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Pseudoscienza nella scienza biomedica contemporanea: il caso della vivisezione*

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1. Introduzione

Il fenomeno di come certi assunti metodologici si radichino in una comunità scientifica senza che ripetuti fallimenti riescano ad incrinare la fedeltà, se non la fiducia, dei praticanti è stato po- sto al centro della sua concezione della scienza dallo storico ed epistemologo Thomas Kuhn. 1

Come si sa, per Kuhn la scienza procede per lunghi periodi di “scienza norma- le”, cioè di dominio - tena- ce e insensibile alle critiche - di un “paradigma” (l’in- sieme di idee, tecniche e problemi accreditato in quel momento presso la da- ta comunità scientifica), in- tervallati da periodi relati- vamente brevi di “crisi” (durante i quali proliferano le difficol- tà concettuali e le anomalie sperimentali irrisolte), che a loro volta culminano nelle “rivoluzioni scientifiche”; queste ultime inaugurano una nuova epoca di scienza normale, all’insegna di un nuovo paradigma.

Una spiegazione di questa fenomenologia, che trova in effetti notevoli riscontri nella storia e cronaca della scienza, deve ne- cessariamente far ricorso ai caratteri generali della ‘professione scientifica’ nella sua dimensione storica e sociologica, oltre che, ovviamente, a quelli specifici del singolo settore in esame.

In altre parole, ciò che fanno gli scienziati non basta a definire la natura della scienza, e meno ancora quella della razionalità.

Non è quindi assurdo supporre che un intero settore della ricer- ca scientifica adotti, in un certo periodo storico, credenze e me- todi che si possano correttamente descrivere come pseudoscien- tifici. Lo scopo di questo articolo è di analizzare un esempio im- portante, 2 che gode del singolare primato di essere stato fatto oggetto di critiche professionali (oltre che di quelle di un pub- blico più vasto) per oltre un secolo e mezzo, e nondimeno di es-

sere ancora in vita. Si tratta della vivisezione. 3 L’importanza del tema è accresciuta, oltre che dall’interesse diffuso per esso, 4 dal- le recenti prese di posizione di commissioni governative 5 e uo- mini politici, 6 nonché dal ruolo che il giudizio epistemologico su questa pratica necessariamente svolge, almeno in maniera implicita, nell’attività dei comitati etici.

Ovviamente non c’è spazio qui per una discussione di tutti i principali aspetti della pratica vivisezionista (in particolare non si potrà entrare nel merito dei suoi presunti meriti storici, tran- ne che per qualche considerazione generale). Spero però che, anche solo a partire dai dati da me riferiti, il lettore possa farsi un’idea ben fondata in merito al suo statuto scientifico.

2. “Vivisezione”

La ragione per cui il termine ‘vivisezione’, che oggi molti vor- rebbero far cadere in disuso in favore di ‘sperimentazione ani- male’, merita invece di essere mantenuto è che esperimenti su animali possono essere eseguiti per scopi molto diversi.

Per esempio, l’etologia è una disciplina in cui la maggior parte degli esperimenti vengono fatti senza che si pensi di applicarne i risultati all’uomo. Inoltre si possono fare esperimenti su ani- mali di una certa specie allo scopo di accrescere le conoscenze veterinarie su quella stessa specie. (Anche in questo caso, come vedremo, sorgono seri problemi metodologici).

Il senso che daremo al termine “vivisezione” esclude questi ca- si, e comprende solo la sperimentazione su animali vivi di far- maci, agenti chimico-fisici, terapie, situazioni ecc. eseguita al- lo scopo di estrapolare i risultati agli esseri umani. 7 Ciò a vol- te si formula come lo studio di ‘modelli animali’, intendendo che su specie diverse e su ceppi opportunamente selezionati (o

‘costruiti’, per mezzo delle biotecnologie), sia possibile rappre- sentare l’azione sull’uomo di una sostanza, di una procedura ecc. Il termine ‘rappresentare’ allude al fatto che in generale non si darà identità di azione, ma che nondimeno esisterebbe un co- dice che - per esempio - permetterebbe di passare dal ratto Spra-

Pseudoscienza nella scienza biomedica contemporanea:

il caso della vivisezione*

M. Mamone Capria

Dipartimento di Matematica, Università di Perugia

Thomas Kuhn

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gue-Dawley all’uomo nello studio degli effetti di un certo principio attivo. Pro- babilmente la formulazione più netta ed esplicita di questa tesi si trova in un fa- moso saggio metodologico di Claude Bernard, risalente a un secolo e mezzo fa:

Le esperienze fatte su animali con so- stanze deleterie o in condizioni noci- ve sono molto utili e perfettamente concludenti per la tossicologia e l’i- giene dell’uomo. Le ricerche sulle so- stanze medicamentose o tossiche so- no egualmente del tutto applicabili all’uomo dal punto di vista terapeuti- co; poiché, come ho mostrato [...], gli effetti di queste sostanze sono gli stessi nell’uomo e negli animali, sal- vo differenze di grado. [Bernard 1865, p. 180]

Confrontate con le affermazioni dei vivisettori di oggi, quelle di Bernard hanno almeno il merito di essere abbastanza chiare.

Tutt’altra questione, naturalmente, è quanto siano fondate.

Si noti che la vivisezione nel nostro senso non è necessaria- mente cruenta e neppure sempre dolorosa (né implica la ‘sezio- ne’ del corpo del’animale). Del problema della sofferenza de- gli animali da laboratorio (in tutte le fasi del loro utilizzo), che ovviamente sarebbe essenziale discutere per una valutazione etica complessiva della pratica vivisezionista (come anche degli altri tipi di sperimentazione su animali), non ci occuperemo qui poiché il nostro approccio sarà scientifico ed epistemologico.

Considerazioni etiche interverranno solo relativamente a que- stioni, ben più basilari di quelle ‘bioetiche’, sull’integrità della ricerca e la responsabilità degli scienziati in quanto tali (§13).

3. La vivisezione come ‘dimostrazione scientifica’: l’argo- mento di base

Fra gli esperimenti che cadono sotto la nostra definizio- ne vi sono quelli che pretendono di fondare

‘scientificamente’ ipotesi sulla psicologia umana, e che sono spesso riferiti nei testi del settore. Come esempi si possono cita- re gli esperimenti sulla cosiddetta “impo- tenza appresa”, che mostrerebbero come un animale (per es. un ratto), sottoposto artificialmente a una serie sufficiente- mente protratta di dolorosi fallimenti delle sue iniziative, sprofondi infine in uno sta- to di totale rinuncia e inattività. 8 Si rico- nosce qui, in forma acuta, ciò che può considerarsi un vizio tipico dell’inte- ra impresa vivisezionista: questi esperimenti, per quel tanto che di- cono qualcosa di valido anche

per l’uomo, 9 non dicono nulla di più che non sia ricavabile anche dall’osservazio- ne diretta (e in questo caso anche piutto- sto banale); e d’altra parte non sarebbe- ro in grado di dirci neanche questo se ta- le osservazione non fosse già stata fatta.

Se li si prendesse sul serio, il loro effet- to sarebbe semmai di gettare dubbi su ciò che pensiamo di sapere sulla relazio- ne tra fallimenti e depressione nell’uo- mo, e in particolare sull’enorme variabi- lità delle risposte individuali e sui fatto- ri specificamente umani che spiegano tale variabilità. In generale, si direbbe che il rifiutare l’evidenza clinica sulla base di successivi esperimenti su anima- li debba essere considerato una patente assurdità anche dai vivisezionisti: eppu- re anche questo è accaduto. 10

Alcuni autori replicano a queste critiche dicendo che nei ‘modelli animali’ si ri- uscirebbe ad eliminare una serie di im- portanti fattori di distorsione (senza introdurne altri!) per i qua- li nell’uomo sarebbe eticamente inaccettabile, o anche imprati- cabile, fare altrettanto. Quindi la vivisezione si configurerebbe come ‘dimostrazione scientifica’ di ciò che l’osservazione di- retta degli uomini ci può al massimo suggerire come ipotesi.

Questo argomento è anche lo strumento principale impiegato per legittimare in sede storiografica l’attribuzione alla vivise- zione di molte scoperte mediche in realtà originate dall’osser- vazione clinica.

L’analisi della struttura di questa replica ci farà da guida nelle prossime sezioni.

Innanzitutto si può parlare di ‘dimostrazione’ solo presuppo- nendo la fedeltà della rappresentazione fornita dall’animale.

