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THE DAMAGE FROM THE DEATH OF A RELATIVE IL DANNO DA MORTE

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TAGETE 4-2008 Year XIV

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THE DAMAGE FROM THE DEATH OF A RELATIVE IL DANNO DA MORTE

Avv. Rodolfo Berti*

ABSTRACT

The damage from the loss of the life, so called “thanatological damage”. Usually the court have considered the existence of a “thanatological damage” only for a person who suffered heavy pains for a considerable amount of time from the illegal event and the death. In this particular case the person is entitled to the damage and when he died the right is transferred to his relatives. On the other hand the Costitutional Court III division, with the pronunciation n 15760/2006 considered that the person who die from an illegal event is entitled to the damage of loss of the life right (a sort of existential damage) even if he die immediately after the event.

The Constitutional Court in united divisions is expected to a clarifying pronunciation.

Key words: thanatological damage, loss of the life right, transferable right.

Negli ultimi tempi si è ricominciato a parlare del c.d. “danno da morte” anche se diversamente denominato “danno tanatologico” tanto che il quesito della sua sussistenza è stato sottoposto alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza interlocutoria del 25/02/08 n. 4712 assieme all’altro quesito sul danno esistenziale.

* Foro di Ancona

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2 Sembrava che il problema fosse stato risolto dalla giurisprudenza che aveva definitivamente escluso l’esistenza di tale danno trasmissibile agli eredi iure haereditario se non limitatamente al danno effettivamente patito dal de cuius nell’apprezzabile periodo di sopravvivenza intercorso tra l’evento lesivo e il conseguente decesso.

“Nell’ipotesi di evento mortale, causato da un incidente stradale, il danno alla salute (c.d. danno biologico), risolvendosi in un effettivo ed apprezzabile pregiudizio del godimento della vita e, cioè nella menomazione delle attività in cui si realizza la persona umana e si manifesta l’efficienza psicofisica del soggetto, presuppone che la vittima resti viva per un tempo apprezzabile posteriore al sinistro. Solo, in tal caso, invero, l’infortunato subisce, in ordine a tale periodo di tempo, un’effettiva ed apprezzabile compromissione del diritto alla salute, ed il relativo diritto risarcitorio si trasmette agli eredi. Ove, invece, il decesso segua l’incidente immediatamente o dopo un tempo di durata non apprezzabile (nella specie sette gironi), non sussistono danno alla salute inteso nel senso anzidetto né il conseguente diritto al risarcimento, trasmissibile agli eredi”.

Questo è il principio giurisprudenziale per il quale oggi è esclusa la sussistenza del danno che il deceduto avrebbe subito in conseguenza del suo decesso avvenuto nell’immediatezza dell’evento lesivo, ma la particolarità è che a pronunciarlo fu il

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3 Tribunale di Ancona nel 1991 (Trib. Ancona 24/05/1991 n. 201 in Riv. Giur. Circ. e Trasp., 1992, 312).

Vi voglio raccontare un divertente aneddoto.

Commentai quella sentenza in una conferenza tenuta ad Ancona nel 1991 e la mia relazione venne pubblicata dalla “Rivista Circolazione e Trasporti”.

Sostenni che il danno biologico da morte era stato inventato da Gennaro Giannini, di cui tutti ricordiamo la grandezza, che quindi ne era il padre, mentre il nonno era Carnelutti il quale aveva sostenuto lo stesso principio benché relativamente al danno morale, allora unico danno non patrimoniale.

La Cassazione di allora però gli diede torto (Cass. 22/12/1925 in Giur. It. 1925, I, 1, 224).

Qualche anno dopo, Giovanni Cannavò mi presentò Gennaro Giannini il quale mi disse subito: “Guarda che io non sono figlio di Carnelutti!”: la sagacia e l’ironia del grande Giannini mi colpirono immediatamente e soprattutto fu motivo di orgoglio il fatto che avesse letto e, come poi mi disse, apprezzato il mio scritto.

Ma tornando all’argomento credo che per meglio comprenderne la portata sia necessario richiamarci appunto a quei tempi quando sul finire degli anni ’80, dopo che la Corte Costituzionale nel 1986 aveva coniato il danno biologico, quale danno evento

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4 che si manifesta immediatamente con la lesione illecita, si aprirono due diversi schieramenti interpretativi, l’uno appunto capeggiato da Giannini e l’altro da Pogliani.

Sosteneva il primo che, precedendo la lesione anche se di un solo attimo infinitesimale il conseguente decesso, perché il coltello prima apre la cute e poi spacca il cuore, sarebbe maturata immediatamente e subito il diritto al risarcimento del danno che, quale posta attiva di credito, entrava a far parte del patrimonio del deceduto trasmissibile ai suoi eredi.

Si diceva anche che, avendo la lesione soppresso con la morte interamente la salute, il danno doveva essere rapportato al 100% della totale incapacità psicofisica.

