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Le politiche previdenziali

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Academic year: 2021

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1. Introduzione

Affrontare il tema pensioni in una prospettiva interge- nerazionale potrebbe apparire scontato per una se- rie di ragioni: vuoi per il time lag che caratterizza la politica pensionistica – il fatto, cioè, che le decisioni di policy adottate oggi determineranno le condizioni di pensionamento nei prossimi decenni; oltre che per la stretta interdipendenza tra le generazioni implica- ta dal metodo ‘a ripartizione’ su cui è imperniato il sistema pensionistico pubblico in Italia; nonché per i numerosi contributi che, a partire dalle riforme degli anni Novanta, hanno puntato la lente sulle prospetti- ve previdenziali delle (più o meno) giovani generazio- ni entrate sul mercato del lavoro alla fine di quel de-

cennio e che andranno in pensione (assumendo una carriera piena) a partire dal 2030-2035.

Vi sono, però, alcune buone ragioni che giustifica- no un simile approccio allo studio della politica pen- sionistica in Italia, anche considerando il parados- so per cui le grandi riforme previdenziali sottrattive dell’ultimo quarto di secolo (riforma Amato del 1992- 93, riforma Dini 1995, riforma Monti-Fornero 2011) sono state tutte giustificate in nome delle giovani (e future) generazioni, e tuttavia queste generazioni esprimono forti dubbi circa la possibilità di ricevere, un domani, la pensione, di riceverla d’importo ade- guato ovvero di accedere al pensionamento a un’età giudicata accettabile.

Dopo la poderosa espansione delle pensioni nei Trente Glorieuses 1945-75, dai primi anni Novanta una lunga serie di riforme prevalentemente sottratti- ve ha radicalmente trasformato l’architettura previdenziale italiana. L’articolo adotta pertanto una prospettiva intergenerazionale al fine di valutare come e in quale misura è mutato lo scenario previdenziale per le giovani generazioni, individuando nell’equità intra-generazionale il tallone d’Achille di un sistema che prevede requisiti di pensionamento severi – e di fatto regressivi – e pena- lizza fortemente i lavoratori con carriere frammentate anche per effetto di un cattivo ‘incastro’ tra previdenza pubblica e complementare.

After the remarkable expansion of pensions during the Trente Glorieus- es (1945-75), a long series of reforms has radically transformed the Ital- ian pension architecture. The article therefore adopts an intergeneration- al perspective in order to assess how, and to what extent, the pension scenario for the young generations has changed. It concludes that equi- ty represents the Achilles’ heel of a system which presents tight—even re- gressive—eligibility conditions, and strongly penalizes workers with frag- mented careers also due to a bad correlation between the public and supplementary pension systems.

Matteo Jessoula

Università degli Studi di Milano

Le politiche previdenziali

Citazione

Jessoula M. (2019), Le politiche previdenziali, Sinappsi, IX, n.3, pp.62-69

Key words Pensions Generations Equity Parole chiave

Pensioni Generazioni Equità

DOI: 10.1485/2532-8549-201903-5

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1 Si veda sul punto Inps (1993).

2 Circa i fattori che portarono all’introduzione delle baby pensioni nel 1956 si veda la ricostruzione in Ferrera et al. (2012).

In questo quadro, due sono le ragioni che suggeri- scono di accostare il tema pensioni in prospettiva in- tergenerazionale. In primo luogo, la disponibilità di nuovi dati empirici consente di sviluppare alcuni ragio- namenti più robusti circa le prospettive previdenziali, nel medio-lungo periodo, delle generazioni più giova- ni sul mercato del lavoro, specialmente quelle inte- gralmente soggette al metodo contributivo introdotto nel 1995. In seconda istanza, l’adozione di una pro- spettiva sistemica, che guarda tanto alla previdenza pubblica quanto alla previdenza complementare, per- mette di valutare in chiave intergenerazionale lo stato d’implementazione del piano di riforma degli anni No- vanta (e Duemila) che prevedeva una riarticolazione su più pilastri dell’architettura pensionistica italiana.

