• Non ci sono risultati.

CAPITOLO UNO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO UNO"

Copied!
106
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO UNO

C’era un tempo un ragazzino di nome Orrendo che nei suoi primi dodici anni di vita non aveva mai detto una parola scortese. Neanche a Putrida, la sua lucertolina con l’alito cattivo e il viziaccio di sputare.

Se qualcuno gli rubava il pranzo Orrendo era pronto a dire: «Oh poverino, devi essere davvero affamato! Perché non prendi anche la mia torta al cioccolato?» O se per caso qualcuno gli sfrecciava davanti e lo colpiva negli stinchi lui reagiva dicendogli: «Mi dispiace di essere sempre in mezzo! Spero che non ti sia fatto male al piede sbattendo contro il mio stinco!»

Suo padre cercava di ignorare i suoi modi. La madre invece si disperava. «Come potrà mai sopravvivere in questo mondo crudele» diceva preoccupata, «se non riesce neanche a dire: “Guarda dove vai, brutta palla di pelo melmosa”?»

«Oppure», aggiungeva il padre, «“stupido scarafaggio mangia sterco?”» La madre di Orrendo guardava con ammirazione il marito. «Oh, perché non ha ereditato la tua lingua tagliente come un rasoio?»

«O i miei muscoli scolpiti?», sorrideva lui.

Probabilmente, però, doveva essere da tempo che il padre di Orrendo non guardava il figlio con attenzione perché, a dire il vero, era diventato un ragazzo forte e robusto. Già a dieci anni i muscoli delle braccia erano duri come rocce e quando li contraeva, si gonfiavano incredibilmente. (Tuttavia Orrendo non lo faceva mai in presenza di altri per non sembrare minaccioso o litigioso.)

Le spalle larghe e la sua grande forza erano dovute al nuoto. Ogni giorno si alzava all’alba e arrivava giù fino al mare, ai piedi del villaggio. Nuotava

(2)

avanti e indietro lungo la riva mentre tutti gli altri russavano ancora. Persino quando infuriava la tempesta lui correva alla spiaggia. Adorava sentire sulla pelle il leggero tocco dell’acqua e il silenzio che c’era sotto le onde. Laggiù, al di sotto della superficie, non potevano dargli del perdente pappamolle né ordinargli di mangiare il suo stesso cerume.

Nessuno al villaggio si era accorto che i muscoli di Orrendo erano come delle collinette. Li teneva nascosti sotto il maglione e li usava solo per aiutare le vecchiette con le borse della spesa, o per sollevare pietre che servivano a costruire dei bei muretti nei giardini dei vicini.

«Oh, perché quella vecchia strega doveva scegliere proprio mio figlio?», piangeva ogni giorno la madre di Orrendo. «Cosa ho fatto io per meritare una punizione del genere?»

Orrendo si agitava imbarazzato e si guardava attorno. «Non è una vecchia strega, mamma, è una Signora Saggia.» La riprendeva con gentilezza, preoccupato, e le ricordava che Gretel la Signora Saggia aveva orecchie ovunque (per così dire) e detestava ogni forma di scortesia. «È sempre meglio tacere, cara mamma, quando non si può dire nulla di carino. Soprattutto se si ha a che fare con una Signora Saggia.»

La madre di Orrendo mugolava sprezzante: «Saggia, quella faccia d’acciuga di mia zia! Saggia? A fare un Incantesimo al mio unico figlio? In questo mondo crudele? Mah! Vai, muoviti e rinchiudi Putrida per la notte, prima che dia la tua testa bacata in pasto agli uccelli nel bosco.»

A dire il vero, però, non è che a Orrendo piacesse essere sempre cortese. A volte anche lui odiava la Signora Saggia che lo aveva scelto per il suo Incantesimo e lo aveva reso così diverso. A volte avrebbe voluto dire: «Perché

(3)

non vai a farti friggere tu, razza di ficcanaso perfido con la faccia da budino!», soprattutto quando Bombazza, il prepotente della classe, gli tirava i capelli. Ma le parole non arrivavano mai alle labbra. Al posto di un’imprecazione spuntava un complimento, dolce e delicato come un bocciolo di rosa.

Era solo una questione di sorte, ecco cos’era. Cattiva sorte.

Perché il giorno in cui nacque Orrendo, la Signora Saggia venne in città.

A questo punto dovrei dirvi che appena fuori dal villaggio in cui viveva Orrendo c’era una foresta dove andavano a caccia le civette e strisciavano i serpenti. Prendendo il sentiero stretto che partiva dal villaggio e seguendolo fin dentro il bosco, si giungeva a una radura. Proprio lì, circondata da un giardino ben curato e pieno di verdure ed erbe mediche, c’era la casetta di Gretel la Signora Saggia.

Gretel visitava il villaggio solo raramente, dato che il cibo che cucinava e le erbe per le pozioni provenivano tutte dal suo giardino. Per compagnia aveva un gatto siamese che le stava appoggiato sulle spalle come un tappetino, perfino d’estate. A ogni modo, tutte le volte che Gretel indossava le scarpe da passeggio e visitava il villaggio, accadeva sempre qualcosa di misterioso.

Il giorno della nascita di Orrendo, Gretel stava comprando del filo a un banco del mercato. Un ragazzino in bici le passò accanto e, notando il gatto adagiato pigramente sul collo, urlò: «Ciccione di un gatto, vai a caccia di un ratto!»

La Signora Saggia gli lanciò un’occhiata che lo bloccò lì sulla strada. «Ne ho abbastanza di questo villaggio e della sua scortesia», disse con calma. Puntò il dito verso il ragazzo e poi su tutte le case che circondavano la piazza. «Oggi nascerà un bambino che avrà il dono della parola, ma sarà incapace di

(4)

imprecare o insultare. Avrà il dono del movimento, ma sarà incapace di ferire o di maltrattare. E solo allora vedrete.» Un istante dopo Gretel riprese a osservare i colori adatti per i suoi fili.

Orrendo, in effetti, nacque proprio quel martedì e ciangottò felice finché la madre lo cullò tra le braccia. Lei aveva sperato e pregato per due anni che la maledizione non funzionasse, ma quando il figlio finalmente pronunciò la sua prima parola, si rese conto del peggio e il suo cuore sprofondò nel dolore.

«Grazie mille, mammina mia, per questo delizioso passato di rape. Era davvero squisito ma non dovresti affannarti tanto solo per me.»

Mai nel villaggio era esistito qualcuno come Orrendo. I libri nella biblioteca del paese vantavano solo bricconi e mascalzoni. Tutti avevano facce da duri e lingue velenose, e nessuno diceva “grazie” o “per favore”, perché gli abitanti del villaggio vivevano in un mondo cupo, governato da prepotenti pirati che erano il terrore dei mari.

(5)

CAPITOLO DUE

Tutti i bambini del villaggio avevano paura dei pirati. Non importava quanto fossero istruiti a essere duri e rudi, né quante lezioni di “lotta di spada” o di “invenzione d’insulti” avessero seguito, fatto sta che tutti tremavano al solo pensiero del teschio e delle tibie incrociate. E così anche i loro genitori, le zie, gli zii, e i loro nonni.

Questo perché, ogni autunno, i pirati approdavano con la loro bandiera nera sventolante e piombavano nel villaggio.

Si vedevano arrivare a distanza di miglia. La nave alta spuntava all’orizzonte e avanzava verso il porto, silenziosa, come l’oscurità. Non c’era modo di fermarla. Era come cercare di bloccare la propria ombra. A quel punto, si sentivano già. Tutto quell’imprecare e combattere a bordo bastava a svegliare un calamaro gigante sul fondo dell’oceano.

I pirati non tentavano di cogliere il villaggio di sorpresa. Non ce n’era bisogno. Provavano i potenti cannoni sul paese e poi procedevano indisturbati, con le loro sciabole e i denti d’oro luccicanti, a prendere tutti i ragazzi che avevano compiuto dodici anni. «Acciuffate i mocciosi!», ruggivano. «Acchiappate quel frignone! Legate quei marmocchi!» E i ragazzi venivano trascinati da enormi mani pelose, uno per uno, come se fossero fili d’erba.

Nel villaggio compiere dodici anni era come essere travolti da un terremoto o come nuotare contro un maremoto. Perché solo se si riusciva a sopravvivere a bordo per due anni, si poteva far ritorno a casa. E in pochi ce l’avevano fatta.

(6)

I bambini si tappavano le orecchie per non ascoltare e gli anziani chiudevano gli occhi. Gli uomini adulti in città volevano dimenticare il loro incubo per mare.

Lo stesso padre di Orrendo si comportava come se non fosse mai accaduto, eccetto alcune volte in cui si sentiva urlare nel sonno: «Toglimi quella frustaccia di dosso, sporco criminale, o te l’attorciglio al collo così stretta da farti schizzare fuori le palle degli occhi come uova sode!»

Orrendo ricordava ancora l’anno in cui fecero ritorno Furfante e Meticcio, secchi e scheletrici, sfregiati ovunque dalle frustate. Quando provavano a parlare la gente scappava,ma Orrendo, per non essere scortese, restava lì con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.

«Dovevi vedere, uomini che andavano giù come mosche su tutto il ponte», sussurrava Meticcio. «Se non si tiravano su in trenta secondi il Capitano minacciava di gettarli in pasto agli squali: “Una bocca in meno da sfamare” diceva, e faceva uno dei suoi ghigni diabolici, davvero micidiale.»

