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Progetto realizzato con il contributo finanziario della Provincia Autonoma di Trento Assessorato alla solidarietà internazionale e alla convivenza

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Academic year: 2022

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(1)

G G G R RU R U UP P P P P P O O O D D D O O O N N N N N N E E E R RE R E E N ND N D DE E E N NA N A A

C C U U L L T T U U R R E E A A C C O O N N F F R R O O N N T T O O

M MO M O OD D D E ER E R RA A AT T TO O OR R RE E E: : : D D D O ON O N NA A AT T T A A A B B B O OR O R R G GO G O ON N N O OV O V V O O O R R RE E E

T T T I I I O O O N N N E E E 1 1 9 9 e e 26 novembre 2010

Progetto realizzato con il contributo finanziario della Provincia Autonoma di Trento Assessorato alla solidarietà internazionale e alla convivenza

(2)

1919 nnoovveemmbbrree 22001100 I

INN CCOOPPPPIIAA

FI F IL LI IP PP PI IN NE E F FI IL LI IP PP PI IN NE E

RiRinnaa MMaallllaarrii JJoosseepphh MMaalliicc-- ddeemm

NO N OR RV VE EG GI IA A SP S PI IA AZ ZZ ZO O

MMaarriiaa SSkkaarrssaauunnee TTeerrzzii LeLeooppoollddoo TTeerrzzii ININDDIIVVIIDDUUAALLII

PR P RE EO O RE R E - - C CO OL LO OM MB BI IA A

SaSarraa BBaallllaarrddiinnii

V VE ER RL LA A D DI I G GI IO O VO V O - - B BR RA AS SI IL LE E

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Elliissaabbeettttaa MMoorreellllii VViillddaayy NiNicchhoollaass VViillddaayy ININDDIIVVIIDDUUAALLII

AL A LB BA AN NI IA A V VI IL LL LA A R RE EN ND DE EN NA A

DDuurriimm BBeeggaa

RO R O MA M AN NI IA A S SP PI IA AZ ZZ ZO O

ÉlÉleennaa GGaallccaa

(3)

In I n c c on o n t t ri r i d d e e d d i i c c a a t t i i a a ll l l a a m m e e mo m o r r i i a a d d i i MI M I NA N A L L A A F F A A R R GI G I

Mina Lafargi ha rappresentato a Tione un simbolo per l'integrazione delle diverse culture e un modello di mamma esemplare.

I suoi consigli, per rendere ottima la convivenza tra gli abitanti e per una sana crescita dei bambini nel quar- tiere Polin,sono stati preziosi per tutti, compresa l’amministrazione comunale.

Immigrata dal Marocco, nel 1990 è arrivata a Tione con la figlia Eptisame alla quale ha dato un fratellino, Cha- raf, nel 1995. Il marito, successivamente trasferito a Brescia, ha allentato i rapporti con la famiglia.

Pur non avendo mai rinunciato alla propria fede mus- sulmana, vestiva all'europea, cosa che non mancò di essere oggetto di qualche critica da alcuni dei suoi connazionali,

Mamma modello ha sempre seguito i figli con molto af-

fetto e attenzione. Eptisame, che oggi ha 23 anni, ha completato gli studi presso la Scuola Alberghiera di Tione e di Riva del Garda dove ora è ben sistemata dal punto di vista occupazionale.

Charaf. che ha 15 anni, stava frequentando la Scuola a Tione quando Mina, lo scorso agosto, è rimasta vittima di un incidente stradale all’uscita della galleria mentre si stava recando al lavoro a Ponte Arche. Charaf ora a- bita con la sorella e ha intrapreso una nuova scuola di informatica.

Mina si è contraddistinta per la sua puntualità e il suo impegno sul lavoro e nei confronti della crescita dei fi- gli, sempre attenta al loro percorso scolastico.

Non si è mai risparmiata neppure nell'impegno sociale.

la sua scomparsa ha lasciato un profondo dolore e un

ricordo luminoso di una donna da citare come esempio

.