Di contro si affermava che in quel breve attimo di tempo non si poteva ritenere concretizzato alcun danno posto che non vi era stato alcun patimento apprezzabile il che non consentiva la conversione monetaria dell’equivalente risarcitorio e poiché si trattava di un danno relativo al decesso, tutti i diritti con la morte si estinguono e quindi alcun danno per essere morto sussiste in capo al deceduto mentre i suoi congiunti sono titolari del danno patrimoniale e non patrimoniale iure proprio subiti.

E’ anche vero che a quel tempo ancora non era definitivamente risolto il problema del danno dei prossimi congiunti del deceduto in quanto allora ancora non definitivamente ritenuti vittime dirette dell’evento lesivo e quindi titolari di un autonomo diritto risarcitorio.

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5 Il conflitto fu piuttosto esteso ed addirittura i duellanti si rivolsero virtualmente ad un eminente giurista, Giustiniano, per “una garbata disputa autorevolmente diretta, sul danno biologico da morte” in (Dir. e Prat. nell’Ass., Giuffrè 1989, 361).

È divertente leggere quello scritto perché si comprende la suggestività dell’argomento e anche gli aspetti filosofici, religiosi e giuridici che il problema comportava.

Però la Corte Costituzionale con la sentenza 27/10/1994 n. 372, intervenne a risolvere la questione dal momento che sovvertì la enunciazione del danno biologico quale

“evento” di danno, così come enunciato da essa stessa con la sentenza 184 del 1986, definendolo “danno-conseguenza” in quanto dipendente dall’evento lesivo e quindi dalla lesione dell’integrità psicofisica della persona con la conseguenza che non si potè più affermare che la lesione di per sé stessa comportava il danno e dunque il diritto al risarcimento.

Tutti i danni sono conseguenza di una lesione: il danno non patrimoniale è conseguenza della lesione della salute e quello patrimoniale della lesione reddituale, ma poiché si tratta di conseguenze devono, nei limiti e nei modi dell’art. 1223 c.c., essere dimostrati.

Dunque se il decesso è avvenuto nell’immediatezza dell’evento lesivo, nessun danno è stato subito dal deceduto perché non ha avvertito i patimenti e le sofferenze indotte dalla lesione stessa.

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6 Se invece il decesso è intervenuto dopo un congruo lasso di tempo dall’evento lesivo e ne è conseguenza diretta, il danno che il leso ha subito nel periodo di sopravvivenza non può essere liquidato come un danno biologico permanente dal momento che la malattia indotta dalla lesione si è protratta per un tempo determinato senza migliorare in guarigione o evolversi in una patologia permanente con la conseguenza che, essendo il danno liquidabile proporzionalmente ai patimenti e alle privazioni indotte dalla lesione, il quantum è condizionato dalla durata, sicché patire permanentemente i postumi limitativi di una lesione comporta una grande differenza che patire temporaneamente le sofferenze indotte da quella lesione sicché si tratta di un danno di natura temporanea.

Si radicò quindi in tal senso una giurisprudenza che però venne contrastata da alcune interpretazioni dottrinarie e giurisprudenziali che, al fine di evitare il problema della intrasmissibilità di un diritto inesistente, introdussero il concetto del “danno da perdita del diritto alla vita” detto anche “tanatologico”.

Secondo tali fonti la lesione mortale è “causa dans”della lesione al bene della vita, bene costituzionalmente protetto dall’art. 2 di più vasta applicazione rispetto alla tutela della salute e, richiamando le norme costituzionali ed europee, per esempio la deliberazione del Consiglio d’Europa 75/07, si afferma l’esistenza di un “danno catastrofico” per chi ha subito lesioni mortali che lo condurranno, anche dopo poche ore di sopravvivenza, alla morte.

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7 Si tratterebbe dunque di una sorta di “sofferenza esistenziale” patita da un soggetto che lucidamente attende l’estinzione della propria vita, danno dunque di matrice psichica che la psichiatria nord americana nella scala DSM riconosce negli eventi psicosociali stressanti di 6° livello, cioè quello stesso danno che è patito dalle vittime secondarie che assistono al decadimento delle funzioni vitali del proprio congiunto.

Tale posta attiva risarcitoria dunque entra nel patrimonio trasferibile iure ereditario del deceduto (Cass. Civ. Sez. III 02/04/01 n. 4783).

Si è sostenuto altresì che essendo la vita il bene massimo dell’individuo, la sua soppressione deve trovare adeguata tutela risarcitoria che non può essere rappresentata attraverso la fictio iuris del risarcimento del danno iure proprio dei prossimi congiunti in quanto irrisarcita rimarrebbe la conseguenza della gravissima lesione del bene vita del de cuius.