«Proprio così», diceva Furfante. «Uomini che collassavano per un duello alla spada, per la fame o per il troppo lavoro. Corpo di mille balene, come se la ridevano quando siamo arrivati noi altri, ci toccava cucinare, tirare a lucido il ponte, e pure arrampicarci sulla coffa. Vogliono solo i più piccoli, sapete, perché è facile addestrarci e non possiamo reagire.»

Erano secoli che andava avanti così. Il villaggio di Orrendo, con la sua baia nascosta, era da sempre il preferito dei pirati per razzie e saccheggi, al punto che per alcuni anni erano rimasti al villaggio talmente pochi maschi che uomini di altre isole erano stati invitati a spostarsi e a metter su casa lì.

(7)

Nessuno ricordava un periodo in cui non c’era stato il Capitano a governare i mari. E non era forse vero che sulle isole aveva spie ovunque? Un diavolo, borbottavano le persone riferendosi a lui, un demone di cui non ci si poteva sbarazzare.

I libri del villaggio erano zeppi delle gesta macabre del Capitano, ma Orrendo e i suoi compagni di classe non avevano osato aprirne uno, dopo che Bombazza aveva letto un capitolo intitolato: “Cannibalismo: una dieta umana nei mari”.

Orrendo, come tutti gli altri, aveva iniziato la scuola a quattro anni. Le bambine cominciavano dopo, a sei, e andavano alla scuola che si trovava dall’altro lato del villaggio. Spesso si fermava a guardare con nostalgia gruppi di ragazzine che passeggiavano nella piazza. A volte, anche loro ricambiavano il suo sguardo nostalgico. A ogni modo, le amicizie tra maschi e femmine non erano incoraggiate nel villaggio, perché legami stretti di quel genere, dicevano gli anziani, portavano di sicuro a soffrire.

Durante il primo anno, per rafforzare i nervi e prepararli alla vita per mare, ai bambini erano impartite lezioni di “insulti insolenti” e “risposte rozze”. Inoltre, per cercare di aiutarli a sfuggire alla cattura (un compito impossibile, secondo gran parte dei maestri, ma cos’altro potevano fare?), i ragazzini andavano a lezione di “prese erculee”, “lancio del remo”, “fingersi morto” e “salto sul pirata da grandi altezze”.

Negli anni successivi i ragazzi si specializzavano in “agghiacciamento di cuccioli” e allenavano i loro animaletti a lanciarsi all’attacco di un pirata e morderlo, avvelenarlo, fargli il solletico o paralizzarlo. Per questa ragione i

(8)

genitori di Orrendo gli avevano regalato Putrida, ma alla lucertola sembrava interessare soltanto sputare al suo padrone.

La materia preferita di Orrendo era “nascondino”.

Ce la metteva tutta anche nelle altre materie e grazie ai suoi muscoli forti andava bene in “lancio del remo”. Ma se gli dicevano di lanciare il remo

addosso a qualcuno, non ci riusciva. A ogni modo, per quel che ne sapeva,

“nascondino” era l’unica materia che poteva dare qualche risultato.

Prendiamo per esempio quella volta in cui quei due ragazzi, Vile e Malvagio, scamparono alla cattura; si trattava dell’anno in cui Orrendo aveva iniziato la scuola. I due ragazzi si erano nascosti sotto una barca a remi capovolta, giusto accanto alla nave! Nessun pirata andava a pensare che un ragazzo del villaggio avrebbe avuto il coraggio o avrebbe osato avvicinarsi tanto. Vile e Malvagio all’epoca diventarono due leggende, e la loro astuzia e quel successo diedero a tutti un po’ di speranza.

Ciononostante, non c’era scampo: il pensiero di compiere dodici anni era deprimente. Era come mettere delle parentesi alla propria vita o, ancora peggio, un punto fermo. Perfino Orrendo, che cercava di avere sempre dei bei pensieri per ricavare il meglio dalle cose, qualche volta si sentiva giù.

«Devi solo imparare a prendere il meglio di ogni giorno», osservava spesso suo padre, «fino allo spuntare dell’ultimo. E quello sì che sarà uno schifo di giorno. La pagina più spregevole che tu abbia mai girato. Il capitolo più lurido delle avventure di una vita. Ma non pensare a tutto questo ora. Io non lo faccio. Tranquillo. Divertiti!»

(9)

Una mattina, qualche giorno prima del suo dodicesimo compleanno, Orrendo andò giù al mare come faceva sempre. Nuotò in su e in giù lungo la costa, oltre le onde, ma non sentì quel leggero fremito di libertà che avvertiva solitamente. In realtà, sentiva le braccia pesanti come piombo e pensava che sarebbe potuto andare a picco come un sasso. Avrebbe fatto tardi a lezione se non si fosse dato una mossa, ma in quel momento non gli importava.

Il dodicesimo anno di vita di un ragazzo era il peggiore, lo dicevano tutti. Questo perché era molto probabile che fosse anche l’ultimo.

Mentre Orrendo stava a galla sull’acqua come un sacchetto di carta bagnato, gli venne un’idea. Era un’idea così brillante che d’improvviso sentì di nuovo l’energia nelle braccia, e la rinascita di speranza fece pompare selvaggiamente il suo cuore.

Perché non nascondersi sotto l’acqua all’arrivo dei pirati? Sarebbe stato geniale! Forse si sarebbe nascosto addirittura sotto la loro nave! Si sarebbe esercitato a trattenere il respiro ogni mattina quando andava a nuotare, magari sarebbe diventato bravo a tal punto da trasformarsi in un pesce!

Fece un paio di giri di prova e poi rispuntò fuori a riva, a malapena si asciugò. Era impaziente di raccontarlo a tutti. Era impaziente di iniziare gli allenamenti.

Quando arrivò a scuola, aveva ancora i capelli bagnati.

«Ascoltatemi tutti», disse ansimante e interruppe il maestro che stava dando una lezione di “agghiacciamento di cuccioli”, «ho un’idea grandiosa che potrebbe salvarci.»

«Seduto Orrendo», disse il maestro. «Mi meraviglio di te, piombare qui come un toro punto da un’ape.»

(10)

«Cervello di gallina!», gridò Bombazza. «Fiato di cane!», gli urlò Danno.

«Calmatevi, mucchio fetido di unghie incarnite», disse il maestro. «Non mi interessa quello che hai da dire Orrendo. Vai al tuo posto e smettila di sgocciolare su tutto il pavimento. Insomma, come vi dicevo, la vedova nera è un tipo di ragno velenoso con la pessima abitudine di mangiare il suo compagno. La femmina ha dei segni rossi e il suo morso agisce immediatamente, paralizzando la sua vittima in men che non si dica. Stamattina avete portato tutti il vostro animale agghiacciante? Mmm? Dunque, vedove nere o vipere della morte?»

Orrendo dovette sedersi tra serpenti marini, meduse urticanti, pitoni, e una tarantola messa in un alto barattolo di vetro.

«I peli della tarantola hanno delle minuscole setole che provocano alla pelle prurito e bruciore», disse tutto serio un ragazzo magrolino chiamato Teppista. Cullava il grande ragno nel palmo come se fosse il suo biscotto preferito. «Quando una tarantola si sente minacciata si stacca i peli dell’addome e li rovescia sul nemico. Ovviamente, in questo momento la mia è del tutto rilassata.»

«Sembra pericolosa come una mosca stecchita», criticò Danno. «Letale come le mutande della nonna!»

«Raccapricciante come le caccole dei piedi!»

Teppista divenne rosso dalla rabbia e chiuse le dita strette in un pugno. Lo agitava sfidando la classe, e gridava, «State zitti… » Dopo un attimo urlò dal dolore. Aprendo il pugno scoprì la tarantola stropicciata che evidentemente si era sentita minacciata.

(11)

Prima di pranzo ai bambini era stato chiesto di lavorare individualmente col proprio animale, mentre il maestro passeggiava tra i banchi e li osservava.

Orrendo teneva d’occhio con ansia Bombazza, che gli sedeva di fronte. Bombazza stava facendo esperimenti sul suo ranocchio velenoso, Cruccio, per aumentarne il livello di veleno. Gli diede da mangiare foglie di cicuta, che però lo fecero vomitare. Così gli diede dei colpetti con la punta della matita. La cosa sembrò funzionare e lo fece gonfiare tutto d’un colpo. Bombazza rideva compiaciuto e lanciò l’animaletto a Orrendo, tanto per fare una prova.

Per fortuna Orrendo, grazie a tutti gli allenamenti di nuoto, era molto agile e riuscì a scansarsi facilmente; il ranocchio umidiccio gli passò a un pelo dalla testa e atterrò sul muro con un leggero tonfo.

«Svelto, prendilo!», urlò Bombazza, precipitandosi dietro il ranocchio infuriato. Corse tra i banchi, pestando le scarpe dei compagni e i loro animali con una foga inarrestabile che fece scappare serpenti, ragni ammazza-uccelli e forbicine. Si era creato un tale scompiglio e subbuglio che a Orrendo toccò aspettare fino all’ora di pranzo prima di riuscire a spiegare ai compagni la sua grandiosa idea.

