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L’invalidità nel sistema previdenziale pubblico:

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Academic year: 2022

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L’invalidità nel sistema previdenziale pubblico:

Panorama metodologico ed invito all’uniformità valutativa

di

A. Bucarelli* , D. Cafini**

E’ possibile indicare un aspetto innovativo, comunque originale, sul tema dell’invalidità nel sistema previdenziale pubblico italiano, che rappresenta uno degli argomenti più trattati e da più tempo dibattuto di tutta la problematica medico legale? E ciò non solo da parte degli addetti ai lavori sul piano normativo, giurisprudenziale e propriamente medico legale, ma anche da tutti i media su quello sociale, cronachistico, giudiziario e politico, specie in questi ultimi tempi.

Io e il collega Cafini, col quale divido la responsabilità di questa relazione, abbiamo ritenuto possibile avventurarci, con atteggiamento forse illusorio, forse temerario ma comunque di interesse, nei meandri della multiformità concettuale e giuridica dei vari

“tipi di invalidità”, codificata nel nostro Paese (invalidità civile, invalidità INPS ed INAIL, dipendenza da causa di servizio), al fine di individuare - se possibile - gli elementi di riferimento valutativo che possano costituire in senso propositivo, de iure condendo, un parametro di omogeneità sul piano della valutazione medico legale. Questo nell’ottica di razionalizzare la prassi e le strutture operative deputate alla valutazione dell’invalidità e dell’inabilità che danno accesso alle prestazioni previdenziali ed assistenziali, secondo quanto indicato dalla Legge 8 agosto 1995, n. 1335, sulla nuova disciplina del sistema previdenziale ed espressamente per la delega al Governo contenuta all’art. 3, comma 3°.

Il sistema previdenziale pubblico, attraverso i suoi Istituti, non ha mai raggiunto, in oltre un secolo di esistenza (l’assicurazione contro gli infortuni del lavoro nell’industria INAIL nasce con il nome di Cassa Nazionale nel 1883) l’adozione di criteri di massima uniformità per casi analoghi, poiché man mano che sono stati istituiti successivamente l’invalidità civile (1921), l’INPS (1935), le pensioni privilegiate per cause di servizio (1952) sono contemporaneamente state emanate, per ciascun Ente, norme autovincolanti, avulse dal contesto generale.

Lo Stato pertanto non ha mai provveduto ad armonizzare il servizio previdenziale in toto, provvedendo a dotarsi di idonei parametri di riferimento generali, al fine di ovviare a dette anomalie.

Non abbiamo certo la presunzione di individuare una soluzione definitiva ed unitaria al problema dei presupposti giuridici dell’invalidità che possa uniformemente comprendere tutte le tipologie di invalidità codificate nel nostro sistema previdenziale, tuttavia, anche se può sembrare provocatorio o semplicemente di stimolo dialettico, riteniamo possibile tentare di estrapolare almeno una criteriologia interpretativa e di riferimento.

Prima comunque di analizzare le problematiche italiane, abbiamo ritenuto utile fare una panoramica, per grandi linee, della normativa dei diversi paesi europei in tema di

“assicurazione per invalidità” evidenziando che:

in PORTOGALLO vengono assistiti tutti i lavoratori dipendenti assicurati. E’

invalido il lavoratore che per malattia o incidente non professionale non può guadagnare che 1/3 del normale guadagno. Non vengono indicate percentuali di invalidità, il presupposto diviene definitivo se in 3 anni il lavoratore non potrà guadagnare il 50% del normale stipendio.

* Docente di Medicina Legale, Università di Cagliari

**Primario di Medicina Legale (USL 14 Regione Piemonte-Verbania)

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In SPAGNA vengono assistiti i lavoratori dipendenti nei settori dell’Industria e dei Servizi. Si distingue una invalidità temporanea da una permanente; la permanente è caratterizzata da menomazioni anatomiche o funzionali gravi e definitive che riducono o sopprimono la capacità lavorativa specifica, anche se la possibilità di riadattamento è incerta o lontana, il tasso minimo di incapacità lavorativa è del 33%.

In FRANCIA vengono assistiti tutti i lavoratori. E’ invalido il lavoratore che a seguito di malattia o infermità non può guadagnare, in qualsiasi attività, più di 1/3 del normale stipendio di un lavoratore della stessa categoria, formazione e regione.