Ma questo assunto va a sua volta giustificato e, come vedremo, l’impresa - oltre che teoreticamente fragile (§4) - si è ripetuta- mente scontrata con l’esperienza (§5).

In secondo luogo, l’idea che l’animale da laboratorio si confi- guri come una ‘versione semplificata’ dell’essere umano è un totale travisamento di ciò che la biologia moderna ci insegna sulla relazione tra specie diverse (§4).

Infine, l’assunto che il laboratorio di vivisezione sia un contesto che renda possibile controlla- re i fattori confondenti è non solo a priori implausibile - dato che la stessa condizione di ingabbiamento produce stress e quindi ‘disturba’ l’effetto che si vuole studiare (§6.3) - ma confutato da numerosi rapporti che mostrano gli sperimentatori alle prese con risultati non riproducibili (§§ 6.1-6.2). Ciò è a sua volta confermato dalla difficoltà di generalizzare i risultati ottenuti in esperimenti su umani ad altri uma-

ni (§7).

Nelle sezioni successive vedre- mo poi che l’attendibilità dei

Claude Bernard

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test vivisezionisti non è mai stata dimostrata (§§8,9) e che l’a- verli adottati come canoni di “plausibilità biologica” delle ipo- tesi di tossicità è stato responsabile di gravissimi danni alla sa- lute collettiva (§§10,11). Compendieremo i risultati della nostra discussione in una diagnosi di pseudoscientificità della vivise- zione (§12), e passeremo infine a trarne le conseguenze sul pia- no del lavoro dei comitati etici (§13) e della ricerca biomedica in generale (§14).

4. Giustificazioni ‘generali’

Circa la fedeltà dei ‘modelli animali’, va detto che è difficile tro- vare la tesi vivisezionista argomentata in una forma sufficiente- mente precisa e non contraddittoria. Questa mancanza, che è sta- ta osservata da diversi autori, 11 è già di per sé sospetta. Ciò che si trova, invece, sono per lo più giustificazioni molto generiche.

Esaminiamo le più comuni.

È difficile da credersi, ma spesso i ricercatori si limitano a ri- spondere che, benché i ‘modelli animali’ siano ingannevoli, van- no usati perché ‘non abbiamo

nulla di meglio’. Ora se nessuno dei mezzi disponibili è adatto al conseguimento di un certo sco- po, difendere l’adozione di un particolare mezzo dicendo che non è peggiore degli altri non ha molto senso. Bisognerebbe ado- perarsi a cercarne altri veramen- te efficaci; e, come essenziale prerequisito, si dovrebbe smette- re di fingere di averli già trova- ti. Naturalmente ci sono ragioni extra-scientifiche per questa fin- zione, neanche tanto difficili da ricostruire (cfr. §§6.1, 9).

Altre volte l’argomento è reso

più presentabile aggiungendo che nessun altro metodo permette- rebbe mai di studiare la reazione dell’organismo nel suo com- plesso: solo un ‘animale intero’ potrebbe fungere da modello di un altro ‘animale intero’.

Ora, è interessante notare che il movimento della ricerca biolo- gica nel XX secolo è avvenuto precisamente nella direzione op- posta, e cioè scendendo al livello ‘molecolare’ dei problemi. 12 Il fatto che in questo modo si sia spesso arrivati a sostenere una concezione riduzionista essa stessa inadeguata non ci deve im- pedire di individuare le ragioni di questa trasformazione della ri- cerca biologica. Tra esse, appunto, è la comprensione sempre più chiara che a lavorare in medicina con gli ‘animali interi’ non si riesce a trovare nessun principio o teoria unificante utile a fini medici. Per esempio, se due animali di specie diverse hanno gli stessi recettori per una certa sostanza, possiamo, studiando in vi- tro tali recettori, imparare qualcosa sui processi comuni che si svolgono quando quegli animali vengono a contatto con quella sostanza. Ma è razionale aspettarsi che, quando si passa al siste- ma integrato dell’animale, gli effetti nelle due specie possano di- vergere sostanzialmente, a causa di differenze metaboliche, far- macocinetiche, istologiche, anatomiche, comportamentali ecc.

Chi cerca di minimizzare questa circostanza osservando - come spesso si fa - che ‘molte volte’ la differenza è ‘solo quantitativa’

e non ‘qualitativa’, 13 manca vistosamente il segno: infatti, nella misura in cui questa precisazione è vera, va comunque ricordato che in medicina la differenza tra un veleno e un farmaco è di re- gola una differenza quantitativa. Tanto per intenderci, a dosi ab- bastanza elevate risulta letalmente tossica per l’uomo la stessa acqua potabile. 14

Ma si può dire di più: in definitiva già il termine ‘modello ani- male’ è fuorviante. In effetti, ciò che è detto ‘modello’ nelle al- tre scienze è un costrutto teorico, o materiale, elaborato in ma- niera tale da far intervenire solo le poche variabili ritenute si- gnificative e controllabili nel sistema reale (a un certo livello di analisi). In altre parole, lo scopo è di semplificare lo studio del sistema reale per mezzo della limitazione pianificata a un sottin- sieme dei fattori in gioco. Ma nel caso della vivisezione avviene tutt’altro: si sostituisce un sistema complesso con un altro siste- ma altrettanto, sebbene diversamente, complesso. L’animale non è ‘costruito’: al massimo è alterato, con effetti, come vedremo (§§5-6), generalmente imprevedibili. È questo equivoco di fon- do che non può che viziare ogni concepibile giustificazione teo- rica dell’impresa vivisezionista.

Per esempio, dagli anni 1980 è entrata in uso la tecnica di sop- primere un gene in un ceppo di topi nell’intento di scoprire qua- li aspetti del fenotipo siano con- trollati dal gene stesso. Ebbene, si è visto che variando il ceppo murino gli effetti prodotti sono quasi sempre notevolmente di- versi:

In molti casi, un topo mutante non mostra alcuna ovvia caratte- ristica - o fenotipo. In altri il fe- notipo scompare quando il gene disabilitato è incrociato in un diverso ceppo di topo. Di fatto, fenotipi chiari e coerenti ora sembrano l’eccezione piuttosto che la regola. [Pearson 2002]

Ciò mostra anche la vanità della pretesa dell’‘ingegneria geneti- ca’ (nome usurpato a una disciplina in cui predizione e pianifi- cazione sono dell’essenza) 15 di scomporre le reazioni di un orga- nismo intero in moduli controllati ognuno da un gene - come se ogni gene agisse in isolamento e indipendentemente dal resto del corredo e organizzazione genetici della specie (per non parlare delle differenze nelle interazioni con l’ambiente!).

Un’altra giustificazione generica fa appello alla concezione evo- luzionista che assimilerebbe la specie umana ad altre specie ani- mali. Più recentemente è sulla percentuale di genoma comune tra uomo e, poniamo, topo o scimmia che è stato posto l’accento.

Per esempio, si è trovato che il genoma umano è omologo a quel-

lo degli scimpanzé per il 98,7%, 16 e a quello del topo per il

97,5%. 17 Ma queste ragioni sono manifestamente insufficienti,

oltre che incapaci di fornire ciò che più conta, vale a dire regole

per l’inferenza dall’animale all’uomo. Per esempio, nonostante

la grande ‘vicinanza’ tra scimpanzé e uomo, e il fatto che si sia

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riusciti ad infettare con il retrovirus HIV migliaia di questi pri- mati a fini ‘sperimentali’, quasi nessuno di essi ha mai sviluppa- to i sintomi dell’AIDS. 18 La ricerca di un vaccino ‘per l’AIDS’, oggi condotta principalmente su primati diversi dallo scimpanzé, sta fornendo “dati enigmatici, anche contraddittori”, eppure solo

“alcuni ricercatori mettono in questione se il modello scimmia simuli davvero l’HIV negli umani”. 19 Chi crede nella vivisezio- ne dovrebbe concludere che ciò confuta la dottrina ortodossa se- condo cui è l’HIV che provoca l’AIDS, ma - è questa solo una delle tante incoerenze che incontreremo - tale deduzione è stata tratta solo da una piccola minoranza di dissidenti. 20 In realtà pro- prio l’evidente diversità fenotipica tra uomo e scimpanzé o topo nonostante la loro prossimità genomica dovrebbe bastare a mo- strare la temerarietà di estrapolare, sulla base di tale prossimità, risultati dall’uno all’altro. Il divario tra l’esiguità delle differen- ze genomiche e l’enormità delle differenze fenotipiche è una prova di più che in biologia differenze minime possono causare effetti divergenti. In altre parole abbiamo oggi un ulteriore esem- pio, dallo studio comparato del genoma, di ciò che nella disci- plina scientifica che detiene il massimo successo quanto a pre- dittività - la fisica - è affiorato alla consapevolezza generale da decenni (e compreso chiaramente già alla fine del XIX secolo):

il fenomeno della sensibilità ai dati iniziali di molti sistemi fisi- ci, e quindi i limiti oggettivi a predire il loro comportamento. 21 Si tratta, beninteso, di qualcosa che la ricerca biologica aveva già messo in evidenza in altre forme: è per esempio noto da decenni che l’anemia falciforme (con tutte le sue catastrofiche conse- guenze) dipende dalla sostituzione di uno solo tra i 572 aminoa- cidi che entrano nella molecola dell’emoglobina (l’acido glu- tammico). 22 Parecchi altri sconcertanti esempi li vedremo in se- guito (§6).

