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IL DANNO BIOLOGICO DA MORTE Il nuovo intervento della Consulta: esiste ancora un danno evento? di Raffaele D’Amora

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IL DANNO BIOLOGICO DA MORTE

Il nuovo intervento della Consulta: esiste ancora un danno evento?

di

Raffaele D’Amora*

Se il riconoscimento del risarcimento del danno per violazione del diritto alla salute appare ormai una acquisita conquista di civiltà giuridica per il caso di semplice lesione, al contrario, l'estensione della tutela costituzionale di tale diritto al caso di morte del leso appare di ben più complessa e travagliata configurazione ed ha originato soluzioni giurisprudenziali, oltre che dottrinarie, di segno opposto (la giurisprudenza in senso contrario al riconoscimento del diritto va dal Tribunale di Milano 7 gennaio 1988 al Tribunale di Ancona 24 maggio 1991, fino al Tribunale di Firenze 12 gennaio 1993; per la S.C.: Cassazione civile 20 dicembre 1988, n. 6938. In senso favorevole si citano: Corte appello Roma 4 giugno 1992, Tribunale Roma 20 gennaio 1993, Tribunale Treviso 26 marzo 1992, Tribunale Treviso 5 marzo 1992, Tribunale Treviso 5 maggio 1992, Tribunale Firenze 18 novembre 1991, Tribunale Napoli 6 febbraio 1991, Tribunale Milano 4 giugno 1990).

Quella stessa "anarchia da dopo principio" che ha caratterizzato l'intera materia della responsabilità civile non poteva, infatti, lasciare indenne il santuario dei diritti della persona:

quello alla vita; è o non è risarcibile il danno da morte e, se lo è, come?

Il Tribunale di Firenze, al fine non troppo celato (e, in certa misura, frustrato) di conseguire un definitivo elemento di chiarezza, ha sollevato, in quanto ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione dell'art. 2043 c.c. nella parte in cui non consentirebbe il risarcimento del danno per violazione del diritto alla vita ed, in via subordinata e per gli stessi motivi, quella dell'art. 2059 c.c.

(cfr. Tribunale di Firenze, I sez. civile, 10 novembre 1993 n. 2879: in Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, anno 1994: Foro it. 1994, I, 1954; Giur. it. 1994. 1. 2, 81 Resp. Civ. Prev. 1994,122; Corriere Giuridico n. 1/1994).

La Consulta con sentenza 24-27 ottobre 1994 n. 372 ha dichiarato non fondata la sollevata questione.

* Magistrato, Firenze

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Volendo in breve sintetizzare gli effetti di tale pronuncia sul piano pratico, deve subito osservarsi che, mentre ogni possibilità di risarcimento del danno c.d. biologico conseguente la morte del congiunto deve essere esclusa ove prospettata iure successionis, almeno quando non vi é stato un apprezzabile intervallo di tempo fra lesione e decesso, non così è ove il danno venga prospettato iure proprio.

Sotto questo diverso profilo (ritenuto maggiormente plausibile nella stessa ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale), la chiusura della Consulta é più apparente che reale: se ne nega la risarcibilità in quanto tale, cioè come autonoma voce di danno (alla salute o biologico) ma non se ne esclude affatto la configurabilità sotto il profilo del danno morale.

A prescindere, dunque, dalla collocazione sistematica (per altro non priva di pratica rilevanza), resta che il danno alla integrità psicofisica del parente sopravvissuto appare positivamente riconosciuto come coerente col nostro ordinamento giuridico, solo che ne esistano i presupposti di fatto.

Si tratta, secondo la costruzione giuridica della Corte, di un diverso ed eventuale aspetto del danno morale e, come tale, ulteriormente risarcibile posto che sarebbe irrazionale quella decisione che, fondandosi su una interpretazione restrittiva dell'art. 2059 c.c., «nelle conseguenze dello shock psichico patito dal familiare discerna ciò che è soltanto danno morale soggettivo da ciò che incide sulla salute, per ammettere al risarcimento solo il primo».

Dunque, anche il secondo (danno alla salute subito iure proprio dal congiunto) deve essere ammesso al risarcimento quale «momento terminale di un processo patologico originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo» solo che esso, alla luce della particolare situazione soggettiva del leso, non si esaurisca in una situazione transeunte di dolore o di angoscia, ma determini un trauma fisico o psichico permanente con dirette conseguenze apprezzabili sul piano della perdita di qualità personali.

Una tale costruzione (al di là dell'assetto teorico differente: danno alla salute risarcibile non in sé, ma come aspetto ulteriore del danno morale, secondo la prospettazione della Consulta) appariva contenuta nella stessa ordinanza con la quale il Tribunale di Firenze aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, posto che in essa si rilevava come il dolore soggettivo (per quanto intenso possa essere) è tendenzialmente transitorio, "ma anche quando il tempo ne ha fatto giustizia resta, in presenza di fatti altamente traumatizzanti, lo status di alterazione delle facoltà vitali e realizzattive del soggetto e ciò anche al di là della consapevolezza che questi possa o non possa averne".

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Rilevava altresì il Collegio che proprio una siffatta configurazione del danno in oggetto (come dovuto iure proprio) appariva non solo di più agevole costruzione (risolvendo in radice il problema relativo alla trasmissibilità del diritto personalissimo, sia pure sotto il profilo del diritto al suo risarcimento), ma anche più plausibile e generalmente accettabile nelle sue conseguenze concrete, in quanto, una volta sganciata la titolarità del diritto dalla mera qualità di erede, assume rilevanza la posizione di stretto congiunto e ciò si traduce in una riduzione delle ipotesi risarcitorie sia sul piano delle teoriche eventualità (posto che, al contrario dello stretto congiunto, un erede, eventualmente lo Stato, esiste pur sempre), sia su quello dei concreti accadimenti, stante la conseguente necessità di individuare rispetto quali soggetti il danno si sia effettivamente verificato ed in quale misura: per questa via resta, infatti, aperta la questione relativa alla prova diretta della sussistenza del danno ovvero (in una diversa prospettiva) alla prova contraria della insussistenza del medesimo, allorché l’esclusione si legittimi ragionevolmente alla luce degli effettivi rapporti intercorsi fra il soggetto astrattamente titolare del diritto e quello deceduto, rapporti che in ipotesi potrebbero essere assai diversi rispetto a quelli in generale ipotizzabili in riferimento ai legami parentali.

Una prospettazione, dunque, dotata di effetto tranquillizzante per tutti coloro che, come di solito avviene ogni volta in cui appaia all'orizzonte un nuova frontiera nella scoperta del non del tutto esplorato continente del risarcimento del danno, levano alte grida d’allarme su dighe e argini di contenimento del flusso risarcitorio, che si paventano travolti e abbattuti: di tali preoccupazioni si é data carico forse al di là del prevedibile e dell'auspicabile, la Consulta con la sentenza n.

372/1994.

Resta, comunque, che da qui in avanti non sarà più possibile la negazione in astratto, per ragioni meramente teoriche, di un ulteriore possibile aspetto risarcitorio in capo allo stretto congiunto quale effetto di una alterazione della pregressa integrità psicosomatica in conseguenza della morte del parente: si tratterà di affermarlo o negarlo in concreto alla luce, cioè, degli elementi probatori processualmente acquisiti, ma é certo che più difficilmente ricorrerà quella abnorme situazione per la quale, comportando fino ad ora il danno da morte (almeno secondo diffuse prassi giudiziarie) un risarcimento nella sostanza economicamente equivalente a quello di una lesione modesta della integrità psicosomatica, il soggetto civilmente responsabile possa nutrire un concreto interesse a che il soggetto gravemente leso deceda.

Se questo è il dato positivo del nuovo intervento della Corte, una disamina più puntuale della pronuncia non può non evidenziare notevoli perplessità sul piano teorico e su quello degli effetti pratici; perplessità che non attengono tanto all'accoglimento della soluzione intermedia (danno

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iure proprio positivamente provato), quanto alle modalità anguste e riduttive nell'ambito delle quali é avvenuto il riconoscimento e alle ragioni interpretative con le quali la Consulta si é sbarazzata della soluzione positiva estrema (danno iure successionis sempre dovuto).