(4)

Joseph Malicdem e Rina Mallari

Lady Diana, la figlia: rimpiange la musica e la danza a scuola, loro lavorano sodo e insieme sono contenti anche se sarebbero ancora nelle Filippine se il loro governo non fosse dissennato e corrotto

Dopo aver vagato sette anni per i mari del mondo Joseph è approdato a Ra- venna nel 1999. Da qui è iniziata la sua avventura in in Italia dove è rimasto 4 anni senza permesso di soggiorno, do- ve lo ha raggiunto tutta la sua famiglia e dove ora vive a Spiazzo Rendena.

Rina e Joseph si sono sposati nel 1990 a Panpanga, città a circa 100 km. da Manila, la capitale: Noi del nord delle Fi- lippine abbiamo più possibilità di studia- re rispetto a chi vive al sud dove sono per lo più mussulmani e non cattolici come noi. Racconta Joseph.

Il suo italiano ha bisogno spesso dell’

’aiuto della moglie e a entrambi va in soccorso Lady Diana, la figlia diciotten- ne che parla in modo corretto e fluente.

Intanto il piccolo Aj Thomas, di tre anni, dorme.

Lady Diana frequenta la scuola alber- ghiera a Tione e d’estate fa la stagione a Madonna di Campiglio. La sua carrie- ra scolastica era però cominciata nelle Filippine.

Hai avuto problemi con il cambiamento di scuola, hai qualche rimpianto?

Di cambiamenti di scuola ne ho avuti

ben otto, no, non mi pesa il cambiamen- to quello che mi manca è la scuola, Là facevo musica e danza e poi, le divise…

come nei college americani. Sì questo mi manca un po’.

A Spiazzo Joseph e Rina lavorano dal 2008 presso una famiglia con un regola- re contratto, le ore settimanali sono pa- recchie: Ci troviamo bene con questa famiglia e siamo molto felici di lavorare per loro. Spiega Joseph e poi ricorda:

Quando ero imbarcato, come quarto uf- ficiale, su petroliere o navi cargo, navi- gavo nove mesi di seguito e solo un mese mi fermavo con la famiglia, era duro. Allora qualche amico mi disse, se sai stirare trovi lavoro in Europea e in Itlalia, ma, stirare, come uomo … ma poi ho imparato e lavoro come collabo- ratore domestico. Anche perché per un certo tempo avevo provato a fare il pa- nificatore, il lavoro però era molto pe- sante ed ero dimagrito moltissimo.

In quale parte d’Italia viveva quando faceva il panificatore?

A Galliate, in provincia di Novara.

In Lombardia e in Piemonte ci sono molte comunità di filippini, per molti di

loro è impossibile vivere lontano dai propri connazionali e talvolta rinunciano anche a lavori ben remunerati per non allontanarsi dagli amici . Qui a Spiazzo voi siete i soli filippini, non vi dispiace?

E’ Rina che prende la parola: La comu- nità è faticosa! - Esclama. – Hai il ca- lendario pieno tutto il mese, e se non partecipi, magari qualcuno si offende.

Ma qualche volta vi prende la nostalgia?

A mio marito meno perché molti dei suoi familiari sono in Italia, invece io ho i miei fratelli in Canada e sì, mi mancano, mi manca la famiglia. E poi, un po’, il clima, dove la temperatura minima a dicembre è di 15° e si vive sempre la stagione tropicale.

Quali sono i vostri progetti per il futuro, contate di tornare nelle Filippine?.

Rina e Joseph rispondo insieme, quasi all’unisono:

Purtroppo il governo corrotto del nostro Paese non ci permette che la speranza di rientrare quando i nostri figli saranno grandi e li avremo sistemati qui. Per ora nelle Filippine non c’è futuro, altrimenti noi non saremmo qui. E quando saremo vecchi, vedremo.

(5)

Maria Skarsaune Terzi e Leopoldo Terzi

Si sono conosciuti nel 2003 a Oslo, mentre Leopoldo svolgeva uno stage per la sua tesi di laurea in ingegneria civile. Maria studiava all’università e si è trasferita in Italia dopo 6 mesi dal loro incontro.

Sono sposati dal 2005. Vivono a Spiazzo insieme ai due figli:

Cristiano Anders di tre anni e Eleonora Josefine di un anno.

Maria. Sono proprio contenta di parteci- pare a questo incontro, così possiamo sentire altre coppie di culture miste e por- tare le nostre esperienze.

