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Crediti di dubbia esigibilità: limiti alla deduzione di perdite e accantonamenti

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Academic year: 2022

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Approfondimenti monografici

di Fabio Garrini

Crediti di dubbia esigibilità: limiti alla deduzione di perdite e accantonamenti

Premessa

Tra i vari contributi che si è scelto di proporre sul tema del bilancio d’esercizio 2009, non poteva mancare quello relativo alla valutazione dei crediti: si tratta, infatti, di un’attività che deve essere svolta con opportuna cautela e sensibilità, a maggior ragione in esercizi dove quasi ogni bilancio che il professionista si trova a maneggiare presenta crediti vantati nei confronti della clientela che per una quota non trascurabile appaiono, per usare un eufemismo, “non immediatamente incassabili”.

Vale la pena di segnalare che la disciplina civilistica e quella fiscale sono in deciso

“disaccordo” circa il trattamento da riservare a tale posta, tanto con riferimento alla rilevazione delle perdite quanto in relazioni agli accantonamenti operati nel bilancio. Infatti:

mentre la disciplina civilistica

è improntata all’evidenziazione di un risultato economico e di una situazione patrimoniale effettiva, attraverso l’iscrizione di crediti in base al valore presumibile di realizzazione;

la disciplina fiscale

si presenta decisamente più severa (per molti aspetti anche troppo), imponendo la presenza di stringenti requisiti per considerare irrecuperabile il credito (e quindi ammettere la deduzione della relativa perdita), a cui aggiungere la possibilità di dedurre l’accantonamento solo entro un determinato plafond, determinato in maniera forfettaria.

Il presente contributo sarà pertanto dedicato alla valutazione dei crediti, partendo dalla disciplina civilistica ma concentrandosi soprattutto sugli aspetti fiscali. Allorquando si imputa al Conto economico una perdita o un accantonamento è, infatti, importante capirne l’impatto fiscale, in prima battuta onde evitare un accantonamento imposte insufficiente, ma soprattutto per prevenire sgradite sorprese al momento della compilazione del quadro RF del modello dichiarativo, trovandosi a dover rilevare impreviste variazioni in aumento e a gestire un imponibile del tutto inatteso anche a fronte di un risultato economico negativo.

La valutazione dei crediti

La rotta da seguire per la valutazione dei crediti è tracciata dall’art.2426, n.8 c.c.: “i crediti devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione”.

È evidente che stabilire quale sia il valore di presumibile realizzo di un credito non è certo compito facile:

 tanto con riferimento all’esatta individuazione della quota esigibile di alcuni crediti;

 quanto in relazione al momento in cui occorre dare evidenza della perdita che ne scaturisce.

Sarà operazione guidata dalla discrezionalità tecnica del redattore del bilancio, sulla base di una sensibilità che deve essere sorretta dai principi generali che regolano la redazione del bilancio, in primis quello della prudenza. Occorrerà, peraltro, utilizzare un criterio il più possibile costante, evitando comportamenti scorretti e rischiosi che portano ad una

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accurata revisione dei crediti nei periodi nei quali la perdita è sostenibile dal bilancio, a dispetto di una verifica ben più blanda in quegli esercizi dove il bilancio presenta modesti risultati economici che non possono essere peggiorati da tali perdite. La valutazione dei crediti deve essere condotta, in ogni esercizio, con il medesimo rigore, onde evitare che l’accantonamento per rischi su crediti divenga uno strumento attraverso il quale perseguire politiche di stabilizzazione dell’utile tramite la spalmatura delle perdite su diversi esercizi.

Il principio contabile Oic 15 prevede che:

“il valore nominale dei crediti in bilancio deve essere rettificato, tramite un fondo di svalutazione appositamente stanziato, per le perdite per inesigibilità che possono ragionevolmente essere previste e che sono inerenti ai saldi dei crediti esposti in bilancio”.