Ciò risponde anche a un’obiezione ‘filosofica’ finale che talvol- ta viene mossa a chi afferma che la vivisezione non può garanti- re la validità dei suoi risultati. Pretendere che i vivisettori non ri- usciranno mai a correggere gli innegabili difetti delle loro tecni- che predittive - viene rimproverato - significherebbe indulgere a un pessimismo negatore del progresso scientifico. 23 L’errore qui consiste nel fatto che, come abbiamo appena visto, può essere in- vece lo stesso progresso scientifico a imporci di ammettere l’e- sistenza di limiti alla nostra capacità di predire. Così, in meteo- rologia, è da stimare un grande progresso l’aver compreso che i grossolani errori nelle predizioni al di là di pochi giorni non di- pendevano principalmente dal fatto che le nostre equazioni della

dinamica atmosferica erano sbagliate o incomplete (sebbene an- che questo possa essere vero), ma dal fatto che esse ammettono comportamenti divergenti in corrispondenza a variazioni minime dei dati iniziali. 24 In altre parole sarebbe ‘antiscientifico’ conti- nuare a ritenere che, ‘perfezionando’ le tecniche attuali, si possa scendere al di sotto di un certo grado di errore nelle previsioni. Il progresso scientifico è costellato da successi nella soluzione di alcuni problemi, ma anche di scoperte dell’impossibilità di risol- vere certi altri problemi (salvo, appunto, che nel senso di dimo- strarne l’insolubilità). Che in gran parte della comunità biome- dica non si sia ancora arrivati a questa generale consapevolezza, può solo riflettersi in un giudizio negativo sulla cultura scientifi- ca in essa diffusa.

5. L’estrapolazione da una specie all’altra. Se le giustificazio- ni generali più comuni della vivisezione sono così deludenti, ciò non significa che, di fatto, le inferenze dei vivisettori non po- trebbero aver avuto successo. È per questo che il dibattito sulla vivisezione tende a prendere in buona parte la forma di una dis- cussione sull’‘evidenza aneddotica’ dei successi e degli insuc- cessi. Che cosa si può dire a tale proposito? Il bilancio, come ora vedremo, non legittima alcun ottimismo, e mostra che le obie- zioni svolte nella sezione precedente sono ampiamente conforta- te dall’esperienza.

Per cominciare osserviamo che le specie utilizzate negli esperi- menti di laboratorio sono una percentuale minima del totale. Si tratta principalmente di mammiferi, e solo di 10 delle 4237 spe- cie di mammiferi a noi note: 3 delle 1729 specie di roditori (rat- to, topo, cavia), 3 delle 252 di carnivori (cane, gatto, furetto), 1 delle 66 di lagomorfi (coniglio) e 3 delle 193 di primati (cyno- molgus, rhesus, marmoset). 25 La scelta dipende essenzialmente dalla disponibilità e comodità d’uso, e non deriva da alcuna va- lutazione preliminare che abbia eletto nelle 10 specie suddette quelle più ‘simili’ all’uomo. Ciò è riconosciuto dagli stessi vivi- settori. Così in un manuale di vivisezione a più nomi apparso nel 1994 leggiamo le seguenti affermazioni, firmate indipendente- mente da tre autori diversi:

Questo [il fatto che gli esperimenti siano stati fatti finora qua- si solo sulle poche specie elencate] sottolinea quanto poco an- cora si conoscono le similitudini tra i mammiferi e l’uomo per poter fare una scelta giustificata del modello animale più ido- neo.

[...] la scelta dell’animale che viene fatta in uno studio di can- cerogenesi è ovviamente [sic!] una scelta di praticità. Sarà quasi necessariamente un roditore, anche se non è detto che sia l’animale più adatto.

La scelta del modello sperimentale rimane comunque forte- mente condizionata oltre che da fattori di tipo scientifico, da fattori di tipo economico-organizzativo. Pur essendo questo un grosso limite contestato agli studi di tossicologia, esso vie- ne solitamente accettato dalle comunità scientifiche e regola- torie. […] 26

Che un approccio scientificamente così approssimativo e, inve-

ro, irresponsabile (illuminante è a questo proposito la terza cita-

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zione) possa averci portato fuori strada è il minimo che ci si do- vrebbe aspettare. Il dubbio diventa certezza quando si considera che i casi noti in cui un’affermazione valida per una specie ri- sulta invalida per un’altra sono innumerevoli. In questa sezione ne proporremo una scelta meramente indicativa; altri esempi sa- ranno menzionati nel seguito, ma devo rinviare alla letteratura critica già citata per un censimento più ampio.

Già solo per il passaggio da animale a uomo una semplice lista delle disanalogie riscontrate a posterio-

ri occuperebbe centinaia di pagine. E gli errori commessi nell’illusione della possibilità di estrapolare dall’uno all’al- tro cominciano fin dall’antichità.

L’Encyclopedia Britannica (1994- 1998), che pure non perde occasione per esaltare la vivisezione, 27 alla voce dedicata a uno dei massimi vivisettori della storia, il greco Claudio Galeno, ammette che:

Nel 1543 il medico fiammingo An- drea Vesalio mostrò che l’anatomia di Galeno del corpo era più animale che umana in alcuni dei suoi aspetti, e divenne chiaro che Galeno e i suoi seguaci medievali avevano commes- so molti errori.

Questo (peraltro ben noto) dato storico esemplifica due fenomeni: in primo luogo, il progresso medico è spesso av- venuto attraverso la liberazione da fal- se ipotesi sulla somiglianza tra uomo e

animale; e in secondo luogo - più in generale - una dottrina fal- sa può rimanere radicata nell’ortodossia per secoli o millenni, senza che il consenso degli esperti sia fatto vacillare dalle dis- cordanze con i fatti (cfr. §1).

Del resto, che la differenza di specie dia luogo a differenti rea- zioni alla somministrazione delle stesse sostanze, è noto anche ai proprietari di animali da compagnia, i quali sono avvertiti che al gatto non va mai dato il succo di limone; o che per il criceto i fa- gioli sono tossici; 28 ed è noto - o dovrebbe esserlo - ai raccogli- tori di funghi, ai quali le autorità sanitarie raccomandano di non

‘provare’ i loro reperti su gatti o cani. Altri esempi di inferenze sbagliate dall’animale all’uomo sono forniti, per la tossicità, dal- le mandorle dolci che, utilizzate tranquillamente nell’industria dolciaria, avvelenano cane, volpe e tacchino; della cicuta, gradi- ta a capre, 29 topi e vari uccelli, tra i quali tordi e allodole, che per questo hanno talvolta causato la morte di chi se ne sia cibato; 30 dalla scopolamina, che nella quantità di 100mg è assunta senza disturbi da cani e gatti, mentre una dose di 5mg (e cioè, fatta la proporzione ponderale, di 1/360) è letale per l’uomo; dalla stric- nina, che è ben tollerata da cavia, pollo e scimmie a dosi letali per l’uomo; e la lista potrebbe continuare a lungo. 31 Questi esem- pi confermano che determinare quale sia la dose D 1 che in una certa specie provoca effetti ‘simili’ a quelli che la dose D 2 pro- voca in un’altra specie è possibile - ammesso che una qualche

‘somiglianza’ si possa rinvenire! - solo a posteriori, e che meto-

di rozzi come quello del confronto dei pesi medi di individui del- le due specie (“proporzione ponderale”) non danno alcuna ga- ranzia.

