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Trapianti d organo. Nuove prospettive dei trapianti di organi. P. Bruzzone. Nuove prospettive dei trapianti di organi. Clin Ter 2005; 156 (6):

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Nuove prospettive dei trapianti di organi

P. Bruzzone

Div. di Patol. Chir. II, Ser.o Trapianti d’Organo, Dip. Chir. Gen. “Paride Stafanini”, I Fac. di Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma “La Sapienza”, Roma, Italia

Trapianti d’organo

Clin Ter 2005; 156 (6): 299-310

Corrispondenza: Dott. Paolo Bruzzone, Via Santa Maria Goretti, 38/10, 00199 Roma Introduzione

La Trapiantologia è una scienza sicuramente giovane:

i primi trapianti sperimentali di organi solidi risalgono al 1907 ad opera di Ullman (1), che può essere considerato un pioniere in questo campo. Ma già nel 1949, grazie alle esperienze sugli innesti cutanei in pazienti ustionati da parte di Medawar e Gibson si cominciano a delineare le problematiche inerenti al rigetto dell’organo trapiantato.

Oggi i trapianti non sono più una scienza sperimentale ma una terapia di elezione in presenza di insuffi cienza cronica terminale dei rispettivi organi.

In tutto il mondo sono operativi ormai numerosi Centri che hanno superato i 415.000 trapianti di rene, 62.000 di fegato, 46.000 di cuore,7.600 di polmone e 2.260 di pan- creas.

La più lunga sopravvivenza del ricevente è stata di 35 anni nella chirurgia sostitutiva renale, di 28 anni in quella epatica e di 23 anni in quella cardiaca, di 15 anni dopo trapianto di pancreas e di 13 anni dopo tra+pianto di polmone.

Terminologia

È opportuno innanzitutto defi nire in modo preciso la differenza tra innesto e trapianto. Nel primo caso tessuti provenienti da un donatore vengono inseriti nel ricevente senza la ricostruzione della loro vascolarizzazione. Il trapian- to prevede invece l’inserimento di un organo nel ricevente mediante la confezione di anastomosi vascolari. Quando il donatore è della stessa specie del ricevente si parla di allotra- pianto o omotrapianto; in caso contrario di xenotrapianto. Si defi nisce autotrapianto il trapianto di un organo nello stesso ricevente dopo la sua temporanea rimozione dall’organismo per eseguire con chirurgia di banco l’asportazione di un processo neoplastico (rene, fegato) o la riparazione di una lesione (p.e. stenosi dell’arteria renale).

Si parla infi ne di trapianto ortotopico ed eterotopico in relazione alla sede di impianto, uguale o differente da quella fi siologica.

Elementi di immunologia

Le differenze individuali alla base del fenomeno del rigetto dell’ organo trapiantato derivano dal Complesso Maggiore di Istocompatibilità (M.H.C.), costituito da una serie di geni localizzati in corrispondenza del braccio corto del cromosoma 6, che codifi cano la sintesi di alcune gli- coproteine di membrana. Queste ultime si dividono in due differenti sottogruppi: il primo corrisponde agli antigeni di classe I, denominati HLA A, B e C, presenti su tutte le cellule mononucleate e costituiti da una catena pesante di 45 kilo- dalton legata in modo covalente alla beta-2-microglobulina;

il secondo è costituito dagli antigeni di classe II, che sono eterodimeri costituiti da una catena alfa, il cui peso mole- colare è compreso tra 29 e 34 kilodaltons, e da una subunità beta (25-28 kilodaltons). Questi ultimi prendono il nome di HLA-DR, DQ e DP, e sono presenti solo sulla superfi cie di macrofagi, linfociti B e T attivati, cellule endoteliali e, in alcuni casi, cellule epiteliali.

Entrambe queste classi di antigeni partecipano all’attiva- zione immunologica cui sono dovuti i fenomeni di rigetto, e costituiscono il bersaglio per le cellule citotossiche (HLA- A,B e C) o per i linfociti T helper (HLA-DR,DQ e DP);

esistono inoltre antigeni del cosiddetto sistema minore di compatibilità, i quali sono alla base delle manifestazioni di rigetto che si possono verifi care, per esempio, anche nel trapianto di rene da vivente tra fratelli HLA identici.

In pratica ogni individuo è caratterizzato da due com- plessi di geni che codifi cano gli antigeni HLA, defi niti aplotipi, ereditati rispettivamente dal padre e dalla madre.

Quindi ogni genitore condividerà un aplotipo con il fi glio o la fi glia, mentre questi ultimi avranno una probabilità del 50% di avere un aplotipo in comune tra di loro, e del 25% di condividerli entrambi (o nessuno dei due). Il riconoscimento degli antigeni del donatore da parte dei linfociti T del rice- vente viene defi nito allorecognition o alloresponse. Si parla di direct allorecognition quando i recettori dei linfociti T riconoscono molecole MHC del donatore ancora intatte, con generazione di linfociti T citotossici CD8+ e manifestazioni di rigetto acuto. Nella indirect allorecognition, alla base sia

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del potenziamento del rigetto acuto sia del rigetto cronico, i recettori di linfociti CD4+ helper riconoscono allopeptidi MHC del donatore dopo che sono stati processati e presentati da Antigen-presenting cells(APCs) del ricevente.

Il rigetto viene così classifi cato:

a) Rigetto iperacuto: esso avviene immediatamente o en- tro pochi minuti dalla rivascolarizzazione dell’organo trapiantato; l’esame istopatologico rivela una diffusa coagulazione intravascolare. Il substrato immunologico è rappresentato da anticorpi preformati che agiscono in maniera rapida provocando un danno irreversibile.

b) Rigetto acuto precoce o accelerato: si verifi ca nel caso che sussista una presensibilizzazione del ricevente, per cui l’organo trapiantato può inizialmente funzionare in modo ottimale, ma presenta rapidamente un deteriora- mento della sua funzionalità.

c) Rigetto acuto cellulare: è la forma di rigetto più tipica e frequente, controllata nella maggior parte dei casi dalla terapia immunosoppressiva; l’aspetto istologico di questo tipo di reazione è inizialmente rappresentato da un’infi ltrazione perivascolare di cellule linfoblasti- che, mentre negli stadi più avanzati si osserva anche infi ltrazione interstiziale, edema, necrosi e passaggio perivascolare di cellule.

d) Rigetto cronico: in genere inizia durante il primo anno dopo il trapianto, come espessione di un evento immu- nologico subclinico o non completamente risolto, ed è secondario alla lenta produzione di anticorpi umorali che agiscono sulle pareti dei vasi provocando fenomeni di iperplasia con progressiva ostruzione del lume vasale.

Mentre una perfetta compatibilità HLA sembra asso- ciata a un miglior risultato del trapianto di rene, non sono state ancora raggiunte conclusioni defi nitive al riguardo per quanto concerne il trapianto di altri organi quali il fegato ed il cuore.

Infatti la necessità di limitare al massimo i tempi di ischemia, insieme al minor numero dei pazienti in lista di attesa nei confronti del rene, non consente d’altra parte, nel caso del trapianto di fegato o di quello di organi toracici, di ef fet tuare il trapianto in base alla tipizzazione tissutale donatore-ricevente.

In tutti i casi è invece indispensabile la negatività del

“cross-match” diretto, cioè l’assenza di reattività tra il siero del ricevente e i linfociti del donatore. Infatti la presenza di anticorpi pre-formati comporta l’insorgenza del rigetto iperacuto, con conseguente danneggiamento irreversibile dell’organo trapiantato, non appena questo viene rivasco- larizzato.

Principi di immunofarmacologia

Solo alcuni farmaci si sono dimostrati fi no ad oggi effi caci per la prevenzione e il trattamento del rigetto nel trapianto di organi solidi.

L’Azatioprina è un derivato della 6-mercaptopurina, che all’interno dell’organismo viene metabolizzato, formando il corrispondente ribonucleotide. L’Azatioprina agisce in modo più effi cace quando maggiore è la sintesi di acidi nucleici,

inibendo la differenziazione e la proliferazione dei linfociti T e B attivati. I suoi effetti collaterali maggiori sono rappre- sentati dalla leucopenia marcata con conseguente aumento di rischi di infezioni e dalla epatotossicità.

La deplezione linfocitaria può essere indotta nel rice- vente mediante la somministrazione di steroidi surrenalici, che agiscono inducendo la migrazione dei linfociti T cir- colanti dal sangue ai tessuti linfatici, determinando inoltre una piu’ modesta ridistribuzione dei linfociti B, oltre a una riduzione della funzionalità dei macrofagi e della sintesi di linfochine. Notevoli sono tuttavia gli effetti collaterali, quali ipertensione, alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico, osteoporosi e insorgenza di cataratta, elementi questi che hanno condizionato fi no a un recente passato la qualità di vita e la sopravvivenza a lungo termine del paziente trapiantato.

