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Mito comunitario e crisi della mediazione

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Academic year: 2022

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EDUCAZIONE.Giornale di pedagogia critica,IX,1(2020),pp. 101-126.

Mito comunitario e crisi della mediazione

Amelia Broccoli

Università Roma Tre Dipartimento di Scienze della Formazione Via del Castro Pretorio, 20 amelia.broccoli@uniroma3.it

Abstract

Community myth and the crisis of mediation

Despite the fact that the community is the only place where the individual can live, the dialectical mediation between One and Many is often very complex. Perhaps for this reason human beings have developed a community mythology based on the condition of feeling of nostalgia for a “lost community”. The contribution in- tends to focus attention on the crisis of the community as a crisis of mediation. The community, in fact, is not at all that original en- tity that sanctions the common belonging (affective or traditional) of the individuals, but the instrument for the organization and so- cial control by a system of governance.

Keywords: Community, Education, Crisis, Mediation, Relationship.

Resumen

El mito comunitario y la crisis de la mediación

A pesar de que la comunidad es el único lugar donde el individuo puede vivir, la mediación dialéctica entre Uno y Muchos es a menudo muy compleja. Quizás por esta razón los seres humanos han desarrollado una mitología comunitaria basada en la condición de un sentimiento de nostalgia de una “comunidad perdida”. La contribución pretende centrar la atención en la crisis de la comunidad como una crisis de mediación. La comunidad, en efecto, no es en absoluto esa entidad original que sanciona la pertenencia común (afectiva o tradicional) de los individuos, sino el instrumento para la organización y el control social por un sistema de gobernanza.

Plabras clave: Comunidad, Educación, Crisis, Mediación, Relación.

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Nell’ambito della grande varietà di proposte teori- che e politiche che affollano la nostra contemporaneità, sembra spirare un vento assai favorevole per la rifles- sione sui comunitarismi e sulle comunità. In questo ca- so il plurale ci pare d’obbligo, dal momento che si trat- ta di concetti declinabili secondo diverse modalità eu- ristiche, a seconda della possibilità che se ne privilegi il versante filosofico, quello etico-politico o, ancor più specificamente, quello pedagogico-educativo.

Abbiamo già tentato di procedere a quella che ci sembrava un’opportuna chiarificazione semantico- concettuale del sintagma comunità educante, tentando di mettere in luce le contraddizioni interne e le aporie interpretative del lemma comunità. Aspetti, questi, che non sono certo sfuggiti a chi si è dedicato con dichiara- ta passione a celebrare l’elogio del comunitarismo, con lo scopo di proporne un uso «corretto» (sic) e libero da incrostazioni ideologiche.

La comunità  ha affermato ad esempio Costanzo Preve  è il solo luogo in cui l’uomo contemporaneo possa esercitare con- giuntamente la sua doppia natura razionale e sociale. Ogni ten- tazione di esodo e di secessione è comprensibile, risolve forse il suo singolo problema di sopportazione di una vita insensata, ma lascia intatto il problema dell’unità di socialità e razionalità1.

Sembra effettivamente così. E il tono di Preve è volutamente provocatorio, collocato com’è a metà strada tra il sentimento di rassegnazione per la pesante prigionia esistenziale in cui all’individuo è dato vivere e la certezza che egli possieda, nonostante tutto, infini- te possibilità d’azione per il dispiegamento completo dell’umano. Ma segnala anche un’interessante associa-

1 C. Preve, Elogio del comunitarismo, Napoli, Controcorrente, 2006, p. 251.

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zione lessicale: “socialità” e “razionalità” sembrano infatti trovare il loro momento di riconciliazione solo all’interno dell’alveo sicuro della forma comunitaria.

Nella teorizzazione di Preve, dunque, la socialità uma- na non può esistere che nella forma comunitaria. Nulla è detto circa il ruolo della società, tenuta forse in om- bra per lasciare spazio alla “sovranità” locale e territo- riale della dimensione comunitaria.

Ma allora, cos’è veramente la comunità? Qual è la sua relazione con il più ampio insieme sociale di cui essa è parte? E infine, che tipo di legame esiste con lo Stato, che la comunità interpella (spesso polemicamen- te) in quanto interlocutore privilegiato?

Nel saggio di Preve questi interrogativi restano sullo sfondo, perché il focus argomentativo non vacil- la: solo nella comunità, prosegue infatti l’autore, il sin- golo sperimenta su di sé la perpetua fluttuazione tra senso di onnipotenza astratta e consapevolezza di con- creta impotenza, tra immortalità dell’anima e mortalità del corpo, tra libertà sconfinata del pensiero e reale ne- cessità di delimitare il suo campo d’azione. Dunque, la comunità sembra a Preve l’unico possibile “spazio” in cui si possa generare il rapporto tra individualità e molteplici- tà, l’unico luogo in cui si attui la mediazione concreta tra singolarità e universalità.

Che non si tratti di una mediazione indolore è tut- tavia chiarissimo fin dall’inizio:

L’individuo rimane il titolare indivisibile della resistenza spirituale al potere e alla manipolazione. Ma resta titolare pagando il prezzo della oscillazione fra onnipotenza astratta e impotenza concreta, del pendolarismo tra stravaganza e specialismo. Da questa impas- se nasce oggi il problema del comunitarismo (c.n.)2.