Risultati non migliori valgono per un altro possibile effetto av- verso dei farmaci: la teratogenesi, cioè la produzione di malfor- mazioni nella prole. L’aspirina le produce in ratto, topo, scim- mie, cavia, gatto e cane; fortunatamente non le produce nell’uo- mo. La caffeina è teratogena in ratto e topo, ma non lo è nel co- niglio; il cortisone, teratogeno nel topo e nel coniglio, non lo è nell’uomo e lo è solo in alcuni ceppi di ratti; l’insulina sintetica è teratogena su gallina, coni- glio e topo. E così via. 32

La replica usuale dei vivisezionisti è che questi esempi non mostrerebbero che le prove su animali sono inutili e fuorvianti, ma solo che vanno interpre- tate e messe a frutto. Se una specie rea- gisce diversamente da un’altra - per esempio, da quella umana - a un com- posto, ciò significa che esiste un qual- che fattore nella prima ma non nella se- conda che causa la differenza. Una vol- ta che lo si sia individuato, cosa che si può fare solo con altri studi ed esperi- menti su animali (!), si sarà meglio compreso il processo causale in atto an- che nell’altra specie. 33

L’argomento merita apprezzamento, perché contiene la franca ammissione che gli esperimenti su animali non ser- vono per evitare la sperimentazione sull’uomo, ma solo per confrontare i lo- ro risultati con questa. Nondimeno l’argomento è sbagliato.

L’assunzione implicita in esso è infatti che la differenza tra il comportamento di due specie si possa rappresentare come dovu- ta a uno o pochissimi elementi causali che agiscano su una di- namica di fondo identica. Secondo questa impostazione, l’ani- male è concepito, a parte differenze di scala, come ‘l’uomo più qualcosa’ o come ‘l’uomo meno qualcosa’, e l’aggiunta o la sot- trazione del qualcosa viene supposta produrre una correzione li- neare dell’effetto. Ma, come abbiamo visto, questa è un’assun- zione senz’alcun fondamento, né teorico né empirico. Potrebbe essere, al massimo, un’ipotesi di lavoro se già l’anatomia com- parata delle diverse specie animali non ci avesse da secoli mes- so sull’avviso contrario; e, soprattutto, se non fosse stata ripetu- tamente smentita da ciò che si verifica nei laboratori, e che ap- profondiremo nella prossima sezione.

6. Fragilità dei dati. Un fenomeno chiave che mette in discus-

sione l’intera sperimentazione sugli animali, e a maggior ragio-

ne quella mirata all’estrapolazione sull’uomo, è il suo difetto di

riproducibilità, ossia la dipendenza dei risultati da fattori 1) dif-

ficilmente controllabili, 2) privi di naturali parallelismi interspe-

cifici. Si noti che qui non si sta parlando di modeste fluttuazioni

delle grandezze misurabili, ma di drastiche variazioni che posso-

no arrivare fino all’inversione degli effetti. Benché poco o per

niente pubblicizzata, questa circostanza è stata ormai riscontra-

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ta a tutti i livelli, e documentata in numerosi articoli apparsi sul- le più qualificate riviste scientifiche. In particolare ciò confuta la pretesa, frequentemente avanzata, che gli animali in un laborato- rio sarebbero più ‘semplici’ da studiare dei pazienti in una corsia d’ospedale. La seguente rassegna è intesa a fornire solo alcuni esempi che mi sembrano particolarmente indicativi, e ovviamen- te non ha pretese di completezza.

6.1 Non riproducibilità nella stessa specie.

È un fatto che i risultati della somministrazione di uno xenobio- tico o dell’esposizione a un certo agente o procedura sono sog- getti a variazioni che rendono necessaria un’estrema cautela nel generalizzarli anche entro la stessa specie. Per esempio:

• Come già ricordato (§5), il cortisone è teratogeno solo su al- cuni ceppi di ratti; e abbiamo anche detto degli esiti incostan- ti dell’annullamento di un gene nei topi (§4).

• Il dietilstilbestrolo (DES) riduce l’incidenza di tumori in ratti Sprague-Dawley outbred, ma li produce nel 70% dei ratti ACI inbred. 34

• Il “Dose letale 50” (LD 50) è un test di tossicità acuta che ri- sale al 1927, e che è inteso a determinare la dose di una de- terminata sostanza che, somministrata al campione di anima- li, ne fa morire la metà entro 14 giorni. 35 Uno studio comples- sivo risalente agli anni 1970 mise però in evidenza che

nelle prove eseguite di sera morirono quasi tutti i ratti; in quelle eseguite di mattina sopravvissero tutti. Nelle prove eseguite in inverno la sopravvivenza risultò doppia ri- spetto alle prove eseguite in estate. Prove con sostanze tossiche eseguite su topi stabulati in gabbie affollate por- tarono a morte quasi tutti gli animali; sopravvissero, in- vece, tutti i topi stabulati in condizioni normali. [Croce 2000, p. 10]

Ulteriori analisi hanno pienamente confermato questa varia- bilità. 36

• Il “Draize test” per gli occhi, risalente al 1944, consiste nel- l’instillare (per circa una settimana e senza analgesici) nella cornea e nella congiuntiva di animali la sostanza di cui si vuo- le accertare il possibile danno da contatto oculare per l’uo- mo. 37 Benché esso sia entrato nelle normative di vari paesi (a cominciare dagli USA), si sa ormai che l’univocità del suo esito è compromessa da una varietà di circostanze; eccone una lista tratta da un recente articolo di rassegna:

tipo di animale, rapidità di uscita dal serbatoio [delivery vehicle] del prodotto da controllare, quantità di lacrima- zione per riflesso, misura e tempi della irrigazione suc- cessiva all’esposizione, sito dell’instillazione nell’occhio, chiarezza dei livelli di gravità da graduare, e graduazione soggettiva dell’esaminatore. Animali della stessa specie e ceppo possono rispondere in vari modi a un dato compo-

sto, ed esaminatori diversi possono ottenere risultati di- versi dallo stesso test. 38

In uno studio del 1971, 25 laboratori sottoposero al Draize test 12 sostanze già note come irritanti; il confronto tra le valuta- zioni dei vari laboratori rivelò una “variazione estrema” e gli autori del rapporto raccomandarono che questo tipo di prova non fosse inserita in nessuna nuova normativa. 39

• Una corrente sperimentale oggi fiorente cerca di stabilire qua- le sia l’effetto della somministrazione di fluidi in caso di gra- vi emorragie (“resuscitazione tramite fluidi”). Uno dei ‘mo- delli animali’ preferiti è il ratto, e l’emorragia viene provoca- ta tagliando la coda dell’animale (e quindi un’arteria princi- pale). Una metanalisi recente ha trovato che, in 16 studi con- dotti sul ratto, la resuscitazione tramite fluidi era risultata al- ternativamente dannosa o benefica. Sembra che il parametro critico fosse la lunghezza del pezzo di coda asportato, e cioè se - rispettivamente - questo era minore o maggiore del 50%. 40

È chiaro che la variabilità sopra illustrata, priva com’è di una corrispondenza non arbitraria con la variabilità di reazione nella specie umana, toglie senso scientifico agli esperimenti su anima- li in medicina. E tuttavia può nondimeno tornare molto utile - un po’ come per gli indovini la flessibilità dei criteri di previsione nella propria pratica è sempre stata una risorsa da sfruttare con sapienza. Un altro esempio farà capire ancor meglio perché.

Durante una recente udienza tenuta alla Camera dei Lords ingle- se, l’8 maggio 2002, Claude Reiss, biologo molecolare apparte- nente alla lega antivivisezionista “Doctors and Lawyers for a Re- sponsible Medicine”, ha affermato che ceppi diversi di topi esi- bivano una suscettibilità ai tumori che variava fino a 100 volte.

Richiesto di documentare questa dichiarazione egli ha sottopo- sto, successivamente, la seguente tabella (peraltro ‘ben nota’, in quanto risalente a quasi mezzo secolo fa): 41

Ceppo di topi F1 F2

C3H 100 5

A 85 89

DBA 85 1

C57L 5 25

Balb/c 5 25

Y 5 5

I 5 5

C57BI 1 1

Qui F1 rappresenta la percentuale di tumori mammari successivi all’iniezione sottocutanea di idrocarburi (che sono noti cancero- geni per l’uomo) in un dato ceppo murino; F2 è invece la per- centuale di tumori al polmone spontanei nello stesso ceppo.