Leopoldo. Credo sia importante, soprat- tutto nel mondo di oggi, dove sempre più frequentemente le culture si incontrano, proprio come noi.

Maria. Ma cosa possiamo dire di noi?

Leopoldo. Secondo me prima di tutto dobbiamo cercare di dividere fra le cose che sono diverse a livello pratico e quello che lo sono a livello di valori e di etica.

Maria. All’inizio penso che siano stati gli aspetti pratici a essere più evidenti, come ad esempio gli orari della giornata:

In Norvegia la giornata lavorativa comin- cia alle 8.00, si fa orario continuato fino alle 15:30 o alle 16:00. Si cena verso le 16:00/16:30. Questo permette di avere più tempo in famiglia e consente di avere più tempo libero in generale. Anche il

mangiare e i pasti sono diversi: da noi si mangia una prima colazione importante e si fa solo un pasto caldo al giorno. Ho fat- to fatica ad abituarmi al fatto che qui tutto si ferma a mezzogiorno.

Ti ricordi quante volte ti ho chiamato, fru- strata, fuori dal supermercato chiuso alle 14:00 ?

Leopoldo. Per fortuna a queste cose ti sei abituata. Ci sono invece abitudini ita- liane alle quali io rinuncerei volentieri. Per esempio, anche me piacerebbe avere più tempo in famiglia come hanno i nostri a- mici in Norvegia.

Onestamente attraverso te e la tua cultu- ra ho rivalutato molto il mio ruolo di marito e di papà nella nostra famiglia, visto che a causa degli orari del mio lavoro non rie- sco a essere a casa presto e passare molto tempo con te e i bambini.

Maria. Effettivamente nel nostro matri- monio i ruoli non sono mai stati scontati e abbiamo spesso dovuto metterci in di- scussione.

Quello che coscientemente o meno un marito italiano si aspetta dalla moglie non sempre corrisponde a quello che una moglie norvegese creda sia il suo ruolo. E viceversa. Quindi il fatto di parlare e di- scutere delle piccole e grandi scelte – te- nendo conto delle diverse aspettative – è fondamentale in un matrimonio come il nostro.

Leopoldo. Hai proprio ragione, credo che sia questa la cosa più importante. La no- stra forza penso che stia proprio in que- sto, nel creare i ruoli nel nostro matrimo- nio come lo vogliamo noi, senza cadere nei ruoli fissati nelle nostre culture.

Maria. A entrambi piace rispettare le no- stre tradizioni individuali ma in pratica for- se stiamo creando una nostra cultura di coppia a parte. Non siamo una famiglia italiana o norvegese ma italo-norvegese.

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Sara Ballardini

“Camilo, con pochi tratti, mi racconta il suo villaggio e la sua storia…”

Giugno 2008, primo viaggio a Cacarica, Chocò, Colombia.

Camilo ha dieci anni. Mi osserva sorriden- do, dondolandosi sull’amaca. Sono nuova del posto: un’altra “bianca” da aggiungere alla lista dei tanti “bianchi” passati di qua.

”Da dove vieni?”

“Dall’Italia.”

“E quante ore d’aereo ci vogliono per arri- vare in Italia?”

“Più o meno… quattordici!”

“Sai, anch’io sono stato all’estero!”

“Dove?”

“Panamá, un’ora camminando.”

Iniziamo un gioco insieme: intingiamo un dito in una pozzanghera (che temporale questa notte!) e disegniamo sulle assi della casa.

Camilo, con pochi tratti, mi racconta il suo villaggio e la sua storia: le case di legno, la canoa per risalire il rio, la selva, una mula carica di sacchi, un albero di man- go, un banano, le galline, l’elicottero dell’esercito e noi stranieri, “los briga- distas”: Sì, facciamo parte anche noi del suo racconto.

Da sedici anni i volontari delle Brigate In- ternazionali di Pace (PBI, Peace Brigades International) sono presenti qui, in Co- lombia, in questo incantevole Paese af- facciato su due oceani, circa quattro vol-

te più esteso dell’Italia.

Camilo prosegue con i suoi disegni: ora ci sono gli attrezzi che servono per lavorare i campi.