Tutto l'iter argomentativo della sentenza si fonda su una sostanziale negazione (al di là della formale affermazione di principio) del danno alla salute quale danno evento (momento interno alla fattispecie dell'illecito e, come tale, costitutivo dell'illecito stesso al pari del comportamento lesivo e del nesso causale), dunque quale danno autonomamente risarcibile, a prescindere dalle eventuali conseguenze.

Se danno in senso proprio é danno risarcibile (eventualmente in via equitativa ex art. 1226 c.c.), un danno che sia invece risarcibile solo alla stregua delle sue conseguenze ex art. 1223 c.c.

(norma tipicamente attinente al danno patrimoniale) si risolve tout court in un danno conseguenza:

quale sarebbe infatti, sul piano teorico e pratico, la differenza fra un danno esistente e risarcibile come conseguenza dell'illecito ed un danno esistente prima ed a prescindere dalle sue conseguenze, ma risarcibile solo in vista delle stesse (se vi sono e nella misura in cui vi sono?).

Poco comprensibile appare la distinzione fra fatto illecito lesivo della salute (prova in re ipsa della esistenza del danno) ed effettiva diminuzione o privazione di un valore personale (prova della entità del danno), posto che la lesione della salute che si realizza attraverso il fatto lesivo menomativo della preesistente integrità psicosomatica costituisce per definizione perdita o riduzione di un valore personale (non patrimoniale).

Né sembra davvero che possa esistere, come forse parrebbe lecito desumere dalla sentenza in esame un quid tertium fra comportamento e lesione/menomazione e cioè una lesione ("fatto illecito lesivo della salute") priva di menomazione ("prova della entità del danno") che in astratto potrebbe anche mancare: dunque, una lesione della integrità psicofisica costituente danno (fatto illecito lesivo della salute come prova in re ipsa della esistenza del danno, secondo le testuali parole della Corte), ancorché danno non risarcibile, nemmeno in via equitativa ("E' sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita..." )

Seppure, come sostiene la Corte costituzionale 372/1994, debba farsi i conti col limite strutturale della responsabilità civile afferente sia all'oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, sia alla liquidazione del danno, che non può riferirsi se non a perdite, ebbene questo doppio limite non appare di ostacolo alcuno allorché si discuta di lesione della integrità psicosomatica (unico limite appare la prova della lesione stessa cioè della perdita dei valori personali costituenti l'integrità).

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Se si distingue, come devesi, l'atto lesivo (come comportamento generatore dell'illecito) dalla lesione della integrità psicosomatica (complessivamente considerata), non vi è dubbio che nella lesione/menomazione appare ricompresa la perdita delle qualità personali del soggetto leso che, anzi, costituiscono esse stesse la lesione.

Diversamente ragionando si risolve la lesione risarcibile nelle sue diverse conseguenze (di norma patrimoniali, quali la riduzione della capacità produttiva) dando al danno alla salute una oggettiva caratterizzazione patrimonialistica ovvero non si distingue il danno fisiologico (es: una frattura, cioè il fatto naturalistico lesivo della integrità) dalla lesione del bene salute, che non è conseguenza di quello, ma la sua proiezione in termini risarcitori, in quanto identificabile come violazione del bene giuridico primario tutelato dall'art. 32 Cost., offeso dal fatto realizzativo della menomazione della integrità fisica del soggetto: "la lesione del bene giuridico salute é l'intrinseca antigiuridicità obiettiva del danno alla salute o fisiologico: essa appartiene ad una dimensione valutativa, distinta da quella naturalistica, alla quale fanno riferimento le locuzioni «danno biologico» e «danno fisiologico»" (Corte Cost. 30 giugno 1986 n. 184, Foro it. 1986, I, 2053).

Differenza di dimensione valutativa, dunque, che é cosa diversa dal ritenere che il primo costituisca danno evento (non solo evento) di per sé non risarcibile e la seconda una differenza peggiorativa (ex art. 1223 c.c.) come tale risarcibile.

Nella sua elaborazione dell'istituto la S.C. ha ribadito essere ormai un “risultato acquisito” che la tutela del diritto alla salute, costituzionalmente riconosciuto e garantito quale diritto dell'uomo alla sua integrità fisiopsichica, nel momento della menomazione di tale integrità, si risolve nel risarcimento del danno biologico ovvero nella "riparazione della menomazione arrecata a quel diritto, per il solo fatto della esistenza della menomazione stessa causata dal comportamento altrui doloso o colposo, indipendentemente dall'esistenza di un danno patrimoniale e/o di un danno morale subiettivo, anche essi risarcibili, rispettivamente, ai sensi dell'art. 2056 c.c., che richiama l'art. 1223 c.c., ed ai sensi e nei limiti di cui all'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 c.p." (cfr.

Cassazione civile, sezione III, 11 novembre 1986, n. 6607, Foro it. 1987, 1, 833).

In conclusione, il fatto illecito è proprio la lesione, cioè la menomazione o perdita della preesistente integrità psicosomatica, non già il comportamento lesivo che la determinerà come sua conseguenza, meglio: il fatto illecito è l'uno e l'altra uniti da un nesso di causalità, che altrimenti la lesione della salute cesserebbe di essere evento interno all'illecito e, dunque, secondo la nota costruzione della sentenza 184/1986 della Corte costituzionale, danno evento.

Del resto, che la sentenza 372/94 non abbia voluto "rettamente intendere" il proprio notissimo precedente, ma ne abbia inteso mutare le fondamenta é apparso subito evidente alla dottrina che

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non ha mancato di sottolineare "l'affermazione (sia pure non resa esplicita fino in fondo) secondo cui, in difformità della sentenza Dell'Andro del 1986, il danno alla salute si configura come danno- conseguenza del fatto illecito e non certo come un danno evento" (così G. Ponzanelli, “La Corte costituzionale e il danno da morte”, Foro it., 1994, I, 3297 e così, in modo altrettanto chiaro, Francesco Donato Busnelli, in Giust. civ., fascicolo I, 1995, secondo il quale autore non di reinterpretazione si tratta, ma di un "sostanziale - anche se non proclamato - revirement").

Dunque, è tutto il complesso impianto teorico della sentenza 184/1986, che pure ha costituito in questi anni imprescindibile punto di riferimento in materia di liquidazione del danno alla persona, che rischia di saltare. Vera la nuova interpretazione della Consulta, non basterebbe più l'accertamento effettuato a mezzo di C.T.U. medico legale della esistenza di una determinata lesione della integrità psicosomatica del soggetto leso: ciò costituirebbe il danno, ma non ancora il danno risarcibile, questo non potendo prescindere dalla prova ulteriore di una successiva perdita di valori personali (quali?) di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c. (il cui riferimento a danni patrimoniali è per altro noto).

Tutto ciò non potrebbe tradursi sul piano pratico che nella negazione del danno alla salute di per sé considerato (e della sua autonoma risarcibilità) e nella conseguente risarcibilità delle sole conseguenze dello stesso quali il danno morale e il danno patrimoniale, questa volta presunto secondo gli arcaici schemi liquidatori, che si credeva del tutto archiviati: le nuove frontiere del danno alla persona rischiano irrimediabilmente di confondersi con quelle che, forse con troppo ottimismo, eravamo certi di esserci lasciate alle spalle.

Non é chi non veda quale ritorno al passato determinerebbe una applicazione a tutta la materia del danno alla persona della costruzione elaborata dalla Corte costituzionale con la sentenza 372/1994, il cui diverso respiro rispetto alle precedenti pronunce in argomento della medesima Corte non può non sottolinearsi.

Osservazioni sulla prospettazione del danno biologico da morte dovuto iure hereditario

Quanto prima rilevato sotto il profilo generale deve essere replicato in relazione al primo tema di esame condotto dalla Consulta, in quanto l'affermazione relativa alla necessità di conseguenze ex art. 1223 c.c. non ravvisabili nella presente materia, costituisce il nocciolo della motivazione della Consulta in ordine allo specifico punto, essendosi ritenuto, per le esposte ragioni,

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insussistente la prova della esistenza di un danno risarcibile e, dunque, non superato il secondo limite strutturale della responsabilità civile.