Anche l’impiego di radiazioni ionizzanti, soprat tutto sotto forma di irradiazione linfatica totale, può ridurre le popolazioni linfocitarie. A tale scopo viene tuttavia più frequentemente utilizzata la somministrazione di globuline antilinfocitarie (A.L.G.), effi caci sia per la profi lassi sia per la terapia del rigetto. Buoni risultati sono stati ottenuti cli- nicamente anche grazie a un anticorpo monoclonale OKT3, che si lega al recettore CD3, caratteristico dei linfociti T maturi, la cui attività risulta depressa. Sono attualmente in corso di studio nuove classi di anticorpi monoclonali (anti- CD4,-CD8 e altri).

I farmaci sinora descritti, impiegati in diverse associazio- ni tra di loro, hanno rappresentato sino alla fi ne degli anni ‘70 gli elementi fondamentali della terapia immunosoppressiva, denominata “terapia convenzionale”.

La scoperta della Ciclosporina, capostipite di una nuova generazione di farmaci, che agiscono in misura maggiore sui linfociti T, prevenendone l’attivazione da parte dell’In- terleuchina 2 oppure, se il fenomeno si è già verifi cato, bloccando i linfociti T e impedendo loro di sintetizzare e secernere Interleuchina 2, ha signifi cativamente migliorato i risultati del trapianto di rene, pancreas, fegato, cuore, e ha reso applicabili clinicamente quelli di polmone e di in- testino. Ha inoltre permesso di aumentare la percentuale di successo dei ritrapianti e di effettuare il trapianto di fegato per insuffi cienza epatica fulminante anche in caso di incom- patibilità di gruppo ABO tra donatore e ricevente. È stata inoltre introdotta una nuova formulazione della Ciclosporina (Neoral), caratterizzata da un miglior assorbimento enterico, a sede prevalentemente gastrica.

Anche la Ciclosporina, come l’FK 506 e le altre mole- cole ad azione immunosoppressiva, non è tuttavia priva di effetti collaterali, quali epatotossicità, ipertensione arteriosa, neurotossicità e nefrotossicità, anche se la maggior parte di essi sono dose dipendenti.

Il perfezionamento dei protocolli immunosoppressivi ha così ridotto l’incidenza del rigetto e nello stesso tempo di complicanze infettive dopo trapianto d’organo.

Non è stato tuttavia ancora risolto il problema delle infezioni opportu nistiche, causate cioè da microorganismi quali protozoi(Pneumocystis Carinii), miceti(soprattutto Candida Albicans e Aspergillus Fumigatus) e virus (in particolar modo Citomegalovirus) che normalmente non sono patogeni, ma lo divengono nei soggetti con diminuite difese immunitarie.

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Per quanto riguarda l’esperienza personale, la terapia immunosoppressiva nel trapianto di rene, di fegato, di pancreas e nei trapianti multiviscerali è stata caratterizzata dall’impiego di più farmaci in combinazione tra di loro.

Il trattamento del rigetto comporta uno o più cicli di terapia steroidea endovenosa ad alti dosaggi (1 gm/die di 6- metilprednisolone per tre giorni, con successiva graduale ri- duzione), utilizzando nei casi resistenti A.L.G. od OKT3.

Aspetti legislativi e organizzativi

È noto che il prelievo degli organi solidi viene general- mente effettuato in donatori cadaveri il cui cuore è ancora battente, in condizioni quindi di “morte cerebrale”, che è de- fi nitiva e irreversibile. L’accertamento di questa condizione è stato sancito per la prima volta in Italia dalla legge n.644 del 2 dicembre 1975 e dal successivo regolamento n. 409 del 16 giugno 1977, che richiedevano un periodo di osservazione di 12 ore da parte di una Commissione medica.

Il dibattito scaturito nel corso degli anni ha comportato la discussione e la successiva approvazione della legge n.578 del 29 dicembre 1993, il cui Art.1 ribadisce: “La morte si identifi ca con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”. Ciò avviene mediante una osservazione clinica e strumentale della durata di 6 ore per gli adulti e i bambini di età superiore a cinque anni, dodici ore per i bambini di età compresa tra uno e cinque anni e ventiquattro ore nei bambini di età inferiore a 1 anno.

La suddetta osservazione viene effettuata “da un collegio medico nominato dalla direzione sanitaria, composto da un medico legale o, in mancanza, da un medico di direzione sanitaria o da un anatomo-patologo, da un medico specialista in anestesia e rianimazione e da un medico neurofi siopatolo- go o, in mancanza, da un neurologo o da un neurochirurgo esperti in elettroencefalografi a”.

Prima dell’inizio dell’osservazione è compito del medico di turno in rianimazione escludere la presenza di patologie trasmissibili al ricevente. L’idoneità al prelievo di rene, pancreas, fegato, cuore, polmoni ecc. viene posta dai responsabili delle varie équipés chirurgiche, sulla base degli accertamenti ematochimici e strumentali effettuati nel potenziale donatore: spesso la decisione fi nale viene presa dopo l’ispezione chirurgica e l’eventuale perfusione degli organi da trapiantare.

Il decreto del Ministero della Sanità del 18 marzo 1994 ha infi ne attribuito al Centro nazionale di riferimento per i trapianti, di cui all’art. 14 della legge n.644, la funzione di

“Coordinamento operativo nazionale delle attività di prelievo e trapianto di organi e tessuti”.

Il prelievo di organi a scopo di trapianto in pratica deve ancora essere autorizzato dai familiari del donatore, a meno che non si proceda per legge ad autopsia o a riscontro dia- gnostico (art.6 legge n. 644 del 2 dicembre 1975 ed art. 10 del D.P.R. n. 409 del luglio 1977). Ciò non sarà più richiesto quando sarà completato il registro informatico nazionale destinato a conservare la dichiarazione di volontà o meno alla donazione che tutti i cittadini, opportunamente edotti anche da una opportuna campagna di informazione, dovran- no esprimere compilando un modulo contenente l’avviso esplicito che, in mancanza di una esplicita dichiarazione, si

presume il consenso alla donazione. Anche in Italia viene così introdotto il principio del silenzio assenso, già attuato in altre Nazioni.

Conservazione degli organi

L’induzione dell’ipotermia, che è il cardine della con- servazione degli organi solidi e della loro successiva ripresa funzionale dopo trapianto, è ottenuta mediante la rapida perfusione “in vivo” con particolari soluzioni cristalloidi o colloidi, eventualmente associate all’infu sione di farmaci vasodilatatori per prevenire l’insorgenza di fenomeni di vasospasmo.

I due principali tipi di soluzioni impiegate clinicamente sono la soluzione di Collins (cristalloide) e la soluzione dell’Università di Wisconsin-U.W.(colloide). La soluzione di Collins viene utilizzata su larga scala da molti anni, anche se la sua formulazione ha subito notevoli cambiamenti a partire dal 1969 (Collins C1-C4); attualmente viene defi nita Euro Collins e si differenzia dalle versioni precedenti per l’assenza di magnesio. È caratterizzata da una notevole osmolarità (circa 375 mOsm/l), ottenuta grazie all’aggiunta di glucosio, e da una concentrazione elettrolitica di tipo intracellulare, cioè elevata in potassio e bassa in sodio.

La soluzione U.W. è stata messa a punto negli anni ‘80 da Belzer et al., nei laboratori dell’Università del Wisconsin.

Nella sua composizione rientrano il gluconato, anione imper- meabilizzante deputato alla prevenzione del rigonfi amento cellulare, il glutatione, che dovrebbe impedire il danno da lipoperossidazione e da radicali liberi dell’ossigeno, e infi ne sia adenina sia ribosio, quali precursori dell’ATP.

Attualmente viene preferita alla Eurocollins, nella maggior parte dei Centri, per la conservazione di fegato e pancreas poiche’ consente tempi di conservazione di questi organi sino a 24 ore. Recentemente è stata impiegata con successo anche per la preservazione in ipotermia dell’intestino tenue (2), del cuore (3) e dei polmoni.Una analoga soluzione colloide,caratterizzata da una minore viscosità e denominata Celsior, è stata recentemente introdotta nella pratica clinica per la perfusione e la conservazione ipotermica degli organi sopra- e sotto-diaframmatici.

Trapianto di rene

Il trapianto di rene è stato effettuato per la prima volta tra gemelli monocoriali a Boston (4) nel 1954 da J.E. Murray mediante una tecnica chirurgica messa a punto dal chirurgo parigino R. Kuss (5), e realizzato successivamente in tutto il mondo, utilizzando donatori viventi e cadaveri non con- sanguinei, in una serie crescente di casi.

Rimane ancora insoluto il problema della non adeguata disponibilità di donatori, sempre esigua rispetto al numero dei pazienti che ogni anno entrano in dialisi.