“Ti piace lavorare nel campo?”

“Sì, però…”

“Cosa vorresti fare da grande?”

“El brigadista, come te!”

“Che onore!”

“E perché?”

“Perché voi siete più forti delle armi.”

“Davvero? E come?”

“Boh…”

Già, è complesso spiegare termini come osservatori internazionali, accompagna- mento, rete di appoggio, nonviolenza, de- terrenza, allerta, difensori dei diritti umani, zona umanitaria, autodeterminazione....

Ho scelto di trascorrere due anni in Co- lombia con PBI mossa da un immenso desiderio di appoggiare comunità in resi- stenza, come questa di Cacarica.

Già da Preore sentivo vicina, coinvolgen- te e interessante, la resistenza nonviolen- ta degli attivisti, difensori dei diritti umani sono uomini e donne campesinos, profu- ghi, avvocati, famiglie di desaparecidos, giornalisti, insegnanti, cittadini che hanno

scelto di impegnarsi quotidianamente af- finché tanti gravi crimini non vengano di- menticati e non si ripetano.

La loro storia é segnata da minacce e at- tacchi: non é facile esigere giustizia dai tanti “attori armati” convinti che la violen- za sia l’unica forma legittima di potere.

La costanza dell’impegno, nonostante le minacce, mi scuote tutt'ora. Il tempo tra- scorso in Colombia mi ha dato la possibi- lità di conoscerla più da vicino e (nel mio piccolo) sostenerla.

Le PBI, Peace Brigades International, è un’or- ganizzazione non governativa internazionale rico- nosciuta dall’ONU, impegnata per la trasformazio- ne nonviolenta dei conflitti. Il lavoro di PBI è basa- to sui principi della nonviolenza, dell’ imparzialità, della non ingerenza e sulla convinzione che una soluzione durevole dei conflitti violenti non possa essere imposta dall’esterno, ma debba basarsi sulla volontà e capacità della popolazione locale di costruire una “pace positiva”. Negli ultimi venti- cinque anni PBI ha fornito supporto fisico e morale a persone e gruppi che lavorano per la pace e la giustizia, la cui vita e attività erano minacciati dalla violenza. Il lavoro viene svolto da equipe di volon- tari e volontarie internazionali. I progetti attual- mente attivi sono: Colombia, Indonesia, Guatema- la, Messico e Nepal.

(7)

Michele Balestra

Michele Balestra e Giuseppe Beber missionari Fidei donum rientrati nella diocesi di Trento nel 1986, dopo 16 anni in Brasile- attualmente operanti nella parrocchia di Giovo – Val di Cembra.

Con un gruppo di cinque colleghi mis- sionari siamo stati inviati nel 1969 alla periferia di San Paolo (Brasile) dove dall’anno precedente ci attendevano al- tri tre colleghi, pure “Fidei donum”, ora operanti in Asia a Timor Est.

Dopo l’esperienza di San Paolo, dove nostro grande maestro é stato il vesco- vo cardinale Evaristo Arns, don Michele ha continuato la sua missione nella peri- feria di Recife (Nord est brasiliano) a- vendo come vescovo un altro grande profeta. di fama mondiale dom Helder Camara. Anche a Recife, sempre am- biente di periferia.

L’ambiente di periferia delle grandi me- tropoli latino-americane (come di tutte le grandi città del mondo) sono i luoghi dove si concentrano tutte Ie contraddi- zioni nord-sud del mondo:nord arricchito e sud impoverito.

Nelle periferie di San Paolo, di Recife.

come di altre grandi città brasiliane si concentravano folle di persone di fami- glie buttate fuori dal latifondo in cerca di un futuro, di lavoro e di dignità.

Approdati in città, spesso le loro attese erano frustrate, perdendo la loro identità e condannati a vivere in situazioni di vi-

ta disumana. In periferie sempre più gonfie, senza una casa, senza servizi igienici, senza il minimo di condizioni u- mane erano costretti a vivere in barac- che formando grandi “favelas”.

Ai nostri tempi davanti a questa realtà, il cardinale di San Paolo e in seguito an- che a Recife dom Helder Camara, han- no lanciato con forza e profezia una grande iniziativa pastorale denominata

“0peraçao periferia”.