2 Ibid., p. 251.

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Il nostro corsivo intende enfatizzare una certezza dettata dall’evidenza empirica: in quanto “determina- zione” concreta tra singolarità e universalità, la media- zione auspicata nella comunità scaturisce da un proces- so non esente da contraddizioni, e forse merita di esse- re indagato con maggiore attenzione. La comunità, in- somma, si rivela essere non tanto la soluzione del pro- blema, quanto il problema stesso. E la cosa appare cer- tamente paradossale, se pensiamo ai numerosi appelli nostalgici rivolti alla “comunità perduta” che attraver- sano la più recente contemporaneità. Verrebbe da chiedersi se tali richiami siano legittimati da ponderato scavo semantico-concettuale o se invece si rivelino semplice espressione di un disinvolto bavardage co- municativo.

Non è il caso per ora di esprimere un giudizio in proposito, ma ci sembra opportuno riprendere, sia pur in estrema sintesi, i fili di un discorso già intrapreso su questi temi, muovendo dagli esiti di una precedente ri- cerca dedicata al concetto di comunità. Pensiamo infat- ti che le provvisorie conclusioni alle quali eravamo giunti in precedenza possano fungere da iniziale sup- porto euristico per un approfondimento e un amplia- mento dell’intero discorso.

1. Communitas: ordine del discorso e strategie di controllo

Il punto di avvio è costituito dalle riflessioni di Roberto Esposito che qui richiamiamo brevemente.

Attraverso un interessante capovolgimento delle convinzioni di senso comune, il filosofo ha infatti di- mostrato che gli individui che vivono in comunità sono uniti

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non da un ‘più’ ma da un ‘meno’, da una mancanza, da un limite che si configura come un onere, o addirittura una mo- dalità difettiva, per colui che ne è ‘affetto’, a differenza di colui che ne è, invece, ‘esente’ o ‘esentato’3.

Come ciò sia possibile è stato puntualmente spie- gato da Esposito attraverso il ricorso all’esame etimo- logico del lemma communitas. Le intuizioni di Émile Benveniste gli hanno offerto la base semantico-lessi- cale: il mūnus intorno al quale si costruisce ciò che è comune è il compito, il dovere di un gruppo di persone, non qualcosa che le accomuna intimamente4.

Ciò dimostra che le concezioni elaborate sul con- cetto di comunità hanno finora poggiato sul presuppo- sto inesatto che questa sia una “proprietà” dei soggetti, un “attributo” che li qualifica come appartenenti ad un determinato insieme di individui.

Ma quello che è “comune” non può essere quello che appartiene al singolo come “proprio”, a meno di non incorrere in una palese contraddizione logica. La trasformazione semantica, come si potrà osservare, è talmente evidente che Esposito parla di vera e propria

«distorsione» concettuale.

Si può senz’altro concordare con lui, ma crediamo anche che sia necessario un ulteriore rilancio interpreta- tivo: occorrerebbe infatti chiedersi perché tale distorsio- ne si sia verificata e come abbia potuto radicalizzarsi nel corso del tempo.

È evidente che le risposte possono essere molte.

Ma ci sembra non priva di fondamento l’ipotesi secon- do cui la forma comunitaria è sorta per l’esigenza di

“costruire legami” tra gli individui, procedendo attra-

3 R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi, 2006, p. XIII.

4 Cfr. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indo- europee. Economia, parentela, società, Torino, Einaudi, 1976, 2 voll.

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verso l’estensione dell’orizzonte di appartenenza affet- tiva dal nucleo ristretto della singola famiglia ad in- siemi sociali via via sempre più ampi.

Si può supporre, in altre parole, che proprio sulla constatazione di quella “mancanza” di cui parlava Esposito, di quella sostanziale estraneità emotiva tra gli individui si sia innestata la necessità di alimentare il nostos per una comunità che andava edificata. E che ad essa si sia contestualmente affiancata una deliberata volontà di appropriazione e manipolazione del lin- guaggio mirante a nutrire una sorta di “mitologia della comunità” funzionale al mantenimento della stessa.

Ciò sarebbe avvenuto all’interno di un “ordine del discorso”, per dirla con Michel Foucault, identificabile con la forma narrativa del mito. Di fronte al pericolo della dispersione delle relazioni umani, insomma, difficilmente gestibili nella loro imprevedibilità, la produzione del di- scorso mitologico della comunità agirebbe come terapia sociale di riaggregazione, ricompatterebbe la molteplicità degli individui in unità più controllabili e ne presentereb- be un’immagine idilliaca con la quale diventa quasi natu- rale identificarsi.

Come ricordava Foucault,

in ogni società la produzione del discorso è insieme control- lata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità5.

5 M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, Torino, Einaudi, 2004, pp. 4-5. Riguardo alla gestione eterodiretta delle “mas- se” (o delle moderne “società complesse”), può essere interessante un confronto con la società americana degli anni Sessanta, come quello proposto da D. Riesman, La folla solitaria, Bologna, il Mulino, 1999.

Per una fotografia ad altissima definizione della società italiana con- temporanea è invece sicuramente utilissimo il saggio di L. Ricolfi, La società signorile di massa, Milano, La nave di Teseo, 2019.

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Secondo questo modello argomentativo, dunque, l’affiorare del sostantivo comunità non sarebbe casua- le, ma in piena consonanza con l’assunto secondo il quale le parole sono sempre legate ad una particolare declinazione del potere6.

Non sappiamo se davvero la manipolazione del linguaggio e delle parole rappresenti la forma del nuo- vo totalitarismo7, ma è certamente risaputo che sono proprio i discorsi e le parole a consentire di governare i conflitti e determinare il controllo sociale di una collet- tività.

