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2010

Giulio Fortuni

Segreteria USR Cisl Veneto 29/10/2010

La contrattazione di secondo livello:

relazione Consiglio Generale USr Cisl Veneto 29.10.2010

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Relazione al Consiglio Generale allargato Usr Cisl Veneto

“la contrattazione di secondo livello nel settore privato”

Venezia- Mestre 29 ottobre 2010

La giornata che la CISL veneta vuole dedicare alla contrattazione non sarà rituale se sapremo improntarla ad una analisi puntuale della situazione in essere e se sapremo disegnare assieme, anche con coraggio, nuove strade praticabili per la contrattazione, segnando una discontinuità con un passato, che è stato sicuramente prestigioso ma assolutamente insufficiente sotto il profilo della estensione dei contratti aziendali.

Sarà la partecipazione al dibattito delle unioni territoriale e delle categorie, con uno scambio di idee e di esperienze a dare valore aggiunto al bagaglio di conoscenze e competenze dei contrattualisti presenti.

La Cisl del Veneto assume in toto le linee guida nazionali sulla contrattazione varate nella grande

“conferenza per la contrattazione” svoltasi a Roma nei giorni 15 e 16 luglio scorso, le ritiene coerenti con il DNA originale della Cisl sempre improntato ad una continua, energica azione contrattuale, quale assunto strategico ed identitario per una organizzazione di rappresentanza dei lavoratori, che rafforza il legame con i propri iscritti ed un rapporto trasparente e corretto con le imprese e con le loro associazioni.

Bisogna per questo ribadire subito, per chiarezza tra di noi e verso l’esterno (CGIL) quanto importante sia la riforma della contrattazione che ci ha impegnato per anni fino a diventare realtà nell’accordo del 15-4-2009, occorre quindi percorrere brevemente la storia della contrattazione.

Le prospettive della contrattazione integrativa

La storia delle nostre relazioni contrattuali evidenzia quante siano state le difficoltà nell’affermare la pratica della contrattazione aziendale, anche per le dimensioni delle imprese venete. La Cisl propone fin dal 1953 (“Ladispoli”), di affiancare alla contrattazione nazionale anche quella aziendale, al fine non solo di realizzare una politica di alti salari che non sia inflazionistica, ma in una visione più generale di tipo produttivistico e partecipativo per realizzare la “cittadinanza nell’impresa” ovvero per far partecipare i lavoratori, mediante le loro organizzazioni sindacali, alla gestione delle aziende “in modo congruo con l’efficienza delle imprese e con lo sviluppo economico nazionale”. A queste proposte si oppongono fieramente, anche se per ragioni diverse, la Confindustria di Costa e la Cgil di Di Vittorio. Dopo la sconfitta alle elezioni di commissione interna del 1955, la Cgil fa parziale autocritica e alla fine del decennio assume come proprio obiettivo la contrattazione aziendale, coniugandola però in senso antagonistico (“salario variabile indipendente” di Bruno Trentin), come grimaldello per recuperare il consenso perduto e per scardinare i nuovi equilibri politici (governi di centro-sinistra).

Furono però gli anni di una forte crescita dell’economia e dell’affermarsi del sistema manifatturiero che permisero lo sviluppo del doppio binario della contrattazione. Il contratto integrativo aziendale trova il suo spazio agli inizi degli anni ’60 - 70 grazie alle previsioni dei contratti nazionali che stabilivano materie specifiche demandate alla contrattazione di secondo livello. Quel periodo, caratterizzato da un PIL al 5%, segna anche una parallela e straordinaria crescita della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro.

Congiuntura economica e congiuntura contrattuale coincisero nel sostenere l’ammodernamento tecnologico ed organizzativo del nostro apparato industriale rendendolo competitivo.

La contrattazione aziendale fu lo strumento condiviso di questo impegno produttivistico che si è tradotto in un insieme di regole in materia di cottimi, di premi collettivi, di sperimentazione, di avanzamento professionale del lavoro. La contrattazione integrativa limitava così il potere discrezionale dell’impresa rafforzando le componenti incentivanti del salario di produttività.

In realtà molti furono i contratti che provvedevano ad una mera re-distribuzione della ricchezza prodotta e spesso il parametro per misurare il premio di produzione da concedere era commisurato alla zona- provincia e categoria commerciale di appartenenza, senza uno scambio reale sotto il profilo dell’aumento della produttività.

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Tuttavia i risultati contrattuali coprivano in quel periodo attorno al 40-45% dei lavoratori occupati nelle aziende sopra 15 dipendenti. E la Cisl , nel Veneto caratterizzato dalla piccola impresa, comincia a porsi il problema di come estendere anche ad essa la contrattazione integrativa.

Dai primi anni sessanta fino al sessantotto, risultati economici, salari, prezzi, redditività e produttività delle imprese ebbero uno sviluppo abbastanza equilibrato ed in linea con Francia e Germania, producendo benefici sul piano del rafforzamento della produzione industriale e dell’occupazione.

La stagione di crescita finisce grazie alla pressione della straordinaria crescita del petrolio, prima voce delle importazioni, che mette in crisi un sistema produttivo ancora debole in Italia e ancor di più in Veneto.

Negli anni successivi la contrattazione collettiva prende una connotazione antagonista al potere d’impresa, sull’onda di una contestazione al sistema, l’egualitarismo salariale e le rigidità del lavoro si posero quali elementi coagulanti dell’intera strategia sindacale, il movimento sindacale era fortemente politicizzato e spesso la fabbrica diventava una palestra del confronto tra appartenenze politiche partitiche.

La distinzione funzionale fra contrattazione nazionale e contrattazione decentrata salta, visto che quest’ultima non risponde più allo mission produttivistica per cui era nata.

Con la grande inflazione degli anni ’70 (complici le crisi petrolifere) e con il grande debito pubblico degli anni ’80, saltano gli equilibri per di recupero del potere d’acquisto dei salari. L’aumento dei salari (contingenza e CCNL) rincorre l’aumento dei prezzi incessantemente, provocando da una parte l’esplosione dell’inflazione e dall’altra la chiusura degli spazi della contrattazione integrativa.

Gli accordi degli anni ’90, sono improntati al risanamento in vista dell’adesione dell’Italia alla moneta unica, le parti sociali ed il governo varano la stagione della concertazione con l’obiettivo della stabilizzazione macro-economica. Gli effetti sul piano delle relazioni contrattuali portarono ad una rinnovata egemonia del contratto nazionale.

Il nuovo ordinamento contrattuale costruito nel 1993, anche se confermava una struttura a due livelli, rafforza di fatto il contratto nazionale, attribuendo un ruolo primario ad una politica dei redditi basata sulla moderazione salariale.

L’estensione a tutte le aziende del premio di risultato previsto dall’accordo interconfederale non ottiene il risultato atteso e viene realizzato solo nelle medie e grandi imprese dove esistono le RSU. Ma soprattutto il nuovo assetto non concorre ad una crescita dei salari parallela alla produttività creata e tanto- meno ad una reale partecipazione dei dipendenti al rinnovamento delle strategie di impresa.

La breve ricostruzione porta a concludere che la contrattazione aziendale ottenne i suoi risultati più significativi negli anni ’60, nell’ambito di un contesto economico espansivo, trainato dalle grandi medie imprese industriali, grazie alla presenza qualificata del sindacato in fabbrica con operatori e delegati sindacali competenti , dotati di strumentazione tecnico organizzativa, in grado di pianificare obbiettivi condivisi di produttività, calcolare i risultati, secondo un modello di relazioni partecipative.