I nostri vescovi invitavano, con azioni concrete, tutti i cristiani a farsi carico dei problemi di tante famiglie immigrate che formavano le “favelas”.

I’”0peraçao periferia” era prima di tutto un grande movimento di “evangelizza- zione liberatrice” che voleva dire con- cretamente aiutare le persone, i poveri a riscoprire la forza liberatrice deI Van- gelo, della Parola del Signore. “Uma evangelizaçao libertadora“ era il motto corrente e l’impegno degli agenti di pa- storale, che trovava Ia sua fonte e ispi- razione nella teologia della liberazione.

Una rilettura cioè della storia del popolo di Israele, deI suo esodo dalla schiavitù di Egitto alla Terra Promessa.

Proprio per questo suo incarnarsi nelle

lotte e nel cammino di liberazione delle classi più povere e oppresse, la chiesa era una presenza e una voce scomoda odiata e allo stesso tempo temuta da un regime di dittatura militare oppressivo e violento.

Come missionari con i nostri agenti di pa- storale ci siamo inseriti profondamente in un cammino di liberazione della gente superando il paternalismo e promuoven- do la partecipazione della gente come protagonista del proprio futuro.

Eravamo presenti nelle lotte e rivendi- cazioni operaie,in modo particolare cer- cando di unire la gente dei quartieri di periferia per ottenere e rivendicare con- dizioni più umane di vita: abitazione, pro- prietà della terra dove abitavano, infra- strutture, condizioni di igiene e salute, di sicurezza, scuole, luoghi di incontro.

Tutto un lavoro con la gente unita a cele- brazioni vive e partecipate, che aveva le sue radici nella Parola di Dio incarnata in un cammino di sofferenza del popolo e nelle parole di Gesù “io sono venuto per- ché tutti abbiano vita in abbondanza”.

.

(8)

Flavia Pollini - Zvonko Krišto

Ero cresciuto in una cultura multietnica perciò non è stato difficile il cambiamento.

In Italia è difficile essere stranieri per la burocrazia.

Una settimana dopo che avevamo preso i documenti per sposarci al consolato jugo- slavo il consolato era chiuso, la Jugosla- via non esisteva più e Zvonko era diven- tato praticamente un apolide. Flavia rac- conta con trasporto e passione i suoi pri- mi tempi con Zvonko anche adesso che sono passati più di diciotto anni di matri- monio. Si sono conosciuti in una pizzeria nella primavera del ’90 e in autunno era- no già sposarti,

Quando sono arrivato in Italia, - racconta Zvonko - con una ditta edile che aveva un subappalto, ero con 5 amici mussulmani e per noi quello che stava accadendo era incredibile. Io ero andato a scuola con compagni di tre diverse etnie, eravamo tut- ti amici. Flavia incalza: Lui era devastato, per come era stato cresciuto, in una cultu- ra multi etnica vedere, sentire più che al- tro, che tutti sparavano contro tutti, 3 dei suoi fratelli in guerra. Si è trovato a mette- re in crisi tutto quello che era la sua cultura e questo ci ha spinti a prendere la decisio- ne di sposarci affrettando i tempi. Non a- vrei sopportato l’idea che lui rientrasse e ritrovarsi con un fucile in mano, o altro…

Come è stato accolto il vostro matrimonio qui in Rendena?

Il parroco pretendeva dei documenti che lui avrebbe dovuto andare a prendere a Serajevo. Aveva un mucchio così di carte, ma quello no… aveva un’aria di sospetto, E allora ci siamo sposati in Comune, con due amici, in sordina.

E la sua famiglia come ha reagito?

Mio papà era migrato in Svizzera per la- vorare da giovane e ha visto in Zvonko solo un giovane che veniva per lavorare, si è immedesimato. Gli altri, beh, non l’hanno accolto alla grande e allora noi ci siamo arrangiati.

Come è l’inserimento di culture diverse nella vostra famiglia?

Quando sono arrivato in Italia non sapevo una parola d’italiano - racconta Zvonko.- Non avevo paura di star solo e in poco tempo in paese conoscevo tutti. Poi, quando ho conosciuto lei tutto è andato sempre me- glio. Da 15 anni faccio anche parte dei Vigili del Fuoco e sto bene con la gente.

