non determina una posizione di disinteresse ex parte publica nei confronti dei comportamenti religiosamente motivati. Infatti, l’intenzione di dar vita ad un rapporto di collaborazione con lo Stato deve sempre

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all’obbligo costituzionale di garantire l’erogazione dei servizi d’istruzione, prescindendo dalla esistenza o meno di iniziative in questa direzione poste in essere dalle soggettività private

25

. Ragionando in questi termini, la tutela della neutralità del complessivo sistema nazionale d’istruzione, che è destinato ad annoverare (grazie alle possibilità applicative della legge n. 62/2000) tra le soggettività protagoniste le scuole di qualsiasi orientamento spirituale (e, quindi, anche quelle islamiche) sembra essere fondamentale per uno Stato laico, il cui compito è di tutelare la libera formazione della coscienza dei consociati, garantita dal complessivo pluralismo del mondo della scuola.

La difesa del principio di neutralità dovrebbe esigere, pertanto, che si tuteli e promuova, in primo luogo, la scuola pubblica, evitando che i reiterati tentativi di un surrettizio aggiramento del divieto costituzionale di finanziamento delle scuole private possano andare a buon fine

26

, determinando un dirottamento, in favore di soggetti che

essere accompagnata nella fornitura di idonee garanzie, da parte dei soggetti confessionali istanti, in ordine alla conservazione del carattere laico dei servizi offerti e al rispetto dei diritti fondamentali della persona umana.

25 Come ci ricorda S. BERLINGÒ, Il sistema dell’istruzione, in R. BOTTA (a cura di), Diritto ecclesiastico e Corte costituzionale, Napoli, 2006, p. 17, «(…) il sistema dell’istruzione congegnato dalla Carta costituzionale del 1948, pur rifuggendo da ogni tentazione di prefigurare uno “Stato pedagogo”, ha tuttavia attribuito alla Repubblica, con il secondo comma dell’art. 33, non solo il compito di dettare le norme generali sull’istruzione, ma anche quello di istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi”.

Del pari, nello stesso terzo comma dell’art. 33 Cost.», che fa riferimento alla libertà della scuola, «(…) venne introdotta la nota clausola esonerativa dell’obbligo dello Stato di finanziare detta libertà. Entrambe queste disposizioni si giustificano alla luce del documentato intento dei Costituenti di apprestare un’efficace e diffusa alternativa all’organizzazione privato confessionale a quel tempo preponderante e, quindi, di garantire l’obiettivo di una piena libertà d’insegnamento (di cui al primo comma dello stesso art. 33) e di una reale possibilità di “decondizionamento” delle nuove generazioni da una tradizione dottrinale, che avrebbe potuto essere recepita e subita per puri vincoli di appartenenza ed in modo meramente acritico».

26 Si tratta di tentativi di diverso tipo, che vanno dalla proposta del “buono scuola”

(ovvero di un voucher equivalente alla spesa media per alunno sostenuta annualmente dal Ministero della Pubblica Istruzione, il cui conferimento alle famiglie consentirebbe loro di spendere la relativa somma per l’educazione di figli nella scuola pubblica o nella scuola privata, in assoluta libertà) alla detraibilità fiscale delle spese per l’istruzione oltre il limite delle tasse scolastiche o alla corresponsione del trattamento economico al personale docente direttamente da parte dei pubblici poteri. Tuttavia, tali proposte non sembrano evitare la violazione del divieto costituzionale in quanto presentano la caratteristiche di determinare, in ogni caso, un risultato identico al finanziamento diretto della scuola privata. Si avrebbe, infatti, o una minore quota di gettito fiscale per lo Stato, oppure ulteriori oneri di spesa a carico dell’erario pubblico.

(18)

potrebbero dimostrarsi incapaci di rispettare gli standards qualitativi fissati dallo Stato, dei fondi che dovrebbero essere destinati solo alla scuola statale. Inoltre, si dovrebbe anche favorire una valorizzazione della scuola pubblica la quale, rispondendo al dovere costituzionale di fornitura dei servizi d’istruzione posto in capo alle potestà statali

27

, può ben consentire la realizzazione di progetti educativi anche diversificati, ma complessivamente rispettosi delle esigenze di libertà dei discenti

28

.

Infatti, «(…) il pluralismo culturale della scuola pubblica è garanzia di libertà di coscienza ed è caratterizzato dall’offerta di differenti orientamenti culturali che si comparano e si confrontano in un rapporto dialettico costante, alimentato dalla diversità dei soggetti (alunni e docenti, famiglie, contesto sociale) attori del processo educativo. La diversità degli orientamenti è garantita dai programmi e dall’organizzazione della didattica ed è frutto di un progetto culturale che poggia su valori forti quali la convivenza tra persone culturalmente diverse, la capacità di confronto, la disponibilità alla sintesi e al mutamento di opinione, la ricerca di un minimo comune denominatore che consenta una pacifica convivenza nella diversità»

29

.

In dottrina cfr. N. COLAIANNI, Autonomia e parità della scuola, in Quad. dir. pol. eccl., 1997, 1, pp. 117-119.