Con riferimento a tali ‘buoni motivi’ e al parados- so sopracitato, il presente contributo, che richiama uno dei primi approfonditi studi sulla crisi del sistema pensionistico italiano a cura dell’Inps Le pensioni do- mani pubblicato nel 1993, mira dunque a gettare luce sui rapporti intergenerazionali all’interno del sistema pensionistico italiano concentrandosi su due diver- se fasi. Nel secondo paragrafo vengono infatti breve- mente richiamati i principali ‘parametri’ previdenziali per le generazioni che sono entrate in quiescenza fino alle riforme degli anni Novanta o negli anni immedia- tamente successivi – per effetto dei lunghi periodi di transizione previsti dalle stesse. Il più ampio terzo pa- ragrafo riguarda invece le pensioni ‘domani’, ossia le prospettive previdenziali delle generazioni entrate nel mercato del lavoro nell’ultimo ventennio.

Poiché le prospettive di tenuta del sistema pensio- nistico italiano paiono rassicuranti sotto il profilo della sostenibilità economico-finanziaria (European Com- mission 2018; RGS 2019), il contributo si concentra sul- le altre due dimensioni cruciali per la valutazione dei sistemi previdenziali: adeguatezza ed equità, quest’ul- tima peraltro sempre più rilevante alla luce delle ri- forme sottrattive degli ultimi tre decenni che hanno significativamente ridotto, come si dirà a breve, la ge- nerosità del sistema italiano di tutela della vecchiaia.

Entro tale prospettiva, ove opportuno, un taglio com- parato consentirà inoltre di cogliere più efficacemente le peculiarità del caso italiano nelle due fasi analizzate.

2. La transizione italiana: 1992-2011

Fino alla riforma Amato del 1992-93, la prima rifor- ma compiutamente sottrattiva dopo oltre quarant’an- ni di espansione del sistema di tutela della vecchiaia, il caso italiano si caratterizzava per una spesa più ele- vata – la spesa sul PIL era al 13,6% a fronte di una me- dia UE pari all’11% – e regole pensionistiche più gene- rose rispetto agli altri Paesi europei. Tale generosità derivava, peraltro, più dalle ‘morbide’ regole di acces- so al pensionamento che dalla formula di calcolo delle pensioni. Infatti, il sistema retributivo introdotto nel 1968 per i lavoratori dipendenti nel settore privato – poi esteso ai lavoratori autonomi nel 1990 con uno di quei tipici ‘regali previdenziali’ che hanno caratte- rizzato la Prima Repubblica1 – non era infatti un uni- cuum sul continente europeo. Ciò che contraddistin- gueva l’esperienza italiana erano piuttosto i requisiti di accesso alla quiescenza, che consentivano il pen- sionamento a età decisamente inferiori rispetto alla maggior parte dei Paesi europei: l’età pensionabile era rimasta infatti ‘congelata’ al livello fissato dal regi- me fascista nel 1939 – 55 anni per le donne, 60 per gli uomini – ma nel comparto privato questi ultimi utiliz- zavano più frequentemente il canale di uscita tramite le pensioni di anzianità, con 35 anni di contribuzione, mentre i dipendenti pubblici potevano accedere alle famigerate ‘pensioni baby’, che consentivano il pen- sionamento con 25 anni di contributi, 15 anni per le donne coniugate o con figli2.

Se si considera che nel 1997 l’età media di acces- so alla pensione per i nuovi pensionati Inps era pari a 61,1 anni (Brambilla 2019), è evidente come tali con- dizioni abbiano consentito un prolungato periodo di quiescenza a numerose coorti di lavoratori. Note meno positive emergono, invece, per i pensionati at- tuali, dall’analisi della distribuzione dei redditi pen- sionistici. Infatti, nonostante la generosa formula re- tributiva, ampia è la quota di anziani che vivono in condizioni economiche molto modeste: i dati Istat più recenti (Istat 2019) mostrano che nel 2016 il 12,6%

dei pensionati ha ricevuto un reddito pensionistico in- feriore ai 500 euro/mese, e ben il 26,4% si collocava tra i 500 e i 1.000 euro; le cifre Eurostat evidenziano che in Italia la quota di over 65 a rischio di povertà o

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3 Si veda Jessoula (2019) per l’analisi di queste riforme e degli interventi della successiva ‘quarta ondata’ 2016-2019 con le riforme Poletti-Renzi 2016 e Di Maio-Salvini 2019.