Negli anni successivi, l’interferenza di variabili politico-ideologiche prima ed il rapido invertirsi delle condizioni del mercato del lavoro poi, a causa delle modifiche strutturali intervenute nel sistema economico e nelle relazioni di mercato, posero le politiche sindacali di fronte alla necessità di realizzare un nuovo patto sociale, l’accordo del luglio 1993, che spostava l’asse a favore di strategie contrattuali di contenimento affidate alla concertazione sociale e alla contrattazione collettiva centralizzata.

L’accavallamento dei due livelli contrattuali, sia nei tempi che nelle materie da trattare, l’inefficacia complessiva del sistema contrattuale, la ancora parziale estensione del contratto di secondo livello (30%

degli addetti nel manifatturiero e servizi), l’incertezza dei calcoli sul recupero salariale via CCNL e l’incertezza dei tempi di rinnovo dei contratti stessi, hanno prodotto una progressiva inefficacia del sistema contrattuale con il conseguente indebolimento dei redditi da lavoro dipendente. Tale situazione ha messo il sindacato di fronte alla necessità non rinviabile di riformare la contrattazione, percorso lungo e faticoso che comincia solo ora a dare i propri frutti.

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L’accordo del ‘93

Se è vero che l’accordo del ‘93 ha i suoi limiti è vero anche che grazie al forte protagonismo della Cisl, la Cgil di Trentin è costretta a sottoscrivere gli accordi concertativi del luglio 1992 e 1993 che introducono una politica dei redditi finalmente organica (governo e parti sociali “concertano” gli obiettivi su carovita, pil e occupazione e si impegnano a mantenere prezzi e salari sotto l’inflazione concordata). Viene pattuita l’abolizione della scala mobile e gli “assetti contrattuali”, per la prima volta, vengono ordinati in modo razionale (come prevedeva la proposta Cisl di “accordo-quadro”) in due livelli, uno nazionale di categoria e uno aziendale o territoriale. La dinamica salariale del primo livello, di durata quadriennale per la materia normativa e biennale per quella retributiva, dovrà essere “coerente con i tassi di inflazione programmata” e dovrà tenere conto dell’ “obiettivo della salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni, delle tendenze generali dell’economia e del mercato del lavoro, del raffronto competitivo, degli andamenti specifici del settore”. In sede di rinnovo biennale dei minimi contrattuali i “punti di riferimento”

saranno l’inflazione effettiva del biennio precedente, le eventuali variazioni delle ragioni di scambio del paese e l’andamento delle retribuzioni”. Il secondo livello (aziendale o territoriale), regolato dal Ccnl e con una durata quadriennale, riguarderà materie e istituti “diversi e non ripetitivi” rispetto al primo ed erogherà un salario “strettamente correlato ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi, concordati tra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività, di qualità e altri elementi di competitività di cui le imprese dispongono, compresi i margini di produttività, che potranno essere impegnati per accordi tra le parti (al netto di quelli eventualmente già utilizzati per riconoscere aumenti retributivi a livello di Ccnl) nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa.

Il fatto che la produttività possa essere contrattata da ambedue i livelli dà adito a forti controversie tra le organizzazioni sindacali (la Cgil tende a dare la priorità al primo e comunque a privilegiare i meccanismi automatici e generalizzanti nel secondo). Inoltre non viene per niente considerato il recupero dell’inflazione generata diversi aumenti dei prezzi a livello territoriale.

Vengono introdotte per via pattizia le Rsu, elette da tutti i lavoratori su liste di organizzazione, con titolarità nella contrattazione aziendale, mentre le Rsa o Sas o Saf sono di fatto emarginate. Nel pubblico impiego le Rsu verranno regolate per legge a partire dal 1997 (Dlgs 396/97).

Il percorso tortuoso per la riforma (1997-2008)

Superata la fase dell’emergenza, che ha consentito di ridurre drasticamente il tasso di inflazione (addirittura, nel 1997, quello effettivo è stato dell’1,7% rispetto al 2,5 programmato) e il deficit pubblico, la Cisl ha proposto, in occasione della verifica dell’accordo del 1993, di modificare gli assetti contrattuali in favore del secondo livello. Eravamo infatti consapevoli che con un tasso di inflazione così basso, e con i vincoli ferrei imposti dai trattati europei e dalla intensificata pressione concorrenziale internazionale, il modello del 1993 andava rivisto per dare maggiore spazio ed estensione al secondo livello, in modo da poter realizzare una politica di alti salari senza effetti inflazionistici e senza diminuire la competitività del sistema- paese (anzi, stimolandola). Il rifiuto della Cgil è secco, loro continuano a privilegiare il contratto nazionale sulla base della sua cultura di “sindacato generale”, con cedimenti massimalistico-partitici. Anche la miopia della Confindustria non ha aiutato. Ma anche in casa Cisl alcune incertezze e resistenze interne hanno impedito di fare passi in avanti significativi in questa direzione (nel ’98 con il Patto di Natale e successivamente nel 2004, quando Epifani abbandona il tavolo di trattativa con Confindustria). Non si può infatti sostenere che bisogna aumentare il peso del livello decentrato senza avere il coraggio di prevedere esplicitamente una riduzione di quello nazionale (tra l’altro, è chiaro che la Confindustria non accetterà mai di aprire un tavolo se non è chiara questa disponibilità del sindacato). Passano gli anni senza risultati fino all’accordo del 2007 con il governo.

Il 23 luglio 2007 il protocollo tra governo e parti sociali (la Cgil firma) prevede, fra l’altro, che il trattamento a favore delle aziende e dei lavoratori che contrattano il premio di risultato venga migliorato sia aumentando la percentuale di sgravio alle imprese al 25%, sia innalzando il tetto del premio ammesso allo sgravio (dal 3% al 5% della retribuzione lorda).

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II documento unitario sulle "Linee di riforma della struttura della contrattazione" (maggio 2008)

Nel maggio del 2008, dopo che le elezioni anticipate hanno prodotto il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, si raggiunge un’intesa-compromesso tra Cgil, Cisl e Uil. Essa ha l’obiettivo dichiarato di realizzare un accordo unico che modifichi quello del 1993 e definisca un modello contrattuale per tutti i settori, pubblici e privati, nell'ambito di una strategia più generale volta a garantire un welfare solidaristico ed efficiente, un sistema di prezzi e tariffe trasparente e socialmente compatibile, un sistema fiscale equo che preveda una forte riduzione della pressione sulle retribuzioni e sulle pensioni.

Le linee unitarie di riforma prevedono che il contratto nazionale resti come "centro regolatore dei sistemi contrattuali a livello settoriale e per la definizione delle competenze da affidare al secondo livello, tenendo conto delle diverse specificità territoriali", e che si proceda ad accorpamenti per aree omogenee e per settori (mediante il Cnel).

I compiti affidati al Ccnl sono i seguenti:

- sostegno e valorizzazione del potere d'acquisto per tutti i lavoratori di una categoria in tutto il territorio nazionale;

- definizione della normativa nazionale e generale;

- regolazione del sistema di relazioni industriali di settore, aziendale e territoriale;

- sulla parte economica: utilizzazione del concetto di "inflazione realisticamente prevedibile"

supportata dai parametri ufficiali di riferimento; definizione di meccanismi certi di recupero;

- inoltre, sono previsti la vigenza triennale, l’unificazione della parte economica e normativa, penalizzazioni in caso di mancato rispetto delle scadenze (non solo indennità di vacanza contrattuale), l’inizio delle trattative sei mesi prima della scadenza e il rafforzamento della bilateralità a livello nazionale e territoriale.