Occorre, pertanto, operare in ciascun esercizio un accantonamento al fine di adeguare il fondo rischi per perdite su crediti, che dovrà essere sufficiente a coprire:

Tale valutazione, secondo il PC 15, deve essere fatta (metodo consigliato) valutando la bontà dello specifico credito. È evidente che vi siano numerosi elementi da tenere in considerazione; senza la pretesa di fornire un’elencazione esaustiva è comunque possibile individuare i principali fattori da tenere sotto controllo:

 prima di tutto occorre considerare quanto è trascorso dalla scadenza contrattuale di quel credito, in quanto è evidente che il rischio di insolvenza è tanto maggiore quanto più tempo è trascorso dalla scadenza originariamente pattuita per quel credito (quindi quanto più è consistente il ritardo accumulato nel pagamento da parte del cliente);

 in seconda battuta si rende necessario un’attenta verifica dello storico, delle esperienze passate con riguardo ai rapporti commerciali intrattenuti con quel determinato cliente, in quanto vi potrebbero essere clienti che regolarmente sforano il termine pattuito, ma che hanno sempre onorato i propri impegni (nel qual caso, seppure vi siano consistenti ritardi, il credito dovrebbe essere valutato positivamente);

 occorre poi verificare l’esistenza di fasi contenziose o più in generale di contestazioni sulla fornitura che, se in essere, fanno ragionevolmente pensare che una quota del credito vantato risulterà probabilmente non incassabile. La quantità di credito non incassabile dipenderà nel primo caso dalla procedura concorsuale in corso (e ovviamente dall’eventuale esistenza di garanzie a tutela del credito), nel seconde caso si tratterà invece di valutare la fondatezza della contestazione e l’esistenza (o possibilità) di eventuali accordi per la soluzione stragiudiziale della lite;

 inoltre, per crediti vantati nei confronti di operatori esteri, vi potrebbe essere la necessità di valutare fattori esterni (politici, economici ecc) che possono mettere a rischio l’esigibilità (si pensi ai crediti vantati nei confronti di clienti di Paesi in cui si stanno verificando forti tensioni sociali o economiche).

Il medesimo principio contabile permette poi una soluzione alternativa per la valutazione del credito (il c.d. metodo ammesso). In particolare, nel caso di elevato frazionamento dei crediti, per le evidenti difficoltà a procedere ad una stima puntuale, le perdite sui crediti possono essere stimate tramite un procedimento sintetico, applicando cioè determinate formule allo stock dei crediti iscritti in bilancio (ad esempio, una percentuale delle vendite del periodo o dei crediti, magari in ragione della scadenza di questi).

tanto le perdite per situazioni di inesigibilità già manifestatesi;

quanto quelle per altre inesigibilità non ancora manifestatesi ma ragionevolmente temute.

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Tali formule, è evidente, non possono essere standardizzate, ma al contrario devono essere:

 costruite in ragione della specifica realtà aziendale;

 e revisionate ogniqualvolta mutino le condizioni sulle quali le formule usate sono state costruite.

Tali formule sono accettabili soltanto se si raggiungono sostanzialmente gli stessi risultati del procedimento analitico descritto in precedenza. Uno strumento efficace per la stima delle perdite su crediti è la tenuta di un'aggiornata evidenza dell'anzianità dei crediti divisi per classi temporali di scaduto, nonché un'adeguata procedura di indagine circa le motivazioni della mancata regolarizzazione dello scaduto stesso

I limiti fiscali all’accantonamento al fondo svalutazione crediti

La disciplina fiscale è fondata su di un principio che potremmo definire nella sostanza inverso a quello civilistico: se quest’ultimo richiede una stima quanto più precisa e prudente dei crediti, la disciplina fiscale prevede, invece, una disposizione forfetaria per rilevare la svalutazione deducibile. Per comprendere la questione occorre esaminare i primi due commi dell’art.106 Tuir:

1. Le svalutazioni dei crediti risultanti in bilancio, per l'importo non coperto da garanzia assicurativa, che derivano dalle cessioni di beni e dalle prestazioni di servizi indicate nel co.1 dell'art.85, sono deducibili in ciascun esercizio nel limite dello 0,50% del valore nominale o di acquisizione dei crediti stessi. Nel computo del limite si tiene conto anche di accantonamenti per rischi su crediti. La deduzione non è più ammessa quando l'ammontare complessivo delle svalutazioni e degli accantonamenti ha raggiunto il 5% del valore nominale o di acquisizione dei crediti risultanti in bilancio alla fine dell'esercizio.