4 L’età pensionabile non è solo la più elevata d’Europa, è anche sostanzialmente ‘rigida’ e regressiva per effetto delle clau- sole che condizionano l’accesso al pensionamento di vecchiaia e anticipato (nel sistema contributivo) al raggiungimento di determinate soglie di importo della pensione.

esclusione sociale, pari al 22% nel 2016 – benché in- feriore rispetto alla fascia di età 0-65 anni (30,8%) – è comunque significativamente superiore della media UE (18,2%).

Diversi fattori consentono di comprendere tali dati critici sul versante dell’adeguatezza delle prestazioni per le attuali coorti di pensionati: in primis, la dura- ta limitata della carriera contributiva in Italia rispetto agli altri Paesi europei, i modesti redditi dichiarati dai lavoratori autonomi, la più recente applicazione del metodo retributivo in quest’ultimo comparto, nonché la debolezza degli schemi assistenziali di tutela della vecchiaia (pensione sociale, assegno sociale) nel con- trasto alla povertà tra gli anziani.

Come noto, tuttavia, le regole previdenziali dise- gnate nella ‘Età dell’Oro’, con cui sono entrati in quie- scenza la gran parte degli attuali pensionati, sono state radicalmente trasformate da almeno nove im- portanti interventi di riforma succedutisi in tre diver- se ‘ondate’ tra il 1992 e il 2011: le riforme della fase di ‘emergenza’ 1992-1997 (Amato, Dini e Prodi); gli interventi nel periodo (2001-2008) dell’alternanza al governo tra centro-destra (riforma Maroni-Tremon- ti) e centro-sinistra (riforma Damiano); i tre provvedi- menti della ‘terza ondata’ (2009-2011) volti a fronteg- giare la crisi economica globale (riforma Sacconi I nel 2009) e la successiva crisi del debito sovrano (riforma Sacconi II nel 2010, riforma Fornero-Monti nel 2011)3. Il risultato complessivo di tali ripetuti interventi è un sistema pensionistico decisamente meno genero- so – e a limitatissima redistribuzione verticale (cioè tra diversi livelli di reddito) di cui si dirà nel paragra- fo 3 – per effetto dei seguenti cruciali fattori: i) l’età pensionabile a 67 anni, la più elevata d’Europa4 (Eu- ropean Commission 2018); ii) il nuovo metodo con- tributivo di calcolo delle prestazioni, che non solo ga- rantisce più modesti tassi di rendimento (nelle attuali condizioni economiche, cfr. Raitano 2017), ma scari- ca anche sugli assicurati i rischi derivanti da trend de- mografici ed economici negativi per via di iii) tre fon- damentali stabilizzatori automatici della spesa, quali

la revisione automatica dei coefficienti di trasforma- zione per il calcolo delle pensioni, la rivalutazione dei contributi versati secondo la media mobile quinquen- nale del tasso di crescita economica, oltre all’adegua- mento automatico dei requisiti di pensionamento all’aumento della speranza vita.

Gli effetti di questi nuovi parametri, che definisco- no le condizioni di pensionamento per i pensionan- di futuri saranno oggetto di valutazione nel successi- vo paragrafo 3.

3. Le prospettive previdenziali nel medio-lungo periodo

In raffronto al quadro tratteggiato nel paragrafo pre- cedente, relativamente alle condizioni garantite dal si- stema pensionistico italiano per i lavoratori che sono entrati in quiescenza fino alla fine degli anni Novanta, tre sono gli elementi da tenere in considerazione al fine di valutare le prospettive previdenziali delle gio- vani generazioni con riferimento alle due dimensioni di adeguatezza ed equità. Il primo elemento concer- ne le condizioni di accesso al pensionamento, il se- condo riguarda il livello delle pensioni erogate dagli schemi previdenziali pubblici dell’assicurazione obbli- gatoria, il terzo le possibilità che i futuri pensionati di- spongano di un reddito pensionistico composto dal- la pensione pubblica e dalla pensione integrativa, o complementare, come previsto nel piano lanciato – e perseguito da governi di diverso colore – negli anni Novanta.