Per quanto riguarda Il contratto di secondo livello:

- vanno rafforzati gli strumenti già definiti dall'accordo del 23 luglio 2007 (decontribuzione pienamente pensionabile) con misure aggiuntive di detassazione;

- va affermata per via pattizia l'effettività e la piena agibilità del secondo livello di contrattazione (aziendale o territoriale);

- la contrattazione accrescitiva di secondo livello sarà incentrata sul salario per obiettivi di produttività, qualità, redditività, efficienza, efficacia (ciò richiede trasparenza e informazione puntuale sul quadro economico-finanziario delle imprese);

- va aumentata la capacità di contrattazione sull'organizzazione del lavoro, sugli orari e sulla sicurezza.

E’ prevista, infine, l’attuazione per via pattizia della riforma della rappresentanza e della rappresentatività attraverso un accordo generale quadro, indicando nel Cnel “l’istituzione certificatrice di ultima istanza” e seguendo nel privato i criteri già in vigore nel pubblico impiego (“media tra iscritti e voti Rsu”); le piattaforme e gli accordi confederali e di categoria vanno sottoposti alla approvazione sia degli iscritti che di tutti i lavoratori e/o pensionati.

- L’accordo del 22 gennaio/15 aprile 2009, a cui si sottrae la sola Cgil (piattaforma condivisa accordo separato)

- Finalmente, il 22 gennaio 2009, dopo una lunga trattativa (che qui sarebbe troppo lungo rievocare) viene firmata l’intesa tra governo, associazioni datoriali e organizzazioni sindacali confederali e autonome.

Solo la Cgil si chiama fuori, ancora una volta e nonostante l’intesa unitaria dell’anno precedente.

La sottoscrizione dell’accordo da parte della Cisl è motivata, come si afferma nel comunicato della segreteria confederale, dal fatto che esso accoglie le principali richieste della piattaforma unitaria.

Infatti, l’accordo prevede:

- un nuovo modello contrattuale per tutti i settori privati e pubblici basato sulla durata triennale dei contratti, con l’unificazione della parte economica e normativa su due livelli di contrattazione, nazionale e aziendale o territoriale;

- un nuovo indicatore di inflazione previsionale triennale (indice dei prezzi al consumo armonizzato – Ipca – corretto dall’inflazione derivante dall’energia importata) più elevato e credibile del tasso di inflazione programmata fissato dal governo e quindi maggiormente in grado di tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali. Questo nuovo indicatore verrà assunto dal governo anche per i contratti del settore pubblico;

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- un meccanismo di recupero certo, alla fine del triennio contrattuale, degli scostamenti tra l’inflazione prevista e quella effettiva, misurata con il nuovo indicatore;

- la copertura dei nuovi contratti dalla data di scadenza dei precedenti;

- la piena legittimità della contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale, per ridistribuire gli incrementi di produttività anche ai lavoratori, con aumenti salariali integrativi che saranno incentivati attraverso la detassazione e la decontribuzione (nel settore pubblico i premi vanno legati al conseguimento di obiettivi di miglioramento della produttività e qualità dei servizi offerti, tenendo conto degli obiettivi e dei vincoli di finanza pubblica);

- la previsione nei futuri contratti collettivi nazionali di lavoro, di un elemento retributivo di garanzia, nelle realtà dove la contrattazione di secondo livello non viene effettuata;

- la possibilità di definire attraverso la contrattazione lo sviluppo della bilateralità per migliorare le tutele a favore dei lavoratori;

- -la definizione delle regole per la certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali, per via negoziale, da completare ora con un’ulteriore intesa entro tre mesi.

L’accordo quadro sottoscritto – continua la segreteria confederale – favorisce lo sviluppo di relazioni sindacali basate sulla negoziazione e la partecipazione dei lavoratori agli obiettivi di miglioramento delle attività delle imprese, dei servizi, della pubblica amministrazione, e conferma l’originalità del sistema contrattuale italiano mantenendo un ruolo importante e definito del contratto collettivo nazionale di lavoro, sviluppando nel contempo la contrattazione aziendale e territoriale. Il nuovo assetto contrattuale e il rafforzamento delle relazioni sindacali partecipative assumono un valore ancora maggiore in presenza della grave crisi economica ed occupazionale, di fronte alla quale è necessaria una grande mobilitazione di tutte le risorse disponibili da parte del governo e delle regioni per tutelare i redditi dei lavoratori, estendendo gli ammortizzatori sociali a tutti i settori e ai lavoratori precari e per sostenere l’attività economica dei settori e delle imprese e con esse la prospettiva dell’occupazione.

Per Cisl e Uil l’accordo rappresenta una “svolta storica”, è un “segnale importante per rilanciare il paese”, affermano i firmatari e i sostenitori dell’intesa. Di “forzatura” del governo per dividere i sindacati e indebolire le retribuzioni, parla invece la Cgil, che pretende il referendum e annuncia altri scioperi – dopo quello generale del 12 dicembre – per il 13 febbraio (pubblico impiego e meccanici) e una manifestazione di protesta di tutte le categorie per il 4 aprile.

Su “Il Corriere della Sera” del 24 gennaio l’editorialista Giovanni Sartori, che non è certo un estimatore di Berlusconi, parla senza mezzi termini, a proposito della Cgil, di “sindacalismo invecchiato che non dimentica le sue origini barricadiere e comuniste”, mentre due giorni dopo Angelo Panebianco, dalle colonne dello stesso quotidiano, opina che Epifani abbia addirittura scommesso sul fallimento del Pd.

Effettivamente, la posizione antagonista della Cgil tocca un nervo scoperto e spacca verticalmente il già disastrato partito di Veltroni, che si ritrova costretto ai funambolismi retorici di cui è maestro (si veda alla voce “ma-anchismo”…) per tenere insieme l’apprezzamento sui contenuti dell’intesa “ma anche” (appunto) la necessità di non isolare la Cgil, stretto com’è tra i colleghi di partito nettamente filocigiellini come D’Alema, Bersani e Rosy Bindi e coloro che, come Enrico Letta, Tonini, Treu, Marini e Rutelli, difendono senza incertezze e tatticismi la bontà dell’intesa.

E per finire, anche se la riforma non rappresenta quella decisa sterzata in senso federalista (proposta dal compianto Paparella) e anche se si continua ad ignorare la questione del diverso costo della vita nelle diverse aree del paese, aggiungiamo noi, si può ragionevolmente affermare che l’accordo del 22 gennaio 2009 (siglato ed entrato in vigore il 15 aprile) va nella direzione giusta, tanto più che l’ottenimento della strutturalità degli sgravi fiscali e contributivi per il salario di produttività, confermata anche nella recente manovra finanziaria , determina certamente una notevole spinta ad allargare la platea dei lavoratori interessati a beneficiarne (favorendo, tra l’altro, almeno potenzialmente la partecipazione attiva dei lavoratori stessi all’aumento della produttività, che ristagna da troppo tempo e che mina la competitività delle nostre imprese).

Di sicuro – e su questo è condivisibile la previsione di Ichino –, se l’accordo non si fosse raggiunto

“la prospettiva sarebbe stata quella di un brusco e drammatico passaggio di fatto al modello opposto”, vale a dire la fine dei contratti nazionali di categoria (che negli ultimi dieci anni sono stati rinnovati con crescenti difficoltà e ritardi), la determinazione di un salario minimo per via amministrativa (ipotesi che avrebbe trovato assai probabilmente disponibile l’attuale governo) e la concessione unilaterale o la negoziazione (dove il sindacato è ancora forte) al solo livello aziendale degli aumenti salariali.