«Ricapitolando, non dobbiamo far altro che trattenere il respiro», disse Orrendo, non appena furono seduti tutti a mangiare i loro disgustosi panini. «Ovviamente ci sarà da allenarsi, inizieremo con dieci secondi, poi venti e così via. Ci spargeremo lungo le rocce, nascosti sott’acqua, usciremo solo per un attimo e poi subito sotto. Nessuno l’ha mai fatto prima, non ci arriveranno mai! Inoltre», aggiunse Orrendo, «immagino che quei pirati abbiano una vista pessima a furia di guardare tanto il sole, non credete?»

(12)

«Per me hai le forbicine nel cervello», sbuffò Bombazza. «Trattienilo tu il respiro! Che razza di scusa da pappamolla per non combattere è mai questa?»

«Sì, rammollito!» «Budino flaccido!»

«Torna a mangiarti il cerume, cencio moccioso!»

Orrendo si allontanò. Camminò per un po’, senza pensare a dove fosse diretto. Quando cominciò ad avvertire la stanchezza, si mise a sedere sulla sabbia a guardare le onde che si abbattevano sulla spiaggia.

Non era sempre stato tutto così? Come aveva potuto immaginare anche solo per un secondo che la vita potesse cambiare? Che qualcuno potesse dar retta proprio a lui, un vecchio rammollito. Il panino che stava masticando sapeva di uova di pesce andate a male.

Questo perché c’erano uova di pesce andate a male. Quasi tutte le madri del villaggio lasciavano imputridire e ammuffire il cibo per preparare i loro figli ormai undicenni a quello che avrebbero mangiato in mare. Preso da un raptus di follia, Orrendo ebbe l’istinto di sputare quel pasto disgustoso e mandare tutti al diavolo. Poi però pensò alla madre e ai sacchetti pieni di cibo etichettati con cura: salsa di lombrico, aroma di lumache, pasta di scarafaggio, e sentì che la gola gli si apriva obbediente e buttava giù.

«Bene, vorrà dire che mi nasconderò io sott’acqua», disse coraggiosamente tra sé mentre si alzava. «Non c’è niente di male a cercare di salvare se stessi, no?» Subito dopo aver detto una cosa così azzardata, si guardò attorno. Poi si rigettò in mare per una nuotatina e una lezione di apnea prima di ritornare a scuola.

(13)

CAPITOLO TRE «Ehi, pss! Orrendo, qui giù!»

Era una bella giornata d’inizio estate e Orrendo, come sempre, pranzava tutto solo seduto su una panchina della scuola. Alzò lo sguardo e vide un gruppo di ragazzi radunati attorno a Bombazza, presi a lanciarsi scarafaggi. In fondo, sulla destra, c’erano Danno e la sua banda, indaffarati a sotterrarsi il pranzo. Davanti a lui c’era l’immensa quercia che non aveva mai detto una parola, almeno per quel che ne sapeva Orrendo.

Riprese a mangiare i suoi panini.

«Presto, cervello di lumaca, vieni qui!»

Orrendo vide una faccia spuntare da dietro l’albero e poi scomparire subito dopo. Era la faccia di Briccone. Incredibile, chi l’avrebbe mai detto! E che bell’invito cortese!

Orrendo gli andò incontro, lanciò un’occhiatina al cielo per cercare di passare inosservato. Briccone gli afferrò la camicia e lo tirò giù accanto a sé in modo da restare entrambi accovacciati dietro il grosso tronco dell’albero.

«Come posso esserti d’aiuto, Briccone?», gli disse Orrendo gentilmente. «Non avrai mica perso il tuo pranzo, sai a me ne resta ancora mezzo… »

«Ascoltami bene, ho pensato alla tua idea», disse Briccone guardandosi attorno. «Insomma, la storia di nascondersi sott’acqua. A nessuno verrà in mente un’idea più perfetta.»

Orrendo sentiva qualcosa di caldo all’altezza del petto, che presto si diffuse in tutto il corpo. Era come il latte caldo col miele prima di andare a letto, o come qualcosa che si scioglie dolcemente al sole. Gli sorrise.

(14)

«Sia chiaro, non deve saperlo nessuno», disse in fretta Briccone. «Tanto si sa, di sicuro ci tirerebbero addosso sassi e cose varie. Mi chiamerebbero scemo cacasotto. Però, guarda, ho pensato spesso alla tua idea nelle ultime settimane.»

«Oh Briccone, perché non me l’hai detto prima? Mi avrebbe fatto un sacco di piacere… »

«Sì, sì, lo so», lo interruppe Briccone. «È che io ci penso un po’ alle cose. E ora è estate e tutto il resto, e si avvicina il nostro momento, insomma, mi vorrei unire a te e iniziare gli allenamenti.»

Orrendo fece un sorriso a mille denti. La sensazione di calore ora sembrava una scossa elettrica che gli attraversava le vene. Avrebbe voluto afferrare la mano di Briccone, correre giù verso il mare e salvarlo, tutto nel giro di tre minuti.

Invece, fece un respiro profondo e disse: «Ok, sarebbe stupendo, è vero che abbiamo perso un po’ di tempo ma sono talmente felice di avere il tuo appoggio e ti assicuro che non te ne pentirai, così se tu ne sei sicuro allora sarebbe un vero onore… »

«Dimmi solo quando ci vediamo, cervello di cammello», mormorò Briccone.

«Sulla spiaggia all’alba», gli sussurrò Orrendo. Si alzarono entrambi.

«E mi raccomando, a scuola io e te non ci conosciamo», Briccone gli voltò le spalle e se ne andò in fretta e furia.

«No, no», gli rispose Orrendo, «non mi permetterei mai.» Mentre tornava in classe si ripeté: «No, non dirò mai a nessuno che siamo amici. Mai.»

(15)

Quella parola gli passava nel cervello in continuazione. E ogni volta che ci ripensava, ritornava la sensazione di calore da “latte e miele”.

Quasi tutte le mattine, quando sorgeva il sole e illuminava il mare come lo scrigno di un tesoro, Orrendo e Briccone andavano a nuotare. Orrendo pensava che fosse meglio partire dalle basi e insegnargli gli stili principali.

«Resteremo in acqua per un paio d’ore», gli diceva Orrendo, «e se i pirati ci vedranno, di sicuro ci daranno la caccia. In quel caso dovrai riuscire a svignartela velocemente, tuffarti, immergerti e trattenere il fiato.»

Briccone aveva molto da imparare. All’inizio riusciva a malapena a stare a galla, ma già dopo due settimane, se la cavava con lo stile libero e non era affatto male a rana.

Orrendo era contentissimo dei suoi progressi. «Sei proprio un ottimo allievo», gli diceva dando a Briccone una pacca (leggera) sulla schiena.

«Silenzio, fiato di squalo», gli rispondeva lui, ma poi accennava un sorriso.

Briccone si esercitava anche nei tuffi. Non che fosse una tecnica indispensabile per sfuggire ai pirati, tuttavia Orrendo non gli diceva che era una perdita di tempo perché era evidente che gli piaceva tanto. In più doveva esserci qualcosa di speciale nel suo modo di tuffarsi, qualcosa che era legato al mare e alle sue creature e che finì per attirare i delfini.

Ogni giorno ne arrivava un gruppetto di quattro in picchiata sull’acqua; facevano capolino e giocavano come bambini. Briccone nuotava con loro e, dopo qualche giorno, cercò di aggrapparsi alla pinna di uno di loro e planò sull’acqua a grande velocità. Presto i due ragazzi impararono a nuotare proprio come delfini inseguendosi e scherzando allegramente.

(16)

Tuttavia, le lezioni di “trattieni-il-respiro-sott’acqua” procedevano più lentamente del previsto. Briccone aveva problemi di respirazione e soffriva spesso di bronchite. Quella che per tutti gli altri era una semplice tosse, per Briccone significava stare a letto per una settimana. Una volta stava addirittura per morire.

«Dobbiamo riuscire a curarti prima che arrivino i pirati», gli diceva sempre la madre.

«Altrimenti diventerai cibo per squali in meno di una settimana, con tutte quelle correnti e l’oceano ghiacciato.» Tutti i giorni gli dava da mangiare panini all’aglio, perché la Signora Saggia le aveva detto che lo avrebbero aiutato a scongiurare il raffreddore. L’aglio avrebbe tenuto lontani anche i vampiri, diceva sua sorella, e questo era senza dubbio un altro punto a favore (la sorella di Briccone, Bufera, studiava erbe medicinali e piante, e spesso andava a trovare la Signora Saggia, ecco perché ne sapeva tanto). Comunque sia, i problemi respiratori gli causavano un po’ di affanno, specialmente se stava per ammalarsi.

Per gli allenamenti i ragazzi andavano a nuotare al di là delle onde mantenendosi sempre vicini alla linea di massi che si estendeva sotto l’altissimo dirupo. Questo era pericolosissimo perché la barriera corallina era ricoperta di crostacei piccoli e affilati e di rocce simili a delle daghe. Tuttavia, avevano bisogno di aggrapparsi a qualcosa quando spuntavano fuori per prendere aria e riposarsi, e c’erano delle piccole insenature dietro gli angoli dove potevano nascondersi più facilmente.

(17)

La respirazione di Briccone andava meglio grazie alle sessioni di nuoto, anche se gli risultava ancora difficile riempire i polmoni completamente senza tossire.