Secondo l’esperienza personale, i fattori in grado di precludere il trapianto di rene sono limitati a una età del ricevente superiore ai 65 anni e alla presenza di neoplasie maligne o di infezioni sistemiche, tra le quali ovviamente l’A.I.D.S. I pazienti affetti da nefropatia diabetica o da lupus eritematoso sistemico possono essere sottoposti a

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trapianto di rene, ma sono soggetti al rischio di recidiva della malattia di base.

Il trapianto è in pratica la terapia di elezione nei pazienti affetti da uremia terminale di qualsiasi eziopatogenesi e dovrebbe essere effettuato il più precocemente possibile, per prevenire lo stress psicologico e i numerosi effetti collaterali della dialisi, cui si aggiungono in età pediatrica o neonatale alcune diffi coltà tecniche e il marcato ritardo dell’accrescimento.

Si comprende quindi l’importanza del trapianto renale da donatore vivente, consanguineo e non. I risultati sono superiori a quelli ottenibili con donatori cadaveri, in quanto la brevità del tempo di ischemia elimina in pratica la com- parsa di necrosi tubulare acuta, permettendo l’immediata somministrazione di ciclosporina con conseguente dimi- nuzione degli episodi di rigetto (6); d’altra parte i rischi per il donatore sono molto limitati sia per quanto riguarda il periodo perioperatorio sia a distanza di tempo. Tuttavia è necessario che questi interventi vengano eseguiti presso Centri altamente qualifi cati nel trapianto di rene da cadave- re, e che particolare attenzione venga posta per eliminare il potenziale rischio di “commercialismo”, cioè di “vendita”

del rene, una prassi purtroppo ancora presente in alcuni paesi in via di sviluppo.

Il nostro Centro ha adottato a partire dal 1986 protocolli di “terapia immunosoppressiva combinata”, basata sull’im- piego di ciclosporina, azatioprina e steroidi a bassi dosaggi, nel trapianto da donatore vivente, mentre nel trapianto da donatore cadavere viene preferita una “terapia sequenziale”:

terapia convenzionale seguita da ciclosporina.

Questi protocolli quindi hanno comportato una minore incidenza di rigetto acuto dopo trapianto di rene sia da do- natore vivente sia da cadavere ed eccellenti risultati a lungo termine; alcuni presentano un’ottima funzionalità renale 25 anni dopo il trapianto.

Il trapianto di rene da donatore vivente consanguineo ha avuto una rinnovata e sempre maggiore diffusione clinica nel corso degli ultimi anni, diventando una valida alternativa clinica al trapianto da cadavere.

La nefrectomia nel donatore è una delle procedure chi- rurgiche più sicure, con una mortalità inferiore allo 0,03%

e una morbidità compresa tra il 10% e il 20% in base alle casistiche internazionali. La diffusione della nefrectomia laparoscopica ha incrementato la donazione di rene da vi- vente, riducendo ulteriormente le complicanze e i tempi di degenza. Ogni potenziale donatore vivente deve naturalmen- te essere sottoposto a una accurata valutazione preoperatoria comprendente una accurata valutazione morfofunzionale di entrambi i reni; l’angiografi a digitale renale è preferibile a quella convenzionale che presenta un modesto rischio di emorragie e pseudoaneurismi.

Sebbene sia stato dimostrato in alcuni modelli spe- rimentali in roditori che l’iperfi trazione conseguente ad asportazione di un rene possa comportare un’alterazione della funzione renale residua, queste osservazioni non hanno trovato conferma in donatori umani sottoposti a un follow- up ultra-ventennale.

L’incidenza di ipertensione tra i donatori viventi è simile a quella osservata nella popolazione generale, la proteinuria soltanto leggermente superiore alla media e l’eventuale incremento della creatininemia e la diminuzione

della clearance della creatinina delle 24 ore stabile e senza progressione nel tempo.

Va infi ne tenuto presente che, almeno negli Stati Uniti, alcuni soggetti hanno sviluppato insuffi cienza renale a di- stanza di anni dalla donazione e hanno dovuto a loro volta sottoporsi a trapianto.

Inoltre i risultati appena citati sono stati ottenuti in centri di provata esperienza chirurgica che sottopongono i potenziali donatori a una accurata valutazione psicologica e clinica. È infatti fondamentale non solo escludere ogni forma di patologia nel donatore, ma evitare ogni forma di condizionamento, a volte particolarmente occulto e subdolo, nei confronti del donatore, che deve esprimere un consenso pienamente libero e informato.

Tali dati, associati all’assenza di rischi per il donatore, suggeriscono che non ci siano controindicazioni all’utilizzo di donatori viventi non consanguinei, se si eccettua il po- tenziale pericolo di commercializzazione, che tuttavia, può essere evitato da una accurata valutazione psicologica del potenziale donatore, che dovrebbe essere solo un coniuge, un parente acquisito o comunque una persona emotivamente molto legata al ricevente.

Nel caso degli interventi eseguiti in paesi in via di sviluppo, facendo ricorso a donatori a pagamento, sono sicuramente maggiori i rischi, anche infettivi, per la salute sia dei donatori sia dei riceventi. Si comprende pertanto come la Transplantation Society abbia sempre fermamente condannato questa come ogni altra forma di commercio di organi. La American Society of Transplantation ha recen- temente adottato precise prese di posizione in campo etico, specifi cando tra l’altro che “i donatori viventi nonché le famiglie e gli amici dei donatori cadaveri non dovrebbero trarre vantaggi né danni economici dalla donazione”.

L’ esperienza del nostro Centro conferma quanto ripor- tato dalla letteratura internazionale: i risultati del trapianto da donatore vivente non consanguineo sono sovrapponibili, in termini di sopravvivenza attuariale del rene trapiantato, a quelli del trapianto da donatore vivente consanguineo con 1 aplotipo in comune. Non abbiamo riscontrato differenze statisticamente signifi cative tra LURD e LRD in termini di incidenza di rigetto acuto.

È stato chiaramente dimostrato che la sopravvi- venza del rene dopo trapianto da donatore vivente non consanguineo(LURD) con scarsa compatibilità è superiore a quella osservata dopo trapianto da cadavere con la migliore compatibilità (7).

Tra le ipotesi postulate, i ridotti tempi di ischemia fredda non sono suffi cienti a spiegare le differenze, in quanto i tra- pianti LURD offrono risultati superiori a quelli di trapianti da cadavere con ischemia fredda inferiore alle 3 ore. Del resto nella nostra casistica i risultati nel trapianto da cadavere sono indipendenti dall’ischemia fredda .

Al termine dell’ International Congress on Ethics in Organ Transplantation svoltosi a Monaco di Baviera dal 10 al 13 dicembre 2002 sono state emesse alcune linee guida in cui si afferma che ogni sforzo dovrebbe essere fatto per incrementare la donazione di organi da donatori cadave- ri, che il trapianto da donatore vivente dovrebbe essere adottato nella più larga misura possibile, che la donazione

“non-directed” di rene da vivente è eticamente accettabile se si adottano per l’allocazione dell’organo gli stessi criteri

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utilizzati nel caso della donazione da cadavere, che non dovrebbero esserci disincentivi di tipo economico per la donazione da vivente ma dovrebbero essere rimborsate solo le spese sostenute per la donazione, sottolineando che i donatori di organi da vivente debbono ricevere una adeguata copertura assicurativa contro i rischi di morbidità e mortalità conseguenti all’atto della donazione. Non sono state invece approvate sia la proposta di fornire ai donatori viventi o ai familiari dei donatori cadaveri una posizione preferenziale nelle liste di attesa qualora necessitino di un trapianto di organo sia quella di sospendere i candidati al trapianto renale da vivente dalla lista di attesa da donatore cadavere, escluso il caso di donatori ABO compatibili con perfetta istocompatibilità.

In base all’esperienza maturata presso il nostro Centro, che da oltre 35 anni ha spontaneamente adottato questi criteri, il trapianto da donatore vivente, sia consanguineo sia non consanguineo, rimane una procedura sicura ed ef- fi cace che non merita di essere scoraggiata, ferma restando la necessità di incrementare il più possibile il trapianto di rene da donatore cadavere.

Trapianto di pancreas e innesto di insule pancreatiche

Anche il trapianto di pancreas, eseguito per la prima voltah da Kelly e Lillehei a Minneapolis nel 1966, è caratte- rizzato da una progressiva evoluzione per quanto riguarda le indicazioni e la tecnica chirurgica. Tuttavia la sopravvivenza a 1 anno dell’organo trapiantato (9), pur notevolmente mi- gliorata, non è ancora ottimale; inoltre non sempre riesce a prevenire la progressione di alcune gravi complicanze del diabete, quali la retinopatia.

I due aspetti peculiari che hanno da sempre condizionato la tecnica chirurgica da adottare possono essere individuati nella scelta della sede del trapianto e nella eliminazione della secrezione esocrina.