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A più di un anno e mezzo di distanza il bilancio dell’accordo è senz’altro positivo, a parte (come al solito) i meccanici, infatti, gran parte delle altre categorie del settore privato (industria e servizi) hanno concluso (o si apprestano a farlo) unitariamente le rispettive vertenze nazionali, sulla base dell’intesa del 15 aprile. In alcuni contratti rinnovati ci sono contenuti notevolmente innovativi

Le federazioni di categoria della Cgil, in aperta contraddizione, affermano che hanno sottoscritto i contratti perché sono riuscite ad ottenere aumenti salariali superiori a quanto previsto dalla riforma

“separata”. E’ vero, invece, che il nuovo sistema non è affatto rigido e centralistico come pretendeva Epifani (che lo definì addirittura “sovietico”), tant’è che funziona “grazie anche a una certa dose di flessibilità”. E ha dimostrato, alla terribile prova della crisi economica più grave dopo quella dal ’29, di funzionare, di produrre buona contrattazione senza bisogno di esibire i muscoli: quasi un miracolo, se si considera la storia delle relazioni sindacali del nostro paese, caratterizzate da un tasso di conflittualità esasperato.

Il problema della rappresentanza e dell’associazionismo

C’è tuttavia, a nostro avviso, un aspetto fortemente problematico di questo accordo (come di quello del ’93, del resto), per la Cisl e per tutto il movimento sindacale italiano, su cui pare opportuno soffermarsi.

Esso riguarda sia i termini dell’impegno iniziale (nella piattaforma unitaria del 2008) a definire “per via negoziale” le “regole per la certificazione della rappresentanza” ovvero della “democrazia sindacale”, sia, e tanto più, la successiva disponibilità esplicita ad accettare anche una legge su tale materia. Per fortuna ciò non è ancora avvenuto, ma certo se fosse messo in atto nei termini più volte precisati dal nostro segretario generale (da ultimo anche al congresso della Cgil) c’è di che essere assai preoccupati. Si tratterebbe infatti di estendere anche al settore privato le regole già introdotte nel pubblico impiego, sancendo dunque per legge, e non solo per via pattizia, il primato della dimensione elettiva su quella associativa per tutti i settori, come sostengono autorevolissimi studiosi vicini alla Cisl (Vincenzo Saba, Mario Grandi, Andrea Ciampani e altri). Tornare indietro, a quel punto, sarebbe quasi impossibile. Non solo:

si aprirebbe la possibilità, come dimostrano i continui tentativi di modificare lo statuto dei lavoratori e le esperienze di altri paesi, di modificare la legge quando cambiano le maggioranze parlamentari o il “clima”

nei confronti del sindacato. Tra l’altro, dovrebbero dire qualcosa le esperienze degli altri sindacati, come quelli tedeschi, spesso additati ad esempio virtuoso, i quali – senza bisogno di alcuna legge – hanno mantenuto il sistema di rappresentanza duale, nel quale tuttavia sono i fiduciari, corrispondenti alle nostre Sas, e gli iscritti ad esercitare un ruolo prioritario rispetto alla commissione interna e alla generalità dei lavoratori; oppure quelli americani, (rappresentano un 8 % dei lavoratori) che oggi intendono rinnovarsi sulla base del (riscoperto) principio associativo, avendo compreso come sia diventata una vera e propria camicia di forza, da cui tirarsi fuori al più presto, la cosiddetta “legislazione di sostegno” che si proponeva di assegnare ai sindacati una posizione di privilegio, portandoli con la forza dell’intervento pubblico in tutte le fabbriche dove questa fosse stata la volontà della maggioranza dei lavoratori, verificata, se necessario, dal voto segreto mediante referendum per non parlare poi di quelli francesi, sempre più “protetti” dalla legge e sempre meno rappresentativi.La Cisl è stata indotta a marginalizzare progressivamente, nei fatti, l’associazionismo, e ad accogliere in modo sempre più netto il primato della rappresentanza universale propugnato dalla Cgil, tant’è che oggi in gran parte dei posti di lavoro la “vita associativa” è ridotta – tranne eccezioni sempre più rare – ad uno stadio larvale. Ma marginalizzare nei fatti il principio associativo per la Cisl significa rinunciare a quella libertà di rappresentanza e a quella piena titolarità dell’azione contrattuale da parte dei soci che sono il fondamento costitutivo dell’identità di ogni sindacato veramente “democratico”.

Facendo leva davvero sul potenziale straordinario della partecipazione attiva, consapevole e responsabile degli iscritti, anzi dei soci, sarà possibile affrontare in modo efficace anche la sfida della prossima stagione di contrattazione decentrata, valorizzando al massimo la strumentazione messa in campo dal livello confederale regionale e da quello nazionale e il clima eccezionalmente positivo che si è creato nella relazioni industriali grazie all’accordo quadro e alla consapevolezza – ormai diffusa anche fra gli industriali, come conferma la recente proposta della Marcegaglia di un “patto tra le forze sociali” – di dover ad ogni costo rafforzare la coesione sociale per poter superare la crisi: per queste ragioni il sindacato italiano ha di fronte un’occasione davvero favorevole, e la Cisl del Veneto e tutte le strutture ad ogni livello non mancheranno certo di coglierla!

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Contrattare in tempo di crisi

Sembra una contraddizione proporre di aprire una grande stagione della contrattazione aziendale, con le aziende ancora sotto la pressione della crisi e nella continuità di un assetto contrattuale bipolare, ma proprio perché pensiamo che la contrattazione sia in grado di riequilibrare i rapporti fra lavoro e capitale anche o sopratutto nella gestione della fase di fuoriuscita dalla crisi che vale la pena di spendersi fino in fondo. In realtà non abbiamo mai smesso di contrattare e lo si è fatto sopratutto nella gestione delle crisi aziendali, con successo e, con buona pace di chi non lo vuol ammettere, utilizzando spesso le deroghe ai CCNL oltre che gli interventi sull’organizzazione del lavoro, sugli organici, sugli ammortizzatori ecc.

Per uscire dalla crisi il nostro sistema produttivo deve recuperare competitività. Ristrutturazioni, riassetti proprietari, innovazioni tecnologiche organizzative, mobilità dei fattori produttivi sono gli strumenti.

I risultati attesi sono una accelerazione della produttività del lavoro e degli altri fattori produttivi. Non si tratta certo di obiettivi nuovi per il mondo delle imprese. I dati disponibili già indicano che dal 2003 fino alla recente gelata recessiva, la produttività del lavoro in Veneto, soprattutto nell’industria è tornata a crescere, ad un tasso tra +1,3% + 1.6% annuo, segno questo che le aziende si stanno riorganizzando.

Eppure questo recupero di produttività è stato intercettato solo parzialmente dalla contrattazione aziendale, e questo è un problema.

Ora che il sindacato che è stato “utilizzato proficuamente” per la gestione della crisi aziendale (l’estensione degli ammortizzatori sta salvando la dotazione professionale delle aziende) deve pretendere lo spazio anche nella ripresa produttiva e ne deve essere protagonista, deve tornare a contrattare, innanzitutto utilizzando gli strumenti che il nuovo assetto della contrattazione ci mette a disposizione soprattutto gli incentivi fiscali per gli aumenti salariali di produttività.