Quanto al resto, i pur condivisibili rilievi critici mossi alla ordinanza del Tribunale di Firenze nel punto in cui ipotizza la morte quale massima lesione possibile della salute, per il fatto che così argomentando si sposta l'evento morte dagli elementi costitutivi del fatto illecito e, di fatto, lo si annovera fra i danni conseguenza, non sembrano tali da dare risposta esaustiva alla intera questione posta. Sotto un primo profilo, non può tacersi che la costruzione della tutela iure hereditario sotto il profilo del danno alla salute si espone davvero a possibile critica in considerazione della espunzione dal fatto illecito del momento qualificante costituito dall'evento morte, ma ciò a patto di conferire poi autonoma rilevanza quale fatto illecito risarcibile proprio a quell'evento: operazione esattamente contraria a quella posta in essere dalla Consulta.

Ma, in ogni caso, deve rilevarsi come la criticata argomentazione era solo diretta a contestare il carattere decisivo della opposta e diffusa obiezione secondo la quale il defunto non gode più di una salute da tutelare ("di danno alla salute in caso di morte del leso non può ragionevolmente parlarsi posto che tale evento sopprime in radice il diritto prima ancora che se ne possa configurare la lesione"): un’obiezione che circoscrive la soluzione del problema al ristretto ambito della tutela del diritto alla salute all'interno del quale non troverebbe cittadinanza quello alla vita e che, di fatto, esclude (proprio essa) che il danno da morte, di per sé considerato, possa assurgere alla dignità di danno evento.

Se davvero così fosse, si replicava che il danno ingiusto risarcibile sarebbe pur sempre quello determinato dalla lesione (mortale) della integrità psicosomatica e, solo in questa ristretta visione, la morte diverrebbe (danno) conseguenza.

Ma tutto ciò (ovvero il risarcimento per il danno conseguente la lesione mortale e non anche la morte: così Tribunale Monza 3 luglio 1989, Foro it., Rep. 1990, voce Danni Civili, n. 143) solo per il caso che il diritto alla vita non fosse autonomamente risarcibile in quanto tale, caso chiaramente non creduto nella ordinanza remittente ove si legge:

“non si vede come in astratto possa non apparire degno di integrare una posizione giuridica meritevole di tutela, e la cui violazione sia idonea a determinare effetti risarcitori in quanto tale, cioè a prescindere dalle conseguenze possibili, ma solo eventuali (non solo per quanto attiene al danno patrimoniale, ma altresì per quanto attiene al danno morale, stante la norma di cui all'art.

2059 c.c.). il diritto alla vita che, al contrario, rispetto alla persona umana, si configura come diritto sommo, che tutti gli altri riassume e condiziona.

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Sarebbe irragionevole ipotizzare che l'evoluzione della responsabilità civile alla luce di una lettura costituzionale della stessa debba arretrare proprio sulla soglia di uno dei principi cardine fra quelli protetti dalla Carta costituzionale, laddove, invece, essa sarebbe ragionevolmente chiamata a manifestare il massimo rado della sua teorica possibilità di espansione ed operatività.

Affermare, come pure si è fatto, che al diritto alla salute resta estraneo quello alla vita, perché il primo presuppone che il soggetto leso pur sempre vi sia (gode di salute, più o meno compromessa, solo chi vive e la salute sarebbe solo ed esclusivamente un modo di essere della vita), laddove la eventuale rilevanza risarcitoria della lesione del secondo presuppone che il soggetto non sia più, costituisce, a parere del Collegio, affermazione banale a fronte della drammatica rilevanza del problema in oggetto, ma soprattutto considerazione irrilevante.

Rilevante sarebbe solo l'affermazione (ove sostenibile) che il diritto alla vita non trova riconoscimento nella Carta costituzionale (ma invece solo nel codice penale, come anche si è sostenuto), ma essendo ovviamente vero il contrario poco conta che la norma di riferimento sia l'art. 32 Cost. ovvero l'art. 2 Cost. o il combinato disposto di entrambe le norme. In ciascuno di questi casi, resta che il diritto alla vita viene a costituire non già solo oggetto di un riferimento programmatico da parte della Costituzione, ma diviene posizione soggettiva idonea ad essere tutelata nell'ambito dei rapporti interprivatistici, per la violazione in quanto tale (danno evento) di un bene giuridico primario offeso dal fatto realizzativo della morte del soggetto, che si risolve nella totale soppressione della sua integrità psicofisica: la lesione del bene giuridico vita è l'intrinseca antigiuridicità obiettiva del danno".

Non a caso la questione di legittimità costituzionale è stata, anche formalmente, sollevata in relazione alla possibilità di risarcimento della lesione del diritto alla vita e non del diritto alla salute in caso di morte del leso: si chiedeva di sapere se il sistema della responsabilità civile vigente consenta di annoverare fra i danni ingiusti autonomamente risarcibili quello alla vita, inteso come diritto primario, costituzionalmente garantito ed inerente alla persona umana non diversamente da quelli alla integrità psicosomatica, alla reputazione, alla riservatezza, alla libertà sessuale, alla identità personale, ecc., (come, per altro, espressamente affermato, in un obiter dictum, da Cassazione civile, sezione III, 1 11 novembre 1986, n. 6607, Foro it. 1987, 1, 833) e sotto questo profilo non pare che la Consulta abbia dato risposte esplicite, posto che tutta la motivazione di cui alle sezioni 2.1 e 2.2 delle considerazioni in diritto della sentenza appare incentrata sul solo danno alla salute, seppure esaminato per l’ipotesi di “lesione all’integrità fisica immediatamente letale”.

Dunque, un sorprendente silenzio sul punto fondamentale proposto alla attenzione e al giudizio della Consulta, che pure aveva colto come nella prospettazione del giudice fiorentino “la lesione

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dell’integrità fisica con esito mortale non può considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute in senso proprio” (cfr. sezione 1 delle considerazioni in diritto). Un silenzio sul punto fondamentale proposto alla attenzione e al giudizio della Consulta, che, forse legittimerebbe la riproposizione della questione.

Per implicito, tuttavia, non sembra dubbio che la risposta sia da considerarsi negativa anche in riferimento al più generale e primario profilo di cui sopra, attesa la già evidenziata interpretazione (rectius:: negazione) della nozione di danno evento fatta propria dalla Corte e del richiamo ritenuto imprescindibile alla dimostrazione di perdite del tipo di quelle indicate dall’art. 1223 c.c.

(a fronte della quale, nel quadro dell’impianto generale assunto nella sentenza, non pare assumere significativo rilievo in senso contrario il rapido accenno alla nota applicabilità, per giurisprudenza della Corte di Cassazione, dell’art. 2043 c.c. per analogia iuris: forse una dichiarazione della volontà di non tagliare tutti i ponti alle proprie spalle e nulla di più).

Infatti, se, anche quando si tratti di danno evento, esiste un doppio limite strutturale della responsabilità civile, quello afferente all’oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, e quello relativo alla liquidazione del danno, che non può riferirsi se non a perdite, allora dovrebbe arguirsi dal silenzio della Consulta che nel caso di morte del soggetto leso si determina “solo” la perdita della posizione giuridica soggettiva (diritto alla vita) e, dunque, il superamento del primo limite, ma non anche il superamento del secondo, attinente alla possibilità di liquidare il danno, e ciò per assenza di perdite riferibili all’archetipo dell’art. 1223 c.c.: danno ingiusto sì, danno risarcibile no!

E ciò sia detto anche se ancora meno comprensibile apparirebbe il riferimento alla necessità di conseguenze ex art. 1223 c.c. ove si tratti non di risarcire un danno costituito dalla lesione del bene salute (diminuzione della pregressa integrità psicofisica), ma da un danno costituito dalla soppressione del diritto alla vita.

Quand’anche si convenga sulla esistenza, pure in subiecta materia, del limite strutturale della responsabilità civile consistente nell'essere oggetto del risarcimento la perdita susseguente (art.

1223 c.c.) la lesione di una situazione giuridica soggettiva e non quest'ultima in quanto tale, non potrà almeno dubitarsi che la morte costituisca per definizione perdita totale e definitiva di ogni qualità personale riferibile alla posizione giuridica tutelata (vita): che altro vi sarebbe da provare se non l'evento naturalistico della morte stessa per ritenere altresì provata in modo assoluto e definitivo quella "privazione di valori della persona inerenti al bene protetto" che, pur nell'ottica della Corte, costituisce presupposto sufficiente per la tutela risarcitoria?

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In definitiva, la soppressione del diritto alla vita costituisce danno evento se mai altri ve ne furono: esso è per definizione danno evento, danno rispetto al quale sarebbe vana ed incongrua la ricerca di qualsivoglia perdita successiva e consequenziale del tipo di quelle previste dall'art. 1223 c.c. (i danni patrimoniali e morali subiti eventualmente dai congiunti costituiscono danni riflessi o di rimbalzo).