2. Le perdite sui crediti di cui al co.1, determinate con riferimento al valore nominale o di acquisizione dei crediti stessi, sono deducibili a norma dell'art.101, limitatamente alla parte che eccede l'ammontare complessivo delle svalutazioni e degli accantonamenti dedotti nei precedenti esercizi. Se in un esercizio l'ammontare complessivo delle svalutazioni e degli accantonamenti dedotti eccede il 5% del valore nominale o di acquisizione dei crediti, l'eccedenza concorre a formare il reddito dell'esercizio stesso.

Le perdite su crediti, pertanto, potranno essere dedotte per la parte che eccede il fondo stanziato in bilancio. Il Legislatore, onde evitare evidenti problemi ai verificatori in sede di controllo degli importi dedotti (sarebbe, infatti, un dispendio di tempo incredibile, peraltro con dubbi risultati, nella valutazione analitica del rischio di credito), ha deciso di fissare un ammontare forfetario, utilizzando come parametro l’ammontare complessivo dei crediti iscritti in bilancio, determinato attraverso due parametri:

Al riguardo, senza comunque soffermarsi eccessivamente sull’ampia questione, occorre ricordare brevemente che:

a seguito dell’abrogazione del co.2 dell’art.2426 c.c.

(a decorrere dal 2004)

non è possibile stanziare a conto economico componenti negativi di reddito giustificati da sole ragioni tributarie (ossia per beneficiare di una deduzione concessa dalla disciplina fiscale) se non hanno una giustificazione bilancistica;

il fondo non deve superare il 5% del valore nominale o di acquisizione dei crediti risultanti in bilancio alla fine dell'esercizio e, se superiore, deve essere ripreso a tassazione.

l’accantonamento annuo non può superare lo 0,50% el valore nominale o di acquisizione dei crediti stessi;

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a seguito della modifica dell’art.109 co.4 lett.b) operato dalla L. n.244/07

non è possibile utilizzare il quadro EC per dedurre extracontabilmente componenti negativi di reddito ammessi dalla disciplina fiscale ma non transitati a Conto economico.

Ciò significa che, se non vi sono ragioni per stanziare un accantonamento a Conto economico (ovvero è giustificabile un accantonamento per un importo inferiore al limite fiscale), la deduzione avverrà esclusivamente nel limite di quanto rilevato in bilancio.

Le perdite su crediti

In materia di crediti verso clienti si deve poi analizzare anche il co.5 dell’art.101 Tuir:

Le perdite di beni di cui al co.1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali. Ai fini del presente comma, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.

F Debitore NON assoggettato a procedure concorsuali

La disciplina fiscale fissa regole diverse a seconda che il debitore sia assoggettato o meno a procedure concorsuali.

Nel caso di morosità non sfociata in procedura concorsuale, per dedurre la perdita sul credito è necessario che questa risulti da “elementi certi e precisi”.

È ragionevole che la deduzione della perdita sia subordinata a determinati criteri, in caso contrario sarebbe fin troppo evidente la manovra elusiva che porterebbe il contribuente più audace a stornare crediti in un esercizio per rinviare la tassazione nell’esercizio dell’incasso, rilevando una sopravvenienza di pari importo.

Purtroppo, travalicando forse i limiti di tale previsione posta a tutela delle ragioni erariali, l’interpretazione che è stata data di tale disposizione è risultata oltremodo restrittiva, tanto che in molte situazioni ci si trova ad avere crediti per i quali il redattore del bilancio stima una ragionevole impossibilità di incasso, ma la cui perdita non può essere dedotta.