Per quanto riguarda la sede, si può posizionanre il seg- mento corpo-coda del pancreas o l’intero organo in fossa iliaca dopo preparazione dei vasi iliaci per via extraperito- neale, come per il trapianto di rene, ed anastomizzare agli stessi l’arteria e la vena splenica del trapianto.

In relazione al trattamento della secrezione esocrina le tecniche che oggi vengono usualmente impiegate sono fondalmente due:

– l’occlusione del Wirsung mediante differenti tipi di sostanze (neoprene, polysoprene, prolamina, silico ne, cianoacrilato) che hanno la caratteristica di solidifi care al pH alcalino caratteristico della secrezione pancreatica;

– il drenaggio del Wirsung in intestino o vescica.

Attualmente la preferenza della maggior parte dei gruppi è favorevole al drenaggio del dotto di Wirsung in vescica, trapiantando il pancreas “in toto” con bottone duodenale o con segmento di duodeno comprendente lo sbocco della papilla di Vater.

Tutte le tecniche non sono peraltro scevre da compli- canze.

In particolare per quanto riguarda il trapianto segmen- tario di pancreas con occlusione del dotto di Wirsung non rare sono le fi stole pancreatiche, il numero delle insule non sempre è suffi ciente per un corretto e completo controllo

ormono-metabolico ed incerto è ancora il ruolo della fi brosi, la quale fa seguito all’occlusione del dotto pancreatico, nel determinare un insuccesso tardivo del trapianto.

Le complicanze legate alla tecnica del trapianto “in toto”

con Wirsungcistostomia sono principalmente rappresentate dalle fi stole vescicali, dalle infezioni, da episodi di grave acidosi e dalle erosioni della mucosa uretrale e vescicale.

Peraltro quest’ultima metodica, sebbene non esente da complicanze, consente di ottenere una sopravvivenza del tra- pianto signifi cativamente superiore nei confronti delle altre tecniche precedentemente descritte. Anche in questi trapianti la Ciclosporina costituisce il cardine della terapia immuno- soppressiva, in associazione con steroidi, azatioprina e siero antilinfocitario (ALG) o anticorpi monoclonali(OKT3); il rigetto viene diagnosticato mediante la determinazione dei livelli ematici di insulina, peptide C ed amilasi e il dosaggio delle amilasi nel succo pancreatico.

Nel corso degli ultimi anni in tutto il mondo è stato effet- tuato in oltre 250 pazienti l’innesto di insule pancreatiche, che vengono generalmente iniettate nel circolo portale del ricevente: in casi di diabete insulino-dipendente con associa- ta insuffi cienza renale o epatica trova indicazione il trapianto combinato di insule e rispettivamente di rene o fegato.

Trapianto di fegato

Il primo trapianto di fegato (10) fu effettuato nel 1963 a Denver da T.E. Starzl; lo stesso chirurgo ottenne il primo successo clinico quattro anni dopo, nel 1967. Tuttavia solo negli anni ‘80, grazie a numerosi perfezionamenti sia della tecnica chirurgica sia della terapia immunosoppressiva, l’intervento ha avuto una diffusione sempre maggiore. In Italia è stato introdotto nel 1982 dal nostro Centro, a seguito di una prolungata fase di attività sperimentale.

Attualmente la sopravvivenza dopo chirurgia sostitutiva epatica è notevolmente elevata, specie in caso di patologia non neoplastica.

Le principali indicazioni al trapianto di fegato sono costituite dalle differenti forme di insuffi cienza epatica cronica, dai defi cit congeniti di enzimi la cui sintesi av- viene a livello epatico, dall’insuffi cienza epatica acuta di origine virale (11), tossica o da farmaci, e dalla patologia neoplastica. È compito di internisti ed epatologi indirizzare tempestivamente a un Centro dedito alla chirurgia sostitutiva i propri pazienti al momento della comparsa di una compli- canza grave, di un rapido scompenso della loro epatopatia cronica o in presenza di un signifi cativo peggioramento della qualità di vita.

Le patologie che precludono il trapianto di fegato sono in pratica limitate alle malattie sistemiche e ai tumori epatici o delle vie biliari con metastasi extra-epatiche.

Anche presso il nostro Centro la maggior parte dei pa- zienti viene sottoposta a trapianto di fegato per cirrosi post- epatite B, B-delta o C, una patologia particolarmente diffusa nell’area mediterranea. I migliori risultati(12), in termini di sopravvivenza a distanza e di completa riabilitazione, si ottengono in casi a bassa replicazione virale(valutata con la ricerca del DNA virale mediante “Polymerase Chain Reaction”(P.C.R.) e in fase di accettabile compenso (Child B). La profi lassi nei confronti del virus dell’epatite B viene

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effettuata attualmente con la somministrazione di un elevato dosaggio di gammaglobuline iperimmuni, che inizia durante la fase anepatica e deve proseguire a lungo per mantenere un elevato titolo anticorpale e ridurre la reinfezione del fegato trapiantato.

La somministrazione di Interferon costituisce l’unica possibilità di prevenire in maniera relativamente effi cace la reinfezione da virus dell’epatite C(13), che presenta tuttavia una più ridotta incidenza, una minore gravità clinica e una più lenta evoluzione (14).

Abbiamo eseguito con successo il trapianto di fegato per cirrosi alcolica: in questi casi consideriamo indispensabile prima dell’intervento un’ accurata valutazione neuropsichia- trica e un effi cace trattamento riabilitativo.

Nelle malattie a impronta colestatica, quali la cirrosi biliare primitiva e la colangite sclerosante, il trapianto di fegato è indicato quando la bilirubinemia supera i 6 mg%, il prurito diventa intrattabile e compare osteomalacia: la valutazione pre-operatoria in caso di colangite sclerosante deve includere una colangiografi a retrograda con prelievi citologici in quanto questa patologia è frequentemente as- sociata alla degenerazione neoplastica delle vie biliari.

La sostituzione epatica viene attualmente effettuata an- che nell’insuffi cienza epatica fulminante su base infettiva o tossica. Questi ultimi quadri morbosi pongono tuttavia problemi di tipo medico ed etico, poichè, nonostante l’ela- borazione di svariati indici prognostici(bilirubinemia supe- riore a 20 mg%, PT superiore a 30 secondi, encefalopatia in stadio III evolutiva) è tuttora diffi cile determinare se il danno epatico è irreversibile o se sia preferibile continuare il trattamento conservativo, purtroppo caratterizzato da una scarsa effi cacia.

La funzione del fegato è notoriamente costituita da un numero elevato di complesse reazioni biochimiche che pos- sono essere svolte solamente dagli epatociti: destano quindi interesse gli studi in corso per ottenere sistemi “ibridi” di sostegno dell’attività epatica, attualmente in una fase mol- to iniziale di sperimentazione. Essi sono costituiti da una struttura inerte che funge da supporto per cellule epatiche di origine umana o anche animale. Una possibilità terapeutica è costituita anche dal trapianto ausiliario di fegato, in modo da fornire un supporto al fegato nativo almeno fi nchè questo non abbia superato il danno tossico o infettivo (15).

Per quanto riguarda la patologia neoplastica, le tecniche chirurgiche convenzionali di resezione epatica rappresentano il trattamento di elezione per i tumori epatici primitivi a qualsiasi stadio, insorti su fegato sano; d’altra parte l’ele- vata mortalità perioperatoria associata agli interventi di chirurgia resettiva effettuati in pazienti cirrotici in classe B o C di Child e la possibile natura multifocale delle lesioni neoplastiche pongono l’indicazione al trapianto di fegato.

È invece ancora oggetto di discussione il tipo di trattamento ottimale per piccoli tumori, del diametro di 3-5 centimetri, in pazienti con cirrosi epatica ben compensata (classe A di Child); i risultati della chemio-embolizzazione(16) e del- l’alcolizzazione sono sovrapponibili a quelli delle resezioni epatiche, che presentano lo svantaggio di una più elevata mortalità perioperatoria. Ai fi ni della radicalità oncologica quindi appare anche in questi casi più indicato il trapianto di fegato, che costituisce d’altra parte l’unico trattamento con possibile valore curativo per lesioni superiori a 5 centimetri.

Per i colangiocarcinomi la terapia adiuvante e neoadiuvante riveste senza dubbio un ruolo fondamentale sia nella chirur- gica resettiva sia in quella sostitutiva.

Nel trapianto di fegato tutte le problematiche di tecnica chirurgica, sia nei pazienti adulti sia in quelli pediatrici, sem- brano aver trovato un’adeguata soluzione. È inoltre possibile ridurre le conseguenze dell’ipertensione effettuando per via non invasiva un’anastomosi tra il circolo portale e quello si- stemico mediante una metodica recentemente adottata anche dal nostro Centro e denominata “Transjugular Intrahepatic Portosystemic Shunt”.