Una chiara esclusione della risarcibilità di questo danno si legittimerebbe solo in virtù della affermazione che il diritto alla vita non trova cittadinanza nella Carta costituzionale (ma solo nel codice penale), che altrimenti appare impensabile che esso non abbia a poter transitare attraverso quella clausola generale, "in bianco", costituita dall'art. 2043 c.c., nella sua lettura costituzionale che la stessa giurisprudenza della Consulta ha da tempo (o forse meglio dovremmo dire: "un tempo") indicato.

Come che sia, oltre che dal silenzio sulla esplicita domanda posta nella ordinanza di rimessione, l'atteggiamento di implicita chiusura della Consulta e il fondamento della stessa appare disvelato dal richiamo alla pronuncia delle Sezioni unite della Corte Di Cassazione Del Regno n. 3475 del 22 dicembre l925 (Foro it. 1926, I, 828), richiamo invero singolare facendo esso temere che quasi 70 anni di contributi giurisprudenziali e dottrinari siano passati invano.

Certo è che se il referente giuridico non può essere diverso da quello costituito dalla

giurisprudenza del 1925, sia pure della S.C., dovremo limitarci a constatare mestamente che anche per il diritto vigente e vivente resta assorbente e definitiva l’osservazione secondo la quale,

“quando noi siamo la morte non è ancora, quando la morte è noi non siamo più".

Si legge, infatti, nella antica pronuncia che "intanto è possibile l'esperimento iure hereditatis di una azione di danni dipendenti dalla morte di una persona, in quanto il diritto al risarcimento fosse acquisito già da costei, nel momento del decesso. Ma se tali danni, in quanto derivanti dalla morte, non possono non essere a questa successivi, è evidentemente assurda la concezione, di un soggetto originario di diritto che più non esisteva quando i medesimi si verificarono ".

Soluzione ineccepibile solo che si dimentichi, tanto per sintetizzare, le pronunce della Corte costituzionale n. 88 del 26 luglio 1979 e n. 184 del 30 giugno 1986, nonché quelle molteplici della Corte di cassazione degli anni 1980/1990 a partire dalla sentenza n. 3675 del 6 giugno 1981, Foro it. 1981, I, 1884.

In definitiva, solo che si dimentichi la moderna, ancorché non sempre amata in dottrina, costruzione della immediata (a prescindere cioè dalle possibili conseguenze) risarcibilità della lesione del complessivo valore della persona, in quanto bene tutelato non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto primario ed assoluto dell'individuo,

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pienamente operante anche nei rapporti interprivatistici: una costruzione di là da venire allorché si pronunciarono le Sezioni unite della Corte Di Cassazione Del Regno nel lontano 22 dicembre 1925.

Come era di là da venire l'affermazione (Corte costituzionale 184/1986) che l'evento naturalistico che determina la lesione di siffatti diritti primari ed assoluti, che trovano il proprio referente direttamente nella norma costituzionale, costituisce evento interno del fatto illecito legato da un nesso di causalità all'altra componente interna del fatto (il comportamento) ed altresì, ma solo eventualmente, all'altra componente esterna (danno patrimoniale e danno morale).

Inutile osservare che, alla luce di tali diverse e successive teorizzazioni, é nel momento stesso della morte (non successivamente ad essa) che si determina il danno ingiusto risarcibile: poiché l'evento morte costituisce elemento costitutivo ("interno") dell'illecito, quando questo si realizza il soggetto leso è ancora e, dunque, il diritto al risarcimento può entrare nel suo patrimonio non essendosi estinta la sua "capacità di acquistare".

Come si vede, uno sguardo decisamente volto all'indietro quello di Corte costituzionale 372/1994.

Certo è che, alla luce di tale pronuncia, di risarcimento del danno da morte iure hereditario non sarebbe più il caso di parlare, almeno inteso come diritto risarcitorio per la soppressione del diritto alla vita.

Al contrario, per quanto attiene all'intervallo di tempo (sempre teoricamente ipotizzabile) fra lesione e decesso, a diverse conclusioni sembra condurre se non la lettera della pronuncia, quantomeno l'impostazione teorica della Consulta e lo stesso richiamo alla Corte di Cassazione Del Regno n. 3475/1925, secondo la quale, poiché fra la morte e la lesione stessa "deve pur sempre intercedere un intervallo di tempo che, pur quanto minimo fino all'attimo, è sufficiente a che, durante il suo corso, il lesionato acquisti il diritto ai danni derivanti dalla lesione ....

imperocché, se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quando e fin quando il medesimo sia in vita", ne deriva che è "rispetto ad essi che gli eredi possono agire iure hereditatis".

Certo, la Corte di Cassazione del 1925 non poteva ipotizzare che fra tali danni rientrasse quello consistente nella lesione del diritto alla salute di per sé considerato, così come l'ordinamento attuale lo intende, ma poiché esso è oggi acquisita conquista di civiltà giuridica, ne deriva che financo in applicazione di antichi principi il giudice potrà liquidare (specie quando fra lesione e morte vi sia stato un apprezzabile intervallo di tempo) tale tipo di danno (danno alla salute o biologico) in una misura che sia congrua rispetto alla gravità della lesione (poi manifestatasi come

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mortale): danno il cui risarcimento è entrato come diritto nel patrimonio del leso prima della sua morte e come tale appare certamente trasmissibile agli eredi.

Una considerazione sembra legittima a questo punto: è singolare come tale conclusione, che pure sembra discendere in modo diretto dalla motivazione di Corte costituzionale 372/94 (e dal richiamo giurisprudenziale in essa contenuto) coincida perfettamente con quella costruzione ipotizzata (sia pure come limitata ed accessoria rispetto a quella prioritaria, relativa alla lesione al diritto alla vita in quanto tale) dalla ordinanza del Tribunale di Firenze e considerata come inaccoglibile e paradossale dalla Consulta.

Una costruzione, ed è quel che più conta, che ha trovato un recentissimo ed autorevole avallo da parte della S.C. (Cassazione civile 25 novembre 1994 n. 8177, in “Guida al Diritto” del Sole 24 Ore), che ha sancito la trasmissibilità iure hereditatis del danno morale subito dal defunto nell'intervallo di tempo, purché apprezzabile, intercorso fra la lesione ed il decesso, trattandosi di diritto già entrato nel patrimonio del de cuius.

A tali conclusioni la S.C. è pervenuta affermando che, sul piano squisitamente civilistico, l'evento lesioni e l'evento morte restano distinti, a nulla rilevando l'assorbimento del primo nel secondo sul piano penale (c.d. reato progressivo): solo per questa via, ha chiarito la Corte, si perviene a risarcire tutte le conseguenze del fatto illecito e non si viola il principio generale che prevede l'integrale ristoro del danno ingiusto.

Una via, come si vede, perfettamente percorribile anche in tema di danno alla salute stante l'identità della costruzione dogmatica ed anzi, a quanto pare, già dalla S.C. con la consonante sentenza n. 11169, depositata il 27 dicembre 1994, allo stato nota solo nella sua massima.

Osservazioni sulla prospettazione del danno biologico da morte dovuto iure proprio

L'esclusione della risarcibilità del danno in oggetto in quanto tale, cioè come danno (evento) alla salute, si legittima, nella prospettazione giuridica fatta propria dalla Corte, assumendo la lesione del terzo quale evento dannoso integrante una autonoma fattispecie di danno ingiusto e trasferendo il problema dal presupposto della ingiustizia del danno a quello della colpa.

Apprezzato nell'ambito di tale impostazione, l'ostacolo che si pone al risarcimento secondo il modello di cui all'art. 2043 c.c. sarebbe il criterio soggettivo di imputazione del danno, che si ridurrebbe a mera finzione, non essendo possibile, per difetto di concreta prevedibilità dell'evento, una valutazione autonoma della colpa.

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L'evento di danno ai familiari sarebbe messo in conto all'autore del comportamento lesivo in base ad una valutazione «allargata» della colpa commessa nei confronti di un diverso soggetto, titolare del bene (vita); ciò con valutazione compiuta ex post dal giudice assumendo a referente l'elemento soggettivo di un'altra fattispecie, per cui in definitiva "non di responsabilità inquadrata nell'art. 2043 c.c. si tratterebbe, ma di responsabilità oggettiva per pura causalità": il tutto aggravato dalla incertezza in ordine al limite da porsi alla sfera dei soggetti legittimati. (Non potrebbe forse, come si evince da un passaggio della motivazione lo spettatore occasionale dell'evento mortale pretendere anche per sé il risarcimento di un ipotetico danno alla salute?)