Il tasso minimo di incapacità è di 66,6%. Viene distinto chi comunque riuscirebbe a svolgere una attività remunerativa dall’incapace totale al lavoro da coloro che hanno diritto all’assistenza di una terza persona.

In GRAN BRETAGNA vengono assistiti tutti i lavoratori. E’ invalido chi per malattia o incapacità fisica o mentale non abbia lavorato per almeno 168 giorni lavorativi.

In IRLANDA vengono assistite tutte le persone al di sopra di 16 anni impiegate con contratto di lavoro o apprendistato. E’ invalido l’assicurato incapace di qualsiasi lavoro da almeno 12 mesi e che continuerà ad esserlo presumibilmente per almeno altri 12 mesi.

In DANIMARCA vengono assistiti tutti i residenti di nazionalità danese di età dai 15 ai 65 anni. E’ invalido chi ha la possibilità di lavoro ridotto permanentemente a causa di incapacità fisica o mentale al disopra del 50%.

In OLANDA vengono assistiti tutti i lavoratori dipendenti. E’ invalido chi per malattia o infermità non può guadagnare quello che altri lavoratori a lui assimilabili normalmente guadagnano, svolgendo lavori corrispondenti alle sue forze e attitudini professionali anteriori; tasso minimo di incapacità 15%.

In BELGIO vengono assistiti tutti gli operai ed impiegati. E’ invalido il lavoratore che per malattia o infermità non può guadagnare che 1/3 del normale guadagno di un lavoratore della stessa categoria e formazione.

In GERMANIA vengono assistiti operai, impiegati, handicappati. Invalidità professionale: al lavoratore che per malattia o infermità può guadagnare meno della metà di qualunque altro a lui assimilabile per categoria e formazione e che non può trovare un impiego corrispondente alla sua condizione professionale e sociale anteriore. Invalidità generale: al lavoratore che può esercitare soltanto lavori che gli consentono guadagni minimi o irregolari. Il tasso di invalidità produttivo di reali benefici economici è molto vicino al 100%.

In sintesi parte dei paesi della Comunità Europea (Belgio, Francia, Germania, Grecia, Olanda, Portogallo) prende in considerazione la capacità di guadagno nel definire l’invalidità mentre altri (Danimarca, Gran Bretagna, Irlanda, Lussemburgo, Spagna) considerano la capacità di lavoro come elemento valutativo. Tra questi ultimi paesi inoltre esiste un grande divario nel sancire quale percentuale di “invalidità” dia diritto al

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beneficio: infatti alcuni considerano solo l’entità della riduzione della capacità di lavoro come momento efficiente altri invece ricomprendono anche la durata temporale di detta incapacità per attribuire il beneficio al lavoratore.

Da tutto ciò ben si desume come il problema in argomento sia particolarmente multiforme e le soluzioni adottate siano veramente molteplici.

Con il tentativo di eliminare tutte queste discrepanze, nel 1972 venne stipulata la Convenzione Europea di Sicurezza Sociale, finalizzata al coordinamento tra le diverse legislazioni applicabili in materia di sicurezza sociale degli stati aderenti. Solo nel gennaio 1989 l’Italia ha recepito la Convenzione Europea predetta emanando apposito dispositivo legislativo (la legge n. 567 del Dicembre 1988, pubblicata sulla G.U. n. 18 del 23 Gennaio 1989) che in pratica è rimasta semplice lettera morta, anche se le disposizioni in subiecta materia sono entrate in vigore, nel nostro paese, il 12 aprile 1990.

Precedentemente nella CEE era stato stipulato un Atto Unico Europeo, firmato nel 1985, che prevede, tra l’altro, l’armonizzazione delle legislazioni dei vari stati membri in materia di protezione sociale, e individua prescrizioni di minima cui attenersi.

Ancora nell’ambito della protezione sociale del cittadino lavoratore il nostro paese, proprio perché ricco di lavoratori emigrati, aveva stipulato numerose convenzioni per ottenere condizioni reciproche di protezione dei lavoratori migranti, che riguardano peraltro differenti aspetti della protezione sociale: convenzioni bilaterali esistono con Argentina, Australia, Brasile, Canada, Capo Verde, Iugoslavia, Libia, Liechtenstein, Tunisia, Uruguay, Vaticano, Messico, Principato di Monaco, Stati Uniti, Svizzera.