Vediamo i principali punti da ricordare per una corretta valutazione fiscale dei crediti:

 ai fini della deducibilità è necessario dimostrare (quindi la prova è a carico del contribuente) che il credito non può essere incassato (non basta quindi una ragionevole presunzione di non incassarlo), peraltro avendo fatto tutto il possibile per il recupero del credito in sofferenza. Occorre capire qual è il livello di “impegno nel recupero” che assicura la deducibilità della perdita: la risposta non può essere altro che la necessità di valutare la caratura del credito. In alcune situazioni potrebbe essere sufficiente dimostrare l’irreperibilità ovvero l’indigenza (mancanza di beni) del debitore, mentre in altre situazioni potrebbe essere necessario intraprendere una procedura esecutiva con esiti negativi (verbale di pignoramento negativo). Si segnala, inoltre, come l’Agenzia delle Entrate nella R.M. n.16/E/09 abbia escluso la deducibilità addirittura nel caso di pignoramento negativo. Va detto, però, che tale conclusione non pare generalizzabile, in quanto relativa ad un debitore che si trovava solo in temporanea illiquidità sul quale non si pongono dubbi di solvibilità (si trattava di una ASL). Pertanto, in tutte le altre situazioni, pare di poter concludere che il pignoramento negativo possa bastare per provare la certezza della perdita.

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 Ricollegandosi alle considerazioni appena proposte, occorre ricordare che per i crediti di modesto importo (non esiste un importo predefinito, ma occorre valutarlo in ragione del portafoglio crediti del contribuente), l’Amministrazione Finanziaria consente un iter più agevole: non è necessario che il creditore ponga in essere una procedura per dimostrare la definitività dell’insolvenza (con i relativi costi, che potrebbero essere addirittura superiori al credito stesso), in quanto la deduzione della perdita è consentita dimostrando di aver semplicemente tentato il recupero, ad esempio inviando raccomandata di sollecito4.

 la deducibilità della rinuncia a crediti inesigibili è assicurata anche nel caso in cui tale scelta è di convenienza per il contribuente: quando il fine perseguito è quello di pervenire al maggior risultato economico si esclude che tale atto possa essere inteso quale liberalità (R.M. n.9/557/80 e R.M. n.5/517/80)

 nel caso di crediti esteri le perdite su crediti possono essere dedotte fiscalmente solo a seguito dichiarazione di insolvenza dei debitori stranieri emesse dalla SACE5.

F Debitore assoggettato a procedure concorsuali

Il Legislatore fiscale introduce una presunzione per la rilevazione della perdita su crediti: il requisito della certezza della perdita si presume quando il cliente è assoggettato ad una procedura concorsuale. Come chiarito dalla C.M. n.39/E/02 tale previsione si applica nel caso in cui il debitore sia interessato da fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo e amministrazione straordinaria. Al riguardo l’art.101 co.5 prevede che:

“… ai fini del presente comma, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.”

Sul punto occorre ricordare come non vi sia obbligo di portare a perdita il credito integralmente nell’anno in cui si apre la procedura concorsuale6 ma occorre effettuare una stima di presumibile realizzo del credito; allo stesso modo questa posizione non deve essere letta come la possibilità arbitraria di scegliere in quale esercizio dedurre il credito “a partire” dall’apertura del fallimento, in quanto nel momento in cui si verifica la certezza di tale perdita, per evitare che si possa trarre vantaggio dal rinvio della deducibilità di componenti negativi (ad esempio per sfruttare una perdita pregressa in procinto di arrivare alla scadenza del quinquennio), il credito irrecuperabile deve essere portato a perdita7.