Le differenze in cucina incidono?

La nostra fortuna è che lui pranza al lavo- ro perché quando cucino io è sempre un dubbio.

Ora avete due figli, Igor di 13 anni e Anja di 8, come vivono le diverse culture?

Da piccolo Igor era perfettamente bilingue

ma con l’inizio della scuola ha perso il cro- ato e lo riparla solo quando andiamo là.

Ci andate spesso?

Ora abbastanza ma negli anni Novanta siamo stati due anni senza avere contatti con la famiglia. Io sono andata a cono- scere i suoceri nel ’98 con il bambino in braccio.

Continua Zvonko: I miei avevano perso tutto, casa, terra, e si sono trasferiti in Croazia. Stavamo nella zona calda del conflitto in Bosnia centrale, ora la casa è libera ma non ci torna nessuno. Anche per me è stato difficile ripercorrere quelle strade. Ci siamo tornati solo la scorsa e- state ed è stata dura.

Quale è stata la maggiore trasformazione che ha trovato dopo tanti anni?

Io sono di tradizione cattolica, sono nato in Bosnia ma molti cattolici sono stati na- turalizzati croati e in Bosnia ci sono i mussulmani e i serbi ortodossi. Campanili e minareti sono cresciti numerosissimi dalle tutte le parti e noi, nel nostro viaggio, ci siamo chiesti se per questo è successo

quel che è successo. .

(9)

Elisabetta Morelli Vilday - Nicholas Vilday

“Quello che ho imparato dall’ incontro tra culture diverse è che per essere fruttuoso richiede trasformazione, che questa deve essere individuale e reciproca. Se questo non accade, l’unico effetto è lo scontro.”

Per trasferirsi all’estero ci vuole sempre una forte motivazione, qualcosa che ti spinga a voler andare più in là di quello che già conosci, hai visto, vissuto. Io sono partita in cerca di formazione, per perfe- zionare la conoscenza della lingua ingle- se, non ritenendo sufficiente la prepara- zione acquisita in Italia. Formazione. Una parole che in verità ne contiene 2: forma e azione, cioè un prendere forma tramite l’azione. Voglio dire che quando sono par- tita, mai avrei immaginato il percorso di trasformazione che avrei subìto.

Ero arrivata a Londra, un amico era venu- to a prendermi, per accompagnarmi a ca- sa sua e della moglie; arrivati a casa, alla cortese offerta di una banale tazza di the ho risposto di sì, e già pregustavo una bella tazza di the caldo con zucchero e limone, proprio come a casa. Ecco che gentilmente mi porgono una tazza di the.

All’inglese: col latte e senza zucchero.

Ovviamente non voglio fare l’ospite ‘diffici- le’ e lo bevo. Ora, quando vado in Inghil- terra, non riesco proprio a bere un the col limone! Quindi, un piccolo gesto casalin- go, quella che a me sembrava un’abitudine strana, è diventata parte di me nel giro di due ore dall’essere atterrata

e ha dato il La alla trasformazione.

Molte cose erano diverse da quelle a cui ero, sono, abituata, a cominciare da una sciocchezza tipo le case senza scuri o tapparelle, o la moquette per tutta casa, compreso il bagno. Come diceva Proust,

‘On s’habitue a tout’. A tutto ci si può abi- tuare quando c’è reciprocità, e, rispetto dell’altro, inteso come persona con le sue abitudini culturali.

Io mi occupo di formazione. Pensandoci, quasi per un gioco di riflessi allo specchio sono stata studentessa e mi sono laureata a Londra, mentre ora insegno inglese alle uni- versità di Trento e di Bolzano.

Il mondo accademico inglese mi ha dav- vero soddisfatta. I docenti hanno quest’abitudine di trattare gli studenti co- me persone intelligenti, capaci, dotate di potenzialità intellettive e intellettuali che loro cercano di stimolare e far fruttare. Gli atenei selezionano gli studenti basandosi su criteri ben precisi. In cambio, però, of- frono un ambiente a misura di studio.