Oggi  ha sostenuto Pietro Barcellona  si può realizzare un dominio senza la necessità di usare nessun potere coercitivo ma- teriale: le nuove forme di servitù si fondano sulla riduzione al si- lenzio e sull’annichilimento dell’attitudine umana a creare espressioni e discorsi capaci di mettere in scena i propri bisogni, le proprie emozioni e i propri pensieri8.

Se Barcellona ha ragione, è assai probabile che l’uso ricorrente di vocaboli e sintagmi legati al concet- to di comunità siano parte di un programma sociale più ampio che si inserisce perfettamente nel «“campo di senso” in cui si svolge nella vita collettiva la lotta per l’affermazione della parola che dà la tonalità di un’e- poca»9.

E qui il pensiero non può non correre al foucaul- tiano concetto di «governamentalità», il cui costrutto argomentativo pare assai attinente al discorso che stiamo tentando di proporre. Cerchiamo di spiegarci

6 Cfr. P. Barcellona, ParolePotere. Il nuovo linguaggio del conflitto sociale, Roma, Castelvecchi, 2013.

7 Ibid., p. 42. Il riferimento è al volume di H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2019.

8 P. Barcellona, op. cit., pp. 42-43.

9 Ibid., p. 41

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meglio sintetizzando brevemente il senso delle intui- zioni del filosofo francese.

Con «governamentalità» Michel Foucault intende riferirsi a tre cose: all’«insieme costituito dalle istitu- zioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma molto speci- fica sebbene molto complessa di potere che ha per ber- saglio la popolazione»10; alla preminenza del governo (rispetto ad altri tipi di potere come la sovranità o la disciplina) che ha condotto alla creazione di «apparati specifici di governo» e ad un «insieme di saperi» ad esso relativi; e, infine, al processo attraverso cui lo Sta- to di giustizia, nato in una territorialità di tipo feudale, è diventato Stato amministrativo e poi Stato di governo vero e proprio11.

Ora, se sovrapponiamo questo schema ermeneuti- co alla descrizione delle tappe che hanno condotto alla creazione del mito della comunità, possiamo facilmen- te verificare che queste ultime coincidono con i primi due passaggi della proposta teorica di Foucault: la co- struzione, non raramente forzata, di comunità di appar- tenenza sociale può essere letta infatti come frutto di una tattica di controllo sulla popolazione; e la creazio- ne di un corposo mito della comunità può essere iden- tificabile come l’insieme di saperi creati appositamen- te ex-post per nutrire questo senso di appartenenza e tenere legati i componenti di un determinato insieme di individui.

Se non abbiamo interpretato male il saggio di Foucault, insomma, la comunità non è affatto quel- l’entità originaria che sancisce la «comune apparte-

10 M. Foucault, La “governamentalità”, in Poteri e strategie (a cura di P. Dalla Vigna), Milano, Mimesis, 2014, p. 65.

11 Cfr. Ibid., pp. 65-67.

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nenza soggettivamente sentita (affettiva o tradiziona- le), degli individui che ad essa partecipano»12; al con- trario, nulla esclude che essa possa essere considerata come lo strumento per l’organizzazione e il controllo sociale da parte di un sistema di governo.

2. La “comunità educante” tra mito e nostalgia A questo punto, la distorsione concettuale a cui opportunamente ha fatto riferimento Esposito dovreb- be apparire più chiara. Tra le cause che la determinano crediamo di poter isolare due elementi convergenti: la forte volontà di creazione del legame comunitario su base sociale e l’appropriazione linguistica di tale lega- me, sostenuto e propagandato sotto forma di mito.

Ancora una volta, c’è un’osservazione di Foucault che si rivela utile per procedere nella nostra analisi. In riferimento alle procedure di controllo del discorso e, in particolare, a quella definita come la “volontà di ve- rità”, egli afferma che questa

come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: […] è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia […], come il sistema dei libri, dell’editoria, delle biblioteche, come i circoli eruditi una volta, i laboratori oggi13.

Il riferimento alla pedagogia non è certamente sfuggito e crediamo non sia causale. Nella ricostruzio- ne del filosofo, in altri termini, anche la pedagogia si conferma come una pratica sociale di controllo, e ci sembra che questo assunto metta a fuoco la stretta

12 M. Weber, Economia e società. Comunità, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, vol. I, p. 38.

13 M. Foucault, L’ordine del discorso, cit. p. 9.

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connessione esistente tra “governamentalità” e mito comunitario.

Intendiamo dire che, forse, è lecito scorgere nel reciproco scambio di compiti tra educazione e politica una deliberata confusione di ruoli: la politica chiede all’educazione di sostituirsi ad essa per trasformare la società, le chiede cioè di adoperarsi per costruire una comunità educante che altro non si conferma essere se non una società “rinnovata” dall’educazione. Ma in questo progetto è contenuto un inganno: la politica, in- fatti, incapace di risolvere i problemi della società, chiede all’educazione di farlo al suo posto, ben sapen- do che ciò si rivelerà impossibile14.

Inoltre, essa insiste nell’invocare la costruzione di un modello di comunità che corrisponde alla proiezio- ne dei suoi bisogni e delle sue necessità immediate.

