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La mia autobiografia

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Academic year: 2022

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Titolo originale dell’opera: UNDER MY SKIN, autrice Doris Lessing Titolo traduzione italiana: Sotto la pelle

La mia autobiografia 1919-1962

Edito in UK nel 1994, in Italia da Feltrinelli nel 1997

PRIMA PARTE – 1919/1949

Doris Lessing nasce nel 1919 a Kermanshah, in Iran, un villaggio mercantile posto su un altipiano circondato da montagne, dov’era stato trasferito suo padre, come direttore di una banca inglese, dopo essersi sposato, alla fine della I guerra

mondiale, nel corso della quale rimase ferito ad una gamba che in seguito gli fu amputata.

Di seguito alcune sue affermazioni, prima di iniziare a descrivere la sua vita.

L’Europa, in quei tempi, a causa della guerra e dell’epidemia d’influenza spagnola aveva perso tantissimi giovani, togliendo a molte ragazze la possibilità di farsi una famiglia, perché i maschi erano morti ovunque in età giovanissima.

Una guerra non finisce con l’armistizio. Nel 1919 in ogni lembo di un’Europa piena di tombe gravavano miasmi e miserie, e la stessa cosa succedeva in tutto il mondo, a causa dell’epidemia d’influenza spagnola, con i suoi quasi 30 milioni di morti.

Leggo la storia con un rispetto condizionato. Ho avuto una parte piccola in eventi molto grandi e so bene con quale rapidità i resoconti di tali eventi diventino una sorta di specchio crepato.

Le donne vengono spesso lasciate fuori dalla storia e dalla memoria.

E soprattutto la storia ci dice che niente rimane a lungo così com’è. Ci aspettiamo di trovare l’oro ai piedi di arcobaleni che sempre si rinnovano. Ho la sensazione di aver fatto parte di una qualche illusione o delusione di massa. Sicuramente di aver Condiviso certezze e convinzioni di massa che oggi appaiono (…) folli.

NB: Tutte le citazioni sono testuali

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Cap. 3

Il mio più lontano ricordo (della Persia – ndr ) risale a prima dei due anni, ed è quello di un cavallo enorme e pericoloso, che torreggia in alto … e su quel cavallo c’è mio padre che è più alto ancora, con la testa e le spalle che si perdono nel cielo.

Se ne sta seduto lassù, con la gamba di legno sempre ficcata nei pantaloni (…) un oggetto duro, enorme, scivoloso, nascosto. Io mi sforzo di non piangere, mentre vengo tirata su da mani dure, che mi stringono, e vengo sistemata davanti al corpo di mio padre, mi viene detto di tenermi stretta alla parte inferiore della sella, che è un bordo ruvido e sporgente, per afferrare il quale sono costretta ad allungare al massimo le dita.

Sono immersa nel calore del cavallo, nell’odore di mio padre, tutti odori caldi e pungenti. Quando il cavallo si muove è un movimento tutto a scatti e sobbalzi ed io mi appoggio all’indietro con la testa e le spalle contro lo stomaco di mio padre e lì sento le cinghie ruvide dell’imbracatura della gamba di legno. Ho lo stomaco sottosopra per tutto quel sobbalzare su e giù da terra (…)

Questo è un vero ricordo, violento, puzzolente, fisico.

Un gallo che canta, un asino che raglia, la polvere su un muro imbiancato a calce, ed ecco la Persia!

Ben presto i sapori, le sensazioni tattili, gli odori della Persia svanirono a causa dell’immediatezza dei colori, gli odori e i suoni dell’Africa.

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Cap. 4

Quando mia madre decise di tornare in Inghilterra (dalla Persia – ndr) via Mosca, attraversando la Russia per non esporre i bambini così piccoli al caldo del Mar Rosso (io avevo cinque anni, mio fratello Harry due), non sapeva quello che

faceva! (...) Non sapeva che saremmo stati la prima famiglia di stranieri a viaggiare in maniera normale da quando c’era stata la Rivoluzione: era il 1924.

Sul treno non c’era niente da mangiare e alle stazioni la mamma scendeva e comprava qualcosa dalle contadine che però avevano soltanto uova sode e qualche pezzo di pane. . . Le stazioni brulicavano di mendicanti e di bambini senza tetto ... I sedili dello scompartimento erano tutti strappati e puzzavano di vomito, di sudore e di topi ... I topi scorrazzavano sotto ai sedili e ci si infilavano tar i piedi in cerca di briciole ... Sui sedili c’era macchioline e schizzi di sangue e questo significava che c’erano passati i pidocchi.

Per molto tempo la parola “Russia” evocò in me i marciapiedi delle stazioni.

…Il treno si tendeva con sforzo verso la fermata successiva in mezzo a folle di persone che facevano davvero paura … erano coperti di cenci … bambini con facce affilate e affamate si attaccavano ai finestrini e sbirciavano dentro, o allungavano le mani per chiedere l’elemosina.

… I miei genitori parlavano di quella gente con voce bassa e in tono ansioso e con parole che non conoscevo e così continuavo a chiedere cosa vuol dire questo?

Cosa vuol dire quello? La grande guerra. La rivoluzione. La guerra civile. La carestia. I bolscevichi…

Le ultime settimane prima di lasciare l’Inghilterra furono tutte una corsa a

comprare le cose di cui mia madre aveva bisogno per il tipo di vita che credeva si sarebbe trovata ad affrontare.

A guidarla erano i volantini e le informazioni che aveva ricavato dall’Esposizione Imperiale, la stessa che li aveva indotti a trasferirsi nella Rhodesia del Sud, dove nel giro di cinque anni sarebbero diventati ricchi coltivando granturco…

Quella Esposizione Imperiale del 1924, che aveva allettato mio padre di andare in Africa, … ha cambiato la vita dei miei genitori e determinato il corso della mia e di mio fratello.

Come le guerre, le carestie e i terremoti, le Esposizioni danno forma al futuro delle persone.

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Cap. 5 – Rhodesia del Sud

La nostra casa differiva dalle altre abitazioni perché era allungata, con le stanze una in fila all’altra … e all’interno era ammobiliata meglio della maggior parte delle altre. … Non c’era corrente elettrica, l’acqua era nel contenitore sotto una tettoia di paglia intrecciata … il gabinetto si trovava una ventina di metri più giù e consisteva in una scatola con foro al centro … al centro di una piccola capanna, con uno schermo di paglia al posto della porta.

Mia madre deve essersi resa conto subito che non sarebbe successo niente di quello che si aspettava … Tutti e due, mio padre e mia padre, credettero, per anni, che con un po’ di fortuna sarebbe arrivato anche il successo. Può darsi che lei non avesse capito subito che suo marito, storpio com’era, non sarebbe stato in grado di dominare la boscaglia e che non avrebbero mai raggiunto le fortune promesse loro dall’Esposizione Imperiale. Tuttavia si rese certamente conto che la vita fatta di cene danzanti, serate musicali, incontri pomeridiani per il tè, picnic, era finita per sempre. Questo implicava la sensazione che una parte profonda di lei era stata soffocata.