Ma per fare contrattazione efficace bisogna anche essere più preparati, anche tecnicamente, (operatori ed RSU) per essere noi stessi primi attori dell’efficienza delle aziende che presidiamo, bisogna imboccare senza indugi la strada dell’aumento della produttività, se vogliamo davvero produrre ricchezza e distribuirla. Non bastano i pannicelli caldi usati finora, qualche operazione sugli orari, sull’organizzazione del lavoro e su qualche deroga a istituti dei CCNL, occorre stimolare le aziende verso l’innovazione totale, favorire progetti di sviluppo economico e di riorganizzazione che agiscano su punti deboli della singola azienda ed utilizzando le leve del lavoro, (regole, orario, salario, formazione continua) in chiave di progetto comune per il ri-posizionamento strategico dell’impresa verso nuovi mercati, con produzioni innovative ad alto contenuto tecnologico, capaci di competere nei mercati internazionali con successo.

Per questo l’USR si è preoccupata delle competenze professionali dei nostri contrattualisti. Abbiamo commissionato una indagine alla fondazione CORAZZIN sulla contrattazione e sui contrattualisti della CISL veneta (un sunto è in cartella) e, recentemente, è stato realizzato un importante corso di alta formazione per contrattualisti senior rivolto a delegati, operatori e dirigenti. La strutturazione del corso prevede tra i docenti sia esperti sindacali, che tecnici esperti aziendalisti ed economisti, che hanno fornito importanti strumenti atti a diagnosticare la situazione dell’azienda come: “monitor impresa” analisi del bilancio aziendale e “monitor sistema” per la comparazione del bilancio della singola impresa entro al settore di appartenenza , con calcolo delle relative performance e lettura degli scostamenti. L’intento nostro e di mettere accanto alle competenze tradizionali del sindacalista altre competenze tecniche. Insomma il nostro contrattualista deve saper incidere sulla realtà dell’azienda e per poterlo fare deve conoscerne i meccanismi, questo lo legittimerà maggiormente e potrà così meglio rappresentare gli interessi dei nostri associati.

Che ci sia bisogno estremo di questa nostra attività qualificata lo si evince dai risultati di un recente rapporto realizzato da ODM ed Unioncamere (sondaggio su 211 imprese di maggio 2010) “imprese e risorse umane tra crisi e ripresa” sulla situazione delle aziende e della loro risposta alla situazione di crisi, che alleghiamo. Dal rapporto si traggono alcune conclusioni: solo il 16% delle aziende è in crescita, solo il 17,5% innova, gran parte delle strategie si gioca sul capitale umano, infatti il 55% della aziende intervistate investono su un coinvolgimento maggiore di tutti i loro operatori, con premialità di vario tipo e con formazione. Quindi dovremmo orientare meglio la nostra azione contrattuale verso la formazione continua contrattata, parte fondamentale per la ripresa delle nostre aziende, che dovrà diventare una parte primaria dell’attività sindacale nelle aziende e nel territorio, dato che è governato dalle parti sociali all’interno dei

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fondi interprofessionali di cui siamo soci al 50%. Sarà un elemento inscindibile per il successo del comparto manifatturiero del Veneto, infatti: capitale umano e formazione, assieme all’innovazione e ricerca, al salario di produttività, saranno i fattori principali per l’uscita dalla crisi e la ripresa dell’occupazione.

Dobbiamo favorire la partecipazione attiva dei lavoratori alle strategie di impresa per l’uscita dalla crisi ma anche per la distribuzione dei risultati economici della recuperata produttività, anche perché le medie e grandi imprese sono in movimento, stanno cambiando gli assetti proprietari e aumenta la mobilità territoriale degli investimenti, verso altri paesi, c’e un maggiore dinamismo dell’innovazione tecnologica organizzativa, aumenta la competitività di prodotto nel mercato. E si rafforza l’attenzione delle aziende al capitale umano, le politiche di gestione del personale, che elargiscono (spesso senza contrattazione ) forme di welfare aziendale e modalità retributive collegate alle performance individuali o di squadra, per governare meglio anche in termini di consenso le aspettative delle varie tipologie di lavoratori. Tali attenzioni un tempo rivolte alle fasce più professionalizzate, ora tendono a coinvolgere l’intera forza lavoro il cui contributo è ritenuto necessario per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo progettati.

La nuova contrattazione aziendale deve intercettare questi i bisogni compresi quelli delle cosiddette fasce alte.

Essa deve farsi flessibile ed interagente con i tempi delle decisioni aziendali, deve inserirsi nelle nuove organizzazioni del lavoro caratterizzate dal lavoro di squadra e dalla cultura del “problem solving”, deve creare convincenti incentivi perché produttività e salari crescano simultaneamente, si deve impegnare nel favorire, con gli strumenti formativi, la crescita professionale dei dipendenti, deve prendere atto che la contrattazione collettiva non può esaurire ogni capacità regolativa del lavoro, lasciando spazi anche alle transazioni individuali di natura meritocratica per una valorizzazione delle competenze personali.

Le misurazioni “di risultato” devono inglobare, accanto ai valori fisici della produzione, altre variabili, come la qualità, la soddisfazione dei clienti, e devono confrontarsi con altri indicatori in grado di cogliere il più generale andamento economico dell’impresa, nei suoi aspetti reddituali.

Le RSU sono chiamati a nuovi compiti, sono partecipi della nuova cultura tecnologica e gestionale, devono poter contare su esperti esterni, almeno quanto le direzioni aziendali.

La contrattazione integrativa poi dovrà attribuire grande attenzione ad alcuni temi caldi, che mi limito solamente ad indicare:

• la responsabilità sociale d’impresa;

• la formazione continua;

• il welfare integrativo;

• ed il salario/produttività;

• la sicurezza ed il benessere sul lavoro;

• la partecipazione finanziaria;

l’elaborazione su questi elementi è ormai avanzata sia a livello orizzontale che di categoria, è tempo però di far assumere a questi temi la centralità che meritano nel rinnovo dei contratti di secondo livello (rinviamo approfondimenti che trovate in cartella).

Piccola azienda e artigianato

C’è poi il vasto campo delle piccole imprese e dell’artigianato, che occupano una grande quantità di lavoratori veneti, per le quali si propone l’estensione della contrattazione decentrata, molto difficile da realizzare dentro le mura dell’azienda.

La riforma apre alla contrattazione di territorio, si tratta di diffondere la negoziazione di secondo livello nelle aziende di minore dimensione, puntando sul territorio per distribuire salario contando su una semplificazione di procedure nel calcolo della produttività. Per questo alcuni CCNL prevedono specifiche commissioni (metalmeccanici e cartai) o affidando all’Ente Bilaterale (alimentari) l’individuazione di un menù di indicatori semplificati, sulla cui base calcolare il salario variabile, mentre il contratto dei chimici va oltre definendo uno schema opzionale basato su tre indicatori di semplice identificazione per le imprese minori, per l’erogazione del salario variabile. Già operativo invece il sistema del CCNL edile artigiano che prevede una semplificazione per il calcolo dei premi di risultato con 4 parametri nazionali ed uno territoriale per stabilire in maniera semplificata la determinazione dei premi di risultato su base territoriale. Ne risente

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un po’ la qualità dell’impianto in quanto il calcolo della produttività viene fatto per area ed i benefici vengono spalmati su tutti i soggetti sia delle imprese produttive come nelle altre improduttive ma per ora è una soluzione attendibile ed efficace poiché copre larghe fasce di lavoratori o addirittura interi comparti produttivi. Ma è proprio l’edilizia (sia industria che artigianato) che a ragion veduta può rappresentare un modello per la piccola impresa poiché la dilatazione della contrattazione si allunga anche grazie alle performance del sistema di enti bilaterale che erogano prestazioni mutualistiche di ottimo profilo, e garantisce inoltre l’associazionismo sindacale anche con continuità al cambio di azienda.