Non sembra fuori di luogo ritenere che proprio questa ultima preoccupazione (ma non sarebbe bastato un rigoroso richiamo alla natura del nesso di causalità o all'art. 1223 c.c., sotto il profilo della irrisarcibilità dei danni indiretti?), abbia indotto la Corte ad una pronuncia interpretativa di rigetto che salva la legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c. reinterpretandolo - " la questione...

è infondata, nei sensi appresso precisati, anche in relazione all'art. 2059 c.c." - in maniera tale da modificarne in modo sostanziale le connotazioni tradizionali o, quantomeno, quelle delineate dalla precedente sentenza della Consulta n. 184/1986.

Quest'ultima, come è noto, aveva limitato la nozione di danno non patrimoniale alla sola figura del danno morale subiettivo, inteso come danno morale che si risolve nella sofferenza fisica o psichica della persona offesa dal reato ("transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso").

Tale impostazione (condivisa anche con pronuncia recente dalla Cassazione: cfr. sentenza n.

8177 del 18 febbraio - 25 novembre 1994) non era rimasta isolata nella stessa giurisprudenza della Corte, essendo stata replicata anche di recente da Corte costituzionale 17 febbraio 1994, n. 37 ove si ribadisce che il danno morale è "il momentaneo, tendenzialmente transeunte turbamento psicologico" distinto dal danno alla salute psichica, quale figura specifica del danno c.d. biologico, che si verifica quando si determinino "... alterazioni della psiche tali da incidere negativamente"

sulle normali attitudini del soggetto.

Al contrario, a distanza di pochi mesi la Corte dell'ottobre 1994, con una clamorosa diversità di impostazione sistematica, ne delinea una nozione «allargata» assimilando, sul piano delle conseguenze dello shock psichico patito dal familiare, ciò che incide sulla salute a ciò che è soltanto danno morale soggettivo, ponendosi il primo come momento terminale di un processo patologico originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo" .

Se è vero che non sempre i confini fra danno morale e danno alla salute sono stati evidenziati con nettezza dai giudici di merito (come in sostanza riconosciuto nell'ultima sezione della sentenza

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in esame), è difficile credere che la nuova pronuncia della Consulta renderà più agevole il compito.

Sul piano sistematico ci troviamo di fronte a quella che potrebbe definirsi come una sancita

«ambulatorietà» del danno alla salute: ora autonomo danno alla salute (danno evento) quando il soggetto leso sia il titolare del bene protetto dalla regola di condotta colposamente violata dall'agente: ora danno morale (danno conseguenza) allorché risulti leso altresì un soggetto terzo.

Ma si noti: non sempre, perché se il comportamento dell'agente dovesse essere a lui imputato a titolo di dolo, invece che di colpa, non sembrerebbe dubbio che, a conferma della predetta ambulatorietà, tale danno tornerebbe a collocarsi nell'ambito del primo genere.

Infatti, come prima osservato, la Corte non ha negato (né si vede come avrebbe potuto) che sul piano ontologico sia configurabile il danno alla salute in capo al terzo in ipotesi di lesione mortale patita dal familiare ed, anzi, ha assunto la lesione del terzo "quale evento dannoso integrante una autonoma fattispecie di danno ingiusto" : ma se così è, l'ostacolo ad un autonomo risarcimento di tale danno per quello che esso effettivamente appare (danno alla salute e non danno morale), ostacolo individuato nella dilatazione arbitraria del concetto di colpa, viene meno allorché si tratti di dolo (come si desume dalle norme di cui agli artt. 185 c.p. e 1225 c.c.).

Tutto ciò viene detto anche senza revocare in dubbio né la costruzione di una colpa "cosciente"

ex art. 2043 c.c., che pure notevoli perplessità ha già suscitato in dottrina (si noti che tutto ciò avviene mentre incisivi interventi del legislatore, segnatamente gli artt.1 e 8 D.P.R. 24.5.1988 n.

224, e autorevoli indirizzi dottrinari, neppure troppo recenti, tendono a sganciare sempre più la tutela del danneggiato dalla ipoteca dello stato soggettivo del danneggiante, rendendo così residuale il criterio di imputazione del danno facente riferimento alla categoria di colpa), né la affermazione della distinzione fra danni prevedibili e danni imprevedibili come esclusivamente rilevante in relazione ai danni conseguenza, affermazione tesa a prevenire la possibile obiezione in ordine alla nota risarcibilita in materia di responsabilità extracontrattuale anche dei danni imprevedibili, stante il mancato richiamo dell'art. 1225 c.c. da parte della norma di cui all'art. 2056 c.c.

Viene, comunque, fatto di osservare che, combinando insieme le due affermazioni (necessità di un criterio di imputazione del danno evento che assuma la prevedibilità fra i connotati della colpa:

operatività della norma di cui all'art. 1225 c.c.- e dunque del mancato richiamo dell'art. 2056 c.c. - solo in materia di danni conseguenza) si rischia di pervenire a conclusioni gravi (e forse non volute) anche in riferimento ai danni cagionati, non a terzi (rispetto ai quali può ragionevolmente porsi un problema di limiti di legittimazione alla pretesa risarcitoria), ma direttamente al soggetto

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titolare del bene protetto (rispetto al quale si pone di norma un opposto problema di più ampia ed efficace tutela).

Come che sia, una volta accolta la prospettazione della Corte, è certo che il passaggio della tutela dall'ottica dell'art. 2043 c.c. a quella dell'art. 2059 c.c. appare tutt'altro che indolore: per questa via, il danno subito dal familiare a seguito della morte del congiunto incontra, infatti, un primo limite certo, che è quello dato dal combinato disposto degli art. 2059 c.c. e 185 c.p.: il danno sarà risarcibile solo se il fatto costituisce reato, restando escluse tutte le ipotesi di imputazione dell'evento a titolo di responsabilità presunta, con conseguente non sopito sospetto di illegittimità costituzionale.

Limite, comunque, gravissimo per l'ipotesi di morte (li un bambino rispetto alla quale si configuri solo una responsabilità presunta a carico del soggetto agente, posto che, del tutto improbabili - e, comunque, solo ipotetiche - essendo conseguenze di ordine patrimoniale e dovendosi escludere una qualsiasi responsabilità penale, con conseguente non risarcibilità altresì del danno morale (e del conseguente eventuale danno alla salute ad esso riconducibile), un evento di tal genere risulterebbe del tutto irrilevante e neutro rispetto all'ordinamento giuridico per difetto di qualsiasi possibilità di reazione, con buona pace del conclamato principio della tutela della vita umana.

Ma un ulteriore limite potrebbe derivare dalla natura stessa del danno morale nel cui ambito il danno alla salute in oggetto é stato ricondotto dalla Corte.

E' noto che la riduzione della integrità psicosomatica può determinare, oltre che la costante lesione del diritto alla salute (danno evento), possibili conseguenze di ordine patrimoniale, quale la riduzione della capacità produttiva: il familiare che a seguito dello shock psichico subisse un infarto o un trauma psichico permanente (sono gli esempi della stessa sentenza 372/94) ben potrebbe vedere gravemente ridotta la propria capacità produttiva di reddito, riportando così un evidente danno patrimoniale (danno conseguenza).

Che fine farebbe un tale danno? potrebbe essere risarcito sotto il profilo del danno morale, l'unico considerato legittimo dalla Consulta?

Se la risposta dovesse essere negativa, come sembra pressoché certo in quanto la natura stessa del danno morale, per quanto «allargata», appare incompatibile con qualsiasi estensione ad ambiti patrimoniali (pena lo stravolgimento di ogni principio ed, in particolare, pena la ulteriore, oltre a quella già realizzata dalla Corte, vulnerazione della vocazione sanzionatoria-afflittiva del danno morale), ne deriverebbe la irrisarcibilità di un danno certo (in ipotesi anche grave) pur

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strettamente connesso con altro definito come risarcibile (danno alla salute liquidato come danno morale).