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Cap. 6

Che mangiassimo abbastanza era la preoccupazione principale di mia madre.

Oggi mi sembra impossibile che mangiassimo tutti così tanto. E quando qualcuno lasciava un pezzetto di bianco d’uovo o di pane, mio padre ci invitava con tono addolorato a pensare ai bambini che morivano di fame in India.

Evidentemente se dei bambini morivano di fame in Africa o erano affamati e denutriti giù al compound della fattoria che vedevamo dalle finestre, quello non era responsabilità nostra.

Una delle difficoltà di questa testimonianza è proprio quella di riferire le contraddizioni nel comportamento dei bianchi.

A metà del 1927 dovevo andare in convento (a scuola – ndr ) e già venivo istruita e messa in guardia sul fatto che quelle suore (cattoliche) avrebbero cercato di acchiapparmi, che dovevo stare bene attenta.

Il convento aveva sempre avuto più protestanti che cattolici e rassicurava i genitori che l’anima della loro prole qui si trovava al sicuro.

Si riteneva inoltre che il convento, alla maniera dei conventi inglesi, fosse più signorile della scuola superiore.

Il dormitorio, il refettorio, le aule scolastiche e l’infermeria erano le sole zone del convento che le scolare conoscevano: gran parte dell’edificio era aldilà dei confini accessibili alle bambine e sembrava un luogo da racconto di fantasmi…

Il refettorio delle piccole era uno stanzone dal soffitto alto con tre file di letti, tutti allineati … su ciascun lato della stanza c’erano due file di finestroni: questa

grande stanza, di giorno fresca e bene illuminata, di notte diventava un luogo del tutto diverso.

Quando ci eravamo tutte infilate a letto, la luce veniva spenta, ma la luce rossa accesa davanti al sacro cuore e alle sue gocce di sangue illuminava la stanza di rosso.

La suora … rimaneva in piedi nel vano della porta, con la luce rossa dietro le spalle, con pesante accento tedesco diceva ”Voi bambine credete di essere al

sicuro nel vostro letto, non è vero? Ebbene vi sbagliate, voi credete che il buon Dio non vi veda mentre ve ne state sotto il lenzuolo … Dio conosce i vostri pensieri.

Dio conosce il male che è nei vostri cuori. Se morite questa notte andrete

all’inferno e là brucerete nel fuoco … i vermi vi mangeranno e questo non finirà mai, mai e poi mai.”

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Poi, dopo averci maledette fino all’inferno e ritorno, chiudeva la porta e ci lasciava alle nostre riflessioni. Tempeste di singhiozzi e urla di terrore soffocate.

Le suore non fecero mai alcun tentativo di “acchiappare” le ragazze protestanti.

Non ne avevano bisogno. Bastava l’atmosfera di magia e di mistero.

Oggi penso che quelle ragazze (le suore – ndr ) morissero di disperazione … Erano quasi tutte delle giovani contadine povere che provenivano dalla Germania.

Il convento di Salisbury, nella Rhodesia del Sud, era un’estensione della situazione economica dell’Europa di allora. La Germania non si era ripresa dalla prima guerra mondiale e dai danni subiti.

Rimasi in quel convento per quattro anni, cioè per un’eternità. La mattina mi svegliavo con il suono della campana e non riuscivo a credere che avrei potuto superare quell’interminabile giornata prima di arrivare a sera… Ero presa dalla morsa di una nostalgia di casa che somigliava a una malattia. E’ una malattia.

Non è concepibile che io possa aver vissuto quattro anni ininterrottamente nella morsa di quella sofferenza, ma ogni volta che tiro fuori le mie istantanee mentali della vita al convento mi ritrovo immersa nel dolore. Ma c’è un problema: deve esserci. Quattro anni passati al convento, ma anche quattro anni di vacanze, settimane di vacanza – centinaia di esperienze diverse, di divertimento … eppure, i momenti bui, d’infelicità sono più forti dei momenti belli. Perché?

C’è qualcosa di inerente alla struttura del nostro corpo che ci dispone al dolore e ai ricordi dolorosi, cosicché i ricordi felici si rivelano meno allettanti del dolore stesso?

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Cap. 7

Quando gli scienziati cercano di farci capire la reale importanza della razza umana, dicono “se la storia della terra equivalesse a una giornata di

ventiquattr’ore, la parte di storia riservata all’umanità occuperebbe l’ultimo minuto di quella giornata.

Allo stesso modo, nel raccontare una vita, se la si vuole riportare rimanendo fedeli alla percezione del tempo, direi che il 70% del libro dovrebbe coprire i primi dieci anni. A quota 80% del racconto si sarebbero raggiunti i quindici anni. A quota 95%

si sarebbero sfiorati i trenta. Il resto è tutta una corsa – verso l’eternità.

Non eravamo molto affettuosi, mio fratello ed io. Le famiglie inglesi non

insegnano ai loro figli ad avere modi affettuosi. Comunque non a quell’epoca.

Forse oggi le cose vanno diversamente.

Al convento imparavo l’arte della sopravvivenza, l’arte della solitudine, dell’esilio.

E se si manda un bambino in collegio a 8 anni è probabile che ritorni con il cuore mezzo sigillato. Ma eravamo due amici affiatati. Fino al momento in cui andai via da casa, ogni volta che ci trovavamo insieme alla fattoria ce ne andavamo subito nella boscaglia, come se non fossimo mai partiti.

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Cap. 8

Prestissimo presero l’avvio due temi che hanno dominato la mia infanzia.

Uno era il mondo dei sogni, nel quale mi sono sempre sentita a mio agio. Fino ai dieci anni circa si trattava più spesso di incubi… ma io avevo dei rituali per evitarli o per renderli inoffensivi. Avevo capito che spesso un incubo racchiude in sé qualche elemento del quotidiano, una parola, una frase, un suono ... se consentivi a quel momento o a quell’elemento di eccitazione di insinuarsi nel tuo sonno senza averlo prima passato in esame, allora eri impotente. Ma quei nemici

potevano venire disarmati. Ogni sera prima di andare a letto, passavo in rassegna gli avvenimenti della giornata, che sembravano potersi trasformare in incubi.

Ripercorrevo senza sosta con la mente episodi carichi di emozione, fino a che non sembravano domati, innocui.

L’altro tema, o motivo, lo voglio mettere in evidenza come uno dei momenti speciali, quando si è vivi e si notano le cose come se ci fosse stata iniettata inaspettatamente una sostanza che ha il dono di farci vedere con chiarezza.

… Sto uscendo dalla boscaglia dove ho passato un po’ di tempo e mi fermo quando vedo i miei genitori seduti fianco a fianco, davanti alla casa.

Non hanno ancora cinquanta anni, quelle due vecchie facce sono ansiose, tese, cariche di preoccupazione. Stanno seduti avvolti da nuvole di fumo di sigaretta.