L’accesso al pensionamento

Come già anticipato, per effetto delle riforme Sacco- ni e Monti-Fornero le condizioni di accesso al pensio- namento sono divenute più stringenti. In particolare, l’incremento dell’età pensionabile promosso dalle ri- forme del triennio 2009-2011, soprattutto per le don- ne, con circa 7 anni di incremento tra il 2010 e 2018 – quando l’età legale di pensionamento è stata com- pletamente armonizzata, tra uomini e donne e tra le diverse categorie professionali, a 66 anni e 7 mesi – è

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5 Una progressione simile, come entità, dell’età pensionabile era stata prevista in Polonia, ma lungo un periodo di circa tre decenni ed è poi stata sostanzialmente addolcita dalle riforme successive.

6 Si ricorda tuttavia la sospensione del meccanismo di adeguamento dei requisiti per il pensionamento anticipato nel pe- riodo 2019-2026: le condizioni di eleggibilità rimarranno dunque anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per gli uo- mini, 41 anni e 10 mesi per le donne.

un aumento che per rapidità e intensità non ha pari nell’Unione europea5. Inoltre, come detto sopra, le condizioni di eleggibilità, tanto per la pensione di vec- chiaia quanto per quella ‘anticipata’, sono destinate a divenire automaticamente ancora più esigenti per ef- fetto del meccanismo cosiddetto di linking di queste ultime con le variazioni nell’aspettativa di vita6. Ove questa dovesse continuare ad aumentare come pre- visto, le condizioni di eleggibilità verrebbero innalza- te di un numero di mesi di pari entità: caratteristica del modello italiano è, infatti, la trasposizione inte- grale degli aumenti nell’aspettativa di vita sui requi- siti di pensionamento. Tale meccanismo comporte- rebbe, dunque, il permanere nei prossimi decenni di condizioni di eleggibilità severe per l’accesso alla pen- sione di vecchiaia: 69 anni e 9 mesi nel 2050, ancora la più elevata in Europa assieme alla Danimarca (Eu- ropean Commission 2015). Anche l’incremento previ- sto dell’età media di uscita effettiva dal mercato del lavoro sarebbe tra i più significativi nell’Unione euro- pea, superiore ai 5 anni tra il 2013 e il 2060 – a fronte di un aumento medio di 2,3 anni nell’UE e inferiore a 1 anno in Estonia, Bulgaria, Germania, Finlandia, Ro- mania, Lussemburgo e Svezia (European Commission 2015). In particolare, per l’Italia, ciò porterebbe l’età di uscita media (considerando sia le pensioni di vec- chiaia sia quelle anticipate) a 67 anni nel 2050.

A fronte di requisiti di pensionamento così strin- genti, le considerazioni sull’adeguatezza, ma soprat- tutto sull’equità, nell’accesso alla pensione riman- dano sia all’eterogenea possibilità dei lavoratori di proseguire l’attività fino alle nuove elevate età pen- sionabili (Raitano 2012), sia al diverso impatto distri- butivo – e redistributivo – di queste in rapporto ai dif- ferenziali nelle aspettative di vita. Infatti, benché non esistano sistematici dati comparati sul punto, gli stu- di condotti sul caso italiano mostrano come tali diffe- renze nelle aspettative di vita non si distribuiscano in maniera casuale e risultino significative tra diversi li- velli di istruzione – dai 3 anni (donne) ai 5 anni (uo- mini) di differenza tra gli individui con titolo di scuola elementare e i laureati – e tra le varie categorie pro-

fessionali – circa 4 anni tra gli operai e i quadri/diret- tivi (Leombruni et al. 2015). Considerando che l’attua- le scarto tra età pensionabile (67 anni) e l’aspettativa di vita media a 65 anni (85,9 anni) è di circa 18 anni, emerge chiaramente come tali differenziali nell’aspet- tativa di vita incidano in maniera rilevante sulla di- mensione equitativa della durata del pensionamento, con importanti effetti regressivi a sfavore degli indivi- dui svantaggiati tra le giovani generazioni.

Vediamo ora quali sono le prospettive circa i livelli pensionistici per i pensionati futuri.