IL CASO

Prendendo il caso più frequente, quello del fallimento, è esperienza comune che se un credito non è assistito da garanzie, esso risulterà integralmente (ovvero per massima parte) non recuperabile: pertanto un credito chirografario dovrà essere svalutato integralmente (o quasi) nell’esercizio in cui si apre la procedura fallimentare. Nella fortunata ipotesi in cui si dovesse in futuro riuscire ad incassare una frazione di tale credito, al momento dell’incasso occorrerà rilevare una sopravvenienza attiva.

Sul punto occorre, infine, ricordare come la disposizione ai fini Iva è decisamente diversa da quella appena descritta in tema di imposte dirette: ai sensi del co.2 dell’art.26 DPR n.633/72 è possibile, infatti, emettere nota di variazione nel caso di procedure concorsuali

4 R.M. n.9/124/76.

5 Per avere una visione più completa della questione si faccia riferimento alla C.M. n.39/E/02.

6 Cass., sent. n.12831/02 e ADC n.172/08.

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rimaste infruttuose. La C.M. n.77/E/00 individua il momento a partire dal quale può essere emessa la nota di variazione in diminuzione:

fallimento

scadenza del termine per le osservazioni al piano di riparto ovvero, ove non vi sia stato, termine per il reclamo al decreto di chiusura della procedura;

liquidazione coatta amministrativa

scadenza del termine per le osservazioni al piano di riparto;

concordato

fallimentare passaggio in giudicato della sentenza di omologazione

concordato preventivo

sentenza di omologazione divenuta definitiva e momento in cui il debitore concordatario adempie agli obblighi assunti in sede di concordato.

Pertanto, considerando il più frequente caso del fallimento, mentre la perdita sul credito deve essere rilevata all’apertura del fallimento, l’Iva addebitata in fattura può essere recuperata solo al termine della procedura concorsuale. Va da se che, poiché l’importo del credito imputabile all’Iva potrà essere recuperato, necessariamente tale importo dovrà rimanere iscritto nell’attivo patrimoniale.

Esempio

Fattura emessa nei confronti del cliente Alfa srl per €10.000 + Iva. In data 28 aprile 2009 è stata emessa la sentenza dichiarativa del fallimento. Il credito è chirografario e si ritiene di non recuperare nulla. Il credito totale di €12.000:

 per €10.000 dovrà essere portato a perdita nel 2009;

 per €2.000 continuerà ad essere iscritto e sarà recuperato successivamente alla chiusura del fallimento attraverso nota di variazione.

Poiché la citata C.M. n.77/E/00 richiede “… la necessaria partecipazione del creditore al concorso” affinché si realizzi il requisito per l’emissione della nota di credito, occorre concludere che nel caso in cui il creditore decida di non insinuarsi nel fallimento (ad esempio perché il credito è di modesto ammontare e si sceglie di non scomodare un legale) il credito dovrebbe essere portato a perdita, anche per la parte relativa all’Iva, nell’esercizio in cui si apre la procedura fallimentare (sempre nel presupposto che si ritenga di non poter recuperare nulla dalla procedura).

Cessione del credito

Anche nel caso di cessione del credito la deducibilità del componente negativo rilevato a seguito di tale operazione (minusvalenza pari alla differenza tra corrispettivo di cessione e valore nominale) deve essere attentamente valutata:

nel caso di cessione pro solvendo (ossia quando il cedente garantisce al cessionario

l’incasso del credito)

non si ravvisano i requisiti della certezza e della definitività della perdita, ragion per cui eventuali perdite non possono essere dedotte. Al riguardo la Cassazione – sentenza n.3803/05 – ha comunque riconosciuto che tali crediti, rimanendo nella disponibilità patrimoniale del cedente, concorrono alla valutazione del plafond per la determinazione dell’accantonamento deducibile ai sensi dell’art.106 Tuir;

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più delicata è la questione riguardante la cessione dei crediti

pro soluto (ossia quando il rischio di credito è interamente trasferito al cessionario)

Sul punto si è formata un’interpretazione tanto di prassi (R.M.