Eccoli là, insieme attaccati l’uno all’altra, inchiodati lì dalla povertà e da segrete e inammissibili necessità che emergono dal profondo delle loro storie personali, così diverse.

Mi risultano intollerabili, patetici, insopportabili, è la loro impotenza che non riesco a sopportare. Io sto lì ferma, una bambina fiera, inesorabile, inflessibile e ripeto a me stessa “Io no. Io non lo farò” Io non diventerò così. Io non sarò mai come loro… ricordati questo momento. Ricordatelo sempre… Non diventare come loro!

Intendevo dire di non lasciarsi mai intrappolare. In altri termini io rifiutavo la condizione umana, che è quella di venire intrappolati dalle circostanze.

Le suore ci rimproveravano ad ogni pasto i nostri sprechi – oggi capisco che la ragione di quelle voci spesso intrise di lacrime stava in quello che il cibo

rappresentava per loro: provenivano tutte da famiglie (tedesche – ndr ), nelle quali si pativa la fame, dappertutto in Germania c’erano mense gratuite per i poveri, file per il cibo etc. mentre qui (Rhodesia del Sud – ndr ) c’erano queste ragazzine ingrate e cattive.

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E poi la liberazione: prendemmo la tricofitosi, tutte quante (le ragazze della scuola al convento delle suore – ndr ), poi ci vennero i pidocchi in testa… subito arrivarono i genitori e le ragazze vennero tolte da scuola.

Questa crisi causata dalla sporcizia arrivò appena dopo un’altra, un po’ più seria:

improvvisamente mi convertii al Cattolicesimo, la mia resa fu improvvisa e totale, tornai a casa per le vacanze mia madre trovò l’acqua santa e il rosario sotto il cuscino ed esplose in rimproveri. Mia madre mi chiamò, sistemò la sedia di fronte alla mia ed esordì con la storia di tutti i crimini commessi dalla Chiesa cattolica.

Perdetti la religione in un soffio; il paradiso volò via da me sulle ali della ragione, quando commentai che tutto quello che lei aveva detto valeva anche per i

protestanti.

Ero diventata atea.

Addio convento, addio suore, addio a quell’esame che non avrei sostenuto.

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Cap. 9

Il mio 14° compleanno fu l’anno del vinci-o-perdi, del nuota-o-affoga, del fai-o- muori perché combattevo per difendere la mia vita da mia madre. Questo era il mio modo di vederla. E così, in effetti, era.

C’è qualcosa nelle adolescenti che produce stranissimi effetti sui loro genitori.

Pazzi … pazzi … pazzi – gridavo tra me e me, ma in silenzio, perché lui (mio padre – ndr ), era troppo malato per litigarci. E me ne andavo nella boscaglia in preda alla rabbia, nauseata e arrabbiata e furibonda per la pietà frustrata.

Quando ero lontana da mia madre riuscivo anche a raggiungere un livello accettabile di pietà. Quelle due persone, quelle due persone malate e mezze

pazze, i miei genitori: era stata la guerra, era stata la I guerra mondiale a ridurli in quello stato. Per anni ho conservato nella mia mente, come altrettante scene di un film, l’immagine di quello che avrebbero potuto essere se non ci fosse stata quella guerra.

Sogni ad occhi aperti… anche i miei genitori erano immersi nei sogni ad occhi aperti e nelle loro fantasie, tutti e due. Mio padre era diventato ipocondriaco, querulo, irascibile, si autocommiserava (La personalità del diabetico si stava impossessando di lui) … Dov’era finito mio padre? Oh, mio Dio, la spietata chiarezza dell’adolescente, resa più acuta dalla paura che questo possa essere anche il tuo destino. “Io no, io no” continuavo a ripetere come un mantra.

“Io no, io no” ripetevo in silenzio e mi toglievo di torno, lontana anche dalle continue recriminazioni di mia madre “che non avevo futuro, che abbandonata la scuola mi ero rovinata la reputazione e adesso cosa avrei potuto fare?”

Le mie argomentazioni erano rumorose e sciocche e io lo sapevo. Ben presto mio padre disse che non avrebbe sopportato un giorno in più il dover assistere in prima fila alle battaglie fra le sue due donne. Disse che non avevo mai una parola gentile per nessuno di loro due e mi chiese perché non me ne andavo. (Essendo stata io stessa genitore di adolescenti difficili, oggi sono con lui).

Andai a fare la bambinaia (au pair girl) nei pressi di Salisbury.

Quando lasciai quella casa (n cui faceva la bambinaia –ndr ) ero ormai io a

mandarla avanti, cucinavo ed ero interamente responsabile del bambino. Divoravo i libri di Jasper (fratello della madre del bambino – ndr ), con il quale scambiavo

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conversazioni clandestine di politica e sulle questioni indigene e passavo la prima parte di ogni notte a lottare contro la verginità del mio placido pretendente. Ero in balia di un ardente desiderio erotico, che aveva preso il posto delle passioni

romantiche della mia infanzia.

Potrei affermare di aver trascorso infanzia, adolescenza e giovinezza nel mondo dei libri; oppure andandomene in giro per la boscaglia ad ascoltare e a osservare quello che vi si svolgeva.

E QUI SIAMO AL NUCLEO CENTRALE DEL PROBLEMA DELLA MEMORIA.

CI SI RICORDA ATTRAVERSO CIO’ CHE SI E’ ALL’EPOCA CHE SI STA RICORDANDO.

Un ricordo. Sto leggendo Bernard Shaw, che dice che la razza umana è

ipersessuata. Devo avere un po’ più di quattordici anni. Sono minacciata... La mia sensazione era che Shaw mi stesse portando via qualcosa che era mio diritto…

Nessuno mi aveva garantito che il sesso e l’amore fossero un mio diritto, una cosa che mi spettava. Eppure avevo già imparato a definire me stessa in questi termini.

Da dove era soffiata questa verità?

Per tutta la mia vita il sesso – voglio dire il buon sesso – per me è stato un diritto, un diritto per tutti. Ma perché lo è stato?

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Cap. 10

E a questo punto ci fu un improvviso cambio di rotta, come quando avevo rifiutato la religione, abbandonato la scuola, o ero andata via da casa per fare la

bambinaia. Tornai a casa per scrivere un romanzo.

La sera mi sedevo ad ascoltare alla radio il notiziario da Londra e sentivo i

tedeschi che urlavano a gran voce la loro approvazione per Hitler. Avevo paura. La voce di quell’uomo, ciò che era, agiva sui nervi, lavorava a livello subliminale.

Non c’era solo Hitler, ma anche Mussolini in Abissinia e poi la guerra in Spagna.

In verità mi dedicavo alla prosa, stavo scrivendo il mio primo romanzo … era un romanzo satirico, di maniera, ampolloso, che prendeva in giro la gioventù dorata, i giovani bianchi, delle cui abitudini dopotutto avevo avuto solo qualche barlume.

Nel giro di qualche anno sarei diventata come loro.

Quell’anno, il 1937 lo descrivo secondo il tipo di memoria di quel momento. E l’anno in cui scrissi due brutti romanzi d’esordio. E’ stato l’anno del mio primo grande amore.

