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54 TFUE rinvia all’art

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Academic year: 2021

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140 Conclusioni

La libertà di stabilimento delle persone giuridiche è definita dalle norme del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea partendo dall’analoga libertà prevista per le persone fisiche all’art. 49 TFUE, il quale pone in capo agli Stati il divieto di effettuare «restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro».

L’art. 54 TFUE rinvia all’art. 49, operando espressamente un’estensione della libertà di stabilimento prevista per le persone fisiche alle stesse persone giuridiche, purché siano costituite «conformemente alla legislazione di uno Stato membro» e abbiano «la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità».

Nonostante questa previsione generale, ogni qualvolta gli Stati membri si trovano dinanzi a fenomeni di mobilità delle società, i quali rientrano a pieno titolo nell’esercizio della libertà di stabilimento, si presentano peculiari problemi di attuazione della libertà menzionata che rischiano di vanificare le previsioni generali del Trattato.

Se infatti per le persone fisiche il dato della cittadinanza non viene mai perso con l’esercizio della libertà di stabilimento, in quanto l’appartenenza ad un determinato Stato membro è un dato incontestabile da parte di Stati diversi da quello di origine, non può dirsi lo stesso in merito alle persone giuridiche, in quanto i criteri per l’attribuzione della personalità giuridica (come quelli di attribuzione della cittadinanza alle persone fisiche, del resto), non sono omogenei tra i vari Stati.

Inoltre, come abbiamo visto nel corso dell’elaborato, la classificazione degli ordinamenti in Stati che seguono la teoria dell’incorporazione e Stati che seguono la teoria della sede reale non è da sola sufficiente a stabilire quale sarà in concreto la legge applicabile all’ente trasferito. I criteri di collegamento internazional- privatistici dovranno essere infatti combinati con le norme di diritto sostanziale

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societario, le quali potranno ammettere o meno il trasferimento all’estero della sede dell’ente. Occorrerà poi considerare non solo le norme internazional- privatistiche e le norme sostanziali dello Stato di partenza, ma anche quelle dello Stato di destinazione, al fine di combinarle per determinare la legge applicabile.

Un primo tentativo di porre rimedio alle incertezze in materia di libertà di stabilimento delle persone giuridiche è stato effettuato tramite la previsione dell’articolo 293 TCE (art. 220 secondo la numerazione previgente), oggi abrogato con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona.

L’articolo in questione rimetteva agli Stati membri la facoltà di ricorrere alla stipulazione di convenzioni internazionali per raggiungere un reciproco accordo sul riconoscimento della validità ai trasferimenti di sede effettuati nei rispettivi territori, in modo da consentire il pieno raggiungimento degli obiettivi posti dal Trattato.

Sulla base dell’art. 293 del TCE è stata perciò redatta la Convenzione di Bruxelles del 29 febbraio 1968, che, anche se non entrata in vigore a causa della mancata ratifica dell’Olanda, ha comunque rappresentato un primo tentativo di porre in essere un sistema di diritto internazionale privato uniformemente applicabile dagli Stati sottoscrittori e capace di offrire criteri di collegamento idonei ad agevolare le stesse operazioni transfrontaliere.

Dopo il tentativo non andato a buon fine di stipulare una convenzione tra gli Stati membri, la scelta delle istituzioni dell’Unione si è orientata verso l’armonizzazione, attuata in forme diverse e temporalmente graduate, ma senza rimettere interamente alla competenza degli Stati membri la materia del diritto societario. I principi sulla base dei quali i Trattati istitutivi disciplinano l’intervento normativo dell’Unione (articolo 5 TUE: attribuzione, sussidiarietà, proporzionalità) fanno emergere inoltre un carattere generalmente residuale dell’armonizzazione.

Se è vero infatti che una prima fase dell’intervento di armonizzazione, che copre il periodo dal 1968 fino agli inizi degli anni Ottanta, vede un’ampia produzione normativa in materia di diritto societario, la fase successiva al 1984

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vede un passaggio da un programma di integrazione realizzato mediante norme sovranazionali che assicuravano la reciproca compatibilità delle previsioni tra i vari Stati membri, ad un programma di armonizzazione che, al contrario, intendeva focalizzarsi su aspetti dotati di un maggiore grado di specificità.

Inoltre, negli anni successivi al 2007 non sono stati emanati atti normativi aventi ad oggetto altri settori del diritto societario, e si è provveduto esclusivamente a ricodificare le direttive esistenti alla luce delle modifiche apportate ai testi originari nel corso del tempo.

Le diverse fasi in cui si articola il processo di armonizzazione, considerate anche alla luce dei contenuti delle norme sovranazionali, mettono dunque in evidenza come l’armonizzazione sia stata attuata con più facilità e con tempi relativamente minori nei settori di intervento che i vari Stati membri avevano già provveduto autonomamente a uniformare, arenandosi invece in quelli che scontavano significative differenze di regolazione tra i rispettivi ordinamenti interni.