Non è consentito intravedere nulla di creativo o di tra- sformativo in questa operazione, anche perché la co- munità a cui si guarda appare perlopiù come la rievo- cazione nostalgica di un tempo già vissuto: il nostos, in definitiva, è un movimento chiuso, un itinerario di ri- torno nel punto esatto dal quale si è partiti.

Come in ogni epica che si rispetti, dunque, anche il mito comunitario risponde alla legge che vede l’in- dividuo agire all’interno di una cornice spazio-tempo- rale dalla quale non può allontanarsi. Il suo non è un viaggio di formazione, non è un’esperienza di transito scandita secondo le tappe simboliche di distacco- lacerazione, prove e riti di passaggio, trasformazione

14 L’osservazione, mi rendo conto, non è nuova. Ne aveva lun- gamente discusso, nei suoi scritti degli anni Settanta e Ottanta del se- colo scorso, A. Broccoli, facendo leva sull’identificazione di educa- zione e ideologia.

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e crescita interiore. Il viaggio di ritorno, insomma, termina nel punto esatto in cui è cominciato15.

In conclusione: si può credere che una comunità così tratteggiata sia “educante” in senso autentico? Se per educazione si intende questo iter di regressione verso un punto già definito in partenza, certamente sì. Ma siamo più propensi a credere che un’educazione siffatta rappre- senti una declinazione conclamata del conformismo edu- cativo in cui trionfa l’eteronomia del volere attraverso una sorta di “riappropriazione” del sapere, di “interioriz- zazione”  per ricorrere a Hegel  che ha solo il valore di

“ricordo” o di “reminiscenza”. In altre parole, ci sembra di essere di fronte ad una paideia chiusa in cui non si in- travede alcuno spazio per la creatività degli individui.

Ecco perché, in sostanza, il mito comunitario risulta infruttuoso sul piano pratico, benché utilissimo nell’o- rientare e manipolare intere parti del mondo sociale.

Naturalmente risulta legittimo, a questo punto, chiedersi da cosa scaturisca questa ideologia/mitologia comunitaria, e non dovrebbe essere difficile scorgerne la matrice di provenienza: il sentimento di rimpianto per qualcosa di perduto che agisce all’interno di un gruppo come catalizzatore di emozioni e individua in una specie di “nostalgia” condivisa lo strumento per rinsaldare il suo legame di appartenenza. Si tratta natu- ralmente di qualcosa di indistinto, ma che riesce tutta- via ad alimentare la coscienza di una frattura irrepara- bile tra un prima e un dopo, rinforzando la palpabile sensazione di aver “perso qualcosa”.

Ha sostenuto Jean-Luc Nancy che il concetto di comunità è ormai molto labile. L’unico modo per co- glierne il senso è quello di utilizzare un registro inter-

15 Cfr. A. van Gennep, I riti di passaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.

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pretativo di tipo emozionale, privilegiandone il solo versante “affettivo”:

La comunità perduta o infranta può essere esemplificata in infi- niti modi, con ogni genere di paradigma: famiglia naturale, pólis ateniese, repubblica romana, prima comunità cristiana, corpora- zioni, comuni, confraternite. Ogni volta, però, è in questione un’età perduta in cui la comunità tesseva legami forti, armoniosi e infrangibili, e soprattutto dava a se stessa nelle istituzioni, nei riti e nei simboli, la rappresentazione, anzi l’offerta vivente della sua unità, intimità e autonomia immanenti16.

E qui il circolo potrebbe chiudersi. La creazione del

“mito comunitario” sorge proprio da tale propensione storico-culturale. Del resto, l’inclinazione nostalgica della sensibilità occidentale è emersa più volte nel corso della storia, coagulandosi attorno al rimpianto per un’età del- l’oro smarrita per sempre. «La comunità potrebbe essere al tempo stesso il mito più antico dell’Occidente  osser- va ancora Nancy  e il pensiero, tipicamente moderno, di una partecipazione dell’uomo alla vita divina»17.

Ipotesi assai suggestiva, naturalmente, che non può che confermare la conclusione a cui, per altri versi, giunge Esposito: che si tratti sempre della «dialettica di perdita e di ritrovamento […] che lega tutte le filosofie della comunità a una mitologia dell’origine»18.

3. Crisi della dialettica e crisi della mediazione Proprio questo ci pare il punto centrale del discorso.

Il mito è dunque espressione della dialettica di contrap-

16 J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, Napoli, Cronopio, 2013, pp. 33-34.

17 Ibid., p. 35.

18 R. Esposito, op. cit., p. XXV.

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poste figure della coscienza che cercano la loro concilia- zione. Ma l’Aufhebung hegeliana, il superamento rag- giunto attraverso il movimento di negazione e conser- vazione, appare oggi impossibile perché la crisi e lo spaesamento del soggetto della contemporaneità sono speculari all’attuale debolezza epistemologica della dia- lettica di scissione e ricomposizione nell’intero “effettua- le” di hegeliana memoria.

Esposito parla di «perdita e ritrovamento», di

«alienazione e riappropriazione». In altre parole, della condizione dell’individuo postmoderno che oscilla tra due opposti in cerca di un improbabile superamento dialettico.