Quell’anno, ogni volta che me ne andavo in giro nella boscaglia a sparare ai piccioni o alle faraone, lo facevo in una sorte di trance amorosa. Quando scoppiò la guerra, due anni più tardi, lui si arruolò e dopo poco fu ucciso nell’Africa del Nord.

Un commesso viaggiatore mi fece notare che al centralino telefonico di Salisbury c’era possibilità di lavoro per le ragazze. Sapendo che me lo avrebbero impedito se avessi detto qualcosa (i genitori – ndr ), mi feci dare un passaggio. Arrivata a Salisbury andai al centralino telefonico e, sebbene non avessi seguito alcuna delle procedure corrette, ottenni immediatamente un impiego. Ero troppo giovane di alcuni mesi, ma pensarono che me la sarei cavata. Poi, tramite un annuncio, presi in affitto una stanza, nella casa di una vedova.

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Cap.11

Lavorai al centralino per un anno. C’erano all’incirca dieci ragazze ed un direttore, cordialità è la parola che meglio si adatta alla vita in un centralino telefonico. Nel frattempo, un pomeriggio, ci fu l’incontro con i rossi del luogo, dei quali si

parlava con disprezzo, a voce bassa, perché erano sovversivi, pericolosi e soprattutto amici dei Neri.

Fui introdotta dalla mia amica Dorothy Schwartz, erano un gruppo di socialdemocratici smidollati, ma sempre meglio che niente.

La delusione che provai quel pomeriggio rese eccessive le mie reazioni, ma bisogna ricordare che quella gente rappresentava l’ultima novità in fatto di coraggio sociale.

La sgradevolezza di quelle persone ritardò di quattro anni il mio impegno nella sinistra.

Quello che non riuscivo a perdonare era il cui quelle donne avvilivano e

sminuivano i propri figli, parlandone, davanti ai figli stessi, come di seccature, di fardelli, di cose non volute. E’ vero i bambini erano molto piccoli, ma io ricordavo bene quando, da bambina piccola, sentivo fare quei discorsi.

Avevo diciott’anni, capelli scuri, occhi scuri. Un bel corpo…scoppiavo di salute e vitalità allo stato puro.

Appena arrivai sulla veranda dello Sports Club cominciai a bere. Come facevano tutti. Dappertutto. In ogni paese. Era di moda. Era un segno di disinvoltura. Era uno sberleffo all’autorità. Andavamo spesso a ballare e passavamo tutta la notte a bere…gran parte delle sere ce ne andavamo a dormire alticci, i giovanotti erano sempre “sul punto di partire”. Ubriacarsi era una specie di gioco. Stormi di ragazze mettevano a letto giovani del tutto incapaci di fare alcunché. Materne: i ragazzi rimangono ragazzi.

Quante cose misi insieme, quell’anno. Non solo smistavo le telefonata, ma andavo a ballare, cucivo vestiti, andavo al Bioscope (cinema – ndr ) e poi leggevo. Leggevo davvero tanto.

Leggevo libri per i quali ero troppo giovane, ma i Russi, quelli entrarono davvero nella mia vita come un fulmine a ciel sereno … e lì si trovano ancora.

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Nel 1938/39 l’idea che avevo di me stessa, delle mie possibilità, aveva ben poco a che fare con la realtà. Ero in un crescendo di emozione, pubblica e privata, come se fosse possibile tenerle separate.

Ogni generazione è stata avvicinata all’esperienza della guerra dai racconti

nostalgici di quelli della generazione precedente. Per tutto quell’anno continuai a sognare di precipitarmi, nell’attimo stesso in cui fosse stata dichiarata guerra, a fare l’infermiera o il soldato o la paracadutista in territorio nemico – la spia per il mio paese o l’autista di ambulanza.

E che cosa m’impediva di andare via da Salisbury? Una cosa almeno e cioè il denaro. Non ne avevo. E non potevo chiederlo ai miei genitori.

La mancanza di denaro era solo una parte della difficoltà.

La mia esperienza era circoscritta alla fattoria, ai Monti Vumba, a questa piccola città coloniale e … e invece leggevo, ballavo, flirtavo e sognavo avventure

erotiche.

L’altro fronte di eccitazione era il mio corpo. Me ne stavo in mezzo alla gente con la consapevolezza di avere n corpo forte e bello sotto il vestito e segretamente esultavo. E poi l’ebbrezza più forte di tutte, la musica da ballo. Quando mi trasferii dalla fattoria a Salisbury venni immediatamente catturata dalla musica come lo fummo tutti, ballando ai ritmi inebrianti, seduttivi degli anni venti e trenta.

Una ragazza dai sensi resi acuti dalla musica, con ogni molecola del corpo che sorride in modo sciocco e affettato, una giovane donna innamorata del proprio corpo non aveva alcuna possibilità di sfuggire al proprio destino, che era lo stesso di tutte le giovani donne dell’epoca. Io trovai un marito, Frank Wisdow, un

impiegato statale. Non ero innamorata di lui, anche se il clima di esaltazione dell’epoca era tale che era facile credere d’esserlo.

Se io ero parte del generale delirio di eccitazione, al tempo stesso ero anche silenziosamente infelice.

Mio padre diede per scontato che io fossi incinta. Lo ero, ma non lo sapevo “A me non può succedere”.

Eravamo abbastanza bene assortiti, almeno in una cosa e cioè che ambedue dovevamo tenere nascoste le nostre idee sovversive circa la questione indigena.

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La mia condizione mentale era del tutto diversa da quella delle ragazze che si trovano a fare figli oggi. A me non è mai passato per la testa che potesse succedere qualcosa al mio bambino.

Ero piena di un’eccitazione tranquilla e fiduciosa.

Ero in uno stato d’animo trionfante e soddisfatto e aspettavo con ansia il momento del parto.

Non avevo ancora vent’anni. Ero sana. E se le aspettative governano l’esperienza fisica, allora il parto avrebbe dovuto essere facile. Quando nacque mio figlio John, lo sollevarono per farmelo vedere, n bambino lungo e magro, che si divincolava tra le braccia dell’infermiera.

Frank arrivava e se ne andava velocemente insieme ai suoi amici. Erano tutti molto felici per me e per il mio bambino. Quando portai John a casa fu la prima volta che passavo più di mezzora con lui. Non si adeguava alle regole stabilite nel libro, sembrava che avesse fame. Io diventavo ogni giorno più grassa ed ero infelice. Il latte era appena sufficiente.

Ero stravolta per la preoccupazione, l’avversione per il mio corpo grasso e le continue visite di mia madre, secondo la quale John veniva trattato in maniera sbagliata.

Dissi che avevo intenzione di passare al latte artificiale. Mi accusò di essere un’irresponsabile.

Passai all’allattamento artificiale e mia madre disse che ero egoista e pensavo solo a me stessa. Dopo una sua visita dovevo mettermi a letto e dormire.