Sembra davvero che l'ambìto in cui si é voluto collocare il danno alla salute subìto dal terzo soffra di confini eccessivamente angusti, essendosi privilegiata, non la via naturale dell'art. 2043 c.c., ma bensì quella dell'appesantire (e al contempo snaturare) quel "brontosauro" in un mondo di mammiferi, quale è secondo una colorita definizione (di P.G. Monateri) il danno morale.

Se, a questo punto, si vuole estendere l'analisi fino ad accertare se le vie percorse dalla Corte costituzionale erano davvero obbligate devono necessariamente esaminarsi i due cardini su cui poggia l'iter interpretativo della sentenza 372/94: la costruzione del danno al terzo come danno evento e la imprevedibilità dello stesso, cardini intimamente collegati fra loro in quanto la prima qualificazione (danno al terzo come danno evento) consente alla Corte di ipotizzare come rilevante il criterio della imprevedibilità del fatto dannoso.

Quanto al primo punto, è lecito obbiettare che, se si consente con quanto inizialmente rilevato a proposito della sostanziale negazione della distinzione danno evento/danno conseguenza come delineata nella sentenza 184/1986 della stessa Corte (posto che un danno che sia risarcibile solo alla stregua delle sue conseguenze ex art. 1223 c.c. si risolve tout court in un danno conseguenza), deve allora convenirsi che sul piano teorico la distinzione sembra venire recuperata nella sua precedente configurazione quasi al solo scopo di escludere la autonoma risarcibilità del danno in oggetto iure proprio in quanto asseritamente non prevedibile.

Forse più coerente con le premesse sarebbe stato estendere la operatività della distinzione di cui all'art. 1225 c.c. anche ad un danno al quale si era in precedenza attribuita la connotazione di cui all'art. 1223 c.c., tanto da considerarlo, in sua assenza, del tutto irrisarcibile.

Ciò, come é ovvio, avrebbe comportato, alla luce della comune interpretazione dell'art. 2056 c.c. e pur accogliendo la affermazione della Corte in ordine alla irrilevanza della distinzione in materia di danno evento, la assoluta non pregnanza del rilievo della imprevedibilità del danno al terzo ai fini di ritenere sussistente un legittimo criterio di imputazione soggettivo del danno.

Ma è opportuno che la impostazione giuridica della Corte sia esaminata e misurata anche alla luce dei suoi effetti nel più generale contesto della responsabilità civile extracontrattuale ed, in particolare, in tutti quei casi in cui non assuma rilevanza la categoria del danno evento (mantenuta in vita dalla Corte, seppure svuotata di contenuto) per non essere individuabile un tale tipo di danno in considerazione della natura dell'interesse protetto leso dall'altrui comportamento doloso o colposo.

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Infatti, la rottura dello schema secondo il quale il danno risarcibile ai sensi della norma di cui all'art. 2043 c.c. si sostanzia esclusivamente nelle conseguenze patrimoniali (e non) dell'illecito, senza che assumano specifico rilievo gli interessi sostanziali a tutela dei quali si impone l'obbligazione risarcitoria, si legittima e si impone solo in riferimento alle esigenze di tutela "di specifici valori, determinati soprattutto dalla vigente Costituzione, valori personali, prioritari, non tutelabili, neppure in sede di diritto privato, soltanto in funzione dei danni patrimoniali (e non) conseguenti all'illecito" (Corte costituzionale 184/1986); in definitiva, con l'esigenza di effettività della tutela dei diritti fondamentali.

Così, per fare un esempio, la lesione del diritto di proprietà, in quanto diritto estraneo a quel complesso di valori primari inerenti la persona umana (vita, integrità fisiopsichica, reputazione, riservatezza, libertà sessuale ecc., secondo quella gerarchia di valori indicata altresì da Cassazione civile, 11 novembre 1986, n. 6607 cit.), non comporta la sanzione riparatoria per la mera violazione del divieto primario, ma solo in riferimento alle conseguenze patrimoniali (e non) che ne siano eventualmente derivate: è, cioè, un tipico danno conseguenza.

Rispetto a questo tipo di danno l'interpretazione della norma di cui all'art. 2056 c.c. non lascia adito a dubbi: in tema di responsabilità aquiliana il risarcimento è dovuto anche se l'evento dannoso conseguente la lesione del diritto di proprietà non era prevedibile (unici limiti essendo quelli derivanti dalle norme di cui agli artt. 2044, 2045 e 2046 c. c.).

Ma se così è, allora ne consegue che il medesimo comportamento colposo o doloso, solo in virtù della asserita rilevanza di un possibile giudizio di non prevedibilità dell'evento, sarebbe idoneo a fondare un risarcimento del danno ove lesivo del diritto di proprietà (o di altro a contenuto tipicamente patrimoniale), non lo sarebbe ove lesivo di un diritto personale, quale quello alla integrità psicofisica, alla identità personale, alla riservatezza ecc..

Come si vede, l'applicazione dello schema interpretativo fatto proprio dalla sentenza 372/1994 al di fuori degli ambiti in relazione ai quali é stata pronunciata, a ciò condurrebbe: interessi corrispondenti a valori primari, gerarchicamente preordinati, costituzionalmente garantiti in modo diretto ed immediato nei rapporti intersoggettivi conseguirebbero una tutela più debole rispetto ad altri gerarchicamente subordinati in quanto garantiti dalla sola norma secondaria.

Sotto altro profilo, poi, la stessa costruzione del danno alla salute subito dal familiare come autonomo danno evento potrebbe essere revocata in dubbio: a ben vedere, sul piano ontologico, esso non può che essere l'effetto e, dunque, la conseguenza della morte del congiunto se configurato non come istantanea soppressione di un pregresso status (nel qual caso, pur nell'ottica della Consulta, la risarcibilità probabilmente si legittimerebbe nella estinzione di un rapporto

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personale facente capo al defunto sul quale inciderebbe in contemporanea il medesimo fatto illecito lesivo della vita, né più né meno di come avviene per i rapporti obbligatori di carattere patrimoniale che legano il defunto ai suoi parenti: cfr. sez. 3.2 della sentenza), ma come effettiva alterazione di un proprio modo di essere (riconducibile alla ampia nozione di integrità psicosomatica e, dunque, al danno biologico) derivata dalla privazione del legame affettivo.

Questa era la prospettazione fatta propria dalla ordinanza del Tribunale di Firenze che, per l'appunto, aveva proposto la questione del danno iure proprio in alternativa a quella relativa al danno iure successionis, osservando che, ove si ritenesse irrisarcibile quest'ultimo, in applicazione di costanti indirizzi della S.C. in tema di danno morale (così Cass. 2/11/1983 in Rep. Foro It.

1983, voce Danni Civili; Cassazione penale, sez. IV, 9 giugno 1983, secondo la quale se le lesioni riportate dall'offeso e i postumi invalidanti sono talmente gravi da determinare la perdita delle più importanti funzioni e capacità dell'individuo, sì che egli si riduce ad una mera vita vegetativa, il danno morale dei prossimi congiunti diviene danno risarcibile, dovendosi un tale stato assimilare alla morte dell'offeso, con conseguente pregiudizio morale, direttamente e immediatamente ricadente stai parenti), "omisso medio", il danno subito dal familiare si collegherebbe direttamente ed immediatamente all'evento lesivo del bene della vita senza patire limitazioni in riferimento alla norma di cui all'art. 1223 c.c. (richiamato dall'art. 2056 c.c.).

Ciò, si aggiungeva, sempre "che non si ritenga che il diritto al risarcimento per soppressione del diritto alla salute (alla vita) sia già entrato nel patrimonio del soggetto deceduto e sia allora trasmissibile iure successionis, con ciò ritenendo fondata la prima delle due esposte prospettazioni". Da qui la accennata alternatività della questione proposta iure proprio.

Come si vede, anche la costruzione del danno in oggetto come danno evento, con le implicazioni che la Consulta ha ritenuto di dover trarre, potrebbe essere oggetto di qualche dubbio.

Quanto al secondo punto da esaminare, quello relativo alla ricorrenza dell'affermato requisito della imprevedibilità, non sfugge la difficoltà di conciliare il richiamo preclusivo alla imprevedibilità dell'evento con la riconosciuta risarcibilità, sulla base del disposto dell'art. 1223 c.c. richiamato dall'art. 2056 c.c., della lesione dei diritti riflessi o di rimbalzo di cui siano portatori soggetti diversi dalla vittima iniziale del fatto ingiusto altrui.