La dialettica, ha affermato Remo Bodei, «è prero- gativa di un pensiero che non teme più di soccombere dinanzi alle contraddizioni e che anzi è diventato così maturo da utilizzarle per il suo avanzare»19. Ma i tempi sono mutati, la contemporaneità ha restituito al sogget- to un’immagine di sé assai più fragile e frammentata, e la dialettica «ha dovuto assumere vesti teoriche sempre più dimesse e rinunciare a molte sicurezze. Si è tinta di negatività e utopia, ha preso su di sé l’incertezza del futuro e delle sue promesse, ha tentato di collegarsi  a distanza  con la dimensione religiosa»20. Si è trasfor- mata, insomma, rinunciando alla certezza della sicura

«riconciliazione» in favore di una più sfumata accetta- zione del «disordine» e della «dissipazione», proba- bilmente in favore della «consumazione non “superabi- le” di concetti e valori»21.

19 R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, To- rino, Einaudi, 2016, p. 372.

20 Ibid., p. 393.

21 Ibid., p. 395.

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Ma perché questo riferimento alla dialettica? Per- ché, fin dagli albori della riflessione mitologico-filo- sofica, essa ha rappresentato un modo per tentare di ri- solvere il problema del rapporto Uno-Molti, vale a dire per pensare la questione del modo in cui trovare una mediazione tra singolo e comunità di appartenenza22.

Basti pensare a Platone. È forse nell’Apologia di Socrate che il dissidio tra singolarità e molteplicità si pone con urgenza e drammaticità, sia da un punto di vista politico che teoretico.

La questione è nota. La vicenda del processo e della morte di Socrate costringe Platone a chiedersi come possa uno Stato che si proclama “giusto” con- dannare un uomo di specchiata moralità come il suo maestro. Osserva al riguardo Mario Vegetti che

c’era in primo luogo da maturare fino in fondo la consapevo- lezza di una crisi, e questo comportava anche una revisione dell’esperienza socratica. La crisi investiva la concezione dell’anima, della città, dei loro rapporti23.

La morte di Socrate, pertanto, costringe Platone a confrontarsi sin dall’inizio con la contraddizione del rapporto tra unità e molteplicità e a prendere

le mosse da una constatazione e dalla esperienza del conflitto:

un mondo della sensazione, dei dati, del patire, dell’opinione, dell’incompetenza, della corporeità (molteplice e dispersiva) e,

22 «Il tutto e le parti. L’uno e il molteplice, l’universale e il particolare, l’intero e le sue articolazioni. Non è problema nuovo per il pensiero. La filosofia ne ha fatto oggetto di riflessione fin dal suo costituirsi, fin dal suo determinarsi come filo-sofia. Ma sarebbe più esatto dire che essa lo ha ereditato dalla precedente sophia, l’antica sapienza che, traverso il mito, mirava a catturare le ragioni segrete del molteplice, animato o inanimato, nel cuore stesso del suo generarsi dall’Uno», F.

Mattei, Soggetto e sistema in educazione. Ricordando la lezione di S. De Giacinto in Id., Sfibrata paideia, Roma, Anicia, 2009, p. 143.

23 M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 113.

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perciò, della morte, da un lato; e, dall’altro lato, esperienza di sé come attività giudicante, capace di dominare, di assumere com- petenza, come vita: morte-vita, dunque24.

Com’è noto, l’esito della vicenda socratica non è stato positivo per il filosofo, e a seguito di ciò Platone si convince che occorra trovare una “strada filosofica”

per sanare i contrasti della polis.

L’iter della sua teorizzazione è fin troppo noto per riprenderlo in questa sede, ma varrà forse la pena ri- cordare, almeno in via incidentale, che tale percorso coincide proprio con lo sviluppo, non privo di contrad- dizioni, dell’idea di dialettica: dall’arte del dialogare dei primi dialoghi socratici alla scienza della dialettica degli scritti della maturità; dalla confutazione attraver- so la continua posizione di domande, alla definizione delle essenze per fornire le definitive risposte. Dal- l’elenchos alla diaresis, insomma, per giungere, talvol- ta, a lasciar parlare solo la spiazzante problematicità di una conclusione aporetica.

È evidente, come ha sostenuto Gabriele Giannan- toni, che è possibile

misurare tutta la distanza che […] separa il “dialogare” di So- crate dalla “dialettica” di Platone: il “dialogare” non è più il supremo dovere morale e il massimo bene, ma si avvia a tra- sformarsi in un sapere, anzi nella forma più alta del sapere, che solo pochi, particolarmente dotati, arrivano a possedere25.

Insomma, la dialettica muta forma: dalla ricerca del consenso iniziale tra i partecipanti alla discussione per il progressivo (e mai del tutto garantito) avvicina- mento alla verità, essa si trasforma nella comunicazio-

24 F. Adorno, Introduzione a Platone, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 62.

25 G. Giannantoni, Il dialogare socratico e la genesi della dialet- tica platonica, in P. Di Giovanni (a cura di), Platone e la dialettica, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 24.

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ne/condivisione di una verità iniziale su cui costruire il consensodell’intera comunità dialogica.

L’elaborazione della Teoria delle idee offre infine a Platone il supporto necessario per tentare di prendere le distanze dalla tragicità dell’umana condizione e stemperare sul piano logico l’urto derivante dalle con- traddizioni della storia. Il che, tradotto in termini pla- tonici, significa rintracciare la forma che rende possibi- le pronunciare giudizi dotati di fondamento.

Ecco dunque la trasposizione del contrasto politi- co sul piano filosofico, che certamente non elude lo scontro tra unità e molteplicità, ma lo attraversa cer- cando di dislocarlo sul terreno della razionalità.

L’inquietudine, tuttavia, non abbandonerà del tut- to il filosofo, impegnato a trovare un punto di incontro, o di partecipazione, tra mondo delle idee e realtà mate- riali, tra mortalità dei corpi e immortalità delle anime.