I trapianti in età pediatrica sono caratterizzati dagli ottimi risultati immediati e a distanza e rappresentano il 20% dell’esperienza globale europea, e di questi circa 1/3 è stato effettuato in pazienti di età compresa tra 0 e 2 anni;

le principali indicazioni sono costituite dall’atresia delle vie biliari, dalle altre forme di colestasi, dall’insuffi cienza epatica acuta, dalle malattie metaboliche e solo raramente dalle dilatazioni congenite delle vie biliari (17). Per quanto riguarda la malattia di Caroli e più in generale le malfor- mazioni cistiche intra-epatiche o intra- ed extra-epatiche, le forme a localizzazione lobare possono essere sottoposte a chirurgia resettiva (18), mentre quelle diffuse richiedono il trapianto di fegato (19) per eliminare i focolai settici e prevenire la degenerazione neoplastica delle cisti(20).

Una importante innovazione nel campo della tecnica chirurgica è costituita dal trapianto segmentario di fegato, che comporta una fase resettiva durante la chirurgia di banco e il successivo utilizzo dei segmenti epatici destri (5°,6°,7°

e 8°) o sinistri (2°, 3° ed eventualmente 4°) in presenza di notevole discrepanza di dimensioni tra il donatore e il rice- vente, come in un caso dell’esperienza personale. È inoltre possibile l’impiego di due emifegati da uno stesso donatore in due distinti riceventi (“split liver”).

In questi casi la sopravvivenza globale del paziente nelle casistiche dei Centri più esperti è rispettivamente del 79%

e del 67%, vs. 82% dopo trapianto “full size”; la maggiore mortalità dopo “split liver transplantation” deve essere attri- buita alle più accentuate diffi coltà tecniche, che si rifl ettono in una incidenza superiore di complicanze, soprattutto biliari (27%) (21).

L’esperienza acquisita con questo tipo di chirurgia ha consentito nella seconda metà degli anni ‘80 l’effettuazio- ne del trapianto di fegato da donatore vivente (22), che ha permesso di iniziare alcuni programmi di chirurgia epatica sostitutiva in paesi, come il Giappone, in cui non è ancora legalizzato l’utilizzo di donatori cadaveri. La sopravvivenza a distanza nei riceventi raggiunge il 90% (23); l’asportazione del lobo sinistro del fegato o, come si preferisce fare attual- mente, del secondo e terzo segmento epatico, comporta per il donatore rischi sovrapponibili a quelli di una resezione epatica maggiore, quali una mortalità teorica dell’1% e una morbidità del 5%.

La conservazione della cava retroepatica durante l’epatectomia, che consente il trapianto con la cosiddetta tecnica “piggy-back”, si è dimostrata particolarmente utile nei pazienti pediatrici; questa metodica permette inoltre di posizionare più agevolmente la “clamp” sulla vena cava sovraepatica e di prevenire quindi lesioni iatrogene del ner- vo frenico che, in alcune casistiche, hanno resa necessaria nel periodo post-operatorio una prolungata ventilazione

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meccanica (24).

Per quanto riguarda il trapianto geriatrico, l’età superio- re ai 65 anni rappresenta una controindicazione non più a assoluta ma soltanto relativa al trapianto di fegato.

L’analisi dei risultati ottenuti negli ultimi 10 anni presso il nostro Centro conferma altre esperienze mondiali e per- mette di affermare che non sembrano esistere restrizioni cronologiche per i trapianti d’organo ma soltanto limiti biologici legati al singolo paziente. Va sottolineato in partico- lare come l’età non costituisca da sola un attendibile fattore prognostico in quanto la presenza di gravi complicanze cardiorespiratorie determina un aumentato rischio operatorio anche nei pazienti più giovani.

Trapianto di intestino e trapianto multiviscerale

Nelle neoplasie degli organi addominali con interessa- mento dei vasi mesenterici e metastatizzazione epatica mas- siva l’unica possibilità di terapia radicale (25) è costituita dai trapianti multiviscerali. Poichè si tratta di interventi ancora in fase sperimentale, esistono numerose varianti di tecnica chirurgica, in relazione all’estensione della malattia neo- plastica. In alcuni casi viene trapiantato anche lo stomaco, mentre in altri ci si limita a sostituire insieme il fegato e il pancreas, realizzando la cosiddetta “cluster operation”.

La casistica del nostro Centro include 4 “multiple abdominal viscera transplantations” e un caso di “cluster operation”.

I primi successi nel trattamento trapiantologico delle sin- dromi da malassorbimento enterico associate a insuffi cienza epatica terminale sono stati ottenuti da T.E. Starzl nel 1987 a Pittsburgh in due pazienti pediatrici sottoposti a trapianto multiviscerale (26) (fegato, pancreas, duodeno, digiuno e ileo) e nel 1990 (27) presso l’Università dell’Ontario Oc- cidentale, dove sono stati effettuati da D. Grant (28) alcuni trapianti di fegato e intestino. Successivamente il gruppo di Pittsburgh ha adottato protocolli di terapia immunosoppres- siva basati sul farmaco FK 506, ottenendo ottimi risultati con il trapianto isolato di intestino.

La principale indicazione a questo tipo di interventi è la “short bowel syndrome” dovuta a compromissione della vascolarizzazione intestinale, anomalie neuroendocrine e malfunzionamento intestinale primitivo. Il trapianto risulta controindicato in presenza di sepsi sistemica, sindrome da immunodefi cienza acquisita e grave insuffi cienza cardio- respiratoria.

Trapianto di cuore

Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1967 a Città del Capo Christiaan Barnard effettuò per la prima volta nell’uomo il trapianto di cuore (29), dando inizio a un periodo di intensa attività clinica e di ricerca, tanto che nel 1968 furono ese- guiti in tutto il mondo 100 trapianti cardiaci. I risultati non ottimali comportarono una progressiva diminuzione degli interventi effettuati, mentre un nuovo impulso derivò nel 1981 dall’introduzione della biopsia miocardica per la dia- gnosi di rigetto e della ciclosporina come base della terapia immunosoppressiva.

Costituiscono indicazione all’ intervento le forme più gravi di insuffi cienza cardiaca (Classe IV secondo la New York Heart Association), secondarie a miocardiopatia idiopatica (50%), arteriopatia coronarica(40%), valvulopa- tie(5%) o ad altra patologia (5%).

La notevole esperienza acquisita in numerosi centri nel corso degli anni fa sì che la tecnica chirurgica del trapianto ortotopico di cuore sia ben defi nita in tutti i suoi aspetti, mentre altrettanto non può dirsi per quello eterotopico, eseguito fi nora in pochi casi. D’altra parte i pazienti con elevate resistenze a livello dell’arteria polmonare, che in passato venivano sottoposti a questo tipo di intervento, sono attualmente trattati con maggiore successo mediante il trapianto di cuore e polmoni.

La sopravvivenza attuariale a 1 anno è passata dal 48%

nel periodo 1980-1984 all’81% nell’intervallo 1981-1984, mantenendo in seguito una tendenza al miglioramento. In Italia il primo trapianto di cuore è stato eseguito il 15 no- vembre 1985 a Padova.

Purtroppo numerosi pazienti in lista di attesa vengono a morte prima del trapianto; per limitare questi decessi molti Centri sono divenuti meno selettivi nella scelta dei donatori, giungendo a prelevare cuori con lesioni valvolari o delle arterie coronariche, che vengono riparate in fase di chirurgia di banco (30). Inoltre sono state messe a punto protesi per sostenere la funzione del ventricolo destro o sinistro del cuore o di entrambi, in attesa dell’organo da trapiantare. In particolare il nostro Centro fi n dagli anni ‘70 ha sperimentato alcuni prototipi di cuore artifi ciale precursori del Jarvik-7. Le diffi coltà tecniche legate all’azionamento di queste apparec- chiature mediante aria compressa hanno indotto a mettere a punto protesi cardiache alimentate da energia elettrica, quali il

“Novacor”, che è stato recentemente utilizzato anche in Italia come “bridge” al trapianto cardiaco o addirittura per sostituire defi nitivamente la funzione del ventricolo sinistro.

Trapianto di polmone

Un notevole intervallo temporale è intercorso tra il pri- mo trapianto di polmone, effettuato da Hardy nel 1963, e il defi nitivo successo clinico (31), ottenuto il 7 novembre del 1983 a Toronto da J.D. Cooper. Due anni prima, nel 1981, B.

Reitz aveva eseguito a Stanford il primo trapianto di cuore e polmoni; successivamente, nel 1990, V.A. Starnes ha rea- lizzato il primo trapianto di un lobo polmonare utilizzando un donatore vivente (32).

Il trapianto isolato di polmone trova indicazione in caso di fi brosi polmonare idiopatica, enfi sema polmonare oppure ipertensione polmonare primitiva o secondaria (sindrome di Eisenmenger), mentre le forme più gravi di queste patologie e le infezioni polmonari bilaterali, quali bronchiectasie e fi brosi cistica, possono essere trattate con successo mediante il trapianto bilaterale di polmoni oppure, in caso di concomitante insuffi cienza cardiaca, con quello di cuore e polmoni.