Reiss ha sottolineato che la variazione nella potenza canceroge-

na può essere moltiplicata ancora per 10 modificando opportu-

namente la dieta degli animali, e che questo fenomeno si verifi-

ca non solo con i cancerogeni, ma anche con gli ormoni sintetici

(è citato il 17-beta-estradiolo, a cui i topi maschi del ceppo CD-

1 sono 100 volte meno sensibili di quelli dei ceppi C57BI/6J o

CI7/JI). 42

(7)

La tabella e i dati sopra riportati mostrano senza bisogno di al- tri commenti l’estremo rischio a cui si sottopone la salute collet- tiva nel momento in cui si pretende di tutelarla per mezzo di una metodologia così facilmente manipolabile.

6.2 Non riproducibilità nello stesso ceppo.

La variabilità discussa finora si ritrova anche se si raffinano i campioni di animali utilizzati negli esperimenti in direzione di una maggiore ‘purezza genetica’. Ecco alcuni esempi.

• Abbiamo già citato il Draize test, che fornisce un primo impor- tante esempio di non riproducibilità all’interno di uno stesso ceppo.

• Il cloroformio provoca tumori al fegato nelle femmine, ma non nei maschi, di vari ceppi di topi (Croce 2000, p. 38).

• In esperimenti condotti negli anni 1970 si trovò che topi appar- tenenti agli stessi due ceppi si ammalavano tutti di cancro in la- boratori statunitensi, e invece quasi mai in laboratori australia- ni; si ipotizzò che la ragione fosse il fondo delle gabbie, che ne- gli USA era ricoperto di trucioli di legno di cedro, e in Austra- lia di trucioli di pino nero (Croce 2000, pp. 42-43).

• Due anni fa, fu eseguito un esperimento già ‘classico’ di psico- farmacologia su topi e ratti, lo studio della reazione alla som- ministrazione di apomorfina; questi animali sono utilizzati con l’idea che possano ‘modellizzare’ la psicosi acuta, e quindi per le prove di supposti farmaci antipsicotici. Anche qui, diversi ef- fetti cruciali, come la risposta di ipotermia alla droga e la rela- zione dose-effetto risultarono, a parità di ceppo dell’animale, variabili con le condizioni di laboratorio, e con il cambiamento dalla gabbia abituale a una diversa (Harkin et al. 2000).

Un esempio clamoroso che permette di valutare ancor meglio il tipo di fattori che possono influenzare l’esito degli esperimenti è il seguente.

Recentemente si sono studiati sei tipi di comportamento in tre la- boratori, due statunitensi e uno canadese, su “esattamente gli stessi ceppi inbred di topo e un ceppo mutante nullo” (Crabbe et al. 1999). I ricercatori informano che:

Prendemmo misure straordinarie per eguagliare gli apparati dei test, controllando i protocolli e tutte le possibili caratteri- stiche dell’allevamento degli animali. [...] Ogni topo ricevette la stessa serie di test. [...] Malgrado i nostri sforzi di eguaglia- re gli ambienti di laboratorio, si trovarono effetti di sito signi- ficativi e, in alcuni casi, grandi per quasi tutte le variabili.

In particolare, in un articolo apparso nel 1996 su una rivista pre- stigiosa, Nature Genetics, lo stesso gruppo di autori aveva ripor- tato che topi transgenici in cui era stato annullato il recettore per la serotonina erano molto più avidi di alcol degli altri. L’esperi- mento era stato ripetuto quattro volte con lo stesso esito, e accla- mato come “un grande risultato” dai ricercatori nel campo delle assuefazioni, perché “sembrava fissare fermamente l’importanza del percorso della serotonina nell’assuefazione”. Ebbene, stavol- ta in tutti e tre i laboratori il risultato è stato smentito. 43 Quale spiegazione gli autori portano per questo sconcertante ri- baltamento? Uno degli autori ha dichiarato che esso è

il risultato di differenze molto sottili nelle condizioni di labo- ratorio, come la composizione chimica dell’acqua, o il modo in cui i ricercatori maneggiavano gli animali, o anche l’a- spetto e l’odore degli scienziati e dei tecnici. A Edmonton, un assistente era fortemente allergico ai topi e indossava una ma- schera. “Appare bizzarro a noi; forse appare strano anche a un topo” [...] [Enserink 1999, p. 1600]

Queste autorevoli considerazioni lasciano ben poco spazio a dubbi circa la desolante inconsistenza scientifica dell’intera im- presa.

6.3 Cervelli anormali

Che cos’è “strano” per un topo? Nel 2001, al 35 o congresso del- la International Society for Applied Ethology, sono stati resi no- ti i risultati di una ricerca, in base alla quale i ratti allevati nelle gabbie standard di laboratorio risultano avere “cervelli grave- mente anormali”, e indulgere in comportamenti stereotipati (co- sa, quest’ultima, che era stata notata per la prima volta solo nel 1996!); peggio ancora, questi comportamenti variano da labora- torio a laboratorio e quindi è difficile farne la ‘tara’ (Knight 2001). La proposta di arricchire con piccoli oggetti e strutture gli stabulari dei laboratori, ormai avanzata da più parti per diminui- re le non più negabili sofferenze della detenzione, si sta attual- mente scontrando appunto con l’obiezione che ne risulterebbero decisamente e imprevedibilmente influenzati sia il comporta- mento che la fisiologia degli animali:

Ciò avrà un effetto importante in misura crescente sull’esito di esperimenti scientifici, comprese le prove [trial] di farma- ci. [Ananthaswamy 2002]

In altre parole, si ammette ormai sulla stampa scientifica che i ri-

sultati delle prove precliniche dei farmaci sono legati a fattori

(8)

che finora erano invece ritenuti così trascurabili da non meritare nemmeno una particolare menzione nei resoconti scientifici!

Coloro i quali guardano la cosa in una prospettiva storica po- tranno ricordare la risposta ‘classica’ dei vivisettori a chi avan- zava dubbi sulle condizioni in cui erano tenuti gli animali: e cioè che era nell’interesse stesso della riuscita degli esperimenti che gli animali non fossero soggetti al minimo disagio, e che quindi gli sperimentatori erano professionalmente obbligati a garantire che così fosse. Agli zoofili e alle semplici persone di buon senso che si dicevano poco convinti del successo ottenuto al riguardo, i vivisettori rispondevano sprezzantemente attribuendo solo a se stessi la competenza necessaria per valutare questo genere di co- se. Adesso abbiamo qualche elemento in più per giudicare que- sto contrasto.

6.4 Problemi di metodo e di pratica sperimentale

Che cosa indicano, nel complesso, i fatti sopra elencati? Essi in primo luogo confermano la di per sé plausibile congettura (§4) che gli esperimenti sugli animali sono normalmente affetti da sensibilità alle condizioni iniziali, e quindi non si lasciano omo- logare oltre un certo grado relativamente rozzo, e sicuramente in- sufficiente per gli scopi che per il loro tramite si pretenderebbe di raggiungere (per es. produrre misure robuste e proiettabili in- terspecificamente dell’attivazione, da parte di uno xenobiotico, di certi meccanismi biochimici nell’animale). Si è cercato per se- coli di ottenere nello studio degli esseri viventi quella riproduci- bilità dei risultati che era alla base del metodo sperimentale nel- le scienze fisiche. Ciò che è emerso è invece una conferma del fatto intuitivamente ovvio che l’animale reagisce alle condizio- ni sperimentali non meno che alla sostanza o all’agente cui vie- ne esposto, e che l’effetto totale si compone in maniera non li- neare di questi due fattori. Come è stato detto molto felicemen- te per l’uomo, tutte le malattie sono al 100% genetiche e al 100%

ambientali. 44 Ma l’animale non è un uomo ‘semplificato’: esso pone problemi di controllo dell’ambiente e degli altri ‘fattori confondenti’ non meno complessi (ma diversi!) di quelli che si pongono per gli umani. In particolare, esorcizzare il “fantasma nella macchina” - cioè lo psichismo - è difficile per i più comu- ni animali da laboratorio più o meno come per l’uomo. Certo, a volte si riesce a identificare un esperimento che rappresenta me- glio di altri una qualche situazione ‘umana’: ma si può fare solo a posteriori, e senza che ciò ci aiuti nella risoluzione di qualsia- si problema nuovo. La rappresentazione è instabile e non può es- sere proiettata al di là del già noto se non con gravissimi e im- ponderabili rischi.