Orrendo era un insegnante davvero paziente e ogni notte passava un sacco di tempo a pensare a qualche barzelletta o a qualcosa di cui parlare con Briccone per tenerlo su di morale durante la giornata. Briccone doveva sgattaiolare fuori di casa prima dell’alba perché sua madre di certo non avrebbe approvato le lezioni di nuoto nel mare gelato.

«Vai incontro alla morte», gli avrebbe detto, e molto probabilmente se avesse saputo delle sue scappatelle mattutine, lo avrebbe rinchiuso in camera.

Bufera però sapeva degli allenamenti segreti e lo aspettava prima che uscisse. «Prendi l’aglio e lo zenzero», gli sussurrava, «e cammina attorno al tuo asciugamano per tre volte in senso antiorario prima di essere asciutto.»

Briccone non si era mai sentito meglio in vita sua. Il respiro era profondo e più lento, ma non si trattava soltanto di questo. Per la prima volta aveva osato sperare di poter vivere più di dodici anni. Prima di allora, sotto sotto, l’aveva pensata come sua madre. Si guardava il torace incavato e le costole ossute e già si immaginava a bordo di una nave pirata, tremolante fino alla morte per colpa di una delle sue solite febbri. Suo zio se n’era andato in questo modo e lui aveva sempre pensato che gli sarebbe capitato lo stesso.

Verso fine estate, Briccone era in grado di trattenere il respiro per mezzo minuto. A stagione finita, riusciva a stare sott’acqua per uno intero.

«È grandioso, santo cielo, che resistenza, che valore incredibile, e che ottime capacità!», gridava Orrendo. Era davvero incoraggiante.

(18)

Il record di Orrendo era di due minuti, questo è vero, ma non gli piaceva darsi arie. «Stai tranquillo, ci bastano sessanta secondi per tuffarci in profondità e nuotare a largo», gli assicurava Orrendo. «Possiamo superare la prima piccola insenatura verso sud in meno di cinquanta, e poi potremo nasconderci. Saremo in salvo, faremo come Vile e Malvagio, saremo le leggende di oggi!»

E chi può dirlo, avrebbero potuto farcela davvero e tutto sarebbe andato diversamente… ma si sa, quando ci sono di mezzo i pirati, è difficile che i piani vadano come ci si aspetta.

Il giorno del dodicesimo compleanno di Orrendo, la madre era a letto e fissava la parete. Soltanto prima di pranzo si era alzata e aveva chiamato suo marito, «Oh, dimmi, cosa faremo quando arriveranno i pirati?»

«Shhh, non ne parliamo adesso», disse suo marito.

«Godiamoci questi ultimi mesi con nostro figlio. Ci sarà tempo a sufficienza per pensare a quei fetidi lupi di mare.»

«Ma sai bene che in autunno, quando arriveranno, ce lo strapperanno e non avremo neanche il tempo di dire: “Issate le vele, porci piagnoni”.» E si lamentava in pena, torcendosi le mani.

Orrendo si era accorto che la pelle attorno alle unghie di sua madre era consumata, tutta colpa delle preoccupazioni e dei torcimenti. «Mamma», le diceva, «dovresti mettere della crema contro le screpolature su quelle povere mani. Io la uso tutte le notti dopo aver preparato la cena, lavato i piatti, e pulito il pavimento della cucina.»

Proprio in quell’attimo il padre di Orrendo fece uno strano rumore. Le guance erano diventate rosso fuoco e borbottava qualcosa di indecifrabile.

(19)

«Vedi? Vedi?», diceva la mamma. «Nostro figlio non durerà neanche un minuto con quei pirati, così gentile e premuroso com’è. Quanto ci scommetti che starà lì a preoccuparsi se hanno male alle braccia, dopo avergli dato una cinquantina di frustate col gatto a nove code? Gli arrostisco le ossa!»

Il padre di Orrendo uscì di corsa e balzò sul tavolo della cucina facendo un gran fracasso. Iniziò a saltarci su e giù, su e giù, scuotendo furibondo il pugno e urlando, «Gli ficco gli occhi sott’aceto!»

Tipico del suo papà, Orrendo pensò, mentre lo seguiva con sua madre in cucina.

Proprio quando pensavi che non fosse attento a nulla, o che non notasse nemmeno se gli dicevi “buongiorno” o “c’è un morto in giardino”, lui esplodeva come un petardo.

«Vedrai», continuò la mamma, con gli occhi che le facevano come uno yoyo mentre guardava suo marito saltellare come un matto, «prenderanno nostro figlio come se fosse un vecchio straccio e se lo caricheranno sulle spalle.»

«Gli friggo le dita dei piedi nell’acquaragia!», esplose il papà.

«Dopodiché lo sbatteranno sulla nave e lo faranno lavorare come un cane.»

«Gli cuocio le budella nell’olio!»

«Lo frusteranno e lo colpiranno finché non riuscirà ad alzarsi in piedi, a quel punto lo faranno a fette con la prima sciabola a tiro, un gioco da ragazzi. Ecco cosa gli faranno. Ecco tutto.»

Il tavolo si ruppe.

(20)

Orrendo guardò i suoi genitori. Erano in piedi uno accanto all’altro, con le spalle ricurve. Avevano i volti pallidi e disperati come una notte nuvolosa senza stelle.

Orrendo si accigliò. «Voi due non dovreste preoccuparvi tanto», disse dolcemente. «Vi fa male.»

Tuttavia, non appena fece per andarsene avvertì nello stomaco i colpi lancinanti del panico (che lo fecero correre al bagno), che gli venivano tutte le volte che si nominavano i pirati.

Orrendo era l’ultimo della sua classe a compiere dodici anni. Era stato alle feste di compleanno di tutti gli altri ragazzi che, in verità, erano sembrate dei funerali. Nessuno era felice di festeggiarli, ma era tradizione partecipare. In tutto ne erano stati celebrati otto e tutti erano stati decisamente deprimenti.

Orrendo aveva voluto invitare alla sua festa anche Bufera; le si era affezionato da quella volta in cui, sei anni prima gli aveva fatto l’occhiolino dall’altro lato della piazza. Suo padre, però, diceva che non era proprio corretto invitarla, almeno non prima che lui tornasse (se fosse tornato, pensava Orrendo).

Alla sua festa, i ragazzi erano seduti attorno al tavolo della cucina e parlavano della cattura dei dodicenni dell’anno prima.

«Tutti spacciati», disse Guaio mogio mogio.

«Avete visto che è successo alla rana velenosa di Porro?», brontolò Teppista. «Le è bastato un’occhiata a quei pirati per scappare come un coniglio impaurito. Essere inutile.»

«Il mio ranocchio non farebbe così, anzi», disse Bombazza incrociando le dita dietro la schiena come porta fortuna.

(21)

Chiasso, un ragazzino agitato che si schioccava le dita, sospirò. «E cosa ne dite invece di quel patetico salto da grandi altezze? Se non ci sono riusciti Spione e Tigre a stecchire un pirata, che speranze abbiamo noi? Erano i migliori della scuola, eppure hanno mancato il loro bersaglio e sono atterrati sul vecchio cane strampalato di Tigre.» Sospirò ancora. «Tutti spacciati.»

«Tutti spacciati», mormorarono in coro come se recitassero una preghiera.

«Gradireste un’altra fetta di polpettone?», chiese Orrendo, rompendo quel cupo silenzio. «L’ho cucinato con dei funghi freschi che ho raccolto questa mattina», disse con entusiasmo.

Nessuno ne voleva però.

Quando i ragazzi si alzarono per andarsene, Briccone sorrise a Orrendo. «Tutti spacciati tranne noi, vero?», sussurrò sulla porta.

Orrendo ricambiò il sorriso, ma si sentì a disagio. Non era carino tenere un segreto agli altri. Gli sembrava di mentire. Sperava che Briccone non insistesse tanto sul mantenere il silenzio. Gli venivano i brividi lungo tutta la schiena, come se tante formiche gli corressero lungo la spina dorsale.

(22)

CAPITOLO QUATTRO

Il primo giorno d’autunno capitò di domenica. La madre di Orrendo lo marcò con una croce sul calendario, scosse la testa e fece un leggero lamento. «Comincia l’attesa. Non si sa mai se arriveranno all’inizio o alla fine dell’ autunno. Potrebbe succedere domani o fra tre mesi.»

«Esatto», disse bruscamente il padre.

«Ecco perché dobbiamo considerare un dono ogni giorno in più trascorso con nostro figlio. Bisogna pensarla così, mia cara!»

Ma la madre di Orrendo non si dava pace.

«Odio quest’attesa. È come se il sole non spuntasse mai fino in fondo, come avvertire nell’aria il pericolo costante di un temporale. Brutti farabutti che ci rovinano la vita!»

Orrendo guardò sua madre che si torceva le mani e si incupì. Avrebbe voluto raccontarle del suo piano e dirle che non stava per perdere il suo unico figlio. Sapeva però che lei non avrebbe condiviso la sua fede nel nascondiglio, e non poteva mica rischiare che lo fermasse? Avrebbe voluto almeno farla sorridere, ma quel giorno non gli veniva in mente neanche una barzelletta. Era preoccupato, e non solo per i pirati.

Quel mattino presto, Orrendo era corso giù alla spiaggia come sempre, e si aspettava di vedere Briccone indaffarato con le sue bracciate. Il mare invece era liscio e calmo come una torta ricoperta di glassa che nessuno vuole tagliare.