La piccola impresa veneta, dell’artigianato, del commercio e dei servizi è un mondo che vive di un clima sociale collaborativo, risultato di una cultura locale del lavoro che si predispone favorevolmente ad un impegno condiviso. L’organizzazione produttiva rende le mansioni meno anonime, i rapporti interni più socializzanti, gli atteggiamenti più consenzienti nella comune condivisione dei rischi di mercato. La presenza sindacale è marginale, sussistano anche situazioni diffuse di sfruttamento, la costruzione di un interesse collettivo condiviso incontra difficoltà. Appaiono evidenti, in tali realtà, i limiti di una offerta sindacale confinata nella tutela contrattuale dei rapporti di lavoro (vertenze individuali).

Assumono pertanto un forte rilievo le relazioni sindacali che propongono a questi lavoratori forme di protezione sociale e contrattuale che poggiate su due pilastri: la contrattazione territoriale e gli ENTI BILATERALI. L’approccio contrattuale si salda con una partecipazione del sindacato alla gestione del mercato del lavoro in materia di sostegno dei redditi di lavoro, in caso di sospensioni dal lavoro e di disoccupazione, di servizi formativi per la riqualificazione ed il re-impiego, di sistemi di tutela per la sicurezza del lavoro. L’obiettivo è di creare condizioni perequative tra i lavoratori, a prescindere dall’impresa di appartenenza in termini di protezione sociale e realizzare una integrale copertura contrattuale.

Va sicuramente citato a modello, (e per l’intera Italia), l’assetto contrattuale ed il sistema di relazioni sindacali del comparto artigiano veneto che ha prodotto con venti anni di continua contrattazione un impianto formidabile, capace di rispondere prontamente alle mutate esigenze sia dei lavoratori che delle imprese. In particolare va citato l’ultimo accordo (sett. 2009) che pone al centro l’adozione di misure anticrisi, disponendo cospicui aiuti alle imprese per sostegno al credito ed alla innovazione e per i lavoratori con sostegno al reddito per mancanza di lavoro o per disoccupazione prestazioni che hanno garantito almeno 25000 lavoratori.

Tale impianto andrebbe esteso anche ai lavoratori in somministrazione (Felsa) che oltre a tante disgrazie hanno un contratto che non prevede la contrattazione integrativa con una bilateralità centralizzata che non produce che scarsi risultati per il lavoratori nel territorio.

Gli Enti Bilaterali, insomma possono fungere da regolatore sociale garantire un governo dei settori produttivi e dei servizi, nonchè l’applicazioni dei contratti e di altri benefici e le tutele altrimenti non esigibili, esercitando un ruolo contrattuale capace di fornire risposte ai bisogni dei lavoratori, soprattutto nelle imprese medie-piccole, ove minore è la loro capacità di auto-tutela.

C’è pero una terza via per l’estensione della contrattazione nei comparti caratterizzati da massiccia presenza di piccola impresa, e quella di accordi quadro con le controparti imprenditoriale per una governance confederale con obiettivo di realizzare i contratti di secondo livello in tutti i luoghi di lavoro lo scambio starebbe nel costruire in ambito istituzionale delle politiche di sostegno per lo sviluppo e qualche innovazione adattiva delle normative sul mercato del lavoro (come d’altronde ampiamente previsto dalla dlgs 276/’03) . Questo modello è già avviato in Veneto con un accordo recente stipulato a Vicenza dalle OOSS e la Confapi la quale si impegna a realizzare i contratti integrativi in tutte le aziende associate di tutte le categorie, e sono già in pista altri territori su questa materia con una vivacità foriera di nuovi e ancor più importanti risultati.

La questione salariale, i consumi

La Cisl che è il più grande sindacato del Veneto con i suoi 440.000 iscritti deve, anche assieme ai sindacati veneti, risolvere una grande contraddizione, quella che nonostante gli aumenti di produttività e di ricchezza circolante si convive , nella nostra regione, con i salari netti e lordi più bassi di altre regione italiane e molto più bassi degli altri paesi europei nostri concorrenti e che questa condizione salariale non porta ad una migliore capacità competitiva delle imprese in termini di costo lavoro per unità di prodotto.

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La chiave di volta è la dinamica della produttività del lavoro e degli altri fattori produttivi. La riattivazione della contrattazione aziendale può mettere in moto una

interazione positiva fra dinamica della produttività e dei salari, nel nuovo contesto economico e sociale, ad imitazione di quanto avvenuto negli anni ’60, caratterizzati da una crescita stabile e non inflazionistica. Con l’adesione all’Euro, viene a mancare la leva della svalutazione competitiva della moneta che permetteva l’esportazione appare quindi inevitabile la condivisione da parte degli attori sociali di una strategia produttivistica come soluzione obbligata per una fuori-uscita dalla crisi.

Il rilancio dei consumi (necessario per la piena ripresa dello sviluppo) varia a pari passo con la tutela nei confronti dell’inflazione; la costruzione della produttività e la ripresa conseguente della dinamica dei salari reali devono essere ambientate a livello di singole imprese.

Il “rapporto” sul confronto prezzi e salari di OD&M (dati Unioncamere in Veneto) dimostra che i salari, fatto 100 il 2003 crescono fino al 2009 compreso di 19,1%, raggiungono la cifra media di 25.980 € ; mentre i prezzi si incrementano del 15,2%. Senza analizzare le scansioni delle 7 annualità apparentemente sembra addirittura ci sia una tenuta salari-prezzi. Se però ci si addentra un po’ ci si accorge che le retribuzioni di fatto sono cresciute di meno, complice la crisi (ammortizzatori, mancato rinnovo dei contratti integrativi). Mentre per quanto concerne i prezzi, si tratta dell’indice che comprende i soli beni ad alta frequenza di acquisto quindi non la casa, non l’auto, non il mobilio, non gli studi dei figli, neanche i funerali, ecc. . e quel 4% di scarto fa presto a sfumare. Una situazione di frontiera quindi, come evidenzia la caduta allarmante dei consumi, che spinge l’Adiconsum del Veneto a tentare (un anno fa) la strada di un paniere calmierato di prezzi di largo consumo con un accordo trilaterale (a proposito di contrattazione), Regione, consumatori, commercianti…..a buttar per aria tutto furono poi i commercianti, così siamo tornati al punto di partenza. Stessa strada per il problema affitti … e la lista potrebbe allungarsi. Ma tra il popolo dei lavoratori veneti non tutti sono uguali, dei 2.100.000 che spingono la carretta in 550.500 imprese che contribuiscono al 11% del PIL naz.le esportando un terzo del valore prodotto. Ci sono settori più colpiti dalla crisi (agricoltura) nel cresce del 12,4%, l’industria del 20%, i servizi del 18,6%. Ma i prezzi sono uguali per tutti, vorrà dire che qualcuno consumerà di meno (calo dei consumi) oppure che rinuncerà a qualche servizio (chiusura di asili nido) o, ancora, rinuncia alla mensa a scuola per figli perché costa troppo. Lo testimoniano gli accordi fatti da molte Ust con Comuni e Province per il sostegno ai redditi bassi su rette, bollette o altro. Il fatto è che una politica di bassi salari ha indotto molte famiglie che vogliono mantenere il livello dei propri consumi, a fruire di beni di largo consumo, low-cost, nei supermarket gestiti da grandi catene straniere dove si vendono massicciamente merci di bassa qualità a basso prezzo provenienti spesso dalla Cina. Non solo, ma i cinesi gestiscono anche il 50 % dei banchi ai mercati paesani, prezzi imbattibili;

che sia questa l’unica maniera per difendere il nostro potere d’acquisto? No! …Doppio il danno! Da un lato l’abbassamento drastico della qualità e dall’altro la perdita di risorse economiche a vantaggio di altri paesi.