I fatti suesposti, in più, fanno sorgere interrogativi circa l’opera- to della comunità biomedica: se assistiamo a drastiche variazio- ni all’interno di una stessa specie e, anzi, di uno stesso ceppo, co- me si può anche solo concepire di estrapolare i risultati addirit- tura ad altre specie? E questione ancora più fondamentale e in- quietante: come mai di questa variabilità non si era preso uffi- cialmente atto, in decenni di sperimentazione e con miliardi di animali ‘sacrificati’? Eppure essa era stata denunciata chiara- mente da oltre mezzo secolo (§6.1). 45 Ora, una delle regole fon- damentali della ricerca scientifica è che bisogna dare la massima importanza alle smentite dell’esperienza, e abbandonare quegli

approcci che siano stati ripetutamente falsificati da essa. Dob- biamo concluderne che la pratica vivisezionista è governata da regole diverse da quelle della sana ricerca scientifica. In effetti, come ha osservato una ricercatrice, la verifica della riproducibi- lità dei risultati in vivo:

“[è] il tipo di studio che deve essere fatto ma che nessuno vuo- le fare [...] Vi mettete a frugare in qualcosa che alla gente pia- cerebbe credere che non è un problema”. 46

Da ciò segue che un numero enorme di ‘risultati’ ottenuti dai vi- visettori sono probabilmente invalidi, e che essi devono il loro credito alla semplice omissione dei tentativi di ripetizione. Que- sta congettura non è in realtà nuova, ed è anzi ben corroborata dall’esperienza storica. In un suo libro autobiografico il famoso fisico statunitense Richard P. Feynman ricordava che, intorno al 1947, “sembra che fosse pratica generale […] di non tentare di ripetere gli esperimenti di psicologia [sui ratti, per es.], ma solo di cambiare le condizioni e di vedere che cosa succede”, e clas- sificava correttamente questa come una delle caratteristiche del- la “scienza scadente [poor science]”. 47

7. Esperimenti su persone

Nonostante quanto precede, bisogna però riconoscere che c’è una lezione della sperimentazione animale che vale anche per l’uomo: è la difficoltà a generalizzare anche rimanendo nella stessa specie. In effetti anche gli esperimenti su uomini sono dif- ficilmente proiettabili, fatto questo a cui i mezzi di informazione hanno evitato per decenni di dare il rilievo che merita.

È ormai noto da tempo che farmaci sperimentati su uomini di gruppi etnici diversi sortiscono effetti estremamente differenti.

Ed è anche noto che l’incidenza di malattie (per esempio dei di- versi tipi di tumore) nei diversi gruppi etnici varia enormemen- te. 48 Ma può essere ancora più degno di nota il fatto che donne e uomini in uno stesso gruppo etnico reagiscono in maniera diver- sa ai farmaci. Quando dico ‘in maniera diversa’ non sto alluden- do a lievi sfumature. Per esempio recentemente l’ibuprofene, “un antinfiammatorio molto usato” e commercialmente rivolto so- prattutto alle donne, è stato provato su due gruppi di persone di sesso diverso a cui veniva provocato dolore mediante piccole scosse elettriche. Ebbene, solo i maschi provavano sollievo. (In- cidentalmente, l’ibuprofene “provoca crisi renali nei cani, anche a bassissime dosi”: 49 cosa, comunque, che non ha impedito la commercializzazione del prodotto!). Peggio ancora, uno studio su analgesici alla morfina, provati su persone dei due sessi a cui era stato estratto il dente del giudizio, ha mostrato che sulle don- ne questi erano efficaci, mentre sugli uomini essi facevano addi- rittura aumentare il dolore! Qualcosa del genere accade anche per gli effetti collaterali dei farmaci. 50 Non c’è da stupirsi troppo, in quanto

“Tutto il corpo femminile è diverso da quello maschile e le

differenze non riguardano solo gli apparati riproduttivi. Ci so-

no differenze a livello renale, o cardiorespiratorio: le donne

pompano il sangue e respirano in modo diverso dagli uomini

e diverso è il volume dei loro reni. [...] I dosaggi [delle stati-

(9)

ne] dovrebbero essere ritagliati anche sulle donne, visto che nel loro plasma si accumulano in quantità più elevata e che, di conseguenza, nell’organismo femminile esercitano maggiore tossicità. [...]”.

“Qualche anno fa si vide, per esempio, [...] che nella fase cli- nica i trombolitici causavano nelle pazienti emorragie cere- brali. [...] questo accadeva [...] perché i dosaggi non erano sta- ti messi a punto sulle pazienti femmine”. 51

E adesso si sta lentamente ufficializzando la consapevolezza an- che del fatto che dai risultati ottenuti su umani adulti è difficile concludere qualcosa di valido per l’uso pediatrico: come è stato detto, “Tutte le volte che un bambino viene curato si rischia di utilizzarlo come cavia”. In effetti “dal 50 al 70 % dei farmaci somministrati [ai bambini] non sono stati testati per uso pediatri- co”, 52 e contare sulla disponibilità dei pediatri a trasformarsi in sperimentatori nella loro pratica medica ordinaria non sembra es- sere la soluzione più sicura.

Questi fatti sono stati a lungo censurati, e non a caso. In effetti, una medicina che pensa di trasferire risultati niente meno che da una specie a un’altra non era minimamente in grado di valoriz- zarli senza confessare apertamente il proprio fallimento. Quanto all’ideale di “curare non la malattia, ma il malato”, tipico di altre tradizioni mediche, esso è stato per lo più accusato di pseudo- scientificità (pur facendo parte del repertorio retorico occasiona- le anche della medicina ufficiale). Adesso, però, queste

informazioni e ideali stanno finalmente emergendo alla luce del giorno, il che si spiega facilmente se si tiene conto dell’attuale contesto pubblico: servono infatti ad accompagnare la martellante propaganda a favore delle supposte terapie miracolose fondate sulla conoscenza del genoma umano, le quali dovrebbero dare un giorno la possibilità di confezionare “farmaci personalizzati” o

“su misura”. Messo da parte il ciarlatanismo di tali spe- culazioni, resta però che anch’esse costituiscono una pubblica, sebbene tardiva, ammissione delle grandi dif- ficoltà insite nell’utilizzare l’uomo stesso come ‘model- lo’ dell’uomo.

8. Quanto valgono i test su animali?

Prima di essere legittimata e inclusa in normative, la vivisezione avrebbe dovuto essere valutata come qualsiasi test in termini del- la sua affidabilità predittiva. 53 Alla luce della discussione prece- dente possiamo tranquillamente congetturare che ciò non è mai avvenuto, almeno in maniera attendibile. La congettura risulta rafforzata dalle semplici considerazioni seguenti.

Limitiamoci alla tossicologia per semplicità di esposizione. Di- ciamo veri positivi (risp. veri negativi) i casi in cui una sostanza è tossica (risp. non tossica) sia sull’uomo, sia sugli ‘animali’. La sensibilità S (risp. specificità S’) della vivisezione in tossicologia è, per definizione, il tasso di veri positivi (risp. negativi). I valo- ri predittivi positivo e negativo della vivisezione si definiscono in modo naturale, rispettivamente, come la probabilità che una so- stanza che sia tossica (risp. non tossica) su ‘animali’ sia tale an- che nell’uomo. Nella tabella qui sotto a+b+c+d è il numero to- tale delle sostanze finora messe alla prova.

• Sensibilità = a/(a+c)

• Specificità = d/(b+d)

• Valore predittivo positivo = a/(a+b)

• Valore predittivo negativo = d/(c+d)

È chiaro che dalla vivisezione dovremmo esigere un’alta sensi- bilità (per tutelarci contro sostanze tossiche che altrimenti sfug- girebbero al test), ma anche un’alta specificità (per evitare di buttar via sostanze utili come penicillina, aspirina e fagioli!).

Ora, un requisito essenziale perché la valutazione della vivise- zione nei termini suddetti sia corretta, è che i dati di partenza su cui si fonda, e cioè quelli delle prove sugli ‘animali’ e sugli uma- ni, siano stati ottenuti indipendentemente. Altrimenti si rischia di creare grossolani effetti di selezione che invalidano l’intera pro- cedura. In effetti, data l’ambiguità della vivisezione, se si sa in anticipo che una sostanza è tossica per l’uomo, allora è molto probabile (cfr. §§ 6.1, 10) che prima o poi - e per lo più con di- speranti ritardi - si riuscirà ad ottenere su ‘animali’ un risultato che qualche ‘autorità’ sarà disposta a classificare come ‘analo- go’. Purtroppo nella maggioranza dei casi, i dati ‘positivi’ su animali sono stati ottenuti dopo che già si avevano dati definitivi o almeno

‘forti sospetti’ relativi all’uomo. Ne vedremo un esempio molto importan- te nella sezione 10.