Orrendo era stato a osservare l’acqua, da un momento all’altro avrebbe scorto la testa scura di Briccone spuntare fuori.

(23)

Per un attimo aveva persino sorriso pensando che l’amico stesse facendo un ottimo lavoro.

Stava addirittura battendo il suo record!

Trascorso un altro minuto, però, aveva iniziato a preoccuparsi. Si era tuffato e aveva nuotato sott’acqua a occhi aperti. Aveva cercato ovunque dietro le rocce, aveva esplorato tutte le insenature che avevano studiato, nuotando ben oltre le onde. Aveva poi rinunciato e si era trascinato verso riva. Si era guardato intorno alla ricerca dei vestiti e dell’asciugamano di Briccone, ma sulla sabbia non aveva trovato nulla.

Era tornato arrancando a casa, forse quella mattina l’amico non era riuscito a svignarsela, aveva pensato.

Magari la madre di Briccone si era alzata presto. O magari aveva azionato quella sveglia rudimentale fatta di pentolame che preparava tutte le notti prima di andare a letto (lui odiava quella sveglia).

Ma non apparve neanche il mattino seguente. E quando Orrendo andò a scuola, scoprì che Briccone era assente. Più tardi, nel pomeriggio, mentre tornava a casa, vide Bufera che attraversava di fretta la piazza. Le andò dietro di corsa e le chiese se per caso poteva fermarsi un momento e dirgli dove fosse finito il fratello.

«È a casa a letto con i muchi», gli rispose.

«Si è preso uno dei suoi terribili raffreddori. Il naso gli perde come un rubinetto aperto, i polmoni gli fischiano peggio di una pentola a pressione. Gli ho preparato un bagno con la maggiorana e gli ho messo un mattone caldo sotto ai piedi. Oh, Orrendo, non t’immagini che sfortuna, siamo in autunno, per amor del cielo, e quei pirati spietati potrebbero arrivare in qualsiasi momento.»

(24)

«Quindi resterà a letto anche domani?», le chiese Orrendo, avvilito come non mai.

«Di sicuro, e anche per le prossime settimane. Con i problemi respiratori che si ritrova, ha bisogno di continua assistenza, e io e la mamma lo terremo d’occhio ogni minuto, stai tranquillo!»

Bufera fece per andarsene ma poi si rigirò sui talloni. «Ti auguro buona fortuna con il nuoto, Orrendo. Briccone potrebbe non farcela, ma spero con tutta me stessa che almeno tu ci riesca.» E il suo sorriso sembrava spuntare come un sole.

«Insomma Bufera, grazie, quello che mi dici è davvero carino e poetico da parte tua e spero tanto che non prenda anche tu lo stesso raffreddore di Briccone, ma che anzi resti forte nel tuo, ah, spirito vitale durante l’inverno.»

«Stanne certo», disse Bufera annuendo, «con tutto l’aglio che ho appeso alla porta di casa e con gli spicchi che abbiamo messo al collo è garantito!» All’improvviso aggrottò la fronte e scosse il pugno in aria. «Razza di orribili pirati, perché se si azzardano a toccarti con un solo dito gli butto il pepe negli occhi e gli ficco degli scorpioni su per il naso. Gli strizzo quelle budella molli unte bisunte che si ritrovano, e gli strappo i denti uno a uno, e poi gli... »

Proprio in quell’istante apparve accanto a Orrendo sua madre, carica come un mulo. «Oh, Orrendo caro, accompagnami a casa e aiutami con tutte queste bustone pesanti. Non ci sarà più ad aiutarmi per tanto tempo, lo sai bene anche tu cara», si rivolse a Bufera con un sorriso triste, e nel frattempo infilava mele, pomodori e rape nelle braccia del figlio. Mentre Orrendo si trascinava per la piazza con sua madre, guardò indietro colmo di malinconia, chiedendosi

(25)

quali altri terribili e spietati piani contro i pirati gli avrebbe raccontato Bufera se la madre non fosse arrivata proprio in quel momento a interromperli.

A casa, Orrendo diede da mangiare a Putrida (che gli risputò tutto), sbrigò le faccende (prese al laccio tutte le cose da giardino), e cercò di non far arrabbiare sua madre. Tuttavia gli occhi gli bruciavano e si sentiva un nodo alla gola, come se qualcuno avesse preso il laccio dalla gamba della sedia, glielo avesse avvolto attorno al collo e lo stesse stringendo.

Tutte le mattine che seguirono, Orrendo si ostinò a cercare Briccone sulla spiaggia perché non riusciva a smettere di sperare. Se ne stava sulla cima di una duna di sabbia e scrutava l’orizzonte. Niente Briccone, niente pirati. Bene, aveva pensato Orrendo quel venerdì, per ora tutto liscio: se si arriva alla fine della settimana senza invasioni di pirati, potrebbe farcela anche lui.

La domenica mattina, però, quando Orrendo salì sulla duna di sabbia, vide a riva una strana figura. Avanzò lentamente giù dalla collina e, mano a mano che si avvicinava, una sensazione di terrore gli riempì il cuore e gli provocò l’impulso di scappare.

Sebbene lui non avesse fatto il minimo rumore, la figura si girò e lo chiamò. Il gatto avvolto sulle sue spalle cacciò fuori gli artigli.

«Orrendo, vieni qui a parlare con me, ho qualcosa da darti.»

Il gatto miagolò minaccioso non appena Orrendo fece per avvicinarsi. Si sentiva le gambe pesanti, come se stesse camminando sulle sabbie mobili. Ma come sempre, la sua bocca si aprì e si chiuse con gentilezza: «Buongiorno, Saggia Gretel», disse allegramente. «Che bella giornata e in che modo tanto carino mi guarda il suo bel gatto. Accipicchia, che artigli belli forti che ha! E

(26)

vorrei esprimerle la piacevole sorpresa che ho avuto nel vedervi in questa mattina fresca e soleggiata.»

Quanto accidenti fosse terrificante quel gatto era invece ciò che Orrendo aveva pensato per tutto il tempo, anche solo a guardare quella brutta faccia schiacciata e quegli occhi perfidi. Perché devo starmene qui al vento gelido a chiacchierare con la donna che mi ha rovinato la vita?

Orrendo continuava a parlare gentilmente, incapace di fermarsi, così Gretel iniziò a frugarsi nella larga tasca del vestito.

«Orrendo», disse alla fine, mettendogli in mano una piccola scatolina argentata, «voglio che porti con te in mare questo dono.»

«Ma io non andrò in mare», esclamò. «Quello che sto cercando di dirle, cara Saggia Gretel, non intendevo contraddirla e so bene che non è carino mantenere dei segreti, ma deve sapere che ho in mente di nascondermi e

sfuggire a quei terribili pirati se non le dispiace, ma la ringrazio lo stesso per

questo… ehm… è davvero gentile da parte sua pensare a me… »

Le mandibole mi fanno male da quanto sto sorridendo, pensava, ma avrei voglia di sputare proprio come Putrida.

«Conserva il mio dono al sicuro, per ora», disse la Signora Saggia, «potrebbe aiutarti a sopravvivere a bordo della nave pirata.»

«Ma non ci andrò su quella nave… », Orrendo la guardò in faccia e si fermò. «Oh, mi scusi tanto, è che col fatto che presto arriveranno i pirati, e con l’influenza di Briccone, sono talmente agitato al momento che… la prego, cara signora, di cosa si tratta se non è troppo impertinente da parte mia domandarglielo, ma se ovviamente preferisce non dirmi il motivo, insomma… »

(27)

«Dentro la scatola c’è una polvere finissima di erbe tritate. Ho fatto un forte incantesimo per esaltare i sapori, in modo tale che anche un solo granellino sarà sufficiente a tirar fuori la magia da ogni piatto.»

D’improvviso, Gretel gli mise un dito sotto al mento e gli alzò il viso fino a fare in modo che la guardasse dritto negli occhi. Per un secondo Orrendo ebbe il capogiro, come se stesse cadendo. Con voce bassa Gretel gli disse: «L’incantesimo è davvero potente, Orrendo. Usalo con saggezza. Saprai riconoscere il momento giusto.»

Orrendo fu paralizzato dagli occhi della Signora Saggia al punto da riuscire a distinguere a malapena le sue parole. Più che altro era come se avessero rullato dentro di lui come un tamburo. Si sentì come un pesce incastrato all’amo e immobilizzato dal suo potere e lì, in quegli occhi blu mare, si vide riflesso come se stesse guardando in uno specchio: la sua infanzia, sua madre, il suo temutissimo ultimo compleanno. Ma a un tratto intravide qualcosa che gli fece riprendere il respiro e lo riportò alla realtà, immerso di nuovo nella brezza fresca.

«Sì», disse Gretel pacata, «sono arrivati. Guarda!»

Si voltò e vide la nave che era riflessa negli occhi della Signora Saggia. Lì all’orizzonte, con la bandiera nera che sventolava e la prua che come un coltello tagliava il blu, c’era la nave che aveva temuto per tutta la sua vita.

«I pirati», sussurrò Orrendo, ma Gretel era scomparsa lasciando soltanto quello strano dono che teneva ancora stretto in mano.