Si è peraltro argomentato che, ragionando in tal modo, si finirebbe per richiamare nell’ambito di un concetto punitivo il risarcimento del danno, concetto escluso dal nostro ordinamento civile, essendo punita invece la soppressione della vita per fatto colposo od intenzionale di terzi dall’ordinamento penale.

La Corte di Cassazione è intervenuta con la sentenza 7632 del 16/05/03 a risolvere il problema affermando: “Infatti come questa Corte ha più volte rilevato in tema di danno biologico, richiesta iure herditatis, ma il discorso è identico per la richiesta di danno da

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8 perdita del diritto alla vita, detto anche danno tanatologico, la lesione dell’integrità fisica con esito letale, intervenuto immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo, non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi, non rilevando in contrario la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile sono in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere” .

Si tratta della conferma di un principio già più volte enunciato dalla stessa Cassazione con le sentenze 2134 del 2000, 1704 del 1997, 491 del 1999, 8970 del 1998 e soprattutto dalla stessa Consulta con la già richiamata sentenza 372 del 1994 e successivamente ribadito da Cass. 3766/03; 3260/07; 21976/07.

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9 Dunque secondo la Suprema Corte il danno da morte sostanzialmente diverrebbe danno da “lesione terminale” in quanto risarcibile solo relativamente e proporzionalmente ai patimenti e privazioni che la lesione ha causato nel periodo di sopravvivenza.

Il problema però si limitava all’ambito del quantum risarcitorio perché è evidente che il trattamento non può essere uguale tra chi è sopravvissuto per soli due mesi alle lesioni, soffrendo atrocemente e soprattutto avvertendo l’avvicinarsi della fine, e chi per lo stesso periodo ha sofferto la malattia evoluta in guarigione clinica o in una patologia permanente ma che comunque, pur affliggendolo per sempre, lo ha lasciato in vita.

Si tratta dunque di rendere congruo il danno temporaneo tenendo conto delle conseguenze patite dal leso, se era in stato di lucidità o di totale incoscienza, e soprattutto della durata della sopravvivenza.

Per brevità di tempo mi limiterò a dire che il principio sembrava ormai acquisito pacificamente, anche se qualche tentativo di aggirare il problema c’è stato come per esempio con la sentenza 15760 del 12/7/2006 con la quale la III Civile della Cassazione, pur non potendo entrare nel merito della questione per mancanza di un motivo specifico di impugnazione, lo fa con un “obiter sistematico” relativamente alla trasmissibilità del danno patito dal de cuius per la “perdita delle integrità e delle speranze di vita biologica, in relazione alla lesione del diritto inviolabile della vita tutelato dall’art. 2 Cost. e ora anche dall’art. II-62 della Costituzione Europea”.

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10 Afferma in quel discorso incidentale la Cassazione che “la tutela civile del diritto fondamentale alla vita consente il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente come corrispettivo del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata od immediata. La certezza della morte, secondo le leggi nazionali ed europee è a prova scientifica, ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule. La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni: la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche il danno da morte, come danno ingiusto da illecito, è trasferibile mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante ed i suoi solidali”.

Appare quindi evidente lo sforzo ermeneutico di questa sentenza che, attraverso un’errata visione scientifica della morte cerebrale, vuol introdurre il principio della lesione del diritto alla vita quale danno non patrimoniale-esistenziale proprio perché si richiama ai principio sovranazionali e alla Costituzione Europea che, appunto, tutela il diritto alla vita.

Però, nonostante questi tentativi di fuga dal consolidato principio, la Cassazione è restata sostanzialmente unanime nel ribadire i concetti già espressi in tema di lesione

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11 terminale (Cass. Civ. Sez. III, 14/2/2007 n. 3260; Cass. Civ. Sez. III, 19/10/2007 n.

21976).

E sul filone della esistenza del danno esistenziale in capo al deceduto per fatto illecito di terzi, è in qualche modo anche la sentenza del Tribunale di Palermo del 04/07/07 sul caso Borsellino.

Per la verità, pur negando, in quel caso di specie, la sussistenza di tale danno patito dal Giudice Borsellino e trasmissibile ai suoi eredi, tuttavia, in modo peraltro un po’ confuso e giuridicamente non condivisibile, il Giudice di Palermo più che affrontare il problema, lo sfiora.

Il Giudice Borsellino, all’indomani della strage di Capaci nella quale l’amico Giovanni Falcone, la moglie e la scorta erano stati trucidati dalla mafia, sapendo perfettamente che il prossimo sarebbe stato lui, per salvaguardare la propria famiglia, si allontanò riducendosi a vivere in un bunker segreto, solo con la sua scorta.