Anche per questo bisogna recuperare un ruolo competitivo del salario, nel senso di una riapertura dei differenziali salariali contrattati (contenendo le elargizioni unilaterali delle imprese) così da introdurre stimoli emulativi a favore di un riallineamento verso l’alto dei tassi di produttività e dei redditi di lavoro.

Ciò deve valere nei settori che competono nel mercato mondiale così come nei settori sottratti alla concorrenza o condizionati dalla rigidità delle regolazioni amministrative pubbliche. Occorre utilizzare a pieno la leva contrattuale per invertire la distribuzione della ricchezza prodotta finalmente a favore del lavoro penalizzato da anni nella re-distribuzione del reddito in un clima di forte condivisione tra le innovazioni tecnologiche organizzative e forme di partecipazione collettiva, nella prospettiva di una crescita della produttività e del più generale livello di benessere.

Contrattare la produttività, aumentare salario e occupazione

La produttività del sistema produttivo Veneto langue, la locomotiva rallenta, l’export cala di 8%, il pil di 5%, il comparto manifatturiero è in sovrapproduzione, la cassa integrazione è straripante. Fino al primo trimestre 2010, quando una leggera saltuaria ripresa si è affacciata, ora crescono gli ordinativi, l’export, il fatturato ma non cresce l’occupazione. Il problema però viene da lontano. Progressivamente dagli anni della grande crescita e fino al 2007 si evidenziano nell’economia regionale i limiti strutturali e di un immobilismo

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che dimostra l’incapacità di reagire di un intero sistema; tutto poi si accelera con la crisi di metà 2008 che pone il Sindacato di fronte a più di una proposta di scambio tra produttività ed occupazione.

E’ pur vero che più aumenta la produttività per ora lavorata minore è il fabbisogno di lavoro ma anche che il Sindacato non ha mai ostacolato la maggiore produttività in nome dell’occupazione. La maggiore produttività, socialmente sostenibile e contrattata è stata lo strumento di consolidamento del Sindacato nelle aziende. E’ infatti vero che solo la crescita stabile della produzione con una parallela alla crescita della produttività produce il consolidamento e la crescita dell’occupazione. Il trend di crescita dell’occupazione e dei redditi da lavoro che dura da anni cede negli anni 90. La situazione diventa più grave negli anni 2000, per una somma di più fattori: una piccola impresa a basso tasso di innovazione, manodopera a bassa professionalità, scarsa competitività giocata per lo più su bassi salari, il modesto sviluppo di una economia di servizi e a basso valore aggiunto. Così rallenta la crescita della produzione e la produttività, lasciando spazio ad incrementi di occupazione di bassa qualità professionale e di basso reddito, si determina perfino una decrescita della produttività.

Il 6° rapporto Klems (ricerca della Commissione Europea del 2008) che studia della incidenza delle ICT sulla produttività delle aziende, registra, in Italia, una crescita effettiva del valore aggiunto per addetto del 1,5% annuo a fronte di una crescita attesa del 2,5%, nel periodo 1995-2004. La differenza è spiegata da un uso meno produttivistico delle risorse impiegate in quasi tutti i settori industriali e di servizi all’impresa ma segnala anche le cause derivanti da fattori esterni alle aziende e riferite al peso dello stato, al costo dell’energia, alla scarsità della dotazione di infrastrutture materiali ed immateriali.

Estensibile all’intero sistema produttivo, è che la variabile premiante su cui agire è quella della crescita produttiva, in assenza della quale la contrapposizione produttività-occupazione non offre margini di mediazione contrattuale.

Ma le condizioni della crescita produttiva sono mutate nel nuovo contesto globale che accentua la competizione tra i mercati del lavoro.

Esemplare il caso Fiat che prevede la produzione a Pomigliano a condizioni di competitività comparabili con quelle dello stabilimento in Polonia.

Questo vincolo ha un significato ambivalente: da un lato certifica l’accesso degli operai polacchi ad una migliore condizione di benessere, oltre che di competitività, dall’altro evidenzia per i lavoratori italiani una sfida alle condizioni economiche e normative del lavoro maturate nel corso di una stagione nella quale un certo protezionismo di Stato garantiva uno sviluppo sostenibile dal punto di vista economico e sociale.

Sterile per il Sindacato richiamarsi ad una presunta immutabilità delle regole del lavoro quando il contesto non è più compatibile con tali regole.

Bene ha fatto la Cisl e la Fim a contrattare lo scambio: innovazione ed investimenti contro garanzie di crescita della produttività e maggior salario.

Proprio qui sta uno dei punti fondamentali, la produttività (e con essa più occupazione e più salario) non si crea solamente con la riorganizzazione del lavoro, le turnazioni audaci, la maggiorazione degli orari attuati grazie al grande senso di responsabilità del sindacato (almeno sicuramente della Cisl e Uil) se contemporaneamente non si provvede ad innovare il prodotto ed i processi produttivi, con adeguati investimenti. E’ quindi il caso di domandarsi dove sia andata a finire la ricchezza prodotta nelle aziende negli anni della moderazione salariale! Se la produttività del comparto manifatturiero veneto langue è perché molti imprenditori non hanno creduto abbastanza nella propria azienda non hanno re-investito l’utile prodotto spesso cedendo al richiamo dei guadagni facili in borsa (titoli più o meno tossici) o nel mattone o ad altra fonte di alto rendimento.

Qualche alibi per non investire però esiste, lo testimoniano i casi di qualche grande azienda straniera che abbandonano l’Italia in cerca di luoghi più favorevoli o meno ostili.

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Il rilancio dello sviluppo e della crescita

La partita del rilancio dello sviluppo e della crescita della ripresa produttiva e dell’occupazione non si gioca solo dentro ai muri delle aziende, bisogna dare una sterzata all’andazzo del nostro paese e della nostra regione. È l’azienda Italia che non va, non funziona, in Veneto come nel resto dell’Italia.

La scarsa crescita del Paese è stata da tempo individuata nell’inadeguato sviluppo di un terziario avanzato, nell’eccessiva frammentazione della struttura produttiva, nei ritardi dell’azione pubblica, nei costi altissimi dell’energia, nella cronica carenza di investimenti in infrastrutture materiali ed immateriali, nei limitanti investimenti in ricerca/sviluppo e trasferimento tecnologico (ITT).

Inoltre tasse da svedesi-servizi da italiani, un costo del sistema paese elevato, la troppa burocrazia, una fiscalità pesante sul lavoro ed anche sull’impresa dedicata sempre più al mantenimento di sprechi e privilegi che al continuo miglioramento dei servizi al cittadino ed alle imprese. Questa situazione ritarda enormemente il riposizionamento post-crisi delle aziende sane ed innovative, le sole capaci di trainare lo sviluppo del comparto manifatturiero e dei servizi avanzati per i prossimi anni. E toglie molto spazio alla competitività delle aziende costrette a misurarsi nel mercato globale, dove l’Italia, che ha il costo del lavoro fra i più alti d’Europa è costretta a confrontarsi con i paesi emergenti. Insomma un clima sfavorevole alla crescita delle produzioni industriali e del terziario avanzato, un sistema paese che non aiuta la crescita e non riesce a superare i propri limiti ora amplificati dalla crisi finanziaria.