Orrendo lanciò ancora un’occhiata alla nave, e non riusciva a credere che fosse vera dopo tanti anni trascorsi ad immaginarla, poi infilò in fondo alla tasca dei pantaloni il regalo e si tuffò dritto in acqua.

(28)

CAPITOLO CINQUE

Orrendo nuotò sott’acqua, superò la scogliera che circondava la spiaggia, e arrivò fino all’insenatura a sud nascosta lì dietro. Il mare si infrangeva sugli scogli, e Orrendo poteva tuffarsi e immergersi in un batter d’occhio. Da lì vedeva tutto, e rabbrividì quando si accorse che la nave si avvicinava sempre di più.

In acqua i pantaloni e la maglia erano pesanti, ma non c’era tempo per toglierseli. Strinse i denti. Quella Signora Saggia per poco non aveva mandato tutto all’aria. Le cose stavano andando proprio come non dovevano andare.

In superficie aveva solo occhi e naso. Come un coccodrillo aspettò lì, con lo sguardo fisso sulla prua della nave. Ora riusciva a vedere chiaramente l’enorme polena a forma di cobra che si alzava davanti, e la bandiera con il teschio e le tibie che sventolava nella brezza. Vide gli uomini che si spintonavano sul ponte, e una figura in alto che dondolava sulle funi come un ragno.

Il cuore gli batteva all’impazzata. Tastò la scatolina che aveva in tasca. Forse l’interno si stava inzuppando, e cosa succede alle erbe quando si bagnano? Probabilmente ormai erano inutili. In ogni caso, come poteva essere d’aiuto un’accozzaglia di fiori se per prima la Signora Saggia non lo era mai stata?

Una scia di suoni lo inondò. Vocioni di uomini che cantavano, imprecavano e squarciavano l’aria come dei tuoni. Sul castello di prua, riusciva a vedere un uomo grande e grosso che guardava in un cannocchiale. Orrendo andò sott’acqua, il cuore gli batteva fortissimo. Provava a contare i secondi, ma

(29)

la mente lo riportava a quello che aveva visto: una barba lunga e scura, un torace massiccio come una quercia. Come potevano avere speranza contro uno così?

Quando Orrendo tornò a galla, la nave si era avvicinata a tal punto che riusciva a vedere le barbe degli uomini a bordo e il luccichio di un orecchino che si riflesse nel primo sole del mattino.

«Getta l’ancora, Polpo! » gridò il pirata col cannocchiale.

Doveva trattarsi del Capitano, di sicuro era l’uomo più grosso che c’era sulla nave.

Ammainarono una lancia, e poi due piccole scialuppe. Orrendo vide dieci, forse venti uomini calarsi dalle cime e avanzare sulle onde in direzione della riva.

«Stasera ce la spassiamo!», scoppiò a dire il grande pirata. Gli uomini remarono più forte. «Roba fresca da mangiare e braccia giovani da sfruttare. Più siamo, meno fatichiamo, che ve ne pare ciurma?»

Risero tutti, poi il grande pirata si voltò indietro e guardò la nave. Fece un mezzo saluto e un cenno.

Un uomo soltanto fu lasciato di guardia sul castello di prua. Non rispose al cenno, rimase fermo, gambe accavallate, come se fosse un pezzo di legno intagliato direttamente sulla nave.

Orrendo sentì la pelle d’oca che gli spuntava sulle braccia. Non era per il freddo, anche se l’acqua era gelida; piuttosto c’era qualcosa che riguardava quell’uomo silenzioso a prua, qualcosa di inspiegabile e crudele che lo fece rabbrividire. Sperava che il Capitano non fosse lui.

(30)

Orrendo aspettò in quella baia congelata per due ore. Passò un po’ di tempo nuotando in giro tra le rocce per mantenersi caldo. Ebbe il brutto presentimento che l’uomo di legno a bordo avesse occhi sopraffini, e che non avesse smesso di scrutare la superficie del mare neanche per un attimo.

Mentre Orrendo nuotava, pensò ai suoi compagni di classe. Li immaginava indaffarati a lanciare remi e a scagliare i loro cuccioli agghiaccianti; i cuori dovevano martellargli forte in petto alla vista di quegli uomini grandi e grossi.

Tutte le volte che usciva dall’acqua per riprendere fiato, sentiva in lontananza le grida e il fracasso provenienti dal villaggio, e gli veniva da vomitare. S’immaginava i pirati all’assalto delle celle frigo di tutti, e a rubare galline e verdure dagli orti. Sua madre di sicuro stava cercando di salvare la casseruola nuova di zecca, e Bufera… Oh, per l’amor del cielo, che nessuno le faccia del male! Sentì un tale impeto d’affetto verso tutti loro, perfino per Bombazza e il suo patetico ranocchio velenoso, e impazzì al pensiero che Briccone potesse essere ancora a letto quando i pirati erano piombati al villaggio.

Fu così che, quando Orrendo uscì a prendere fiato per la millesima volta, vide tornare sulla spiaggia il primo pirata. Trascinava sulle spalle un ragazzino che scalciava furioso. Dopo, arrivò un altro pirata, e un altro ancora, e presto furono così vicini che Orrendo riuscì a vedere le facce e i corpi dei ragazzi che trasportavano.

C’era Chiasso, che conficcava le nocche nel collo di un pirata; poi arrivarono Danno, Teppista, Delinquente e Selvaggio. Si erano arresi, le teste gli penzolavano sul petto dei pirati. Di seguito c’era Demonio che dondolava, e

(31)

infine, a distanza dagli altri, giunse Bombazza. Come gli altri, era appeso alle spalle del suo rapitore, e si ostinava ancora a colpirgli il petto con un pugno.

«Oggi le mosche sono cattive, eh!», sorrise il pirata e diede a Bombazza un colpo così forte sulle gambe da farlo gridare dal dolore.

C’erano tutti, pensò Orrendo, con a malapena il naso in superficie. Tutti meno Briccone. Chiuse gli occhi per un istante e si immerse in profondità. Ti prego, ti prego, supplicava, ti prego fa che non veda Briccone. Ti prego risparmialo. Fa che Briccone si sia nascosto così bene da non farsi trovare da nessuno, per favore…

Orrendo tornò a galla ansimando, e vide i pirati spingere i ragazzi sulle barche a remi. Genitori, zie, sorelle accorrevano alla spiaggia, urlando insulti e agitando i pugni.

Ma allora, si fece largo tra il comitato d’addio il grosso pirata barbuto che Orrendo aveva visto per primo. Aveva sulle spalle Briccone a peso morto come un sacco di patate.

Il pirata lo buttò sulla barca e iniziò a remare tra le onde. Briccone si mise dritto, dietro l’ampia schiena dell’uomo, come il paletto di una staccionata. Scrutò con attenzione il mare, e con la mano si riparò gli occhi. Fissando in direzione della scogliera, d’improvviso incrociò lo sguardo di Orrendo.

La paura attraversò come un fulmine il cuore di Orrendo. Era stato scoperto! Prima di immergersi, notò che Briccone aveva distolto lo sguardo e accennato un sorriso.

«Che amico!», pensò Orrendo intensamente. «Che lealtà, che nobiltà d’animo, andare incontro alla morte senza batter ciglio.» Orrendo si sentiva

(32)

stringere la gola e fiumi di lacrime salate gli attraversarono la faccia, gocciolando nel mare.

Orrendo fu sopraffatto da un violento senso di solitudine, come una nuvola che copre il sole. Lui era libero, lui era salvo, ma invece di essere felice provò solo il desiderio di essere al fianco del suo amico e di poter cambiare le cose.

All’improvviso balzò in aria come un delfino e fece una capriola all’indietro. «Ehilà ciurma, vi siete scordati di me!», urlò. «Quaggiù, dico a voi, enormi pirati barbuti, voglio dire, se non è un problema, e mi dispiace dovervi far tornare indietro e tutto il resto, creare tutto questo fastidio, solo… »

Andò incontro alla barca, e appena fu tirato su da una manona gigante, Orrendo diede a Briccone una pacca (leggera) sulla schiena.

«È lo scemo del villaggio?», il pirata domandò meravigliato a Briccone. Orrendo fece un gran sorriso.

(33)

CAPITOLO SEI

«Ehi tu, scarafaggio insulso e fastidioso, portami la colazione alla svelta o ti spiaccico con un pugno come meriti, insetto che non sei altro!», urlò il Primo ufficiale.

Orrendo schizzò fuori dalla cambusa a tutta velocità, avrebbe voluto avere sei gambe, o ancora meglio, cento braccia. Forse sarebbe stato meglio essere un centopiedi invece di uno scarafaggio, a dirla tutta…

«Che accidenti combini imbambolato lì come uno stoccafisso?», urlò a squarciagola un altro pirata. «Dove sono finite le mie uova alla diavola?»

«Dov’è il mio toast alla francese?» «Dov’è il mio rum?»

Era una mattinata calda e soleggiata. Se ne stavano tutti a poltrire sul ponte, appoggiati a matasse di corde e vecchie casse, si pulivano i denti e si grattavano le dita dei piedi.

«Niente male questi ragazzetti, una buona annata», disse Polpo, che aveva trovato tra i molari un vecchio pezzo di carne grosso quanto una palla da golf. Lo lanciò a Bombazza, che stava correndo con le tazze di rum per i pirati che se ne stavano stravaccati. «Obbediscono agli ordini, senza fare storie… »

«Eh sì, dopo le frustate che abbiamo dato a quell’altro, di sicuro non fiateranno!», disse Perfido, dandosi una grattatina al tatuaggio sul braccio. Si girò bruscamente verso Danno. «D’ora in poi si riga dritto, intesi?» E la risata dei pirati scoppiò a scroscio come l’acqua piovana che cade in un tombino.