Nel frattempo mio fratello era in Inghilterra dove si addestrava a diventare ufficiale d Marina. Così ei (la madre – ndr ) vedeva soddisfatta la sua grande ambizione: un figlio in Marina. Più tardi lui disse che in tempo di pace non ci sarebbe mai riuscito “Quei tipi della Marina Inglese volevano solo dare un contentino alle colonia”.

Si era reso conto che il suo livello di istruzione non era neanche paragonabile a quello degli altri ( gli inglesi – ndr ).

Nel preciso istante in cui il bambino passò all’allattamento artificiale, io mi misi a dieta e persi parecchio peso ogni settimana. Ripresi la mia figura armoniosa, infilata nei vestiti morbidi e aderenti ed ero pronta per la veranda dello Sports Club, ma l’esercito aveva chiamato e tutti gli uomini erano in un campo di addestramento, per diventare soldati.

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La guerra ama i ventenni. Frank aveva 30 anni e i piedi malandati. La città

sembrava piena di uomini amareggiati, che pensavano di aver perso il treno della vita dal momento che l’esercito non li voleva.

La veranda dello Sports Club era disseminata di uomini amareggiati. Io ascoltavo, ascoltavo con una man spingevo avanti e indietro la carrozzina, nell’altra reggevo la sigaretta e intanto ascoltavo. Provavo quel piacere quasi un’esaltazione, che permette allo scrittore di riconoscere che la sua vita si armonizza con la sua predisposizione naturale. Avevo scritto assai poco, allora. Ma ascoltavo, selezionavo, riconoscevo.

Di che altro parlavamo nella veranda? Hitler era già avanzato in tutta Europa, senza grandi difficoltà. Chissà se a primo segno degli eserciti di Hitler la popolazione nera si sarebbe sollevata unendosi a loro per tagliarci la gola?

Questo si diceva.

Oramai avevamo capito che la RAF intendeva usare questo paese e il Sudafrica per addestrare i piloti.

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Cap. 12

Quando John aveva nove mesi e stava per imparare a camminare, decidemmo di avere un altro figlio. Eppure, una parte di me sapeva che non mi sarei fermata a quella vita.

Rimasi incinta la settimana stessa in cui smisi di usare il diaframma. Questo sistema di controllo delle nascite oggi è considerato poco elegante, però

funziona. E quando mia madre arrivò in tutta fretta dalla fattoria per dirmi che ero una vera irresponsabile a fare un altro bambino così presto, io mi difesi dicendo perché mai una donna giovane e forte non dovrebbe avere due bambini uno dopo l’altro, tutte le nere lo facevano, non era forse vero? “Oh, santo cielo” e se ne tornò a casa.

Appena poco prima la nascita di mia figlia Jean cera stata la Carta Atlantica, esibizione di affarismo politico, che non ha mai avuto uguali per cinismo.

Roosevelt si era incontrato con Churchill nel mezzo dell’atlantico. La Carta Atlantica dovrebbe essere esattamente studiata da chiunque sia interessato a capire fino a che punto i Governanti riescono a disprezzare la gente che

governano. Ciò che la Carta Atlantica prometteva a tutti era niente meno che il Paradiso. Il suo diretto antenato era la Dichiarazione d’Indipendenza Americana.

E se chiedete il motivo di tanto disprezzo verso coloro che promettevano il Paradiso in terra, quando nel giro di appena un paio d’anni, noi, in quanto

Comunisti, avremmo promesso le stesse cose, la mia risposta è che noi- i Rossi – credevamo nelle nostre visioni, mentre Churchill e Roosevelt non potevano

credere alla Carta Atlantica. Loro erano cinici, noi eravamo stupidi.

Il mio secondo accouchement non fu come mi aspettavo, la seconda volta ero pronta a un parto doloroso e a un altro bambino con la voglia di lottare. Mi aggiravo a grandi passi per la stanza da solo, camminavo, poi alle dieci del mattino, ecco i dolori e nel giro di mezzora la bambina era nata. Io stavo ancora aspettando che cominciasse il travaglio. Avevo provato pochissimo dolore prima che mi dessero il cloroformio.

La caposala proibì ai fratelli e alle sorelle di venire a trovare i neonati, per evitare che trasmettessero germi. John fu portato da suo padre, ma fu costretto a

rimanere fuori dalla finestra… mentre io sollevavo tra le braccia la bambina e lo salutavo. Io ero infelice, lui era infelice. Non mi viene in mente cosa più adatta a provocare gelosia verso il nuovo bambino o a suscitare ansia in una madre.

Fu questo l’aspetto peggiore della seconda nascita.

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E i bambini che facevano? Quando allattavo la bambina John si precipitava verso di noi a pugni levati o si metteva a urlare dalla rabbia… e quando la bambina passò al biberon, le cose non andarono molto meglio. Non potevo mai lasciarlo solo con lei. Non era più lo stesso bambino.

Intanto Jean era dolce e amabile, proprio come quel neonato di cui mi ero occupata un tempo – non molto prima – in una casa non lontano da qui.

Non mi sentivo bene, probabilmente ero anemica. Svenni parecchie volte, una cosa che non mi era mai successa prima. Ero infelice e confusa, tirata da qua e di là da questi due bambini.

Decidemmo che avrei portato John per un mese giù al Capo, affidando Jean ad un’amica.

Città del Capo era piena di marinai e di truppe in transito verso una delle zone di guerra. E anche di profughi.

L’avvenimento più importante di tutto quel viaggio fu un incontro stimolante. Un giorno a pranzo, a mangiare al nostro tavolo era venuta una cugina della mamma di due gemelli. Era stata bloccata in Sudafrica dalla guerra, il marito si era

arruolato. La donna aveva deciso di usare le sue capacità per favorire buoni rapporti interrazziali da queste parti: era membro di una parte della Chiesa cristiana che si dedicava a questo compito.

Avendo sentito dire che venivo dalla Rhodesia del Sud, cominciò a distruggere quel paese. “Che cosa si può dire di un popolo che ha rubato la terra alle

popolazioni nere, dicendo di elevarle moralmente e di portare loro le civiltà? Come si fa a descrivere un paese nel quale centomila bianchi usano un milione di neri come servi e come manodopera a basso costo, rifiutando loro istruzione e

qualificazione, e tutto questo sempre nel nome della Cristianità? Perché sono così compiaciuti di se stessi?”

Sicuro che questa immagine della mia madrepatria non potesse arrivarmi come una sorpresa? Più che una sorpresa mi giungeva come un'esilarante verità troppo a lungo tenuta a freno.

Questa fu una vera rivelazione, ma soprattutto io soffrivo per il disprezzo che la donna dimostrava.

Mio fratello arrivò a Città del Capo per un paio di giorni, mentre andava a

raggiungere l’equipaggio dell’Aurora, che avrebbe passato il resto della guerra a combattere nel Mediterraneo.

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Per anni non c’eravamo quasi incontrati e non ci conoscevamo. Quanto

all’episodio dell’affondamento della Repulse passarono anni prima che riuscissi a sapere quello che aveva rappresentato per lui.