L’uscita dalla crisi non avverrà per via naturale ma va accompagnata favorendo un largo dialogo con tutte le forze attive del paese ed il sindacato assume in questo un ruolo primario.

La Cisl, che promosso assieme alla Uil la grande manifestazione del 9 ottobre sul fisco, ha deciso di dare una scossa al sistema, di dare la sveglia al governo. La riduzione del peso iniquo del fisco sul lavoro e sull’impresa farà parte di tutta la strategia per lo sviluppo ed il rilancio dell’economia.

Nonostante le scaramucce della Fiom su Pomigliano, gli attacchi anche fisici alla nostra organizzazione e alle nostre sedi, le numerose provocazioni ed insulti, la segreteria nazionale ha saputo ricucire responsabilmente, con pazienza, ed è riuscita a mettere in piedi un tavolo importante per lo sviluppo con gli altri sindacati e Confindustria (due giorni fa), dal quale ci aspettiamo un grande nuovo patto sociale che progetti una strategia di uscita condivisa dalla crisi che ci attanaglia. E ci aspettiamo un patto di governance duraturo che ponga il governo con le spalle al muro e lo costringe a prendersi tutte le sue responsabilità.

Bisogna recuperare l’enorme ritardo con cui si è mossa la politica che continua a litigare su questioni futili e vergognose, uno scenario così deprimente e offensivo non si è mai visto prima d’ora. Credo, anche a nome di tutti voi, che sia giusto ringraziare il nostro segretario generale Raffaele Bonanni per aver saputo interpretare con fermezza i passi da fare in una così complicata situazione, dando finalmente speranza a tutti i lavoratori che credono nella nostra organizzazione. Ora si deve ripartire con un forte patto tra le parti sociali; il percorso sarà ancora duro ma almeno c’è una meta da raggiungere.

Anche in Veneto bisogna intervenire perché la crisi è pesante e non occorre dire di più. Finora abbiamo costantemente governato la situazione, ottenendo con accordi importanti, un avanzato modello di ammortizzatori sociali che coprono tutte le situazioni lavorative, anche le più emarginate. Abbiamo contrattato continuamente con la regione e con le controparti per realizzare un nuovo impianto di politiche attive fruibili da tutti i disoccupati per realizzare un vero e proprio sistema di re-impiego qualificato che superi l’attuale mismatch tra domanda ed offerta (10.000 assunzioni insoddisfatte in Veneto per carenza dei profili professionali adeguati), ed accompagni i disoccupati verso un nuovo posto di lavoro.

Si è finalmente aperto il tavolo per lo sviluppo con la regione, vi partecipano tutte le associazioni imprenditoriali venete e Cgil Cisl Uil.

È sicuramente merito della Cisl veneta l’aver convinto Zaia della necessità di tale confronto. Siamo molto preoccupati per la pervasività dell’attuale fase congiunturale, sia per l’intensità con cui essa si dispiega nella nostra regione che per la durata, che sta superando tutte le previsioni.

Ciò che serve al Veneto è una prospettiva di medio–lungo periodo. Un nuovo modello di sviluppo.

L’economia veneta affronta questa fase particolarmente difficile, indebolita da un decennio di bassa crescita del reddito e della produttività ma al tempo stesso forte della consapevolezza di poter contare su alcune caratteristiche strutturali che la rendono meno esposta agli effetti recessivi della crisi finanziaria. Un sistema manifatturiero piuttosto solido, su un sistema bancario storicamente radicato sul territorio, una vocazione

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turistica che può ulteriormente fruttare, un territorio ricco di tante opportunità ed un popolo straordinariamente laborioso. Sono questi i pilastri sui quali costruire il nuovo modello di sviluppo del Veneto.

La crisi di competitività del sistema produttivo veneto riguarda in particolare il settore industriale, che dopo aver garantito un costante supporto ai processi di sviluppo, appare oggi alla ricerca di una solida collocazione nell’ambito della mutata divisione internazionale del lavoro che sta emergendo dalla accelerazione del processo di globalizzazione e dalla straordinaria crescita di nuovi competitori sui mercati internazionali.

Le nostre produzioni si trovano infatti schiacciate da una parte dalla concorrenza tecnologica delle imprese dei paesi più avanzati e dall’altra dai bassi costi dei paesi emergenti, con la conseguente perdita di quote del mercato interno ed internazionale.

La Cisl Regionale è impegnata fin da ora alla gestione del confronto ed alla realizzazione di un patto per lo sviluppo di alta qualità. Per questo è stato presentato all’incontro con la regione uno studio della situazione con le proiezioni e suggerimenti sulle scelte da fare.

Conclusioni

Le analisi fornite dal CNEL sulla contrattazione decentrata concordano nel segnalare un declino della contrattazione aziendale ed un andamento stagnante ed omogeneo dei redditi da lavoro, con una diminuzione della pur modesta dispersione salariale.

Ne consegue che nei settori e nelle aziende più espansive la diminuita incidenza del costo del lavoro per unità di prodotto va a vantaggio dei profitti, mentre nei settori e nelle imprese regressive, l’accresciuta incidenza del costo del lavoro per unità di prodotto accelera processi di ristrutturazione e di caduta nell’economia sommersa.

La riforma dell’assetto contrattuale nasce dalla percezione, non avvertita adeguatamente dalla CGIL, che per aumentare i salari reali, nelle nuove condizioni di fluidità del sistema produttivo, occorre intervenire laddove si genera la nuova produttività combinando, in maniera flessibile, l’azione del contratto nazionale e quella del contratto aziendale.

È evidente, per quanto esposto qui sopra, che la contrattazione per il rinnovo dei contratti integrativi è fortemente collegata e interdipendente con le azioni macroeconomiche qui prospettate. Senza una seria prospettiva di rilancio in molte situazioni sarà più difficile realizzare il rinnovo. Per questo la Cisl, ai diversi livelli, si sta impegnando per il rilancio dell’economia del nostro paese.

Pensiamo sia utile lanciare la campagna di rinnovo in tutti gli esecutivi delle categorie con la presenza della Segreteria USR e mandare subito le richieste a 10 grandi realtà per ogni categoria in ogni provincia.

Dobbiamo anche contribuire alla realizzazione dell’osservatorio nazionale della contrattazione appena proposto dal dipartimento di Sbarra, magari con un sottosistema veneto che permetta una lettura parametrata dei risultati ed una loro diffusione.

Raccomandiamo ai contrattualisti di partecipare ai corsi specifici realizzati dalla USR.

E proponiamo di ripetere ogni anno o due anni una iniziativa simile a questa, in chiave di “fiera della contrattazione” per mostrare e condividere i risultati prodotti.

Ringraziamo Luigi Sbarra per essere oggi con noi……

Infine,

spetta veramente a noi affrontare, con convincimento e con rinnovato slancio, questa fase, che assume una importanza storica per l’evoluzione della contrattazione nella nostra regione. Se lo faremo con l’orgoglio di essere della CISL, con il convincimento di essere avanguardia, allora si, sarà un successo straordinario e finalmente soddisferemo le aspettative dei nostri iscritti.

Viva la Cisl !

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