Le pensioni pubbliche nel sistema contributivo

Negli anni immediatamente successivi all’adozione della riforma Dini, alcuni rapporti di fonte governati- va (Ministero del Welfare 2001; 2002) evidenziavano un rischio circa l’adeguatezza delle pensioni pubbli- che per le giovani generazioni integralmente sogget- te al metodo contributivo – con tassi di sostituzione in diminuzione di 15-20 punti percentuali tra il 2010 e il 2030. Successivamente alle riforme della ‘terza ondata’, invece, molti commentatori hanno corretta- mente osservato che, con i nuovi più elevati requisi- ti di pensionamento, le preoccupazioni circa l’adegua- tezza delle prestazioni sono da considerarsi superate (Fornero 2015) per i lavoratori con carriere lunghe, re- tribuzioni adeguate ed età di pensionamento elevate (Raitano 2019): i dati della Ragioneria generale dello Stato (2019) mostrano infatti che per questi lavoratori il tasso di sostituzione netto previsto (teorico dunque) sarebbe attorno all’80%.

Il punto decisivo da mettere a fuoco è, tuttavia, che la ‘quadratura del cerchio’ – cioè la combinazio- ne virtuosa di adeguatezza e sostenibilità nel sistema pensionistico riformato – si ottiene soltanto nelle con- dizioni sopra menzionate – carriere lunghe, retribu- zioni adeguate ed età di pensionamento elevate – che potrebbero però rappresentare requisiti difficili da raggiungere per gli individui più svantaggiati, e forse anche per il lavoratore medio.

Rispetto a tale rischio, alcuni interessanti dati re- centi, non più fondati su proiezioni teoriche, ma di fon-

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7 Come riportato in Covip (2019), la differenza tra il numero di adesioni e il numero degli iscritti è in gran parte riconduci- bile a “posizioni di iscritti che, pur aderendo a più forme pensionistiche, versano soltanto su una di esse”.

te amministrativa, permettono di sostanziare con in- formazioni ‘reali’ – cioè con riferimento ai versamenti contributivi effettivi – le considerazioni attorno al livel- lo di tutela assicurato dal sistema pensionistico pubbli- co. Seguendo i percorsi occupazionali e contributivi dei lavoratori di prima occupazione successiva al 1996, Rai- tano (2017) mostra, infatti, che per una quota significa- tiva – oltre la metà – di questi lavoratori il versamento contributivo effettivo nei primi 13 anni di carriera rap- presenta circa il 50% di quello effettuato dal lavorato- re mediano – sempre occupato e con retribuzione me- dia nel periodo di riferimento. Tale ridotto versamento avrebbe naturalmente come conseguenza la sensibile riduzione del livello delle prestazioni pubbliche di vec- chiaia per una consistente porzione di pensionati futuri.

Tali considerazioni hanno perciò importanti impli- cazioni sia per l’adeguatezza che per l’equità del siste- ma pensionistico per le giovani generazioni. Infatti, se si abbandona il riferimento esclusivo al lavoratore – poi pensionato – ‘medio’ per valutare i differenti profili di rischio cui gli individui sono esposti e l’effettiva capaci- tà del sistema pensionistico di farvi fronte – soprattut- to laddove, come accade in Italia da ben prima della cri- si, il mercato del lavoro non riuscisse a offrire adeguate opportunità occupazionali e retributive all’intera forza lavoro – il quadro cambia radicalmente. Se i tassi di so- stituzione attesi rimangono elevati per i lavoratori con carriere lunghe e non frammentate, i dati contenuti ne- gli Adequacy Report della Commissione europea (Euro- pean Commission 2015; 2018) mettono in evidenza le criticità tipiche dei sistemi contributivi come quello ita- liano: in questi sistemi, il livello atteso della pensione – espresso nei termini del tasso di sostituzione – si riduce in modo molto significativo per coloro che non riesco- no (o non possono) soddisfare le condizioni delineate sopra (carriera lunga ed età pensionabile elevata). Ad esempio, per un lavoratore con contribuzione pari a 30 anni, il livello della pensione si riduce di 25 punti per- centuali rispetto a quello di un lavoratore che inizia l’at- tività a 25 anni e rimane occupato ininterrottamente fino all’età pensionabile. In diciotto Paesi nell’UE28 tale decremento si mantiene moderato – entro i 15 punti percentuali – mentre l’Italia appare tra i Paesi nei quali le regole pensionistiche più penalizzano questo tipo di

lavoratori. Risultati non dissimili appaiono dal confron- to tra il livello della pensione per un lavoratore costret- to ad abbandonare l’attività lavorativa prima dell’età pensionabile – ad esempio a causa di licenziamento – e dunque con 5 anni di disoccupazione prima del pen- sionamento e quello di un lavoratore occupato ininter- rottamente dai 25 anni all’età pensionabile: qui l’Italia presenta il dato più penalizzante nell’UE28, con una riduzione prevista di 15 punti percentuali, mentre in quattordici Paesi tale diminuzione è contenuta al di sot- to dei 5 punti percentuali (European Commission 2015).