Date le caratteristiche dell’armonizzazione realizzata tramite direttive, è possibile concludere che le disposizioni contenute all’interno delle direttive in materia di diritto societario vadano sì a costituire un corpus di normativa sovranazionale potenzialmente idoneo al conseguimento di un adeguato livello di armonizzazione. Al contempo, tuttavia, non si può fare a meno di verificare capillarmente la persistenza di divaricazioni che rischiano di compromettere l’effettività delle direttive e dunque il raggiungimento degli obiettivi di uniformità che ne costituiscono la giustificazione.

Il programma di armonizzazione delle previsioni di diritto societario ha visto, oltre alla emanazione delle direttive suddette, la creazione di istituti di diritto sovranazionale finalizzati ad agevolare la mobilità delle imprese: il Gruppo Europeo di Interesse Economico (GEIE) e la Società Europea nelle sue diverse declinazioni.

Il Gruppo Economico di Interesse Europeo rappresenta uno schema contrattuale istituito per agevolare la collaborazione transnazionale a prescindere

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dalla tipologia di attività svolta molti rinvii alla legislazione nazionale e non fornisce completa regolamentazione di ogni singolo aspetto inerente all’istituto, limitandosi a fornirne i tratti essenziali. La disciplina contenuta nel regolamento istitutivo non è dunque esaustiva e dovrà essere integrata sia con le previsioni di diritto nazionale. I dati analizzati hanno mostrato tuttavia che il suo impiego per il raggiungimento degli obiettivi di internazionalizzazione e di collaborazione transnazionale tra soggetti operanti sul mercato è rimasto complessivamente esiguo, anche se fino all’entrata in vigore del regolamento istitutivo della Società Europea (2004) il GEIE ha costituito l’unico modello europeo utilizzabile per la collaborazione tra imprese aventi sede in Stati diversi.

L’aspetto maggiormente disincentivante che ha portato a tale scarso utilizzo è infatti quello della responsabilità illimitata prevista in capo ai singoli membri per le obbligazioni contratte dal gruppo, mentre i profili legati ai costi burocratici e temporali e all’internazionalità limitata al territorio europeo mantengono chiaramente un peso inferiore rispetto al primo elemento.

Lo statuto della Società Europea, ulteriore strumento di matrice sovranazionale messo a disposizione dal legislatore dell’Unione, ha rappresentato un compromesso tra le diverse istanze emerse nel corso del processo di negoziazione, come risulta anche dal fatto che la disciplina del modello societario non è stata introdotta esclusivamente con regolamento ma parzialmente rimandata all’interno della direttiva 2001/86/CE, inerente alla partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale.

Nonostante la portata innovativa dell’istituto, la scelta effettuata dal legislatore europeo è stata quella di mantenere una scarna regolamentazione dei tratti fondamentali dell’istituto e di riservare comunque al diritto nazionale un ampio margine di applicazione, esclusivamente limitato dal rispetto della parità di trattamento e dall’applicazione della disciplina inderogabile di diritto europeo.

La soluzione di compromesso adottata dal regolamento per consentire i trasferimenti di sede senza messa in liquidazione della società, non previsti in alcun modo per le società diverse dalla SE, costituisce per le ragioni suddette un

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regime ibrido e non pienamente assimilabile né alla teoria della sede reale né alla teoria dell’incorporazione.

Una ulteriore limitazione all’utilizzo della SE come strumento di mobilità internazionale delle società è costituita dalla mancata previsione di una modalità di accesso diretto alla SE, rimanendo questo modello adottabile soltanto da società già esistenti ed operanti in almeno due diversi Stati membri dell’Unione.

Un ulteriore aspetto che ha reso la diffusione della SE non uniforme all’interno dell’Unione è quello della previsione dell’istituto della partecipazione dei lavoratori alla gestione della società. Ciò ha in particolare fatto sì che la diffusione della SE fosse maggiore in quegli Stati le cui previsioni di diritto nazionale ammettevano già di per sé l’obbligatorietà della partecipazione dei lavoratori alla vita della società, mentre la presenza di Società Europee in Stati che non prevedevano tale istituto è rimasta del tutto esigua.

Nell’ottica di una internazionalizzazione dei mercati e della mobilità internazionale, invece, la Società Europea società risulta indubbiamente uno strumento competitivo dal punto di vista del sistema di governance, in quanto esso garantisce la facoltà di scelta tra sistema monistico e sistema dualistico anche in ordinamenti che non prevedono la compresenza di questi sistemi, nonché il vantaggio di poter attuare trasferimenti di sede senza necessità di previa liquidazione e di successiva ricostituzione della società.

Nonostante ciò, la diffusione del modello di Società Europea non risulta ancora capillare e uniforme all’interno dell’Unione, vista la permanenza di non secondarie divergenze nelle previsioni di diritto societario dei singoli Stati, specialmente, come sopra menzionato, per quanto riguarda la cogestione.

Le sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia analizzate all’interno dell’elaborato hanno inoltre contribuito a definire i contenuti della generale libertà di stabilimento prevista dal Trattato e hanno permesso di far venire alla luce alcune linee guida fondamentali per dare contenuto a tali previsioni.