In riferimento ad essi la S.C. (Cassazione civile 7 gennaio 1991 n. 60, in Resp. civ. prev., 1991, 446) ha chiarito che l'ordinamento positivo non contiene il principio secondo cui l'autore del fatto illecito sarebbe obbligato a risarcire unicamente i danni, alla persona od al patrimonio, arrecati al soggetto, e rimasti a carico del soggetto, immediatamente offeso dalla sua azione, e non anche i

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danni riverberanti a carico dei familiari del soggetto offeso (o di terzi in genere, a quest'ultimo legati da particolari rapporti giuridici idonei a provocare nelle loro distinte sfere patrimoniali effetti pregiudizievoli pur sempre eziologicamente collegati con il fatto illecito quale fonte genetica). Dottrina e giurisprudenza, ricorda la S.C., concordano nell'escludere siffatta limitazione all’obbligazione risarcitoria extra contrattuale sia nei confronti dei terzi, in virtù della così detta tutela aquiliana del diritto di credito, o della tutela dell'aspettativa di una prestazione del debitore frustrata dal fatto illecito altrui incidente sulla possibilità della prestazione medesima, sia nei confronti del familiare o congiunto della vittima dell'illecito in virtù dei vincoli di solidarietà e di assistenza (anche materiale ed a rilevanza economica) tra di loro intercorrenti e non preferibili, ex art. 143, 147, 433 e seguenti cod. civ.

Una volta evidenziata questa non trascurabile differenza di approccio fra la S.C. e la Consulta (almeno quella dell'ottobre 1994), deve ancora osservarsi che non é dato sapere con certezza in cosa il requisito in oggetto debba risolversi: imprevedibilità dell'esistenza di familiari o imprevedibilità di quelle "particolari condizioni" degli stessi che sarebbero idonee a dare origine ad un processo patogeno con effetti traumatici permanenti.

Il primo corno del dilemma cade da solo: che l'essere umano abbia o possa avere rapporti familiari è tanto poco imprevedibile che la Carta costituzionale ha riconosciuto la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.), come tale riconducibile a quelle formazioni sociali (art. 2 Cost.) nel cui ambito si esplica la personalità dei suoi componenti attraverso l'esercizio di diritti (familiari) inviolabili e riconosciuti altresì dall'art. 8, 1° comma, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (resa esecutiva nel nostro ordinamento con L. 4.8.1955 n. 848).

E', dunque, scelta vincolata ritenere che la Consulta abbia individuato l'elemento della imprevedibilità in relazione alle eventuale esistenza di quelle "particolari condizioni" dei familiari del defunto di cui si è detto.

Nasce a questo punto uno spontaneo quesito: quid iuris se le concrete particolarità - giuridiche e/o di fatto - della vicenda oggetto del processo inducono a ritenere da parte dell'agente prevedibile ciò che la Corte ha ritenuto in linea generale imprevedibile?

Non sempre l'evento mortale si determina in assenza di progressi rapporti fra l'agente e la vittima (questa la fattispecie portata all'esame della Consulta), in quanto, anche in tema di circolazione stradale, è ben possibile ipotizzare l'esatto contrario come di norma avviene nel trasporto di cortesia.

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Altrettanto deve dirsi allorché l'evento mortale si determina nell’ambito di una concorrente responsabilità contrattuale (ad esempio, nell'ambito di un rapporto dì lavoro subordinato, di somministrazione o di fornitura di merci pericolose ecc.), situazione in cui il rapporto fra responsabile e vittima non nasce con l'evento dannoso ma lo precede e alla stregua del quale il primo ben potrebbe avere conoscenza della realtà familiare della seconda (cioè delle eventuali

"particolari condizioni" dei suoi congiunti).

In tutti questi casi appare legittimo affermare che il danno alla salute subito iure proprio dal familiare non costituisce evento imprevedibile e non impedisce una valutazione autonoma della colpa dell'agente: applicando proprio lo schema interpretativo della Corte, si dovrebbe giungere alla conclusione che, ogni qual volta le risultanze processuali consentano di ipotizzare come ragionevole un giudizio di prevedibilità ex ante, il danno alla salute subito dal familiare, destinato altrimenti a trasmigrare nel danno morale, ritorna ad essere quello che è: tertium genus di danno autonomamente risarcibile, anche nelle sue eventuali conseguenze patrimoniali (riduzione della capacità produttiva) e senza i limiti imposti dalla norma di cui all'art. 2059 c.c..

L'eventuale rilievo che, così ragionando, si aggraverebbe la già evidenziata anomalia sistematica data dalla «ambulatorietà» del danno alla salute, costituisce obiezione alla impostazione giuridica della sentenza 372/1994 della Corte costituzionale e non già agli sviluppi che da essa possano sul piano teorico e pratico legittimamente derivarsi.

Sviluppi, per altro, di assoluta rilevanza ove si maturasse la convinzione che in relazione a determinati rapporti familiari l'esistenza del danno è sempre prevedibile in quanto essa risponde all'id quod plerumque accidit.

La questione risultava prospettata già nella ordinanza remittente del Tribunale di Firenze ove si osservava che è difficile negare come «per un minore nel pieno della sua età evolutiva la

improvvisa e violenta perdita di un fratello o di un genitore costituisca evento traumatizzante e condizionante il suo futuro sviluppo psicologico ed affettivo, così ripercussioni dirette nella sfera del suo modo di essere attuale e futuro nella vita; del pari, neppure si potrà negare che anche per un adulto la perdita del coniuge o del figlio costituisca un dato stravolgente la sua concreta e preesistente dimensione dell'essere individuo, con concreta ed evidente riduzione o alterazione del suo operare nell'ambiente in cui la vita si esplica in tutte le sue più diverse manifestazioni: di quel modo di essere sicuramente tutelato dall'art. 32 della Costituzione, come diritto alla salute ».

Pur volendosi in questa sede circoscrivere l'indagine al caso evidente, quello del minore privato di un genitore o di entrambi, appare indispensabile, non avendo la Corte inteso spendere neppure

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una parola sul punto, procedere ad un più diretto approccio ad una tematica con ogni probabilità sarà destinata ad entrare con forza nelle aule giustizia nell'immediato futuro.

Osservazioni sulla esistenza di un danno biologico del minore in morte del genitore1

Il ruolo dei genitori nello sviluppo

Il buon senso e le moderne teorie psicologiche sono perfettamente in sintonia sull'importanza da attribuire al ruolo della famiglia nello sviluppo del bambino, sia che queste teorie si ispirino al comportamentismo, alla psicoanalisi o all'etologia.

Secondo gli studi più autorevoli, anche di orientamento assai diverso, i membri della famiglia, ed in particolare i genitori, costituiscono insostituibile funzione di sostegno, autorità, modello (Berti A.E., Bombi A.S., Psicologia del bambino, Il Mulino, Bologna, 1985).

Nelle primissime fasi dello sviluppo gli adulti vicini al bambino sono erogatori di cibo (bisogno primario) e di stimolazioni soddisfacenti, con essi il piccolo instaura un legame privilegiato definito "relazione oggettuale" (dagli autori di impostazione psicoanalitica, "attaccamento" dagli autori dell'approccio etologico. Il rapporto emotivo specifico che si crea è funzionale alla maturazione cognitiva e sociale ed influisce sul ritmo e sulla qualità stessa dello sviluppo (Mussen K., Conger J.J., Kagan J., Lo sviluppo del bambino e la personalità, Zanichelli, Bologna, 1985).

La figura materna costituisce per molti autori una presenza indispensabile per la salute del bambino e per la costruzione della propria identità, che è determinata dallo svolgersi del processo di "Individuazione-separazione": all'inizio di questo percorso il bambino è una unità

psicologicamente indifferenziata dalla propria madre, successivamente si distinguono due poli di una diade che funziona simbioticamente e dalla simbiosi l'individuo emerge grazie alla presenza della madre stessa che viene gradatamente vista come figura a se stante e base sicura da cui svolgere le proprie esplorazioni nel mondo (Mahler M., Pine F., Bergmann A., The psycological birth of human infant: symbiosis and individuation, Basic Books, New York, 1975, trad. it. La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Torino, 1978.