Infine, da una prospettiva parzialmente differen- te, va rimarcato come il perseguimento di un adegua- to livello di tutela pubblica tramite requisiti d’accesso particolarmente elevati sollevi problemi di equità alla luce delle considerazioni sopra esposte circa la minore aspettativa di vita per le fasce di popolazione a più bas- so reddito e le categorie professionali più svantaggiate.

Le pensioni domani, quale ruolo per la previdenza complementare?

Rispetto a quanto appena osservato, va peraltro det- to che il piano di riforma lanciato negli anni Novan- ta, prevedendo la sensibile riduzione del livello delle pensioni pubbliche con il passaggio al metodo contri- butivo – si calcolava che per un lavoratore che andas- se in pensione a 65 anni con 40 anni di contributi il tasso di sostituzione sarebbe diminuito da circa il 75%

al 60% tra il 2000 e il 2040 – aveva anche individua- to nello sviluppo della previdenza complementare lo strumento volto a contrastare tale decremento al fine di mantenere tassi di sostituzione adeguati, attorno al 75%-80% (Ministero del Welfare 2002).

Tuttavia, ventisei anni dopo la riforma Amato che introdusse il primo quadro regolativo per la previden- za integrativa a capitalizzazione in Italia, va preso atto che il progetto di tutelare, tramite schemi di previ- denza complementare l’intera popolazione occupa- ta – o almeno tutti i lavoratori dipendenti – è sostan- zialmente fallito. Le adesioni, benché cresciute fino a 8,19 milioni a settembre 2019 (9 milioni se si contano le adesioni multiple7) – di cui però solo 5,9 milioni ef- fettivamente versanti nel 2018 (Covip 2018; 2019) – appaiono ancora limitate rispetto al bacino potenzia-

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le – 30,2%, che scende al 22,7% se si considerano i soli versanti effettivi nel 2018 – con un livello di copertu- ra complessivo attorno al 35% dei lavoratori occupati.

Il tasso di partecipazione (iscritti ai fondi comple- mentari in percentuale sulle forze di lavoro) aumenta inoltre con l’età: 32,4% nella classe 45-54 anni e 39,9%

tra 55 e 64 anni, mentre si ferma al 20,4% tra i giova- ni sotto i 35 anni e al 27,9% nella fascia 35-44 anni. Ciò appare paradossale rispetto al fatto che sono le giovani generazioni soggette al metodo contributivo a rischia- re una tutela pubblica inadeguata; meno paradossale è, tuttavia, se si considerano i contratti, le carriere e i li- velli retributivi (Raitano 2017; 2019) di coloro che sono entrati nel mercato del lavoro dopo la metà degli anni Novanta. Inoltre, il livello di copertura (iscritti su occu- pati) è più alto tra i lavoratori dipendenti privati (oltre 43%) rispetto agli autonomi (circa 20%) e al comparto pubblico, in cui si registrano soltanto 180 mila adesio- ni su 3,2 milioni di addetti. Infine, le adesioni sono più diffuse nelle grandi imprese – con tassi di adesione su- periori all’80% – rispetto alle piccole aziende – tassi in- feriori al 10% – e lo stesso ampio divario si registra tra i tassi di adesione in comparti industriali ‘forti’ (energia oltre il 90%, chimico 83%) e i settori commercio-turi- smo-servizi (con tassi inferiori al 10%, in primis il fondo Fon.te con 219 mila iscritti su un bacino di 2,5 milio- ni). L’elevata variazione tra i tassi di adesione dei diversi fondi negoziali ribadisce, pertanto, la difficile relazione tra struttura economico-produttiva italiana (Pavolini et al. 2013; Jessoula 2017) – caratterizzata dalla prevalen- za di piccole e micro-imprese – e la previdenza comple- mentare volontaria, con il tasso di adesione che cresce linearmente con l’aumento delle dimensioni d’impre- sa e le difficoltà, specie per i fondi pensione chiusi, di espandere significativamente la copertura al di là delle aziende medio-grandi. Last but not least, la previden- za complementare è sostanzialmente appannaggio, tra i lavoratori dipendenti, di quelli assunti con contratto a tempo indeterminato.