Nell’agire contro il Fondo di Garanzia per le Vittime di mafia, i suoi familiare chiedevano non solo il risarcimento dei propri danni patrimoniali e non patrimoniali, ma anche il risarcimento del danno non patrimoniale-esistenziale subito dallo stesso Giudice Falcone per quel periodo di grande sofferenza, preoccupazione ed ansia passato lontano dalla sua famiglia, il che costituiva quella profonda modificazione del modo di vivere la vita, equivalente al “non facere” caratterizzante il danno esistenziale.

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12 Il Tribunale di Palermo, confondendo principi invece pacifici, ha ritenuto che questo danno, essendo lo stesso chiesto iure proprio e per gli stessi motivi dai congiunti che avevano anch’essi sofferto per l’allontanamento coatto del Giudice, riconobbe solo a loro tale danno ma non quello loro spettante iure haereditario perché, secondo il giudicante, vi sarebbe stata una duplicazione.

Anche se inconsciamente quel giudice, comunque, ha in qualche modo riconosciuto la possibilità che in capo al deceduto istantaneo si possa maturare un danno esistenziale per perdita della vita, danno che però non era stato richiesto.

Quindi per una certa corrente giurisprudenziale il cd. “danno da morte” viene riesumato come uno zombie trasfigurato in danno da perdita della vita e dell’esistenza, bene protetto dall’ordinamento nazionale e sovranazionale.

La conferma che il problema è attuale e che quindi, anche se con una sopradica giurisprudenza, potrebbe sorgere conflitto, la si ha dalla ordinanza interlocutoria del 25/2/2008 n. 4712 con la quale la III Sezione Civile della Cassazione ha invocato le Sezioni Unite oltre che sul dissidio interpretativo del danno esistenziale come danno tutelato dal nostro ordinamento, anche sul danno tanatologico.

Al punto 7 della motivazione dei quesiti nomofilattici, la Sezione rinviante chiede “Quid iuris, ancora, in ordine a quella peculiare categoria di danno cd. “tanatologico” (o da morte immediata), la cui risarcibilità è stata costantemente esclusa dalla giurisprudenza

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13 tanto costituzionale quanto di legittimità, ma che pare aver ricevuto un primo, espresso riconoscimento, sia pur a livello di mero obiter dictum, con la sentenza n. 15760 del 2006 della III sezione di questa corte?”.

L’esclusivo richiamo all’unica sentenza 15760 del 2006, pare ben poco per sostenere il conflitto che le Sezioni Unite dovrebbero risolvere, tuttavia ciò fa comprendere il tentativo di portare il discorso dal danno da morte, definitivamente cassato dalla Suprema Corte, su quello del diritto all’esistenza.

Credo che una breve riflessione sia necessaria.

I fautori del danno esistenziale sostengono che la matrice genetica sia la salute, come bene costituzionalmente protetto dall’art. 32 Cost. in quanto rientra nel concetto di salute non solo quelle fisica o psichica ma anche quella di una vita serena, realizzativa delle proprie speranze, con la conseguenza che il danno esiste non solo per la lesione della integrità psicofisica, ma anche per la lesione della serenità.

Poiché la massima lesione della serenità e il massimo pregiudizio alle aspettative di realizzazione di vita, è la morte per fatto altrui, è evidente che a prescindere dall’immediatezza o meno del decesso, la violazione dell’art. 32 Cost. comporti il conseguente risarcimento del danno.

Mi permetto di dire la mia: i richiami alla Costituzione Europea che tutela la vita e quelli alla nostra Costituzione che la tutelerebbe con l’art. 2, a mio sommesso parere, non

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14 hanno alcun rilievo dal momento che come ha già detto la Cassazione, il bene della vita è già tutelato dal nostro ordinamento da quello penale con gli artt. 575 e 589, e da quello civile , ai fini risarcitori, dall’art. 2059, sicché non vi è alcuna violazione di norme primarie.

Secondariamente se vi è tutela della vita, si tratta di una tutela anticipatoria ovverosia che nessuno può essere ucciso né tanto meno giustiziato (abolizione della pena di morte), ma che presuppone l’esistenza in vita, ma da qui a sostenere che nel momento stesso del decesso continuino a permanere in una vita virtuale dei diritti, o meglio si maturino virtualmente dei diritti è, prima che giuridicamente, filosoficamente e moralmente inammissibile.

Con la vita termina qualsiasi diritto e qualsiasi dovere, e solo quelli in precedenza maturati si trasferiscono in capo agli eredi.

Essendo il danno una conseguenza della lesione, il risarcimento è ammissibile solo in quanto sussista un danno che sia stato patito dalla vittima durante la sua esistenza.

I fautori del danno tanatologico pretenderebbero invece che nell’istantaneo momento del decesso si concretizzi un danno che non è stato patito in precedenza.

Se così fosse si risolverebbe il tutto in una sorta di inammissibile tutela risarcitoria anticipatoria di un danno che non si è ancora sofferto e che non verrà mai sofferto.

Fiduciosi attenderemo comunque il responso delle Sezioni Unite.

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