Studio che raramente si riduce all’assimilazione di nozioni, ma che pre- vede piuttosto lo sviluppo delle capacità critiche dell’individuo. Se non ha imparato altro, alla fine del corso di studi il laureato

avrà almeno imparato a pensare e a porsi in modo critico di fronte alle varie situa- zioni che si presentano nella vita. Per i miei studenti di qui è difficile concepire questa differenza di atteggiamento. Pur- troppo, ho l’impressione che spesso il principio del diritto allo studio venga inter- pretato come un diritto ad avere un certifi- cato, indipendentemente dal possedere la brillantezza intellettiva per affrontare un corso di laurea. In Inghilterra, chi sta al passo, arriva, chi non ce la fa (e sono po- chi, appunto perché selezionati in parten- za) prende atto che una diversa scelta di carriera si impone. Dico sempre, scher- zando, che sono andata a Londra per i classici 6 mesi per imparare l’inglese, e sono tornata dopo otto anni con laurea, master, marito e figlio. Anche su questi due ultimi ci sarebbe da dilungarsi, ma mi fermo al fatto che a mio marito non di- spiace preparare un piatto di pasta al ra- gù, così come a me preparare dei san- dwich. Le differenze ci sono , ovviamente, e anche le discussioni; è importante però tro- vare il modo per dialogare o almeno capirsi, ma come questo avviene dipende molto an- che dagli individui oltre che dalla formazione culturale.

(10)

Durim Bega

Io e mia moglie non possiamo stare l’uno senza l’altra qui in Rendena. Mi sento lontano dal mio Paese, è molto cambiato e sono cambiato io. Vedo difficile per l’Albania costruire un futuro sano per la popolazione, con la specu- lazione e la corruzione che c’è oggi.

Durim Bega vive a Villa con la moglie Enelejda e le loro tre figlie, bimbe di un anno e mezzo, tre e quattro e mezzo.

Lavora a Tione nella fonderia Marchesi con turni che vanno dalle 5 di mattina alle 13, quando non c’è la cassa inte- grazione..

Si è trasferito nelle Giudicarie per fare il manovale nell’ottobre 2004 da Pompei, sua prima tappa nella ricerca di lavoro in Italia. Ci era arrivato, nel 1996 rag- giungendo alcuni amici che gli avevano trovato un contatto per lavorare in una fabbrica di lampadari.

Altri amici Albanesi gli hanno poi segna- lato il Trentino. Sempre grazie all’interessamento di amici, questa volta in Albania, ha conosciuto la moglie che ha sposato nell’agosto del 2004.

Quindi quando lei è andato a sposarsi non conosceva ancora quella che sa- rebbe diventata sua moglie.

No, ci eravamo già incontrati e ora sia- mo così vicini. Essere in una situazione un po’ isolata ci unisce davvero molto.

Non possiamo stare l’uno senza l’altra.

Sente nostalgia per il suo Paese

d’origine?

Mi sento molto staccato dal mio territo- rio, la situazione è molto cambiata e so- no cambiato io.

In che senso è cambiata l’Albania?

C’è la legge della giungla, è cambiata in peggio: speculazione e povertà.

Quando lei era giovane c’era il comuni- smo, come si viveva?

Come in ogni situazione c’era il buono e il cattivo. Eravamo abituati così, forse eravamo chiusi ma dal dopo guerra, con l’avvento del comunismo c’era meno povertà e tutti andavano a scuola.Io studiavo, ho frequentato le scuole otto anni più quattro, poi ancora due anni di meccanica elettrica. I miei genitori lavo- ravano, avevamo la nostra casa…

Ma le proprietà, le case, non apparte- nevano tutte allo stato?

No, no. Noi avevamo la nostra casa. In alcuni condomini, in città le case erano dello stato. Ma da noi no.

Quali erano le difficoltà?

Forse la maggiore era la scarsità di ci- bo, soprattutto nelle campagne perché quanto si produceva era prevalente- mente destinato alle città e all’export.

Le religioni non trovano spazio nel co- munismo, quale è la sua posizione?

I miei bisnonni, i miei nonni erano mus- sulmani e hanno continuato a esserlo un po’ di nascosto. Così anch’io sono mussulmano ma moderato.