In particolare, la Corte di Giustizia ha fornito una nozione restrittiva di abuso, negando che rientrasse in tale nozione il fatto di esercitare la libertà di

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stabilimento secondario come se si trattasse di una libertà di stabilimento primario poiché in realtà la sede principale dell’ente non esercitava alcun tipo di attività, svolta invece in toto dalla sede secondaria (Commissione contro Francia, Segers, Centros).

Emerge inoltre nelle pronunce della Corte di Giustizia il riconoscimento dell’interesse di ciascuno Stato membro a dettare i criteri per l’attribuzione della personalità giuridica alle società che si costituiranno al loro interno (Daily Mail, Cartesio) senza che gli Stati membri diversi da quello di costituzione possano sindacare le scelte di quest’ultimo. Dovranno infatti consentire l’esercizio della libertà di stabilimento alle società dell’Unione proprio in quanto costituite conformemente alla legislazione di uno degli Stati membri, senza imporre ulteriori requisiti diversi da quelli previsti per le società nazionali (Überseering, Inspire Art).

La recente pronuncia VALE Epitési kft, inoltre, ha ripreso un punto che nella sentenza Cartesio appariva come un obiter dictum, confermando l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia nel caso precedente (Cartesio) secondo il quale il trasferimento di sede con mantenimento della legge dello Stato di costituzione costituiva una ipotesi differente dalla trasformazione internazionale, ossia dal trasferimento di sede con contestuale mutamento della legge applicabile.

Proprio il trasferimento di sede ha costituito oggetto di analisi dettagliata per quanto riguarda gli Stati membri presi in considerazione, ossia Italia e Repubblica Ceca, al fine di verificare come le previsioni sovranazionali abbiano esercitato la loro influenza sulle previsioni degli Stati in questione e di analizzare le diverse scelte attuate.

Se, per quanto riguarda l’Italia, la disciplina codicistica e quella internazional-privatistica mostrano le loro lacune e lasciano molto spazio all’interpretazione per quel che riguarda i trasferimenti di sede e soprattutto i loro effetti, la Repubblica Ceca ha recentemente approvato una apposita disciplina dettagliata in materia di trasferimenti di sede da e verso l’estero.

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Le previsioni italiane, in particolare, si limitano a prevedere la possibilità di trasferire la sede sociale all’estero modificando l’atto costitutivo con apposita delibera, ma manca una disciplina che detti una regolamentazione specifica in merito al trasferimento della registrazione dai registri nazionali a quelli dello Stato di destinazione.

Non è inoltre stabilito se il trasferimento della sede all’estero comporti per la società italiana il mutamento della legge applicabile senza necessità di sciogliere previamente la società, oppure se essa continui ad essere soggetta alla legge italiana.

A tal proposito, una sentenza pronunciata dalle Sezioni Uniti della Cassazione nel 2004 ha stabilito che qualora gli Stati interessati dalla vicenda del trasferimento non siano concordi negli effetti da attribuire a tale vicenda, non possa essere posto in essere senza previamente sciogliere l’ente interessato, dato che la continuità si avrebbe soltanto in caso di conformità degli effetti previsti dai singoli Stati.

Non deve inoltre essere trascurata una prassi seguita da alcune Camere di Commercio, di cui ne è un esempio quella di Milano, che prevedono che la società che presenti la delibera di trasferimento della sede sociale all’estero possa scegliere se mantenere la soggezione all’ordinamento giuridico italiano o se invece mutare il proprio statuto personale.

Le problematiche rimesse all’interpretazione dal legislatore italiano hanno invece trovato una definizione chiara in Repubblica Ceca. Il trasferimento di sede da e verso l’estero, disciplinato dalla legge in materia di trasformazioni societarie, è infatti collocato all’interno del capo inerente ai mutamenti di forma giuridica ed è espressamente stabilito che alle società che trasferiscono la loro sede in Repubblica Ceca sia applicata la legge dello Stato di destinazione, mentre per le società ceche che si trasferiscono all’estero è prevista sia la possibilità di rimanere soggette alla legge ceca che quella di mutare statuto personale.

Una disciplina dettagliata che chiarisca a livello nazionale questi punti controversi, in attesa dell’emanazione di una normativa sovranazionale,

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rappresenta un buon punto di partenza per agevolare ed incentivare i trasferimenti di sede, aspetto maggiormente controverso della mobilità internazionale.

Ciò non significa comunque che si produca automaticamente un incremento dei trasferimenti di sede, anche in presenza di una disciplina chiara con poche lacune e con poco spazio lasciato all’interpretazione, dato il rilievo dei costi amministrativi connessi con l’operazione: si pensi, per esempio, alla redazione o alla traduzione di tutti i documenti necessari nella lingua del paese di destinazione o alle procedure da compiere presso i relativi registri. Le norme astratte si scontrano quindi con la prassi che spesso ne ridimensiona fortemente l’effettività.

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