Per altro, ambedue i genitori sono essenziali come figure di riferimento non svolgendo funzioni intercambiabili, ma avendo nei confronti dei figli ruoli complementari (Berti A.E., Bombi A.S., Psicologia del bambino, Il Mulino, Bologna, 1985).

1Devo questo contributo alla dott.ssa Lucia Bigozzi del Dipartimento di Psicologia della Università degli Studi di

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La vicinanza, anche fisica, dei genitori viene continuamente ricercata dal bambino, anche di non tenerissima età, che sperimenterà l'autonomia solo nella sicurezza data da questa presenza.

I genitori svolgono poi un importante ruolo fornendo ai figli un modello da imitare nel processo di tipizzazione sessuale. Secondo il modello psicoanalitico l'identificazione con il genitore del proprio sesso determina l'identità sessuale del soggetto e lo indirizza verso l'assunzione di ruoli ovvero incanala generiche stereotipizzazioni sessuali in forme di identità più specifiche ed evolute, legate alle aspettative dei genitori.

Secondo la delineazione freudiana dello sviluppo psicosessuale, la presenza dei due genitori è determinante nel corso dell'evoluzione dallo stadio orale al genitale, caratterizzando in modo specifico ogni fase, compresa quella di latenza (dai cinque anni alla pubertà), contrassegnata dall'introiezione dell'autorità parentale e dalla conseguente formazione del Super-io e quella genitale (dalla pubertà in poi), durante la quale ancora i due genitori sono necessari per consentire al ragazzo la rinuncia a scegliere come oggetto sessuale il genitore del proprio sesso e a favorire la scelta di un oggetto d'amore estraneo alla famiglia.

Per il ragazzo sarà importante la presenza della madre per poter realizzare il processo di abbandono dei propri desideri nei suoi confronti e quella del padre per trovare con questo una riconciliazione o per liberarsi dalla sua oppressione a seconda che dall'originario conflitto edipico, sia riemersa una relazione antagonistica o di sottomissione.

La ragazza dovrà riconciliarsi con la madre della quale è gelosa ed invidiosa, ritrovando la mamma-nutrice dei primi tre anni di vita, modello e sostegno nell'affrontare la vita femminile (Battacchi W., Giovannelli G:, Psicologia dello sviluppo, N.I.S., Roma 1992).

Elaborazione del lutto e comprensione della morte nel bambino

Prima dei sei, sette anni i sentimenti dominanti nei confronti dell'idea di morte sono costituiti dall'angoscia da separazione. Dopo i sette anni i bambini possono concettualmente pensare anche alla eventualità della propria morte e allora l'idea di morte porta con sé angoscia di aggressione.

La concezione della morte diviene tanto più adeguata quanto il bambino cresce in età (Vianello R., Marin M.L., La comprensione della morte nel bambino, Giunti, Firenze, 1985).

Un neonato o un bambino molto piccolo che perde una persona amata non è in grado di distinguere la morte da una indisponibilità della persona ad essere presente (Furmann E. A Child's Parent Dies. Studies in childhood) e la sua reazione non può essere altro che una lacerante angoscia da separazione. E' molto più facile che un bambino comprenda la realtà della morte

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quando si presenta associata a fatti esterni alla sua sfera affettiva stretta (insetti, piante, persone estranee) piuttosto che quando è associata alla perdita di una persona amata, allo stesso modo è meno difficile per un bambino che possiede già il concetto di morte, capire la morte della persona amata (Ibidem).

La crescita cognitiva e quella affettiva, per il concetto di morte come pure per ogni altro aspetto nel corso dello sviluppo, procedono di pari passo: tanto più l'individuo è cognitivamente progredito, tanto più sarà in grado di gestire, sopportare, elaborare i propri sentimenti, le proprie emozioni e relazioni affettive.

Il fatto che il bambino, con il progredire delle proprie conoscenze sul mondo, si chiarisca anche il concetto di morte non significa certo che arrivi ad una intima comprensione della stessa, che, per altro, anche per un adulto resta di per sé un fatto misterioso nella sua essenza e dì difficile accettazione (Vianello 1985, opera cit.). Rimane, infatti, una separazione incolmabile tra ciò che un individuo sa, ciò di cui è a conoscenza e ciò che l'individuo vive, prova, sperimenta e solo allora conosce.

Indipendentemente dal livello cognitivo nel quale il bambino sì trova al momento in cui viene a determinarsi la perdita della persona cara, il fatto indiscutibile è che a qualsiasi età i bambini provino dolore (Bowlby J., The making and the breaking of affectional bonds, Tavistok, London, 1979, trad.it., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982).

Questo dolore rimane in qualche modo imprigionato nel bambino che non riesce ad "elaborare"

il lutto, non riesce cioè ad attuare una forma di reazione alla perdita, grazie alla quale il continuo, doloroso e prolungato ricordo dell'essere amato finisce per allontanare la persona dall'oggetto d'amore (ibidem)

Si può essere ingannati dal fatto che i bambini molto piccoli, così come gli adolescenti, non esternano in modo plateale il proprio sentimento e la propria disperazione; in genere le reazioni manifeste sono ridotte, c'è poco pianto, le attività quotidiane sembrano continuare. Non si devono interpretare questi comportamenti come segnali di superamento del dolore: il lutto può avere un esito positivo se la persona colpita è in grado di dare libero sfogo alle proprie sensazioni, cosa che sembra particolarmente poco frequente nei bambini, i quali o sono così piccoli da non comprendere la parola "morto" o negano il carattere definitivo della perdita e più o meno consapevolmente aspettano il ritorno della persona amata (ibidem).

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L’attesa del ritorno rende sempre vivo il dolore e pone il bambino perennemente nello stato di uno che è appena stato abbandonato, il caso, cioè, non viene mai archiviato e la sofferenza rimane sempre presente anche se senza voce, quasi che il tempo non esistesse.

Il tutto non è agevolato dal fatto che quando muore un genitore è il genitore superstite che deve informare il figlio dell'accaduto e l’informazione arriva sempre tardi e sempre in modo fuorviante (il genitore non è morto, ma è "partito"), il che concorre nell'allontanare il bambino dall'avere reazioni adeguate e dal capire cosa sia successo. Ciò che difficilmente gli adulti che circondano un bambino afflitto da un grave lutto capiscono è che è meglio avere un genitore morto, piuttosto che un genitore che se n'è andato abbandonando il figlio.

Il bambino viene quindi esposto ad un abbandono totale: un genitore perduto e l'altro, lontano da lui, non "dice", nasconde qualcosa, tace o mente su un fatto essenziale. Tutto ciò fa cadere sull'accaduto un velo di mistero o l'ombra di un misfatto, dando il via a fantasie penose che aleggiano tra il suicidio e l'omicidio impedendo di fatto al bambino di dividere la pena con il proprio unico genitore (Nunziante Cesaro A., Ferraro F., La doppia famiglia, Discontinuità affettive e rotture traumatiche, Franco Angeli, Milano, 1992).

Il bambino può presentare la silente e insistente fantasia che il genitore superstite sia colpevole di ciò che è successo o può riversare su di sé la colpa della morte a causa dell'ambivalenza insita nel rapporto d'amore (Nunziante Cesaro, Ferraro F., 1992, opera cit.).

Non stupisce che una delle reazioni alla perdita di una persona cara sia la collera: vista come esito patologico da Freud e come punto distintivo di una comune prima reazione alla morte da Bowlby, collera diretta contro la persona che se ne è andata nell'inutile tentativo di farla tornare e che può sfociare anche in forte rimprovero e in un sentimento di odio.

Rimane, poi, il problema dell'incapacità dei piccoli di esternare la collera come impulso di recupero e di accusa: queste sensazioni represse continuano ad esistere all'interno della personalità e finiscono per influenzare il comportamento in modo anomalo e distorto, dando origine a disturbi del carattere e nevrosi.

Una ulteriore ragione che concorre a rendere difficile un esito positivo del lutto per un bambino è data dalla scarsa padronanza dì sé, tipica del minore: egli, diversamente da un adulto, è in balia di chi gli sta intorno ed ha poche possibilità di tenere sotto controllo í fatti della sua vita (Bowlby J., Attachment and Loss, Hogarth press, Londra 1980, trad. it. Attaccamento e perdita, Boringhieri, Torino, 1983). L'adulto, al contrario, possiede gli strumenti per riorganizzare la propria esistenza, ad esempio intensificando gli altri legami affettivi e cercando di svolgere una

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