Cosa intende per moderato? Lei cono- sce l’arabo e legge il corano in lingua originale come richiesto ai praticanti?

No, ecco io non conosco l’arabo e non sono praticante, sto solo attento, quan- do posso, a non mangiare carne di maiale. E poi sarebbe difficile, per e- sempio il pane: come fai a sapere se è o non è lievitato?

Educa le sue bambine secondo la tradi- zione islamica?

No, vanno all’asilo nido e all’asilo, non pongo nessun divieto,prediligo l’integra- zione. Magari sbaglio. Ma ognuno fa le sue scelte e loro faranno le loro. Per ora mangiano come gli altri perché se sono tutti cattolici e tu no, ti senti in diffi- coltà. Però a scuola mi hanno chiesto se avevamo esigenze diverse.

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Élena Galca

Ciò che ama di più degli italiani è l’amore per la natura. “I primi tempi avevo un incubo ricorrente: sognavo di essere in Romania e di non poter tornare in Italia, mi svegliavo, guardavo il lampadario e mi sentivo a casa”

Proviene dalla Romania e precisamente dalla città di Braşov che conta circa 300 mila abitanti. E’ in Italia dall’agosto del 2004 e prima di approdare a Mortaso ha lavorato in Calabria, poi nelle Marche, a Fabriano, dove ha conseguito il diploma di Italiano C1, riconosciuto dall’Unione Europea:

“Ne sono orgogliosa, – dice – e spero di riuscire a prendere anche quello suc- cessivo, il C2”

In Romania aveva conseguito un diplo- ma equiparabile a un nostro liceo scien- tifico, poi aveva fatto una specializza- zione in una scuola tecnica. Per quasi trent’anni ha poi lavorato come tecnico di controllo in una fabbrica di camion.

Dopo un primo periodo, ora ha tutti i do- cumenti in regola e spera di poter otte- nere a breve la cittadinanza italiana.

Come mai ha scelto di venire in Italia?

Per i soldi. Io allora guadagnavo circa 300 euro al mese e qui ne avrei guada- gnati quasi il doppio e non avrei più avuto il problema delle bollette.

Allora riesce anche a risparmiare?

Altro che! Mi sono comprata un appar- tamento tutto mio in Romania, così ora mio figlio se vuole si può sposare e ave- re una sua casa.

Quanti anni ha suo figlio?

Trenta quattro, ha un buon lavoro e sta bene dove sta. Io la casa l’ho comprata con un mutuo in banca di 12 mila euro che mi hanno dato con interessi giusti, da noi vogliono anche il 100%. Si sono fidati di me in banca, hanno visto che spendo poco, risparmio, e così ho la mia casa.

Cosa Le piace di meno in Italia?

Vorrei avere un po’ più di tempo libero.

Solo due ore al giorno. Un po’ di tempo in più per studiare. Un’altra cosa che non mi piace è la crisi economica, tanta gente che perde il lavoro…

Cosa invece Le piace di più?

La cura per la natura, soprattutto qui in Trentino, c’è gente che va in bicicletta per non inquinare, anche signori veri, che non si vergognano.

Quali sono gli aspetti più simili e quali quelli più distanti tra Romania e Italia, secondo la sua esperienza?

Una cosa abbastanza simile è la lingua, tutte e due di origine latina, questo mi ha reso più facile studiare l’italiano. Poi ci sono alcune cose simili nella cucina ma non molte. Io mi sono comprata un quaderno di ricette e ora cucino anche per le persone dalle quali lavoro.

Torna spesso in Romania?

No, non ne provo nostalgia. La prima volta che sono partita sono passati più di quattro anni prima che tornassi. I pri- mi tempi avevo un incubo ricorrente:

sognavo di essere in Romania e di non poter tornare in Italia, mi svegliavo, guardavo il lampadario e mi sentivo a casa.

Sono tornata all’inizio della scorsa estate.

Mi hanno invitata un po’ di persone a mangiare, e c’era sempre il piatto tipico, gli involtini, non ne potevo più! Non ve- devo l’ora di tornare al cibo italiano. E così quando sul pulman la radio ha co- minciato a parlare italiano ho pensato:

finalmente a casa!

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