Il mio matrimonio era finito, ma io non lo sapevo.

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Cap. 13

E a quel punto incontrai per strada Dorothy Schwartz, membro dissidente del gruppo dei “progressisti” che quattro anni prima mi aveva considerata una recluta adatta.

Dorothy disse che pensava che avrei dovuto partecipare a una riunione, m’informò che si riferiva a un gruppo di rivoluzionari veri, i quali credevano che fosse

arrivato il momento d’incontrarsi con me.

Difficile resistere a una simile adulazione.

Incominciai a incontrare Dorothy, sempre insieme ad altri, in gran parte gente dell’Air Force e profughi provenienti dall’Europa. Il vecchio Club del libro di

sinistra era stato superato dalla storia e i suoi componenti erano stati bollati come

“reazionari”.

Ero stordita, mi nominarono segretaria di una qualche organizzazione. Frank si sentiva in difficoltà perché come impiegato governativo non gli era permesso avere contatti con la sovversione e anche perché la mia nuova vita non lo includeva.

Ero diventata comunista, nel mio caso fu perché per la prima volta nella mia vita incontrai un gruppo di persone (e non individui isolati) che leggevano di tutto e per le quali le mie riflessioni sulla questione indigena erano semplici luoghi comuni. Diventai comunista a causa dello spirito dei tempi (o Zeitgeist ).

E cosa faceva la mamma di due bambini piccoli? Fino al momento in cui aveva lasciato quella casa, l’aveva mandata avanti, diretto il lavoro dei domestici, era andata a ballare e a bere, aveva portato a passeggio i bambini lungo i viali

alberati, aveva continuato a cucire vestiti per i bambini, per se stessa e per Frank.

Cucinato… ma la sua mente era sempre in quell’altro mondo al quale lei apparteneva e che le spettava di diritto.

Per alcune settimane si verificò una situazione assurda, nella quale tutti discutevano della mia partenza, ma io non me ne andavo. Frank, fuori di sé, diceva che dovevo andarmene per un tempo abbastanza lungo da rinsavire e poi tornare.

Discussi la mia decisione di andarmene non soltanto con tutti quelli che vivevano in casa nostra e con i compagni, ma anche con i bambini. E furono proprio loro quelli che davvero mi capirono. Spiegai loro che un giorno avrebbero capito perché me n’ero andata. Stavo andando a cambiare questo brutto mondo. Ma c’era di più e di più importante: mi portavo addosso, come un gene difettoso, una

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sorta di destino o di fatalità che, se fossi rimasta, li avrebbe intrappolati come aveva intrappolato me. Andando via, avrei spezzato l’antica catena della

ripetizione. Un giorno mi avrebbero ringraziato per questo. Ero assolutamente sincera. E sulla sincerità in quanto tale non c’è molto da dire.

Mi ci è voluto molto tempo a capire che era il senso di colpa a dipingere

l’immagine attraente di quella che avrei potuto essere, se non fossi uscita da quel matrimonio.

Per un certo periodo, prima di lasciare Frank, lo odiai. E questo succedeva perché lo trattavo male. “Se la tua posizione statale è minacciata dal mio impegno

politico, non capisco perché vuoi che rimanga”. E ancora “Se sono così irresponsabile, non credi che te la caveresti meglio senza di me?”

Lui diventava sempre più sentimentale e piagnucoloso, io sempre più fredda e realista.

Fu Frank ad accompagnarmi in macchina con tutti i mie beni – vestiti e libri – in un’ennesima camera ammobiliata.

Il sesso per una volta era l’ultimo dei miei problemi… Ci sono stati momenti nella mia vita nei quali ho avuto l’ossessione del sesso, ma credo che almeno per le donne sia un problema di aspettative. Ero troppo occupata. I miei amici erano profughi provenienti dall’Europa. Migliaia di uomini, forse centinaia di migliaia di uomini, si trovavano nella Rhodesia del Sud durante la guerra.

Ciò che noi tutti avevamo in comune era questo: eravamo persone ai cui talenti inutilizzati veniva offerto spazio per svilupparsi. La maggior parte delle persone vive la vita tenendo repressi, addormentati, oserei dire i 9/10 di sé.

Ed è questo, a mio giudizio, la grande tragedia del mondo.

Nel frattempo lavoravo come aiuto dattilografa nello studio di un avvocato a 12 £ al mese, una cifra che consentiva a malapena di mantenermi. Le ore in

quell’ufficio legale, dalle 8 alle 16 rappresentavano il mio tributo a Cesare. Dalle 16 alle 2 - 3 del mattino ci trovavamo in riunioni di ogni tipo.

Questo gruppo vago e spesso mutevole di gente di sinistra aveva un nucleo interno, mai designato con esattezza, dissero subito che non esisteva alcuna

“base obiettiva” per creare un Partito Comunista.

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Comunicammo al Partito Comunista sudafricano a Città del Capo, che avevamo intenzione di fondare un Partito Comunista nella Rhodesia del Sud e quelli ci dissero che erano contrari, che non c’era alcuna “base obiettiva” per crearne una.

Frank disse “Ditegli che lo abbiamo già fatto comunque”.

Fummo un vero gruppo comunista per diciotto mesi, credo non molto di più. E quando dico “vero” noi non avevamo niente in comune con i partiti comunisti ufficiali europei. Il nostro era il fuoco autentico, in noi viveva lo spirito di Lenin.

L’idea più potente, l’idea data per scontata e mai messa in discussione era che il Capitalismo fosse giunto al tramonto, essendo stato superato dalla storia stessa.

Questa guerra spaventosa era una creazione de Capitalismo: capitalismo

significava guerra, il Socialismo era intrinsecamente pacifico. Il capitalismo aveva creato l’ultima guerra, come pure la grande Depressione in Inghilterra, in Europa, in America.

Quando oggi mi chiedono: ma come avete potuto collaborare con il Comunismo, con l’Unione Sovietica, sapendo che situazione c’era laggiù? Quello che la gente dimentica è che nel nostro modo di pensare non c’era alcuna alternativa al

comunismo o al socialismo. Il capitalismo era morto, era solo questione di tempo.

Il futuro era comunista, era socialista. Qualunque “errore” commesso dall’Unione Sovietica – il grande modello – sarebbe stato riparato, perché non si trattava che di asperità lungo la via che portava a socialismo.

Quando usavamo la frase “le bugie della stampa capitalista” avevamo un buon motivo per farlo.

Quando la gente parlava di purghe, di collettivizzazione e dei milioni di morti che ne erano derivati, noi non credevamo a quelle cifre. La stampa capitalistica aveva tutto l’interesse a oscurare il nascente Partito Comunista, era quello il suo unico problema.

Nel 1943 le “contraddizioni” interne cominciarono a dividere il nostro piccolo gruppo quasi nel momento stesso in cui lo avevamo costituito.

Nel giro di due anni dalla nascita del gruppo, gran parte dei suoi membri era cambiata e di lì a poco l’organizzazione stessa lentamente si sfasciò.