Viceversa, per avere dati abbastanza completi, si sarebbe dovuto aspettare l’esito delle prove su umani anche se risultati su ‘animali’ avevano segna- lato la tossicità di una sostanza. Ma neanche questa condizione è soddi- sfatta: infatti in un gran numero di ca- si, essendo in vigore regolamenti che escludevano dall’ulteriore sperimenta- zione sull’uomo sostanze risultate tos- siche sugli ‘animali’, le prove sull’uo- mo non sono mai state eseguite. Come ha ammesso un noto vivisettore britannico, Michael Festing [1997], la probabilità che una sostanza tossica su ‘roditori’ lo sia anche sull’uomo non è in realtà calcolabile:

[...] l’ipotesi che il composto non è un cancerogeno per l’uo- mo anche se è un cancerogeno per i roditori potrebbe essere controllata, anche se ciò è difficile e raramente tentato.

In altre parole, un dato fondamentale per risolvere il problema del valore predittivo della vivisezione (e precisamente i valori a e b nella tabella) è “difficile” da stabilire, e “rar[o]” che ci si pro- vi. Bisogna d’altra parte notare che, proprio a causa dell’ambi- guità e contraddittorietà della metodologia vivisezionista, i sud- detti regolamenti non sempre hanno impedito il successivo pas- saggio all’uomo (§11). Il lettore potrà trovare illuminante a tale proposito che esiste un’intera industria, quella dei rodenticidi,

Test U+ U-

A+ VP=a FP=b

A- FN=c VN=d

Michael Festing

(10)

che si occupa della produzione e commercializzazione di sostan- ze letali per i roditori ma più o meno innocue per l’uomo e altri animali! 54

L’esito di questa analisi è semplice: quali siano genuinamente i veri positivi e i veri negativi della vivisezione in tossicologia non è possibile saperlo. D’altra parte, come abbiamo visto, le condi- zioni che impediscono questa valutazione sono tali da far so- pravvalutare sistematicamente specificità e sensibilità. Pertanto le percentuali che si trovano nella letteratura sono soltanto limiti superiori, verosimilmente molto esagerati. In altre parole, anche a prescindere dalle considerazioni già esposte che mostrano l’in- trinseca inconsistenza della vivisezione, si dovrà ammettere che:

1) non esistono stime oggettive delle virtù della vivisezione in quanto test di tossicità (o di efficacia ecc.); 2) le modalità in cui questa pratica è gestita dall’establishment biomedico ne aumen- tano artificiosamente il ‘punteggio’. Questo è un fatto che sem- bra sfuggire alla maggioranza dei vivisezionisti, compresi quelli che dirigono importanti agenzie sanitarie internazionali. Vedre- mo però adesso che anche nella letteratura ufficiale si sta ormai facendo strada la nozione che la validità dei test vivisezionisti non è ‘ancora’ stata dimostrata.

9. “Metodi alternativi: a che cosa?”

La situazione descritta è anche responsabile dello stallo in cui da decenni, anche se con qualche recente schiarita, 55 si sono trovati i proponenti di metodi “alternativi” alla vivisezione. In effetti la richiesta di dimostrare che il nuovo metodo è ‘almeno tanto buo- no quanto’ quello vecchio è molto difficile da soddisfare... per- ché in realtà nessuno ha dimostrato che il metodo vecchio fun- ziona! Pietro Croce l’aveva chiarito a sufficienza già all’inizio degli anni Ottanta nel suo importante saggio critico, in un capi- tolo intitolato come la presente sezione. 56 Ma ormai ciò è rico- nosciuto anche nella letteratura ufficiale. Sei anni fa Nature ha pubblicato un articolo dove si legge:

Test alternativi si sono dimostrati difficili da sviluppare per due ragioni principali. Primo, gli scienziati sono ostacolati dalla mancanza di dati forti sui test su animali attualmente in uso, perché l’industria è riluttante, per ragioni commerciali, a rendere disponibili i propri fascicoli a sviluppatori indipen- denti di test. L’industria è anche riluttante a fornire a persone esterne le sostanze chimiche di cui hanno bisogno per valida- re nuovi test.

Si noti bene: la documentazione indispensabile per stabilire in che misura le prove di tossicità su animali funzionino non è pubbli- camente disponibile, e non è accessibile nemmeno ai professioni- sti del settore: è tutelata da segreto industriale. Il testo prosegue:

Secondo, i test alternativi devono dimostrarsi uguali, o mi- gliori, dei test su animali, anche se per la maggior parte dei test su animali non è mai stato dimostrato che essi siano i mi- gliori modelli della tossicità umana. [Abbott 1996]

In altri termini, se per caso un test ‘alternativo’ riuscisse a ri- produrre i risultati della vivisezione ciò probabilmente indiche-

rebbe che esso in realtà non vale granché. L’anno dopo Festing conferma, seppure in maniera contorta, questo giudizio:

Sospetto che la qualità scadente degli attuali progetti speri- mentali sta portando a imprecisioni che rendono estrema- mente difficile la validazione di test alternativi in vitro e a bre- ve termine. [Festing 1997, p. 321]

Mi sembra che queste dichiarazioni chiariscano a sufficienza in che tipo di pantano metodologico si trovi oggi la ricerca tossico- logica a causa della sopravvivenza della fede vivisezionista. Di

fronte a tale confusione e mistificazione anche il moderatissimo Select Committee on Animals in Scientific Procedures britanni- co si è sentito in dovere di emettere nel 2002 i seguenti parere e raccomandazione:

8. Si è concluso che l’efficacia e l’affidabilità dei test anima- li è indimostrata. Si è raccomandato che l’affidabilità e la ri- levanza di tutti i test animali esistenti sia rivista con urgenza.

[HL 2002, p. 80]

Per illustrare le conseguenze di questo stato di cose, che i pro-

fessionisti del settore hanno, a partire da Bernard, sistematica-

mente rimosso e negato, ci soffermeremo su un esempio molto

chiarificatore di come ‘funzioni’ la tossicologia vivisezionista

(§10), e passeremo poi a discutere le conseguenze dell’uso della

vivisezione nell’iter di approvazione di nuovi farmaci (§11).

(11)

10. Un caso esemplare: il fumo di tabacco

Come si sa, il tumore ai polmoni è considerato oggi la prima cau- sa di morte per tumore, e solo negli Usa è responsabile di 150.000 vittime all’anno; la stima annua in tutto il mondo arriva al milione. Il progresso terapeutico per questo tipo di cancro è stato scarso; un recente editoriale di Nature dichiara che “Per il futuro prevedibile, il fumo ucciderà più gente di quanta i ricer- catori nel campo dei tumori possano sperare di curarne”. 57 Generalmente si attribuisce all’inglese Richard Doll il merito di aver scoperto, nel 1953, la connessione tra fumo e tumore ai pol- moni - grazie a un’indagine epidemiologica. Ma la verità è un po’ più complessa, se già nel

1933 il triestino Enrico Ferra- ri poteva scrivere che “senza dubbio” il fumo di sigarette era una causa principale di cancro al polmone. 58 La rela- zione tra fumo e tumore a lab- bra, bocca, gola ecc. era stata individuata fin dal XVIII se- colo, su base clinica ed epide- miologica, ma quella con il tu- more al polmone era stata de- finita chiaramente solo alla fi- ne degli anni Venti. Ciò era avvenuto in maniera partico- larmente incisiva nel 1929 in un articolo del medico tedesco Fritz Lickint, il quale, dieci

anni dopo, pubblicava una monografia di 1100 pagine su “Ta- bacco e organismo”, che è stata detta “probabilmente il più com- pleto atto d’accusa erudito mai pubblicato sul tabacco”. 59 In essa si sosteneva anche il rischio cancerogeno del “fumo passivo”

(proprio questo il termine usato da Lickint). In una dissertazione dello stesso 1939 un altro studioso tedesco, Franz H. Mueller, definiva “lo straordinario aumento nell’uso del tabacco” come

“la più importante singola causa della crescente incidenza del cancro ai polmoni”. Questi risultati indussero le autorità sanita- rie nella Germania nazista a impostare un’aggressiva ed efficace campagna anti-fumo.