n.70/E/08) quanto giurisprudenziale (Cass., sent. n.13181/00, n.14568/01 e n.5357/06), a cui aggiungere l’interrogazione parlamentare 5-00570 del 5 novembre 2008, decisamente preoccupante: la minusvalenza realizzata in sede di cessione del credito sarebbe deducibile solo se si dimostra che tale perdita era oggettivamente definita al momento della cessione, onde evitare ogni finalità elusiva connessa alla cessione. Sul punto si deve però osservare che, pare evidente, la cessione del credito è di per sé prova assoluta della perdita conseguita, visto che la differenza tra corrispettivo di cessione e valore nominale non potrà più essere incassata, quindi il componente negativo dovrebbe essere trattato ai sensi del primo comma dell’art.101 Tuir. Sarà poi compito dei verificatori esplorare un’eventuale finalità elusiva, ma il semplice rischio elusivo non può significare un disconoscimento a monte del diritto alla deduzione della perdita.

Accordi di ristrutturazione

L’art.182-bis della Legge fallimentare in materia di “Accordi di ristrutturazione dei debiti”, come modificato dal D.Lgs. n.169/07, ha previsto una procedura semplificata a carattere stragiudiziale che si conclude con un accordo, stipulato dal debitore con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, la cui efficacia è garantita dal provvedimento di omologazione del Tribunale.

Tralasciando le questioni procedurali, vale la pena spendere qualche riflessione in merito al trattamento fiscale delle componenti reddituali che scaturiscono da tale accordo.

Trattamento in capo al creditore

Prima di tutto si deve ricordare quale sia il trattamento in capo al creditore che accettando l’accordo ha rinunciato ad una parte delle proprie pretese creditorie. Sul punto la C.M.

n.8/E/09 ha evidenziato che la disciplina in esame non è stata recepita dal Legislatore fiscale all’interno dell’art.101, co.5 del Tuir, il che significa che non è possibile beneficiare della presunzione stabilita per le sole procedure concorsuali che permette la deducibilità immediata, ma occorrerà applicare la disposizione generale che impone la verifica dell’esistenza di elementi certi e precisi.

Trattamento in capo al debitore

Ancora più delicata pare la situazione in capo al debitore che ha ottenuto la riduzione dai propri creditori. Occorre ricordare che l’art.88 co.4 Tuir prevede che: “… non si considerano sopravvenienze attive … la riduzione dei debiti dell'impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo …”. Tale disposizione, che agevola la definizione della posizione debitoria, non contempla però il caso della sopravvenienza derivante dall’accordo di ristrutturazione, che presenta indubbi punti di contatto (seppure con evidenti peculiarità).

Il motivo di tale mancata assimilazione pare legato esclusivamente al fatto che la norma fiscale è di più risalente introduzione rispetto al nuovo istituto: ci si deve pertanto chiedere se essa possa o meno essere utilizzata in forza di un’interpretazione estensiva, anche con riferimento al nuovo istituto.

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L’Agenzia delle Entrate, nel corso del MAP del maggio 2006, sul punto ha però affermato che:

“…non si ritiene applicabile agli accordi di ristrutturazione dei debiti il contenuto dell’art.88, co.4 del Tuir posto che tale ultima disposizione fa letteralmente riferimento, ai fini del regime di non imponibilità delle sopravvenienze attive alla riduzione dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo”.

In realtà le situazioni paiono analoghe e l’assenza di una specifica inclusione degli accordi di ristrutturazione tra le sopravvenienze detassate con ogni probabilità deriva, come detto, da un mancato aggiornamento del testo normativo; i creditori risulterebbero ulteriormente danneggiati per il fatto che il debitore, a causa dell’imponibilità della sopravvenienza, avrebbe ancora meno risorse da destinare al pagamento dei debiti.

Sarebbe, quindi, auspicabile un ripensamento su tale posizione, in quanto essa costituirebbe un grave (e per alcuni versi ingiustificato) ostacolo al concreto utilizzo dell’istituto.

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