La sopravvivenza attuariale a 1 anno dei pazienti dopo trapianto di polmone ha ormai raggiunto livelli più che sod- disfacenti, mentre la frequente comparsa della bronchiolite obliterante, una forma di rigetto cronico a rapida evoluzione, limita in parte i risultati a distanza.

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Alcuni Centri italiani hanno effettuato con successo il tra- pianto di polmone e quello di cuore e polmoni; presso il nostro Istituto sono stati eseguiti quasi 100 casi di trapianto mono- o bilaterale di polmone. Il nostro gruppo ha inoltre preso parte al primo trapianto italiano di cuore, polmoni e fegato.

Trapianto di mano

Oggetto di notevole rilevanza emotiva presso l’opinione pubblica è stato il trapianto di mano da donatore cadavere eseguito il 23 settembre 1998 sul 48enne paziente neoze- landese Clint Hallam presso l’Ospedale Edouard Herriot di Lione da una équipé multidisciplinare, diretta dal Professor Dubernard, di cui faceva parte anche il microchirurgo ita- liano Marco Lanzetta, e che recentemente ha effettuato un trapianto bilaterale di avambracci in un paziente mutilato dallo scoppio di un petardo. Già nel 1964 era stato tentato in Ecuador un trapianto di mano, che era stata tuttavia riget- tata entro due settimane probabilmente a causa dello scarso monitroraggio immunologico e della inadeguata terapia immunosoppressiva allora disponibile.

Come trenta anni fa con Barnard, anche oggi la comunità scientifi ca si è divisa, esprimendo pareri discordanti; va ri- cordato che, allora come oggi, la spettacolare applicazione clinica è stata preceduta da una intensa attività di ricerca svolta da altri chirurghi, nel primo caso in particolare da Shumway presso la Stanford University e nel secondo anche da Warren C. Breidenbach dell’Università di Loui- sville, Kentucky. Presso quest’ultima Istituzione si era svolto nel novembre 1997 un simposio internazionale sugli allotrapianti di tessuti composti, nel corso del quale erano stati discussi sia gli aspetti etici sia quelli sperimentali e clinici del trapianto di mano, mettendo a punto gli aspetti immunologi, i protocolli di terapia immunosoppressiva e la tecnica chirurgica; le conclusioni di questa riunione sono stati diffusi via Internet e pubblicati sulla rivista scientifi ca

“Transplantation Proceedings”.

Dopo aver ottenuto nel luglio 1998 le necessarie au- torizzazioni da parte dei comitati etici dell’Università di Louisville e del Jewish Hospital, l’équipé composta dai dottori Warren C. Breidenbach, Jon W. Jones Jr., John H.Barker e Gordon R. Tobin (quest’ultimo direttore della Divisione di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva) ha effettuato il 24 gennaio 1999 un trapianto di mano sinistra in Matthew D. Scott, un paziente mancino di 37 anni che aveva perso la mano sinistra il 23 dicembre 1995 e utilizzava una protesi mioelettrica Otto Bach.

Il Sig. Scott è stato dimesso il 28 aprile 1999 ed è tornato nella città natale di Absalon, New Jeresey, dove il 1 giugno 1999 ha ripreso la propria attività lavorativa. Nel corso di una conferenza stampa tenuta l’11 giugno 1999 il dr. Brei- denbach ha discusso la sensibilità termica recuperata nella mano trapiantata dal paziente, che il 30 luglio 1999 è stato ricoverato di nuovo a Louisville per una biopsia cutanea a sei mesi dal trapianto e per valutare l’opportunità di ulteriori interventi chirurgici per migliorare la funzione e mobilità.

Una seconda visita di controllo a Louisville è stata effettuata a 1 anno dal trapianto, il 28 gennaio 2000.

Secondo Breidenbach e colleghi, il trapianto di mano può essere indicato, dopo attenta valutazione medica e

psicologica, in pazienti di età compresa tra 18 e 65 anni con amputazione di avambraccio al di sotto del gomito per trauma o per intervento chirurgico, resosi indispensabile per patologie non neoplastiche né congenite. Per queste ultime indicazioni, come per il trapianto di gamba, si ritiene che sia necessaria l’acquisizione di ulteriori dati sperimentali.

Il donatore umano, ovviamente in condizioni accertate di morte cerebrale, deve essere compatibile per dimensioni e gruppo sanguigno, mentre altri fattori, quali età, sesso, razza e colore della pelle vengono valutati volta per volta.

Si è proceduto alla amputazione a livello dell’avambrac- cio e alla successiva perfusione ipotermica (4° C) attraverso le arterie con la soluzione di Belzer/Università del Wiscon- sin, utilizzata anche per la perfusione e la conservazione di fegato,pancreas e reni. L’arto è stato quindi conservato, in buste sterili, sotto ghiaccio.

Il moncone del ricevente è stato asportato in modo da liberare dalla cicatrice le ossa, i fasci muscolari e nervosi nonchè i vasi arteriosi e venosi, strutture che sono state quindi suturate alle corrispondenti strutture del donatore.

Dapprima i chirurghi ortopedici hanno connesso le strutture ossee(radio e ulna) del donatore con quelle del ricevente mediante piastre metalliche. Sono stati quindi suturati i tendini fl essori e successivamente, dopo aver ruotato mano e avambraccio di 180°, i tendini estensori. Infi ne, utilizzando metodiche microchirurgiche e il microscopio operatorio, si è proceduto alla sutura con punti staccati dei nervi e quindi di arterie e vene. La durata media di un trapianto di mano oscilla tra le 8 e le 12 ore.

Sia a Lione sia a Louisville è stato adottato un protocollo di terapia immunosoppressiva analogo a quello adottato pres- so lo stesso centro per il trapianto di rene, basato sui farmaci Prograf (FK 506) e Mofetil Micofenolato (MMF). L’FK 506 è stato utilizzato anche sotto forma di unguento.

Infi ne due trapianti di mano sono stati effettuati il 21 settembre 1999 in due riceventi maschi di 39 e 27 anni da parte dei dottori Guoxian Pei, Liquian Gu e Xiaofei Zhen del Dipartimento di Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale di Nanfang, Guangzhou,Cina Popolare.

Inoltre Joseph Vacanti, dell’Università di Harvard, aveva in precedenza utilizzato a Boston una tecnica sperimentale per ricostruire la parte ossea di un pollice amputato da un trauma a un operaio, Raul Murcia, coltivando in laboratorio alcune cellule ossee prelevate dallo stesso paziente e suc- cessivamente reimpiantandole.

I trapianti di mano e di avambraccio rientrano nei trapian- ti di tessuti composti, che cioè contengono differenti tessuti quali cute,vasi, nervi, muscoli, ossa. Tra questi possono essere inseriti il trapianto di pene, mai effettuato nell’uomo, e forse anche il trapianto di laringe, effettuato con successo il 4 gennaio 1998 dal Dr. Marshall Strome sul paziente della Pennsylvania Timothy Heidler, la cui laringe era stata dan- neggiata in modo irreparabile 19 anni prima in un incidente motociclistico. Sono trapianti di tessuti composti anche i trapianti vascolarizzati di osso utilizzati dopo l’asportazione di ampie porzioni di ossa lunghe quali il perone per patologie congenite o acquisite(in genere neoplasie maligne).

Nel caso dei trapianti di Lione e di Louisville è ancora presto per valutare i risultati di queste procedure, divul- gati per ora tramite i “mass media” ma solo parzialmente pubblicati su riviste scientifi che o presentati a congressi

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internazionali. Sembra comunque che il primo paziente operato in Francia 6 mesi dopo il trapianto fosse in grado di percepire forti pressioni a livello del palmo della mano;

tuttavia ha in seguito deciso di non assumere più la terapia immunosoppressiva e infi ne si è sottoposto, presso un diffe- rente ospedale, all’amputazione dell’arto trapiantato.

Xenotrapianti

La diffusione in tutto il mondo dei trapianti di organi solidi è senza dubbio legata ai progressi conseguiti nel settore della terapia immunosoppressiva, per merito della Ciclosporina, introdotta in Italia dal nostro Centro nel 1982, e di altri farmaci quali FK 506, Mofetil Micofenolato, Ra- pamicina e vari anticorpi monoclonali. Importante è stato anche il miglioramento della conservazione in ipotermia degli organi solidi nonchè della selezione e del manteni- mento del donatore cadavere. Senza dubbio, infi ne, hanno infl uito in maniera determinante i continui perfezionamenti della tecnica chirurgica di prelievo e di trapianto, che sono alla base della ripresa funzionale immediata dell’organo dopo l’intervento. I trapianti di rene, fegato, cuore e polmoni costituiscono ormaila terapia elettiva in caso di patologie irreversibili di questi organi.