Prima che queste nozioni si facessero strada, in parte, negli altri paesi europei si dovette però aspettare per parecchi anni. Le prime dichiarazioni ufficiali sul nesso tra fumo di tabacco e tumore al polmone risalgono al 1962 (da parte del Royal College of Physi- cians britannico) e al 1964 (il Surgeon General degli USA), eppu- re non bastarono a mettere a tacere i dubbi espressi da autorità in cancerologia. Ora, l’argomento principe degli scettici è sempre stato la mancata riproduzione dell’effetto sugli animali, a volte implicito nella critica che “la scienza medica non ha trovato le cause fondamentali del cancro al polmone”. 60 E ancora nel 1964 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomandava l’esecuzione di ulteriori studi vivisezionisti sugli effetti del fumo. 61 Per convincersi di questo dato storico essenziale per una corret- ta valutazione dei meriti della vivisezione, è opportuno consul- tare un certo numero di testi intorno a quegli anni. Nel 1954, in un volume intitolato Biochimica del Cancro, l’autore, J. P.

Greenstein, scriveva:

La debolezza essenziale degli argomenti a favore [di una con- nessione causale tra cancro al polmone e fumo di tabacco] è dovuta alla mancanza di qualsiasi solida evidenza sperimen- tale [cioè, vivisezionista] che il tabacco è cancerogeno. 62 Nel 1957 un noto esperto nel campo dei tumori osservava:

L’insuccesso di molti ricercatori nell’isolare uno specifico cancerogeno umano dal tabacco, così come la loro incapaci- tà di indurre tumori sperimentali tranne che in una manciata di casi, getta un serio dubbio sulla validità della teoria siga- retta-cancro al polmone. Sfortunatamente, i risultati negativi raramente ottengono i titoli di testa, cosicché il pubblico è spesso messo nella posizione di confondere l’eccezione con la regola […]. 63

In altre parole: il fatto che in casi sporadici ci fosse indu- zione di tumori negli animali (vedremo sotto di che cosa si trattava) non poteva certo es- sere preso come conferma della suddetta “teoria”, e il pubblico non doveva farsi al- larmare dalle notizie circa quei casi. Un argomento inec- cepibile, tranne che per l’in- debita assunzione che senza una prova vivisezionista la “teoria” non era credibile.

In un importante volume monografico ed enciclopedico di qual- che anno dopo (1961), si parla del

fatto incontrovertibile che […] la questione della produzione dei tumori negli animali di laboratorio per mezzo di cancero- geni del tabacco è controversa, se non addirittura caotica. 64 Facciamo un salto di vent’anni (1975) e consultiamo un libro scritto da un medico e dedicato alla “lotta contro il cancro”:

[…] l’induzione del cancro al polmone con il fumo di tabac- co non è stata realizzata. Si è progettato quasi ogni concepi- bile esperimento per indurre in animali cancri al polmone che duplicassero i cancri al polmone che si trovano nell’uomo. Si sono fatti fumare e inalare polli e cani, ma non si è sviluppa- to alcun convincente cancro al polmone. Centinaia di topi hanno passato l’intera vita in stanze riempite di fumo, eppure non si è trovato alcun aumento nel cancro al polmone […] 65 Tra questi interventi se ne situa uno datato 1956, dell’allora di- rettore medico e scientifico della American Cancer Society, Charles S. Cameron. In esso viene chiarita con insolita schiet- tezza la natura del problema e dai dati disponibili all’epoca si traggono conseguenze molto diverse da quelle accettate da alcu- ni degli autori sopra citati.

Cameron confermava che i risultati epidemiologici, pur perfetta-

mente coerenti e convincenti, erano ancora squalificati da taluni,

(12)

perché privi di una corrispondente “dimostrazione in laborato- rio”. E dopo aver messo in guardia dalla sottovalutazione dell’e- videnza clinica, dichiarava che finalmente si era riusciti a creare su topi, in laboratorio, un “vero cancro” alla pelle, e ciò nel 26%

dei casi... In che modo? Condensando il fumo di sigarette acce- se e pennellando con il ‘catrame’ risultante la schiena dei topi. 66 Naturalmente si era provata anche la via più ovvia. Ma - come abbiamo visto - far inalare fumo agli animali semplicemente non funzionava. Cameron spiegava come questo fatto andasse inter- pretato:

[...] in considerazione dei pochi esperimenti di inalazione che sono stati portati avanti abbastanza a lungo da dimostrare una qualsiasi influenza cancerogena che il fumo possa avere, sa- rebbe stato uno stupefacente colpo di fortuna [astonishingly fortuitous] se proprio la tecnica giusta fosse stata usata nel- l’applicare fumo di tabacco proprio nella giusta quantità, proprio durante il giusto intervallo di tempo e proprio sul tes- suto giusto di proprio l’animale giusto.

E, in una prospettiva più generale:

I problemi di produrre il cancro nel laboratorio di ricerca so- no estremamente complessi e lungi dall’essere ancora com- presi. Ciò che causa cancro in una specie non necessariamen- te lo causerà in un’altra. Ciò che causa cancro in un tessuto di un animale non necessariamente lo causerà in un altro tessuto dello stesso animale. È quindi concepibile che se il fumo di ta- bacco contiene davvero un agente che causa cancro nei pol- moni di esseri umani, può non avere questo effetto nei polmo- ni o in qualsivoglia altro organo di un topo, o di una cavia, o di un cane. [Cameron 1956]

E a conferma Cameron dava un esempio: benché ci fossero pro- ve statistiche, generalmente accettate, del fatto che i cromati in- ducono cancro nell’uomo, “nessuno è mai riuscito a produrre cancro in un animale da esperimento con cromo o qualsiasi com- posto contenente cromo”.

Queste citazioni mettono in evidenza diversi fatti fondamentali, in pieno accordo con le tesi sostenute nelle sezioni precedenti:

• che il tipo di fenomeno patologico che si intende come la ‘du- plicazione’ della patologia nell’uomo è qualcosa che non può essere determinato a priori;

• che se non fosse preesistita una base clinica ed epidemiologica tale da convincere ad insistere con le sperimentazioni non si sa- rebbe mai arrivati ad alcun risultato “adeguato”;

• che aspettare una conferma attraverso la vivisezione prima di qualificare come ‘scientificamente dimostrata’ la cancerogeni- cità del fumo di tabacco ha ritardato la presa di provvedimenti sanitari e le campagne di informazione;

• e che, infine, l’arbitrarietà nella scelta dei tempi, delle dosi, e della specie su cui provare la sostanza rende possibile dimo- strare con la vivisezione la cancerogenicità, o l’innocuità, di praticamente qualsiasi sostanza.

Qual è la situazione oggi dopo quasi mezzo secolo? Ci possia- mo rivolgere all’archivio della International Agency for Re-

search on Cancer (IARC) di Lione, collegata all’OMS (vedi sito

<I>). Per quanto riguarda l’inalazione di fumo di tabacco, fino a poco tempo fa la IARC dava le seguenti informazioni (“Tobac- co Smoke”, sotto “B. Evidence for carcinogenicity to animals”):

Il fumo di sigarette è stato testato per la cancerogenicità me- diante inalazione in topi, ratti, criceti e cani. L’esposizione di criceti e ratti al fumo intero produsse tumori maligni del trat- to respiratorio [ref:1]. Nei topi, l’inalazione del fumo di ta- bacco intero ebbe come risultato un leggero aumento nell’in- cidenza dei tumori al polmone alveogenici, ma ciò non era statisticamente significativo in alcuni degli studi [ref:1,3]. È stata riportata un’incidenza di tumori al polmone anche nei cani esposti al fumo di sigaretta, ma i dati erano insufficienti per la valutazione. Tumori del tratto respiratorio sono occor- si in roditori esposti sia al fumo di sigarette che a 7,12-dime- tilbenz[a]antracene in misura maggiore che se esposti ad ognuno di essi preso da solo; lo stesso è vero per la concomi- tante esposizione al benzo[a]pirene o a derivati figli del radon [ref:1]. [Ultimo aggiornamento: feb. 1998]

Si notino le differenze tra le specie (cfr. §5), e soprattutto la ter- minologia: “leggero aumento”, “non statisticamente significati- vo”, “dati […] insufficienti”: di che nutrire altri decenni di espe- rimenti prima di ottenere la (adesso) desiderata ‘dimostrazione’.

Nel luglio 2002 la IARC modifica il testo annunciando il volu- me 83 della sua collana di monografie, intitolato Tobacco Smo- ke and Involuntary Smoking, e premettendo la seguente avver- tenza generale:

A causa dell’importanza per la salute pubblica di queste va-

lutazioni, i sommari sono inseriti sul sito, eccezionalmente,

prima che il volume delle Monografie sia pronto per la stam-

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