E nello spazio di intersezione tra i due mondi sembra avvertirsi «l’esperienza della presenza di una mancanza, cioè della mancanza di ciò che dovrebbe essere»26.

Non è difficile scorgere, a questo punto, il prende- re forma di un vagheggiamento ben preciso, quello di una diversa koinonìa, (che in Platone è Stato più che comunità di uguali), che si alimenta della dialettica di presenza e assenza e dà avvio ad una mitologia di cui ci sembra di aver già intravisto la fisionomia. C’è in- fatti, in proposito, una considerazione di Francesco Adorno che merita di essere riportata per la spiccata conformità con i temi trattati in precedenza:

I due termini (non due mondi separati) vivono in una sola tensione nel filosofo, appunto tale in quanto amore, cioè in quanto consapevolezza di un mondo qual è (disordinato, in-

26 Ibid., p. 50.

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giusto, disperante) ed esperienza di sé come ragione, come possibilità di giudizio e di dominio, e perciò come desiderio di un mondo che non c’è, ma può essere: miticamente come amore e ricerca di un mondo perduto (c.n.)27.

Opposizione e contraddizione che non trovano una mediazione nella esperienza concreta, ma hanno biso- gno di una via d’uscita extra-storica: laddove non rie- sce il logos, insomma, arriva la narrazione mitologica, che scioglie i conflitti e promette la riconciliazione dell’intera “comunità” rinnovata.

Va forse ricordato, tornando al Socrate del- l’Apologia, che il filosofo non vive fuori dalla polis, ma all’interno di una città (da poco nuovamente demo- cratica, dopo l’esperienza di governo dei Trenta Tiran- ni) che lo lascia libero di metterne in discussione i va- lori. Dunque, egli sperimenta tragicamente su di sé la lacerazione di essere, allo stesso tempo, singolarità e molteplicità, mentre vive all’interno di un gruppo so- ciale di cui intende modificare i costumi.

Ciò conferma, per usare ancora una considerazio- ne di Costanzo Preve, che la comunità custodisce in sé un’ambivalenza strutturale: si tiene in vita grazie al contributo dei suoi partecipanti e tuttavia, proprio a causa di ciò, rischia l’estinzione: l’idea di comunità contiene infatti in sé «il libero individuo pensante, e spesso pensante contro la maggioranza dei membri della sua stessa comunità»28.

Questa ci pare dunque una specularità non più tra- scurabile: la difficoltà della dialettica e la difficoltà della mediazione, a cui corrisponde, come crediamo ora più evidente, la profonda fragilità dell’idea di co- munità. Non risulta fuori luogo, allora, riprendere

27 Ibidem.

28 C. Preve, op. cit., p. 9.

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l’avvertimento di Esposito, quando ribadisce l’oppor- tunità di tenere a mente la natura contraddittoria di ogni comunità: «Bisogna sempre tenere presente que- sto doppio volto della communitas: essa è contempora- neamente la più adeguata, anzi l’unica, dimensione dell’animale ‘uomo’, ma anche la sua deriva poten- zialmente dissolutiva»29.

La qual cosa, anche se per altre vie, finisce per confermare ciò che è stato costretto a riconoscere an- che Costanzo Preve quando tesseva l’elogio del comu- nitarismo: che proprio in ciò consiste il problema della comunità e del comunitarismo.

4. Fragilità della comunità

Eppure, se esiste una “fatica” della mediazione, una difficoltà nel tenere insieme l’unità e la molteplici- tà, ci sembra che questa sia la stessa della società e dello Stato. È la relazione che si determina come im- pegnativa, sempre e comunque, soprattutto nella nostra complessa contemporaneità.

Questo per dire che, se concordiamo sul fatto che il punto focale del discorso sia l’agire interpersonale, non ci appare del tutto chiaro come possa la comunità aggirare l’ostacolo della difficoltà della mediazione, facendo quadrare i conti. E la nostra perplessità do- vrebbe essere ancora più giustificata, se si considera la lucidissima analisi che della forma comunitaria ha proposto Roberto Esposito. L’esito del suo ragiona- mento, ancora una volta, sembra togliere ogni dubbio:

29 R. Esposito, op. cit., p. XV.

(19)

Il niente non è, insomma, la condizione o l’esito della comu- nità  il presupposto che la libera alla sua ‘vera’ possibilità ˗ bensì il suo unico modo di essere […]. Ciò vuol dire sempli- cemente che essa non è un ente. Né un soggetto collettivo, né un insieme di soggetti. Ma è la relazione (c.n.) che non li fa essere più tali  soggetti individuali  perché interrompe la loro identità con una barra che li attraversa alterandoli30.

Naturalmente, di questa relazione come “limite”

tra soggettività diverse è facile percepire tutta la ric- chezza e la problematicità, se è vero che «la comunità non è l’inter dell’esse, ma l’esse come inter»31. Il che vuol dire che l’essere in comune è un “rapporto”, non un “ente”, ed è dotato di senso solo in quanto si con- ferma come quel legame relazionale tra gli individui che può trasformare la singolarità e la specificità di questi ultimi in qualcosa di altro, in qualcosa di situato in relazione e perciò di diverso.