Questo non significa che noi non ci ritenessimo più comunisti.

E c’era qualcos’altro che era cominciato quasi fin dal primo momento; quando andavamo in giro a vendere il “Guardian” nel quartiere meticcio, una volta lla

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settimana, passavo il pomeriggio immersa in una povertà estrema, fra strade e cortili affollate di gente indifferente, ubriaca, demoralizzata. Quando andavamo a vendere il “Guardian” nel quartiere meticcio non chiedevamo soldi e nel gruppo venivamo criticati.

Il compagno in questione il più delle volte era Gottfried Lessing, lui era sempre la personificazione della logica marxista fredda e tagliente.

Se c’è una cosa sulla quale, guardando indietro, è difficile essere obiettivi, è la quantità di disprezzo e avversione che proiettavamo su chiunque non fosse davvero uno di noi. “Chi non è con noi, è contro di noi”.

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Cap. 14

Sposai Gottfried Lessing nel 1943, ma solo perché all’epoca due persone non potevano avere una relazione, e meno che mai convivere, senza suscitare

commenti spiacevoli. Nel suo caso sarebbe stato ancorar peggio. Era un nemico straniero e rischiava di essere rispedito in un campo d’internamento.

Gottfried Anton Nicolai Lessing era nato nel 1917 a San Pietroburgo ed era fuggito dalla rivoluzione in treno, per tornare a Berlino con tutta la famiglia. Il trisnonno, che era un Levy, aveva costruito la fortuna della famiglia.

Il padre di Gottfried era un industriale e uno speculatore, come lo era l’uomo che aveva dato origine alla fortuna di famiglia, ma la sua passione era la sua

biblioteca.

Aveva sposato la figlia di due tedeschi naturalizzati russi, che lavoravano nella sua ditta di Mosca.

Russo, tedesco e francese erano le lingue parlate in famiglia e con i numerosi visitatori.

I figli, Irene e Gottfried, erano due giovani ricchi, Gottfried era andato

all’università e aveva studiato legge; Gottfried, in quanto solo parzialmente ebreo, fu ritenuto idoneo ad andare a combattere per Hitler. Si era rifugiato a Londra nel 1937, aveva pochi soldi, neppure sufficienti per mangiare.

Questo giovanotto ricco si era ritrovato senza u soldo in una città che gli era estranea; era malnutrito da mesi e non sapeva quale sarebbe stato il suo futuro, sapeva solo che sarebbe stato brutto.

La guerra non era ancora scoppiata; a quell’ondata di rifugiati tedeschi fu offerto di andare, a scelta, nella Rhodesia del Sud o in Canada. Gottfried scelse la

Rhodesia e si ritrovò in una piccola città coloniale, rozza e sgraziata, dove i suoi occhi scuri e teneri, la sua eleganza, i suoi modi sofisticati ne facevano un

bersaglio per le battute di spirito.

Quando fu dichiarata la guerra, Gottfried fu messo in un campo d’internamento per sei settimane.

Quando lo lasciarono uscire, un avvocato garantì per la sua buona condotta.

Quell’uomo aveva bisogno di un avvocato che costasse poco per il suo studio legale che stava andando a rotoli. Quando Gottfried entrò nello studio, questo era costituito da un vecchio stupido, dalla moglie, anch’essa stupida, e da una

dattilografa, io.

Quando lo lasciò, nel 1949, lo studio andava benissimo, tutto opera di Gottfried.

Tutti profughi se la cavarono bene nella Rhodesia del Sud.

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Non molto tempo dopo aver lasciato Frank e i bambini mi ammalai … sapevo perché stavo male. Avevo bisogno di dormire e di sognare me stessa tutta intera.

Ero piena di conflitti; mi piaceva stare sola, ma per farlo dovevo lottare contro la mia povera padrona di casa afflitta dalla solitudine, contro mia madre.

Gottfried venne a trovarmi. Più tardi disse che era stata quella la prima volta in cui mi aveva disiderata o, per dirla nel suo linguaggio, in cui mi aveva vista come possibile compagna di letto.

La nostra vita sessuale era triste, lui era un tipo profondamente puritano e inibito.

Quanta parte del mio tempo passavo allora a ruminare su Gottfried, ma senza essere infelice. Per una ragione, almeno, e cioè che non avevamo intenzione di rimanere sposati. Ma come sarebbe andata se non avessi mai avuto un partner sessuale (prima di lui –ndr )? Avrei creduto che l’infelicità di Gottfried, e la mia stessa infelicità, a letto, fossero tutta colpa mia. Le donne pensano sempre che questo genere di fallimento sia colpa loro.

Benissimo, allora, noi due eravamo male assortiti.

Nel frattempo cercavamo di “prendere contatto” e di “lavorare su possibili quadri”

tra la gente di colore. Uno dei problemi era che secondo la “linea”, che veniva da Mosca, naturalmente, solo un proletariato nero poteva guidare i neri verso la libertà.

Il solo nero con il quale eravamo costantemente in contatto era Charles Mzingele, che per anni era stato l’africano “simbolo” del vecchio Club del Libro di sinistra.

Durante quelle riunioni l’uomo aveva continuato a ripetere con tono dolce e ironico, che l’Inghilterra, avendo violato la clausola della Costituzione che dava l’indipendenza alla colonia, era responsabile del cattivo trattamento riservato agli indigeni, eppure nessuno si era preoccupato di ricordarle che era venuta meno ai suoi doveri.

Non amavano il comunismo (i neri – ndr ). Il patto tra nazisti e sovietici gli risultava incomprensibile. Non capiva perché i comunisti insultassero il Partito Laburista, e cioè i socialisti come loro.

Continuava a chiederci di ricordare al Parlamento inglese gli impegni presi, e noi continuavamo a spedire lettere, copie di verbali a Westminster, ma se mai

ricevevamo una risposta, si trattava di un educato rifiuto.

Era la guerra, dicevamo a Charles, la gente in Inghilterra non aveva tempo per nient’altro che la guerra. “Non avevano tempo per noi neanche prima della guerra”

osservava lui sorridendo, come al solito. Non c’è bisogno di dire che nessun parlamentare della Rhodesia del Sud era interessato alla questione.

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Cap. 15

Avevo lasciato l’ufficio di Howe-Ely, perché Gottfried ed io pensavamo che fosse troppo bello passare insieme anche le ore di lavoro e così trovai un impiego come apprendista segretaria in uno studio legale.

La segretaria responsabile, Mary, veniva dall’Inghilterra e considerava tutte le ragazze della colonia pigre e incompetenti al confronto di donne con la

preparazione che aveva avuto lei.

Il mio compito principale era occuparmi dei debitori. Ed eccolo di nuovo il mondo della povertà estrema.

Mary era infastidita dl fatto che quella gente cenciosa e puzzolente le portasse scompiglio nel suo bell’ufficio ordinato e pulito. Pensava che dovessero essere tutti puniti, con l’ergastolo per esempio.