27 Del resto, si può convenire con J. HABERMAS, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale in J. RATZINGERe J. HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, Brescia, 2005, p. 38, sulla esistenza di servizi pubblici, come quelli erogati in materia d’istruzione, che «(…) lo Stato non può abbandonare, perché non potrebbe affidarli del tutto in mani private, a meno di ricevere le più ampie garanzie che anche la gestione privata manterrà il carattere laico». Pertanto, in questo ambito, «(…) la gestione privata può solo aggiungersi, non sostituirsi, a quella pubblica la quale deve restare in maniera sufficiente a garantire una valida copertura del territorio nazionale».

28 Un diverso orientamento, invece, determinerebbe, sulla base della rivendicazione del principio di pari dignità di tutte le organizzazioni confessionali, la richiesta, da parte di tutti i gruppi religiosi operanti sul territorio italiano, del riconoscimento e dell’aiuto finanziario dei pubblici poteri per le proprie scuole, in virtù della capacità (ad esse imputata) di favorire l’educazione delle giovani generazioni secondo i dettami della propria fede. Ciò, però, porterebbe alla creazione di comunità chiuse (in ragione della specifica caratterizzazione ideologica e spirituale, distintiva degli istituti confessionali d’istruzione), tali da privilegiare le ragioni della separazione per appartenenza, in danno delle ragioni della convivenza basata sull’accettazione di una tavola di valori comuni. Questa preoccupazione è confermata, in dottrina, da R. BOTTA, Sentimento religioso e appartenenza confessionale, in P.

PICOZZA e G. RIVETTI (a cura di), Religione, cultura e diritto tra globale e locale, Milano, 2007, p. 63.

29 G. CIMBALO, La scuola tra servizio pubblico e principio di sussidiarietà. Legge sulla parità scolastica e libertà delle scuole private confessionali, Torino, 1999, pp. 108-109.

Invece, la scuola ideologicamente orientata (soprattutto se d’ispirazione religiosa) rientra nella logica di un differente progetto educativo dove a confrontarsi sono le

(19)

La necessità di una politica di maggior valorizzazione della scuola pubblica, ben lungi dal determinare l’affermazione di uno statalismo ostile all’attività delle scuole private (confessionali e laiche)

30

, sembra imporsi in ragione di alcuni recenti provvedimenti normativi con i quali si sta concretando l’aggiramento del divieto costituzionale di finanziamento delle scuole private

31

. Il riferimento è alla legge 23 Dicembre 2006 n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, legge finanziaria 2006), ove, al comma n. 636

istituzioni educative portatrici di un messaggio specifico che incontra l’approvazione dei fruitori dei servizi erogati, ed è espressione delle attività educative tipiche di quelle soggettività. Questa realtà determina, quale esito naturale, la presenza di una pluralità di monismi, che potrebbero comunque dirsi rassicuranti in una società multiculturale e multireligiosa nella quale la ricerca del dialogo potrebbe favorire l’individuazione di una comune sensibilità rispetto alle questioni più controverse della vita comunitaria, e non determinare, invece, un confronto fondato sulla competizione per il prevalere dell’uno o dell’altro indirizzo ideologico.

30 Peraltro, un atteggiamento del genere sarebbe anche contrario allo spirito più autentico della vigente Costituzione repubblicana, che ha proposto un sistema democratico nel quale «(…) le religioni meritano di essere considerate, in astratto e nel loro complesso, positivamente». Ovvero, esse «(…) devono essere valorizzate fra le tante “formazioni sociali” al cui interno il singolo “può scegliere” di svolgere la propria personalità, utilizzandole come agenzie produttrici di valori che – se regolarmente autorizzati a circolare in libertà, sotto varie forme e con vario peso o grado di incidenza, anche all’interno dell’ordine profano – potrebbero concorrere in modo più che legittimo al progresso spirituale dell’intera società». Così S.

DOMIANELLO, Le garanzie della laicità civile e della libertà religiosa nella tensione fra globalismo e federalismo, in A. DE OTO e F. BOTTI (a cura di), Federalismo fiscale, principio di sussidiarietà e neutralità dei servizi sociali erogati. Esperienze a confronto, cit., p.

367.

31 Questi provvedimenti sembrano essere ispirati dal successo che in Italia, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, hanno ricevuto gli argomenti proposti dai liberisti americani, con il sostegno di Comunione e Liberazione e della Conferenza Episcopale. Come si è già accennato, attraverso l’invenzione del dispositivo del

“buono scuola” alcune correnti del mondo cattolico hanno trovato nell’ideologia scolastica del liberismo americano una nuova base per scardinare la barriera costituzionale (ovvero, l’art. 33, III comma) che blocca il finanziamento della scuola confessionale. Questa tendenza sembra incontrare un forte sostegno politico da parte delle formazioni partitiche del centro-destra, ed è assecondata anche dai partiti del centro-sinistra, i quali sembrano aver sostanzialmente subito l’egemonia culturale delle forze conservatrici. Infatti, agli argomenti favorevoli allo sviluppo della scuola privata, i partiti del riformismo italiano non hanno opposto giustificazioni contrarie convincenti e, sul piano politico, hanno affrontato la situazione attuale accogliendo (almeno parzialmente) le ragioni della scuola privata, con l’intento di attendere un possibile affievolimento dell’intensità delle richieste delle soggettività confessionali (ed ideologicamente orientate in genere). Per approfondimenti cfr. V. FRAJESE, Scuola pubblica e scuola confessionale: un nodo costituzionale, in Democrazia e diritto, 2005, 3, pp. 130-133.

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