La conclusione, a questo punto, dovrebbe essere quasi ovvia: la comunità produce una «perdita di proprio che non perviene mai a un sommarsi in un ‘bene’ comu- ne: comune è solo la mancanza, non il possesso, la pro- prietà»32. E ciò a conferma del fatto che la communitas, nonostante la diffusa mitologia che la circonda, non ha la capacità di produrre comunione. Essa, al contrario, co- stringe il singolo a cedere qualcosa di sé, a definire in modo diverso i suoi contorni identitari, che si dimostrano sempre aperti allo scambio relazionale con l’altro.

Non sarà sfuggito l’esito nichilista del discorso di Esposito, il quale, sulla linea di Heidegger e di Batail- le, ribadisce che quello di comunità si rivela essere un concetto strutturalmente ancipite, teso com’è sul crina- le che separa e congiunge i due possibili estremi di

30 R. Esposito, op. cit., p. 149.

31 Ibid., p. 150.

32 Ibidem.

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ogni relazionalità. Ma si tratta, a nostro avviso, di un nichilismo mitigato dalla categoria predicativa della possibilità, che il filosofo lascia agire a conclusione del suo ragionamento, lasciando sopravvivere entrambi i corni dell’opposizione argomentativa: «È questo niente in comune che è il mondo ad accomunarci nella condi- zione di esposizione alla più dura assenza di senso e contemporaneamente all’apertura di un senso ancora impensato»33.

Un senso nuovo dunque è possibile, lascia sperare Esposito. D’altronde, se l’uomo è animale politico, come unanimemente convenuto, la dimensione rela- zionale della socialità umana è un’occorrenza impossi- bile da evitare. Che la si voglia chiamare communitas (in riferimento al luogo che meglio sembra garantire la sicurezza di chi, al suo interno, condivide gli stessi ideali fondativi), oppure societas (intendendo con ciò la più ampia aggregazione di individui che interagi- scono al fine di perseguire obiettivi “comuni”), il di- scorso non cambia: sempre si tratta di fare i conti con l’alterità, con l’alter che diventa socius, magari nella mediazione della sintesi concreta della società, come avrebbe detto Gentile.

Il socio  scriveva infatti il filosofo di Castelvetrano  è l’oggetto del nostro soggetto, cioè il nostro oggetto, che per essere nostro cessa di essere cosa, e diventa un altro; e pro- priamente l’altro, ossia il nostro altro, che come tale è il no- stro socio, e concorre in noi, con noi, a quella società che è insita all’Io trascendentale; e ben può dirsi perciò società trascendentale34.

33 Ibid., p. 162.

34 G. Gentile, Genesi e struttura della società, in E. Severino (a cura di), L’attualismo, Milano, Bompiani, 2014, p. 1282.

(21)

L’individuo isolato, insomma, non è una fattispe- cie concreta e possibile, giacché «prima di questa so- cietà trascendentale non è concepibile uomo che non sia astratto oggetto immediato»35.

Com’è noto, la tensione del «nesso dialettico» tra alter e ipse è risolta da Gentile in modo del tutto per- sonale, approdando alla teorizzazione piena della so- cietà in «interiore homine» in cui l’astratto individuo è riassorbito nel rapporto dinamico tra Io e Noi.

Se volessimo introdurre un ulteriore elemento di riflessione, potremmo aggiungere, con Simone Weil, che la verità e la bellezza – che abitano l’ambito di senso del “sacro” – non risiedono né nell’individuale né nel collettivo, ma nell’impersonale, dimensione di perfezione umana percepibile solo nella condizione di solitudine36. E si sarà certamente avvertito che il tema affiorante in superficie si colloca ben oltre la semplici- stica dicotomia tra individualismo e collettivismo.

La posizione di Simone Weil è ancora più radicale nella sua assoluta originalità teoretica: entrambe le vi- sioni politiche, infatti, sono parziali e limitate, perché allo stesso modo incapaci di attingere alla inviolabile dimensione sacralizzante, impersonale e perfetta degli esseri umani37.

35 Ibid., p. 1286. Tesi che, in anni più recenti, sembra ribadita con qualche corrispondenza di contenuti da un autore come Norbert Elias, il quale descrive la natura dell’«intreccio sociale» tra «Io» e

«Noi» e sottolinea il fatto che la «struttura e qualità formale del con- trollo comportamentale di un individuo dipendono dalla struttura dei rapporti interumani», N. Elias, La società degli individui, Bologna, il Mulino, 1990, p. 76.

36 Cfr. S. Weil, La persona e il sacro, Milano, Adelphi, 2012.

37 «La verità e la bellezza abitano questo ambito delle cose imperso- nali e anonime. Ed è questo ambito ad essere sacro […]. Gli uomini in collettività non hanno accesso all’impersonale», ibid., pp. 19-20.

(22)

Resta dunque il fondo costante dell’indagare: con quali conflitti e riconciliazioni le numerose occasioni di incontro-scontro tra Io e Noi possono essere di volta in volta risolte, preservando la libertà e la dignità dell’uno e degli altri?

Quello della mediazione, a nostro avviso, continua a confermarsi il tassello centrale per ricomporre il mo- saico della relazionalità umana e per questo riteniamo che il baricentro argomentativo vada riposizionato. In- tendiamo dire che la fluttuazione continua tra i due poli d’indagine qui presi in considerazione, la comunità e la società, non consente di uscire dall’impasse della di- versa attribuzione di responsabilità: la società non fun- ziona perché non funziona la comunità, oppure è vero il contrario?

Il che significa che l’infruttuosa opposizione dia- dica tra comunità e società può avere termine solo se si mette in costellazione teoretica anche un altro elemen- to di analisi, quello dello Stato.