(34)

Orrendo guardò Danno; si era chinato su un pirata per passargli il tè. A causa delle frustate, la schiena magrolina del ragazzo era rigata dalle croste che si stavano formando sulle ferite. Orrendo notò una smorfia di dolore mentre l’amico si tirava su, reggendo la tazza di tè fumante destinata a un altro pirata. Danno si spostò arrancando, allora Polpo allungò bruscamente la gamba e lo fece inciampare, facendogli rovesciare addosso e sulle braccia il liquido bollente.

«Ahahah aaah!», scoppiarono a ridere i pirati dimenando come pazzi gambe e gomiti.

«Più impedito di un ippopotamo!» Ridacchiarono.

«Dannato idiota imbranato! Sarebbe capace di cavarsi un occhio mentre si gratta la testa!»

«Bella questa, uomo Polpo!»

Danno si morse le labbra per non urlare. Orrendo lo vide, ma non andò in suo soccorso, sapeva bene che avrebbe solo peggiorato la situazione.

Lanciò uno sguardo agli altri ragazzi, tiravano le cime, piegavano le vele, fregavano il ponte. Anche loro lo guardarono per un secondo, ma non osarono dire una parola.

Sì, pensò intensamente Orrendo, questa era senz’altro la pagina più spregevole che avesse mai girato, il capitolo più lurido delle avventure di una vita.

Il primo giorno, quando fu assegnato alla cucina, Orrendo aprì la scatolina argentata con le erbe. Incredibilmente, anche dopo quelle due ore disperate in mare, la polverina verde era ancora asciutta come il talco. Ne aveva messo un pochino sul palmo, e gli era arrivato un profumo così delizioso che gli venne

(35)

l’acquolina in bocca e gli lacrimarono gli occhi. «Un solo granellino sarà sufficiente», aveva detto la Signora Saggia, «a tirar fuori la magia da ogni piatto.» Orrendo non capiva perché Gretel pensava che fosse tanto importante che ai pirati piacessero le varie pietanze; ciononostante, sperava con tutto se stesso che avesse ragione lei, dato che gli sembrava che solo un miracolo li avrebbe potuti salvare.

Da quel momento, aveva sempre aggiunto un granello ad ogni pasto che aveva cucinato ai pirati, sperando che quella fosse “la volta buona”. Tanto di sicuro le cose non potevano andare peggio!

Erano trascorse soltanto due settimane da quando erano a bordo, ma sembrava un’eternità. Dall’alba al tramonto i ragazzi lavoravano come schiavi. Prendevano, portavano, sollevavano e trasportavano. Briccone doveva arrampicarsi ogni giorno sulla coffa, restarci aggrappato, e fissare il mare deserto. Lui soffriva di vertigini (il Capitano lo aveva scelto apposta); quando c’era la burrasca, le dita gli si ghiacciavano e diventavano insensibili, così reggersi era difficilissimo.

«Sto scivolando!», gridava di notte nel sonno.

Orrendo aveva ricavato venti lenze dai brandelli di vecchie corde, e da quello che ne restava, un paio di guanti per Briccone. Gli aveva detto di strofinare prima di tutto del grasso sulle mani, per trattenere il calore, e poi di infilarli. Tuttavia, quando il Capitano li trovò disse a Briccone che lo avrebbero reso un “rammollito”, e glieli gettò in mare.

Di notte tutti i ragazzi dormivano insieme in una cabina minuscola. Potevano ritenersi già fortunati se riuscivano a chiudere occhio. Si stendevano su dei materassi di canapa grezza, senza nemmeno un lenzuolo o una coperta, e

(36)

sentivano i loro rapitori che ubriachi, si azzuffavano o cantavano. A volte i ragazzi sentivano che qualcuno in cabina singhiozzava, ma alla luce del giorno, nessuno osava parlarne.

Così come nessuno osava nominare Cruccio, il ranocchio velenoso che Bombazza era riuscito ad imbarcare di nascosto. Si diceva che il Capitano nutrisse un odio particolare per gli anfibi. («Stupidi idioti, non riescono nemmeno a decidere se sono pesci o lucertole!», aveva commentato una volta.) Il Capitano non tollerava alcun tipo di indecisione, diceva sempre “pucci pucci”, ed era famoso per tutte le volte in cui aveva infilzato con la spada qualche pirata se solo aveva esitato in battaglia, detto fatto! Ecco perché Bombazza aveva tenuto Cruccio al sicuro nel suo sacchetto di cuoio, ben nascosto infondo al panciotto.

Cruccio non si era dimostrato né coraggioso né leale al momento della cattura del suo padrone, anzi aveva preferito rintanarsi infondo al taschino di Bombazza e restare fermo immobile come una statua. Bombazza gli diceva: «ti conviene starmi a sentire, altrimenti ti darò in pasto al Capitano!», ma glielo sussurrava piano piano e, mentre gli altri dormivano, chiamava il suo animaletto “Cucciolo” invece di Cruccio.

Con gli assalti ai villaggi e le nuove lenze di Orrendo, a bordo c’era sempre cibo fresco in abbondanza. I pirati non avevano mai mangiato meglio. Niente larve di scarafaggio in vista, e neanche l’ombra di un piatto di pesce gatto o di alghe. Riuscivano a stento a credere a quegli aromi e ai sapori squisiti che ogni giorno Orrendo riusciva a tirare fuori.

Una volta, durante una bella mattina soleggiata, Orrendo servì al Primo ufficiale un piatto di gamberi; lui agguantò il piatto con entrambe le mani e

(37)

ingurgitò tutto, masticando a malapena. Orrendo lo fissò incredulo; aveva fatto scomparire quella montagna di gamberi in un lampo.

«Quell’uomo mangia come un cane!», pensò il ragazzo. Gli venne in mente il segugio di Tigre che, allo stesso modo, faceva un boccone e ingoiava senza mai masticare. «Questi uomini non sono umani», pensò sconcertato, «eppure un tempo devono esserlo stati… »

«Ehi, vieni qui!», urlò Polpo. «Mai stare imbambolati su questa nave, cibo fresco per squali, o ti ritroveranno lì fuori a faccia sotto!» E indicò il mare aperto.

Com’era limpido e sereno, pensò Orrendo, e al ricordo delle sue nuotatine mattutine, lo attraversò un brivido di nostalgia.

«Ho detto, vieni qui!», gridò Polpo e si alzò in piedi. Orrendo si precipitò, con in mano i toast alla francese.

«Chiedo scusa se sono lento, signore, e se vi ho fatto aspettare adesso che dovete essere davvero affamato per tutto il duro lavoro che avete sbrigato.»

«Non fare il furbo con me ragazzino, o io… », e gli mise le mani alla gola.

«Oh no, signore, non lo farei mai, e spero che vi piaccia il vostro toast, mi sono permesso di aggiungere uno sciroppo squisito che avevo appena sperimentato mettendo un tocco di burro, del miele, un goccio di rum, e poi l’ho addolcito con un po’ di zucchero di canna; se permettete… »

Polpo roteò gli occhi e gridò: «Fai silenzio, piccola lumaca di mare irritante!»

Colpì Orrendo nelle costole con la canna della sua lunga pistola, e lo lasciò senza fiato; per un pelo non gli cadde il toast.

(38)

«Oh signor pirata, che sbadato che sono a finire così sulla vostra pistola!», ansimò Orrendo. «Io, io, per poco non vi rovesciavo anche la colazione, dovete perdonarmi… »

«È posseduto dal demonio!», sbraitò il Primo ufficiale.

«Ti fa venire voglia di pestarlo! “Per favore” di qua, “grazie” di là, su che razza di pianeta vive questa canaglia? Ci farà diventare pazzi!»

«Sicuro», disse Pescecane, un pirata che si stava scaccolando. «Soprattutto il Capitano!»

«Mmm», rispose il Primo ufficiale, guardandosi attorno con ansia. Guardò Polpo, che dava un grosso boccone al toast alla francese. Il pirata chiuse gli occhi e masticò; sembrò morire e poi risuscitare in paradiso.

«Per tutte le murene», biascicò. «Dannatamente ottimo!»

Il Primo ufficiale aveva l’acquolina in bocca. «Cucina da favola, tutto sommato, non è così?», sussurrò a Polpo. «Hai mai mangiato roba del genere?»

Polpo aggrottò la fronte, cercando di pensare (non gli succedeva spesso, per questo ci volle un po’ di tempo).

«Mai in tutti questi anni in mare. Ma un tempo, e non t’azzardare a dirlo in giro, un tempo ricordo che mia mamma mi preparava cose buone così.» «Eh sì», disse il Primo ufficiale con la voce bassa e lo sguardo perso nel vuoto. Poi allungò il braccio e afferrò il secondo pezzo del toast di Polpo, neanche il tempo di dire “bottiglia di rum”.

«Ehi tu, palla di lardo, quello era il mio toast!», gridò Polpo. «Ridammelo subito, o ti infilo la mia spada così a fondo nella gola da arrivare a tagliarti le unghia dei piedi!»