Nel tentativo di uniformare le differenti valutative, in ambito CEE, sono state introdotte delle tabelle di concordanza contenenti indicazioni su quei regimi di invalidità che, nell’ambito della comunità, possono considerarsi “concordanti”, dette tabelle riguardano però solo un numero molto limitato di paesi (Italia, Francia, Belgio e Lussemburgo) ciò a dimostrazione ulteriore che l’argomento è veramente complesso e le diverse legislazioni sono davvero polimorfe.

Premesso tutto ciò e visto che non è certo possibile in questa fase proporre una soluzione definitiva ed unitaria al problema, ci limiteremo ad una analisi dei concetti medico legali, comuni ai vari “tipi di invalidità” codificata nel nostro paese (invalidità civile, invalidità INPS ed INAIL, dipendenza da causa di servizio) indicando l’elemento di riferimento valutativo che, nella nostra legislazione sembra essere la “capacità lavorativa”, dico sembra perché per fare un’affermazione categorica dovremmo scotomizzare tutta la problematica interpretativa della legge 222/84.

Infatti diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno fornito parametri interpretativi diversi e contrapposti al dibattuto art. 2 della 222/84. L’ultima sentenza in ordine di tempo (la n. 2397 del 26 Febbraio 1993, sezione lavoro pres. G. Bucarelli) riporta i concetti di “invalidità in ambito INPS” a quei presupposti sanciti dalla normativa preveggente alla 222 e cioè stabilisce che deve individuarsi nel “lavoro proficuo” il fattore ostativo alla pensione di inabilità, non avendo rilevanza a tale scopo la possibilità di una qualsiasi attività lavorativa che non assicuri, tuttavia, accettabili livelli esistenziali.

In pratica quindi, considerando valida almeno concettualmente la sentenza citata, dobbiamo affermare che nel nostro sistema previdenziale esiste una dicotomia interpretativa sul concetto di invalidità che presuppone in ben determinati ambiti (invalidità civile, invalidità INAIL e dipendenza da causa di servizio) la capacità di lavoro come parametro di riferimento mentre in ambito INPS la “capacità di guadagno che consenta accettabili livelli esistenziali”.

Non è certo questa la sede per affrontare anche le complesse problematiche interpretative delle leggi. Quindi, per semplicità, leggeremo letteralmente la norma, affermando che nel nostro sistema previdenziale, il parametro di riferimento per la

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valutazione dell’invalidità è la capacità di lavoro, presupposto ben applicabile sia in ambito INAIL-INPS che nella Dipendenza da Causa di Servizio perché i soggetti giudicati fanno parte della forza lavoro attiva. E’ decisamente difficoltosa la sua applicazione nell’ambito della Invalidità Civile dove il giudizio viene espresso sul cittadino non necessariamente lavoratore.

Proprio per superare detta difficoltà metodologica nella valutazione dell’invalidità civile sono state emanate le nuove tabelle valutative di cui al D.M. 5 febbraio 1992.

Dette tabelle, pur valide per l’encomiabile lavoro di sintesi, sono metodologicamente carenti in quanto, nella gran parte dei casi, prescindono totalmente dal riferimento alla capacità lavorativa specifica o semispecifica, dando valutazioni identiche o di poco differenti da caso a caso. In pratica l’operaio ed il lavoratore intellettuale con la medesima menomazione si vedono attribuire la stessa percentuale di invalidità (con un correttivo di soli cinque punti percentuali!!), senza quindi che vi sia possibilità di valutare la rilevanza della menomazione nell’ambito della specifica attività. Ancor peggio la valutazione risulta identica in soggetti che si trovano nel periodo che precede l’impiego (giovani non ancora avviati al lavoro) ovvero in quelli già pensionati.

La situazione pratica sarà poi veramente caotica quando verrà data completa applicazione al presupposto politico di liberalizzare il sistema previdenziale, consentendo coperture assicurative, non necessariamente pubbliche nell’ambito previdenziale. In quest’ottica il nostro sistema normativo dovrà certamente chiarire quali debbano essere i presupposti metodologici per valutare l’invalidità.

Questo chiarimento, necessariamente legislativo, dovrà comprendere anche tutto il complesso di norme che regolamenta l’avviamento al lavoro dei cittadini invalidi, che tutt’oggi è costituito dalla legge 482/68. Questa norma infatti stabilisce, demagogicamente, che il cittadino invalido debba essere “privilegiato” nell’avviamento al lavoro, disegnando canali preferenziali per l’occupazione degli invalidi, senza preoccuparsi di verificarne, preventivamente, la reale idoneità allo svolgimento di quelle mansioni cui il lavoratore verrà poi demandato, amplificando così l’equivoco concettuale che l’invalidità rappresenti un qualcosa di svincolato dalla “capacità di lavoro” e quindi dall’idoneità-inidoneità a svolgere una certa attività.