Avvicinandosi ai tre decenni dall’avvio della previ- denza complementare in Italia, si può perciò ragione- volmente affermare che – in assenza di interventi so- stanziali da parte del legislatore e/o delle parti sociali – la previdenza integrativa non sarà in grado di svolge- re la funzione di integrazione, appunto, delle pensio- ni pubbliche per la quale era stata introdotta in primis con riferimento a quei lavoratori entrati nel mercato del lavoro negli anni Novanta. Per diverse ragioni, in-

fatti, le coorti che hanno iniziato a lavorare successi- vamente alle riforme Amato (1992-93) e Dini (1995), e che inizieranno ad andare in pensione tra poco più di un decennio, difficilmente potranno contare su una robusta pensione complementare utile a mantene- re il reddito nella fase di quiescenza. In primo luogo, perché per una decina d’anni le iscrizioni sono rima- ste assolutamente residuali, attestandosi di poco so- pra il milione ancora nel 2002. In secondo luogo, per- ché la copertura dei pilastri a capitalizzazione mostra ancora vastissime lacune, come mostrato sopra: di fatto 15 milioni su 23 milioni di occupati rimangono fuori dal sistema di previdenza complementare. Ter- zo, una situazione paradossale emerge considerando che, come detto, le adesioni ai fondi complementa- ri tendono a concentrarsi tra i lavoratori ‘forti’ – per- lopiù impiegati nelle grandi imprese (specie al Cen- tro-Nord), nei settori economici centrali – per i quali sono ancora ipotizzabili carriere lavorative lunghe, poco frammentate e con salari adeguati: in tali con- dizioni la combinazione di pensione pubblica e pen- sione complementare produrrebbe tassi di sostituzio- ne da ‘Età dell’oro’, attorno 90-100% secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato (RGS 2016). Al contrario, per quella quota rilevante – come mostra- to da Raitano (2017) – di individui che presentano per lunga parte della vita lavorativa carriere frammentate e/o poco remunerate, vi è un rischio elevato di riceve- re una pensione pubblica d’importo insufficiente, che necessiterebbe sì di un’integrazione da fonte comple- mentare: tuttavia, i lavoratori con carriere intermit- tenti e/o svantaggiate tendono a non aderire alla pre- videnza integrativa. Essi potranno perciò contare sulla sola pensione pubblica, verosimilmente inadeguata, e nei casi più fortunati su modeste prestazioni comple- mentari ove riuscissero ad agganciare – dopo una fase più o meno lunga di svantaggio occupazionale – posi- zioni lavorative più stabili e remunerative.

4. Riflessioni conclusive

Possiamo in definitiva affermare che, in campo pen- sionistico, l’Italia non è un Paese per giovani?

La risposta, benché sostanzialmente affermativa, va accompagnata da una serie di importanti qualifi- cazioni.

La prima considerazione è che non tutto ciò che è ereditato dall’Età dell’Oro in effetti luccica. Pur a fron- te di una spesa elevata, infatti, le garanzie offerte dal

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sistema pensionistico edificato nei decenni della gran- de espansione previdenziale, e con le cui regole sono entrate in quiescenza le coorti di attuali pensionati, sono state estremamente generose rispetto alle con- dizioni di accesso al pensionamento. Tuttavia, rispet- to ad adeguatezza ed equità delle prestazioni, gli esi- ti sono meno soddisfacenti, per la debole capacità di protezione dal rischio di povertà nella vecchiaia e l’ampia quota di pensionati con redditi pensionistici modesti, a fronte di una spesa rilevante per pensioni molto elevate – frutto di una inefficiente e inefficace allocazione delle risorse, se si considera che si spen- dono ogni anno 7 miliardi e mezzo di euro per 2 mi- lioni e 200 mila pensionati con prestazioni sotto i 500 euro mensili e 17 miliardi per 200 mila percettori di pensioni oltre i 5 mila euro.