Rimane ancora insoluto il problema della non adeguata disponibilità di donatori, sempre esigua rispetto al numero dei pazienti che ogni anno entrano in lista di attesa. Una delle possibili alternative all’ inadeguata disponibilità di donatori cadaveri è costituita dallo xenotrapianto, cioè dall’utilizzo di organi prelevati a esseri viventi di una specie diversa da quella del ricevente.

Il primo xenotrapianto di rene da scimpanzè è stato eseguito negli Stati Uniti nel 1963 (quando la dialisi era ancora un trattamento sperimentale) a New Orleans.

L’unico xenotrapianto mai effettuato un Europa ha avuto luogo nel 1966 a Roma, presso il nostro Centro: l’organo, prelevato a uno scimpanzè di 53 kg., che sopravvisse per molti anni al prelievo, venne immediatamente trapiantato con successo in un paziente uremico diciannovenne dello stesso peso il quale, nonostante il trattamento dialitico con frequenza bisettimanale, presentava un rapido deteriora- mento delle condizioni cliniche. Fu osservata un’adeguata ripresa della diuresi e della funzione depuratoria renale;

tuttavia la mancanza di una effi cace terapia antirigetto alternativa, quale quella in uso corrente oggi, rese neces- saria la somministrazione di elevate dosi di steroidi cui conseguì la perforazione di un’ulcera peptica. Dopo l’in- tervento chirurgico di affondamento e sutura della lesione, immediatamente eseguito con successo, si instaurò una peritonite a lento decorso che portò a morte il ricevente in trentunesima giornata post-operatoria. La funzione renale si mantenne ottimale fi no al decesso e l’esame istologico e ultrastrutturale “post mortem” del rene trapiantato ne dimostrò la perfetta integrità morfologica.

Poichè gli scimpanzè corrono pericolo di estinzione, si è successivamente preferito far ricorso ad altre specie, quali i babbuini, che però presentano notevoli differenze di tipo immunologico con l’uomo; tali fattori, nonostante l’aggressiva terapia antirigetto, hanno contribuito a ridurre la sopravvivenza dopo lo xenotrapianto di cuore effettuato

nel 1984 a Loma Linda e nei due xenotrapianti di fegato realizzati tra il 1992 e il 1993 a Pittsburgh.

D’altra parte i primati sono diffi cilmente reperibili, pre- sentano un costo elevato, scarsa adattabilità alla stabulazione e alla riproduzione in cattività e rischio di trasmissione di zoonosi, mentre le ridotte dimensioni precludono il trapianto di alcuni organi, quali il cuore, in pazienti umani adulti.

Per sopperire a tali problemi, molti studiosi ritengono sia necessario utilizzare come donatori per gli xenotrapianti altri animali, che abbiano oltre tutto minore rilevanza emotiva.

Tra questi i suini, presentando strutture anatomiche, dimensioni degli organi interni nonchè caratteristiche fi siolo- giche e metaboliche molto simili a quelle umane, potrebbero costituire la scelta più opportuna. Tuttavia lo xenotrapianto discordante, cioè tra organismi viventi notevolmente diversi dal punto di vista fi logenetico, quali il maiale e l’uomo, comporta fenomeni di rigetto iperacuto su base umorale, mediato da anticorpi preformati, con attivazione del siste- ma del complemento e necrosi cellulare, che si osservano d’altra parte, sia pure in maniera più limitata, anche negli xenotrapianti concordanti, come tra scimpanzè e uomo, e non sono controllabili mediante gli attuali trattamenti anti-rigetto. È possibile rimuovere nel ricevente prima del trapianto gli anticorpi preformati nei confronti del donatore, ma essi tendono comunque a riformarsi in breve tempo, nonostante alte dosi di farmaci ad azione immunosoppres- siva. Minore importanza riveste invece la compatibilità tra il gruppo sanguigno del suino donatore (generalmente A o O) e quello del ricevente.

Il nostro gruppo (33) ha partecipato a un’attività di ricerca che dovrebbe permettere di approfondire le cono- scenze sul ruolo del complemento nel rigetto iperacuto e di giungere alla realizzazione di una linea di suini transgenici modifi cati geneticamente, attraverso l’inserimento nel DNA dei geni umani del DAF, dell’MCP e del CD59, in modo da costituire una fonte alternativa di cellule e di organi solidi a scopo di xenotrapianto.

Infatti, lo xenotrapianto “discordante”, cioè tra or- ganismi viventi notevolmente diversi dal punto di vista fi logenetico, quali il maiale e l’uomo, comporta fenomeni di rigetto iperacuto su base umorale, mediato da anticorpi preformati, con attivazione del sistema del complemento e necrosi cellulare.

Il sistema del complemento ha un largo spettro di attività biologiche e viene attivato attraverso due differenti vie, la classica e l’alternativa. La prima è iniziata dal legame anti- gene-anticorpo e consiste in una sequenza di reazioni pro- teolitiche ed interazioni delle proteine del complemento che ha come risultato fi nale la lisi dell’organismo estraneo.

La via alternativa è indipendente dalla reazione antige- ne-anticorpo e salta le componenti iniziali della cascata di reazioni che compongono la via classica. La componente C3 è centrale per ambedue le vie di attivazione: la generazione della sua forma attiva, C3b (convertasi), porta all’opsoniz- zazione di cellule estranee o alla lisi dovuta al complesso di attacco della membrana (MAC). Ambedue le vie di atti- vazione del complemento sembrano essere coinvolte nella reazione di rigetto iperacuto.

I fattori regolatori del complemento possono essere solubili(fattori H e C4bp) o legati alla membrana cellulare:

CR1(CD35),Decay Accelerating Factor (DAF o CD46),

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Membrane Cofactor Protein (MCP o CD55) e CD59. Questi ultimi assumono particolare importanza nel riconoscimento del “self” dal “non-self”. Sia gli inibitori solubili sia quelli di membrana hanno in comune 60 aminoacidi e sono co- difi cati da geni localizzati su una regione di 800 kilobasi del cromosoma umano 1q3.2, denominata “regulator of complement activation(RCA) locus”. Questi fenomeni si osservano, in maniera più limitata, anche negli xenotrapianti

“concordanti”, come per esempio tra scimpanzè e uomo.

È possibile ridurre, mediante immunoassorbimento prima del trapianto, gli anticorpi preformati nel ricevente verso il donatore, che tuttavia si riformano in breve tempo, malgrado alte dosi di farmaci ad azione immunosoppressiva. Inoltre fenomeni di rigetto iperacuto sono stati osservati anche in condizioni di ridotta immunità umorale, per attivazione della via alternativa del complemento, che non richiede la presenza di anticorpi. Validi presupposti teorici permettono di ritenere che gli organi dei suini transgenici per inibitori di membrana del complemento umano, quali DAF, MCP e CD59, una volta trapiantati in soggetti umani, risulterebbero protetti dalla risposta immunologica umorale; l’attivazione dei linfociti T potrebbe essere inibita con un trattamento farmacologico analogo a quello utilizzato nei trapianti da donatori umani e basato sulla somministrazione di ciclospo- rina, azatioprina, steroidi e anticorpi monoclonali anti-CD3.

Un’ altra strategia di ricerca prevede la produzione di suini mutati, che non presentino cioè il gene codifi cante l’α-1,3- galattosil-transferasi, l'enzima responsabile della produzione del carboidrato α-galattoside, il cui epitopo è riconosciuto dagli anticorpi preformati umani come non proprio, dando inizio alla attivazione del complemento durante il rigetto iperacuto da xenotrapianto.

Infi ne il gruppo diretto da Fritz Bach presso la Harvard University di Boston sta procedendo alla transfezione delle cellule endoteliali dell'animale donatore, al fi ne di ridurne l'attivazione, che costituisce uno dei primi aspetti del rigetto iperacuto.

Prima di eventuali trials in pazienti umani si renderà necessaria una ulteriore fase sperimentale, nel corso della quale studi di immunoistochimica condotti sui tessuti degli animali transgenici utilizzando anticorpi monoclonali anti- DAF, anti-MCP e anti-CD59 permetteranno di quantifi care l'espressione di queste molecole a livello della membrana cellulare. Gli organi dei suini transgenici verranno prelevati in condizioni di sterilità e sottoposti, all'interno di apparec- chiature realizzate allo scopo, alla prolungata perfusione mediante sangue umano appena prelevato, anticoagulato con eparina, ossigenato e mantenuto a 37°C. L'analisi dell'elua- to e l'esame istologico ed ultrastrutturale di questi organi permetterà di valutare l'inibizione dell'attivazione delle vie classiche e alternative del complemento e la prevenzione del rigetto iperacuto.