La nostra proposta operativa, solo metodologica, parte dal presupposto che parametro valutativo dell’invalidità debba certamente essere solo l’incapacità lavorativa in quella parte di cittadini che hanno già raggiunto la vera qualificazione nell’ambito del lavoro; utile parametro di riferimento potrebbero essere scale di valutazione percentuale che, sempre più dettagliate, vengono ad esempio elaborate dalla scuola francese di medicina legale. Negli altri due gruppi di cittadini, quelli in età pre-lavorativa e quelli in età pensionabile che non possono essere giudicati rispetto alla loro capacità di lavoro (parametro teorico e quindi aleatorio), i riferimenti valutativi percentuali potrebbero essere quelli del danno biologico, integrato, nei casi più gravi (ad esempio per la valutazione dell’indennità di accompagnamento ovvero della superinvalidità), dalle specifiche scale di riferimento basate sulla valutazione del “disagio sociale”.

Proposta operativa metodologica per la valutazione dell’invalidità

Soggetti in età occupazionale e con una qualificazione lavorativa realmente raggiunta: Valutazione secondo tabelle predeterminate e dettagliate con parametro di riferimento capacità lavorativa specifica o semispecifica

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Soggetti in età pre-occupazionale o senza una qualificazione lavorativa o pensionati: Valutazione secondo parametri del danno biologico istituto della revisione al raggiungimento di una qualificazione lavorativa.

Soggetti da valutare per indennità d’accompagnamento: Scale di riferimento basate per valutazione del “disagio sociale”

Conclusioni

E’ questa una schematizzazione forse troppo sintetica o di difficile accettazione - previo eventuale provvedimento legislativo - da parte di tutti gli Istituti previdenziali. Ma ciò vuole essere solo proposta operativa, certamente provocatoria e non esaustiva, del difficile sistema previdenziale italiano.

D’altronde lo Stato non ha mai provveduto ad armonizzare il servizio previdenziale in toto, provvedendo a dotarsi di idonei parametri di riferimento generali, alla luce dei quali incidere su situazioni soggettive dei fruitori dei servizi.

Pare invece che si sia limitato ad esprimere caso per caso quella che gli antichi chiamavano ambulatoria voluntas, caratterizzandosi ora per una certa comprensibile ed apprezzabile libertà di indirizzi e, ora, succube di malintesi, inopportuni ed illegittimi - sul piano etico e sociale, ma obbligati da esigenze di bilancio oltre che di politica generale - inviti al contenimento della spesa, soggiacendo a criteri acriticamente restrittivi.

Di fatto si sono create così delle autentiche disparità di trattamento, in un arco di tempo piuttosto lungo e senza spiegazione tecnica del mutamento di indirizzo. Dal che si deduce censura al di sopra delle parti, soprattutto se si considera che, in passato il sistema previdenziale italiano è stato considerato dalle Istituzioni più un vero

“ammortizzatore sociale” che una vera indennità compensativa all’invalidità acquisita o congenita.

Per finire sul punto, non vi è chi non veda come l‘interesse alla riduzione della spesa pubblica, che pure esternato solo indirettamente e in modo non sempre lineare in questi ultimi anni, si suppone abbia guidato il Legislatore, o rectius, l’interesse alla riduzione degli sprechi in tale disastrato comparto, possa coesistere ed essere contemperato con quello del diritto dei cittadini a fruire di un sistema previdenziale tempestivo ed adeguato.

Non vi è dubbio, comunque, che l’interesse, tout court, al risanamento finanziario sia recessivo rispetto a quello del singolo alla salute ed alla assicurazione sociale come funzione preventiva ad essa connessa e come statuizione dei rischi da proteggere e delle entità relative alle indennità compensative allo stato di invalidità acquisita o congenita.

Sempre rimanendo nella critica della struttura logica del sistema, occorre rilevare quindi che è possibile conciliare le esigenze suddette con un tentativo di ristrutturazione del sistema stesso in senso globale ed uniforme, sia pure con iniziative propositive da parte di noi tecnici operativi, senza voler ipotizzare una sorta di campanilismo terapeutico medico legale, sterile e fine a sé stesso.

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