(39)

Orrendo vide i due pirati saltarsi addosso e darsele. «Adesso mi tocca prepararne degli altri», pensò avvilito. Ma non appena si trascinò giù in cambusa, concluse che vedere le facce imbronciate dei pirati rilassarsi anche solo per un momento, quando avevano la bocca piena, era un motivo valido per darsi da fare.

Il Capitano, tuttavia, era un altro paio di maniche. A quell’uomo non importava del cibo, preferiva andare avanti a rum e gallette, “come aveva sempre fatto”.

«Cerca solo di frenare la lingua», gli aveva sussurrato un giorno Briccone. «Non dire niente, è tanto difficile? Non ti accorgi di come ti guarda? Ti butterebbe in acqua con le sue bottiglie vuote prima che tu possa dire “vecchio furfante imbottito di grog”. Insomma, quello là starebbe a guardare mentre ti sbranano gli squali e se la riderebbe.»

Orrendo rabbrividì. Gli venne in mente la prima volta che vide il Capitano, in piedi sul castello di prua, il giorno della cattura. Aveva avuto ragione di temerlo. Il Capitano era un uomo alto e con dei muscoli duri e tesi come funi. In lui non c’era traccia di cordialità, umanità o tenerezza. Era come la spada che portava nella cintura, affilata e letale, non ammetteva compromessi.

Ma, quando Orrendo improvvisava uno dei suoi banchetti, non era da lui escludere qualcuno. «Non è scortese ignorare una persona?», si chiedeva. «Non si sentiranno sgraditi o rifiutati? Tuttavia, c’è da dire che», seguiva Orrendo, «non è che il Capitano mi piaccia poi così tanto, quindi, cos’è più importante, la sincerità o la cortesia?» Era questo il genere di cose su cui si scervellava per ore e ore, e che qualche volta gli aveva fatto bruciare i toast.

(40)

Sperava di potersi rivolgere a qualcuno ma, sebbene c’avesse provato, nessuno sembrava capirlo davvero.

Quella mattina Orrendo sfornò altre trenta pagnotte (si era sparsa la voce che i suoi toast alla francese erano la fine del mondo), marinò venti chili di gamberi con aglio e zenzero, infarinò settantasei sogliole e le mise a friggere nel burro. Per Orrendo la cambusa non era messa male anzi, era molto meglio della cucina di casa sua. I pirati non rubavano solo ragazzi, soldi e cibo, ma anche tutte le attrezzature da cucina più moderne. Perciò, Orrendo buttò via tutti i vecchi recipienti di vermi, alghe e anguille in gelatina che aveva trovato nella ghiacciaia e iniziò a rifornire la dispensa di cose buone.

Più tardi quella mattina, controllò le lenze e le reti che aveva gettato, e raccolse tutto il pescato. Il Primo ufficiale accettò di aiutarlo perché nella rete c’era anche un giovane squalo bianco, e Orrendo non poteva sollevarla da solo. «Mi dispiace chiamarvi quando siete occupato, signore, ma cosa ne direste di una bella zuppa di pinne di pescecane? Il signor Polpo me ne parlava, signore, mi raccontava di averla assaggiata una volta durante uno dei suoi viaggi nel lontano oriente, e mi piacerebbe provare a cucinarla se non vi dispiace, signore… »

«Levati di torno, testa di gambero!», sbuffò il Primo ufficiale non appena tirata la rete. Ma Orrendo vide in che modo gli occhi gli si illuminarono al nominare la zuppa.

Quando Orrendo presentò la cena al Capitano (alla fine vinse la cortesia), facendogli delle raccomandazioni: «State attento, signore, è molto calda, non che spetti a me darvi degli ordini, eh eh, solo una battutina, cioè

(41)

vogliate scusarmi, ehm, vi ringrazio, signore», il Capitano gli tirò in faccia il piatto fumante.

«Smettila di blaterare, razza d’IDIOTA!», gli ruggì contro.

Lacrime di dolore inondarono gli occhi di Orrendo. Traboccavano, si mischiavano e bagnavano la zuppa che gli si seccava sulle guance. Cercò di risistemare tutto, ma il Capitano gli afferrò le mani e gliele rigirò come se fossero due piccole sardine.

«Morbide,» sogghignò, «inutili come quelle di un bambino. Mai fatto un giorno di lavoro come si deve, eh? Guardati, impalato lì a frignare come un inutile poppante. Ehi, ragazzi, avete mai visto un piagnucolone così?»

Orrendo abbassò lo sguardo, ma un attimo prima vide di sfuggita, vicinissima, la faccia del Capitano. Dura come marmo o come legno fossile, nessun sentimento poteva lasciare la minima traccia. Una vena profonda gli pulsava al centro della fronte. Orrendo non riusciva a fermare le mani che gli tremavano tutte nella fredda stretta del Capitano.

«Stammi bene a sentire, marmocchio», sibilò, tirando Orrendo così vicino a sé da costringerlo a guardarlo dritto nei suoi occhi neri. «Se ti azzardi ancora una volta a dirmi “scusate” o “per favore”, ti appendo all’albero maestro e lascio che i gabbiani ti cavino gli occhi. È una promessa.»

Spinse via Orrendo, facendolo volare con un solo pugno su un secchio di avanzi.

Quella notte, dopo aver servito la cena, rassettato e fatto la sua ora di guardia, Orrendo si buttò sul suo angolo di materasso e si addormentò subito. Quanto aveva aspettato con ansia di potersi immergere nel mondo dei sogni. Era un tale sollievo lasciarsi andare.

(42)

Stava sognando i delfini che spesso seguivano la nave, gli piaceva guardare come saltavano e si immergevano per gli avanzi di pesce che gli gettava, quando all’improvviso fu svegliato da un rumore. Si girò e vide Briccone che singhiozzava con la faccia nel materasso.

Orrendo gli diete una pacca (leggera) sulla schiena. «Tornatene a dormire, ebete», Briccone tirò su col naso.

Orrendo lasciò il braccio dov’era. «Ti prego, non ti preoccupare Briccone, ti prometto che non farò più arrabbiare il Capitano, te lo giuro! Potessi morire dove sono, cioè, voglio dire, non intendo proprio morire, ma è così che si dice in genere, no? E comunque, ci aspetta un futuro migliore perché un giorno, quando torneremo a casa, io sposerò tua sorella, ovviamente solo se anche lei mi vorrà, e tu potrai venire a trovarci e stare con noi, o meglio, se tu lo vorrai, e la nostra vita sarà diversa. Forse ce ne andremo lontano… »

«Che ne sarà di mia madre?»

«Potrà venire anche lei, certo insomma, è naturale! E sarà la benvenuta, ma se magari potessi dirle di non portare il suo allarme e il trita scarafaggi. E ovviamente verrebbero anche i miei genitori… »

«Come ci guadagneremo da vivere? Come troveremo una casa? Dove prenderemo i soldi? Viaggiare costa tanto… »

Orrendo si accigliò. «Sto ancora lavorando ai dettagli, ma non ti preoccupare, la cosa importante è pensare al futuro, non al presente. Quando sei lì fuori sulla coffa, guarda in alto, non in basso, e pensa a tutte le possibilità che ci riserva il cielo… »

(43)

Calò il silenzio per un secondo, non appena pensarono a Briccone che si arrampicava sulle cime; a Orrendo venne in mente quanto sembrava piccolo tutte le volte che lo vedeva lassù, appena scivolava nella coffa era piccolo come una formichina nera. Rimasero stesi per un secondo, ascoltando il vento ululare, ‘fiuuu, fiuuu’, e Orrendo cercava di non pensare alla terribile vena che minacciava di esplodere al centro della fronte del Capitano.

Ma in quel momento Briccone si soffiò il naso sul materasso e disse piano piano: «Ascoltami, fiato di cane, anche se io non dovessi farcela, spero davvero che tu sposi mia sorella. Dico sul serio».

E in qualche modo, nonostante il lamento del vento e l’imprecare dei pirati sul ponte, si addormentarono entrambi fino all’alba seguente.

Riferimenti

Documenti correlati

Modello trasmissione ereditaria malattie geniche

Mescola una goccia di Calm con cinque gocce di Olio di Cocco Frazionato Priime, o secondo le indicazioni specifiche, prima di applicarlo sulla pelle.. Diffusione

David e io ci abbracciammo contenti e decidemmo, insieme agli altri, di scendere dietro la casa, dove le fiamme erano ancora vive.. Poi arrivò un secondo

L’articolo 55 della direttiva Iva deve essere interpretato nel senso che non si applica in circostanze come quelle di cui trattasi nel procedimento principale, in cui il

con chiusura ermetica e tappo con clip, opzioni disponibili: bordeaux con decorazioni color oro o nera con decorazioni color argento, stampa con licenza originale Harry Potter,

- alla voce Quantità a smaltimento la quantità cumulativa per tutti i rifiuti riportati sulla SCHEDA AUT come ricevuti o prodotti, avviata a smaltimento nell'unità locale

Comprende anche discendenti di italiani emigrati dall'ex impero austro-ungarico che hanno presentato documentazione nell'ambito della Legge 379/2000 e che sono ancora in attesa

Para enfrentar os desafios atuais – culturais, sociais, políticos, jurídicos – não partimos do zero. Temos a riqueza de uma história, de um caminho feito na companhia de