Si procederà contemporaneamente ad un ulteriore per- fezionamento delle metodiche di isolamento e purifi cazione di cellule epatiche e insule pancreatiche, che verranno ana- lizzate mediante anticorpi monoclonali anti-DAF, anti-MCP e anti-CD59 e sottoposte a tests di citotossicità in presenza di siero umano.

Verrà infi ne effettuata una serie di xenotrapianti di insule e di organi solidi utilizzando come donatori suini transgenici e come riceventi babbuini adulti.

Solamente in seguito potrebbero essere eseguiti trapianti di insule pancreatiche in soggetti diabetici o trapianti eteroto- pici di fegato in pazienti umani affetti da epatite fulminante, lasciando in situ l'organo nativo. Si realizzerebbe così un supporto temporaneo della funzione epatica, attualmente non sostituibile mediante organi artifi ciali, fi no alla rigene- razione del parenchima o, in caso di danno irreversibile, al reperimento di un donatore cadavere umano.

Non è naturalmente possibile anticipare se l’esperienza in tal modo maturata permetterà infi ne di realizzare lo xenotra- pianto defi nitivo di fegato, rene e cuore. Appare comunque evidente che già adesso lo xenotranpianto solleva senza dub- bio numerose e gravi questioni etiche. La prima coinvolge il ricevente, che dovrebbe sottoporsi a una procedura ancora sperimentale, ancorchè convalidata da una notevole attività sperimentale e da una limitata esperienza clinica.

Un sondaggio recentemente effettuato in Gran Bretagna tra cardiopatici anziani e ad alto rischio ha messo in luce un alto livello teorico di accettabilità di un organo suino, eventualità preferita a una lunga e,forse, infruttuosa attesa per un cuore umano.

Va inoltre considerato che i potenziali candidati alla perfusione extracorporea o allo xenotrapianto con un fegato animale sarebbero probabilmente in encefalopatia epatica.

Il necessario consenso informato dovrebbe essere quindi richiesto a parenti e persone care, che si troverebbero quindi davanti a una scelta sicuramente molto diffi cile.

Un ulteriore problema non ancora suffi cientemente studiato consiste nei disturbi psicologici che potrebbero derivare dal ricevere un organo animale, sia pure per un breve periodo di tempo, quale misura temporanea fi nchè non sia disponibile un donatore umano.

Inoltre, alcune persone, non solo i cosiddetti “anima- listi”, ritengono la produzione di animali transgenici una inaccettabile violazione delle leggi di natura. Al contrario non esistono ostacoli di natura religiosa agli xenotrapianti, anche da parte di esponenti di confessioni religiose (34), quali la islamica o la israelitica, per le quali alcune specie animali sono considerati impure.

La problematica etica più imortante è forse legata alle xenozoonosi e soprattutto ai retrovirus, particolari specie virali che inseriscono il materiale genetico direttamente nel DNA del ricevente: il potenziale benefi cio di pochi pazienti ad altissimo rischio potrebbe mettere a repentaglio la salute della popolazione a causa di mutazioni o fenomeni di ricombinazione nel ricevente umano a carico di retrovirus provenienti dal donatore animale.

Al momento il rischio di zoonosi appare troppo elevato utilizzando come donatori primati non umani, ma non nel caso dei suini. I suini transgenici possono comportare peri- coli aggiuntivi, in quanto il DAF è un recettore per svariati picornavirus e il CD46 per i morbillivirus: varianti animali di questi virus potrebbero quindi diventare infettive per il paziente umano.

Sono stati recentemente scoperti in linee cellulari PK-15 di suino retrovirus umano di tipo C che “in vitro” possono infettare cellule umane; non è ancora sicuro se ciò potrebbe avvenire anche “in vivo” e se, in tal caso, causerebbe ma- lattie degenerative, sindromi immunodepressive o tumori. I retrovirus di tipo C hanno una emivita breve e infettano solo cellule che esprimono recettori specifi ci per la corrispondente

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proteina virionica di superfi cie; la trasmissione avviene per via transplacentare, per scanbio di tessuti o contatto sessuale.

Comunque, le cellule infette mancherebbero di residui alfa(1- 3)alfa e sarebbero pertanto resistenti alla lisi mediata dal complemento umano; inoltre la terapia immunosuppressiva renderebbe i riceventi più sensibili al contagio.

Il “Center for Disease Control and Prevention” di Atlan- ta, negli Stati Uniti, sta sviluppando metodiche di biologia molecolare per lo screening dei retrovirus endogeni porcini (PERV) e dei retroviruses endogeni di babbuino (BaEV), kits per la diagnosi sierologica dei “foamy viruses” e linee cellulari per l’isolamento dei retrovirus (35).

Tutti i pazienti sottoposti a xenotrapianto di cellule, tes- suti od organi dovranno essere monitorizzati mediante PCR e tecniche sierologiche per mettere in evidenza infezioni da retrovirus, non dovrebbero procreare né donare sangue od organi; si sta studiando la possibilità di immunizzazione anti- retrovirus. Queste problematiche sono state affrontate da una commissione del governo Britannico nel gennaio 1997 e dalla Food and Drug Administration statunitense.

Sebbene non sia stata ancora imposta una vera e propria moratoria, si richiede grande cautela (36) sia da parte dei ricercatori sia degli organi di controllo; i potenziali rischi dei retroviruses devono essere controbilanciati dai benefi ci che lo xenotrapianto di cellule o tessuti potrebbe comportare per i pazienti (37).

Considerazioni conclusive

Gli indiscutibili successi registrati, in un arco di tempo relativamente limitato, nel campo dei trapianti d’organo non devono indurre a trascurare diffi coltà e problemi ancora ir- risolti, legati alla non ottimale disponibilità di organi. C i ò costituisce un fattore limitante l’ulteriore diffusione della chirurgia sostitutiva, le cui indicazioni, grazie agli ottimali risultati ottenuti, si vanno progressivamente allargando, comportando un conseguente incremento delle liste di attesa:

a tale proposito è senza dubbio corretto affermare che “il tra- pianto di fegato, come tutti i trapianti di organi solidi, è una vittima del proprio successo” (38). Sarebbe particolarmente utile poter prolungare la conservazione ipotermica degli organi solidi in modo da effettuare i trapianti secondo una ottimale compatibilità immunologica tra donatore e ricevente e realizzare un più effi cace interscambio d’organi (“organ sharing”) anche a livello inter continentale. Per il momento intervengono infatti a limitare la vitalità tissutale alcuni fenomeni, solo in parte conosciuti e quindi diffi cilmente prevenibili, quali il danno da radicali liberi dell’ossigeno (39) e l’accumulo di calcio a livello intracellulare (40). Una più approfondita conoscenza di questi processi dovrebbe consentire il perfezionamento delle soluzioni utilizzate per la perfusione, riducendo l’incidenza di malfunzionamento dell’organo trapiantato anche dopo periodi sempre più prolungati di ischemia fredda. In particolare un ulteriore miglioramento potrebbe essere ottenuto mediante l’im- piego di temperature molto basse (“criopreservazione”) o la riproduzione “in vitro” delle alterazioni metaboliche caratteristiche del letargo negli animali ibernati (41). La pos- sibilità di conservare gli organi per almeno una settimanana

ne permetterebbe una “immunoalterazione”, per esempio mediante anticorpi monoclonali per “mascherare” alcuni siti antigenici, in modo da ridurre l’insorgenza di fenomeni di rigetto e consentire la riduzione del dosaggio dei farmaci ad azione immunosoppressiva.

Naturalmente l’impossibilità di sospendere la terapia immunosoppressiva, non ancora del tutto scevra di effetti collaterali anche seri, quali una maggiore incidenza di infe- zioni (42) e tumori maligni (43), infl uenza negativamente la qualità di vita dei trapiantati. A tale proposito una linea di ricerca che appare particolarmente promettente è lo studio del “microchimerismo”, cioè della colonizzazione degli organi del ricevente da parte di cellule immunocompetenti provenienti dal donatore. Questo fenomeno è stato recente- mente osservato in alcuni pazienti sottoposti negli anni ‘60 e ‘70 a trapianto di rene o di fegato. Il trapianto contempo- raneo dallo stesso donatore del midollo osseo e del fegato o di un altro organo solido (44) è stato proposto e attuato per indurre nel ricevente un’ analoga forma ci “tolleranza”

immunologica, peraltro solo parziale (45).

In conclusione si deve sottolineare che non solo casi selezionati ma la maggior parte dei pazienti sottoposti a trapianto d’organo presentano un notevole miglioramento della qualità della vita, non solo da consentire il pieno rein- serimento nell’ attività lavorativa e di relazione, ma anche di riacquistare l’omeostasi ormonale, senza alcun rischio di patologie nella donna in caso di gravidanza. Anche nella nostra casistica numerose donne sottoposte a trapianto di organi quali il rene o il fegato hanno felicemente portato a termine una o più gravidanze senza conseguenze dannose per la madre o per il fi glio.

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