Ciò detto, appare però evidente come in termini di

‘ricchezza pensionistica’ complessiva – data dal rap- porto tra durata media del pensionamento e livello delle prestazioni – le generazioni ‘giovani’ entrate sul mercato del lavoro dopo la metà degli anni Novanta e integralmente soggette al metodo contributivo esca- no perdenti dalla serie di riforme degli ultimi 25 anni:

secondo le regole vigenti, andranno infatti in pensio- ne molto più tardi – già nel 2017 l’età media effetti- va di pensionamento di vecchiaia aveva raggiunto i 66 anni e mezzo, oltre cinque anni in più rispetto al dato del 1997 – con redditi pensionistici che riflettono tas- si di rendimento inferiori a quelli generati dal sistema retributivo nei decenni passati.

Tuttavia, se osservato con solo riferimento al tasso di sostituzione teorico per l’individuo medio, con car- riera continuativa e prolungata fino all’età pensiona- bile, il sistema pensionistico pubblico sarebbe in gra- do di assicurare livelli pensionistici adeguati – attorno all’80% netto rispetto all’ultima retribuzione – an- che nei decenni futuri, livelli che diventerebbero an- cor più elevati (attorno al 100%) nel caso di lavoratori iscritti anche a schemi di previdenza complementare.

Le criticità sul piano dell’adeguatezza, e dunque dell’equità, appaiono però non appena si considera- no le prospettive previdenziali di quella quota – molto

significativa secondo dati recenti di fonte amministra- tiva – di lavoratori che presentano carriere frammen- tate e/o a bassa retribuzione. Per tali individui il livello della pensione futura si riduce rapidamente a fronte di periodi contributivi relativamente più brevi rispet- to alle carriere piene. Infatti, come messo in luce dal- le analisi comparate (Hinrichs e Jessoula 2012; Euro- pean Commission 2015) i sistemi di tipo contributivo – caratterizzati da limitata redistribuzione verticale – sono tra i più penalizzanti per i lavoratori con carriere svantaggiate e frammentate.

Su tale sfondo, due considerazioni finali consento- no di individuare l’equità come il vero tallone d’Achil- le del modello pensionistico per le giovani generazio- ni italiane. Da un lato, il fatto che per tali lavoratori svantaggiati, con prospettive previdenziali inadegua- te rispetto al livello della pensione pubblica, non ci si può verosimilmente attendere un contributo signifi- cativo dalle forme pensionistiche complementari, per effetto della diffusione di queste ultime, ancora molto modesta e soprattutto concentrata tra gli individui più forti sul mercato del lavoro. Dall’altro, va considerato che le esigenti condizioni di accesso al pensionamen- to – quelle che consentirebbero, di fatto, l’adegua- tezza del sistema almeno per i lavoratori con carriera piena – presentano un profilo fortemente regressivo per via dei significativi differenziali nelle aspettative di vita tra individui con diversi status socio-economici.

Al fine di costruire un sistema pensionistico che non sia soltanto sostenibile sul piano economico-fi- nanziario e adeguato solo per alcuni, ma anche equo e capace tanto di prevenire la povertà quanto di assi- curare un livello adeguato di reddito pensionistico alla gran parte di individui attualmente sul mercato del la- voro, pare dunque essenziale affinare gli strumenti di analisi e delineazione delle misure di riforma spostan- do il fuoco da una prospettiva intergenerazionale – come quella almeno in parte adottata in questo con- tributo – a una intra-generazionale che si concentri sulle differenze sistematiche di carriere, retribuzioni, condizioni e aspettative di vita tra i lavoratori di oggi, pensionati di domani.

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Matteo Jessoula

matteo.jessoula@unimi.it

Professore associato di Scienza politica e Direttore del dottorato in Studi politici presso l’Università di Milano, Co- direttore dell’Osservatorio internazionale per la Coesione e l’Inclusione sociale; Coordinatore nazionale del team italiano nel European Social Policy Network; membro del comitato direttivo di ESPAnet e ESPAnet Italia. Ha pubbli- cato numerosi contributi, tra cui i volumi Fighting poverty and Social Exclusion in the EU. A Chance in Europe 2020, Routledge, 2018 (a cura di, con I. Madama); Labour Market Flexibility and Pension Reforms, Palgrave, 2012 (a cura di, con K. Hinrichs); La politica pensionistica, Il Mulino, 2009.

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