Detto altrimenti, non si può escludere che sia pro- prio a causa dell’innegabile debolezza di quest’ultimo che hanno trovato spazio le numerose teorie comunita- rie che affollano la scena contemporanea. Il vuoto la- sciato dallo spazio politico, in definitiva, sembra aver assottigliato la possibilità di gestione comune della po- lis, rendendo necessario trovare altri canali di parteci- pazione alla cosa pubblica. Con la conseguenza che la comunità, più vicina alle necessità del territorio e all’identità di un più contenuto gruppo umano, sembra rispondere meglio alle richieste degli individui che sentono di farne parte. E la cosa riguarda non solo chi possiede scarsa considerazione per l’efficacia della po- litica, ma anche (e forse soprattutto) chi di quest’ul-

(23)

tima avverte maggiormente la necessità, e quindi ne patisce la mancanza38.

Se questo è vero, però, non dovrebbe essere diffi- cile intravedere i rischi di tale delimitazione di confini.

Il lessico “comunitario” ci pare rivelatore, fondato com’è su un apparato linguistico che si avvale di voca- boli insidiosi come identità, radici, territorio. Come avverte opportunamente Bauman,

il fondere reali fragilità e debolezze individuali nella forza (immaginaria) della comunità produce un’ideologia conser- vatrice e un atteggiamento esclusivista. Il conservatorismo (“il tornare alle origini”) e l’esclusivismo (“loro” in quanto collettività rappresentano una minaccia per “noi” in quanto collettività) sono indispensabili, se il mondo deve diventare carne e ossa, se la comunità immaginata deve sviluppare la rete di dipendenze necessaria a farla diventare reale39.

Il che vuol dire che, per conclamata eterogenesi dei fini, l’idea di comunità finisce per produrre effetti opposti a quelli che crede di realizzare: ad esempio, scatenare la guerra tra comunità diverse i cui interessi territoriali e le cui radici identitarie possono non rara- mente confliggere tra loro.

Quali vie d’uscita, allora, si possono indicare per sfuggire alle “tentazioni” comunitarie? Non sapremmo proporre ricette né suggerire soluzioni, ma nutriamo il dubbio che la fragilità della politica abbia un ruolo non

38 Non sembra dello stesso avviso Giacomo Marramao, il quale sostiene che l’origine dei “neocomunitari” sia più socio-culturale che politica: «La battaglia dei “neocomunitari” ha infatti un segno socio- culturale prima ancora che direttamente politico. E per questo minac- cia di attecchire in gruppi etnici e strati della popolazione tradizional- mente indifferenti alle vicende della politique politicienne», in G.

Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 66.

39 Z. Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2001, p.

98.

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marginale nell’attuale disorientamento socio-esistenziale degli individui e che spinga a cercare sicurezza in sistemi associativi sempre più piccoli e controllabili come le co- munità territoriali.

Né sembra poter costituire un’alternativa valida l’invito a ricorrere a macrocategorie generaliste. Evo- care l’humanitas, nel tentativo di far orientare lo sguardo oltre i particolarismi delle piccole comunità, non garantisce il riparo dai mali che si vorrebbe tenere lontani. Occorre forse trovare un nuovo linguaggio, se è vero che persino l’idea di umanità si può leggere come categoria «polemogena», secondo quanto ha os- servato di recente Giacomo Marramao:

Anche  e forse segnatamente  nelle sue espressioni cultu- ralmente più dignitose e filosoficamente più elevate l’idea europea di humanitas reca in sé dei dispositivi di inclusio- ne/esclusione, le cui finalità chiamano in causa tanto deter- minate gerarchie di valori e concezioni dell’ordine, quanto caratteristiche declinazioni e “curvature” dell’universalismo politico-giuridico40.

Forse proprio all’interno di questo universalismo legislativo si sta aprendo una faglia che separa sempre più le leggi e l’autorità degli Stati dall’umano che mol- ti vogliono preservare. Ma se il problema è certamente anche filosofico, non possiamo dimenticare che esso ha un carattere politico che non dovrebbe essere tra- scurato. Ecco perché non possiamo che concordare con un’affermazione di Bauman dal tono particolarmente

40 G. Marramao, Per un nuovo Rinascimento, Roma, Castelvecchi, 2020, p. 28. Sullo stesso tema riteniamo utile il rinvio a M. Bettini, Radici.

Tradizioni, identità, memoria, Bologna, il Mulino, 2016. Per una rilettura filosofica e retorico-filologica dell’Umanesimo e dell’Humanismus gu- glielmino, del quale è certamente nota la missione educativa, si può con- sultare M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Torino, Einaudi, 2019.

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parenetico, ma chiarissima ed illuminante. A lui cre- diamo sia opportuno lasciare le battute conclusive:

Evidentemente è imperativa un’azione coordinata e concerta- ta, il cui nome è politica; la promozione di una nuova etica per la nuova era – di cui c’è una tremenda necessità – può essere affrontata solo come problema e compito politico. Il vuoto lasciato dal ripiegamento dello stato-nazione viene colmato dalle sedicenti comunità neotribali, postulate o im- maginate: e se non è riempito da queste rimane un vuoto po- litico, fittamente popolato da individui disorientati dal fra- casso di rumori contraddittori che danno tanto margine alla violenza e poche o nessuna opportunità all’argomentazione41.

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41 Z. Bauman, La società individualizzata, Bologna, il Mulino, 2001, p. 121.

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