Io ero stupita dall’inutilità dell’intera faccenda, perché nessuno di loro aveva alcuna possibilità di recuperare più di pochi scellini, ma tutti rimanevano scandalizzati. Restituire il dovuto è una questione di principio. Ci rinunciai.

Quando si fa appello ai principi, il buon senso se ne vola fuori dalla finestra.

Era il periodo in cui bombardavano le città tedesche. Trovavo Gottfried seduto sul letto, la testa tra le mani, che stringeva un ritaglio di giornale o ascoltava la radio.

“Beh – dicevo – prima o poi la guerra finirà”.

A quell’epoca correvo di qua e di là senza sosta; ogni giornata doveva trovar posto per persone che non dovevano sapere l’una dell’altra, perché altrimenti sarebbero rimaste sconvolte.

Una cosa che ha continuato a ripetersi per quasi tutta la mia vita.

La sera del giorno della vittoria, 8 maggio 1945, sembrò che tutta la città si fosse messa a ballare. Rientrai a casa facendomi largo tra folle di gente eccitata, e trovai Gottfried seduto a bere in compagnia di Simon Pines (profugo lituano – ndr ).

Entrare in quella stanza era come passare dall’acqua calda a quella fredda.

Gottfried non sapeva cosa fosse successo a sua madre, suo padre, sua sorella.

Simon aveva parenti che erano stati travolti dai tedeschi e dai russi…

Gottfried ed io lavoravamo tantissimo. Gottfried aveva due impieghi, studiava il russo, per svago leggeva la storia di Bisanzio, che lo affascinava e passava alcune serate in compagnia di Hans Sen, uno svizzero. Come Gottfried, anch’egli si considerava un esule dalla civiltà. Era cattolico, mentre Gottfried era comunista.

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Quando io scherzavo e dicevo che le due fedi avevano molto in comune, Gottfried mi teneva il muso per parecchi giorni.

Avevo lasciato l’ufficio legale e guadagnavo 3 – 4 volte di più battendo a macchina per Hansard e per le commissioni governative.

Parecchie volte alla settimana Gottfried ed io raggiungevamo in macchina il sobborgo dove adesso abitavano i miei genitori, per andarci a sedere accanto al letto di mio padre. Stava morendo. Ma era da molto tempo che stava morendo.

Quei pomeriggi al capezzale di mio padre erano un vero orrore, e ancora mi ritornano nei sogni. La sua vera personalità, il suo vero io, si erano dissolti da lungo tempo nella malattia.

A loro (i genitori – ndr ) Gottfried non piaceva. E non perché fosse ebreo (o in parte ebreo). Non ricordo di averli mai sentiti fare una qualsiasi affermazione antisemita. E inoltre cominciavano appena a rendersi conto di quello che stava succedendo agli ebrei in Europa. La verità circa quei campi di morte non aveva ancora incominciato a circolare in profondità.

Oggi mi sembra spaventoso che ciò che le generazioni future interpreteranno certamente come la cosa peggiore … noi quasi non la vedevamo: gli assassinii deliberati di milioni di persone – sterminio sistematico – camere a gas – i campi di concentramento – i genocidi – la pulizia etnica.

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Cap. 16

Quella guerra aveva coinvolto il mondo intero e un gran numero di popoli e di esperienze diverse. Cosa mai potevano aver avuto in comune? I combattenti veri, i profughi, prigionieri di guerra, civili travolti o assediati dall’occupazione? E

popolazioni lontane migliaia di km dai luoghi di combattimento, che guardavano da una distanza di sicurezza?

Sì, una cosa c’era, vale a dire che le popolazioni venivano risucchiate in un vortice, così come entravano in rotta di collisione persone che altrimenti non si sarebbero mai incontrate.

Se c’è una cosa che noi rozzi rhodesiani trovavamo estremamente affascinante, era che questi profughi vivevano costantemente imbevuti di politica e ideologia.

Le appartenenze intellettuali di quegli immigranti erano talmente importanti per loro che prima di darci qualsiasi altra informazione, ci dicevano cos’erano. “Vedi – io sono no freudiano” – “Io sono un marxista-leninista” – “Reich” – “Jung”. Non smettevano mai di discutere, ragionare, litigare.

Alla fine della guerra, le migliaia di profughi avevano smesso di essere bisognosi e tristi e disperati, ed erano diventati uomini d’affari e agricoltori ed esportatori e costruttori e avevano industrie di trasporti e suonavano nelle orchestre. Un

gruppo pieno di talento. Un vanto per le colonia.

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Cap. 17

Per tutta la guerra avevo continuato a ripetere che nel momento stesso in cui fosse finita avrei lasciato il paese. Quando la guerra finì davvero, e lentamente cominciò a farsi strada in noi la consapevolezza di quale terribile danno fosse stato fatto, dappertutto anche il sogno, di colpo, svanì.

Quando furono buttate le bombe su Hiroshima e Nagasaki, non ci sembrarono tanto peggio della distruzione totale di Tokyo e Osaka e Dresda e Coventry.

Quello che noi provavamo era: grazie a Dio la guerra è finita.

Gottfried aveva deciso di voler vivere in Inghilterra e questo solo in parte per il fatto che io avevo intenzione di abitare a Londra. Voleva che rimanessi con lui fino a quando non fosse diventato cittadino britannico, prima di divorziare. Un

divorzio sarebbe stato un brutto segno, diceva, e poteva far pendere la bilancia contro di lui. Accettai di aspettare. Pensavamo che ci sarebbero voluti un paio d’anni. Nel frattempo avremmo anche potuto avere un bambino.

Fu con questo tono allegro che ne informammo gli amici.

Mio padre diceva “Perché abbandonare due bambini e poi farne un altro?” Mia madre mi accusava con durezza, con dolore.

Nel frattempo avevo bisogno di una pausa, prima di mettermi nuovamente a disposizione dei bisogni di un neonato, ventiquattr’ore al giorno. Gottfried era d’accordo che mi prendessi una vacanza e contribuì al mio viaggio a Città del Capo.

Le banchine di Città del Capo e le navi all’ancora on facevano pensare più a sottomarini e torpediniere e convogli, ma alla libertà alla fuga.

E io ero incinta di tre mesi.

Il quotidiano “Guardian” (per il quale lavorava Doris Lessing – ndr ) aveva detto che naturalmente il suo incaricato di Salisbury avrebbe potuto lavorare lì per alcune settimane.

Io fui messa a lavorare alla sezione abbonamenti. In quella stessa stanza, a lavorare insieme ai bianchi, c’erano indiani e meticci, una cosa impossibile nella Rhodesia del Sud.

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A quell’epoca il Partito Comunista sudafricano era legale. Si era formato durante la guerra e nel ’46 attraversava una fase di fiducia carica di eccitazione.

Ero a Città del Capo da non più di un giorno o due, quando mi accorsi di essere

“sotto esame”, proprio com’era successo al mio arrivo a Salisbury. In città ero una ragazza nuova.

In questo viaggio ero decisa ad avere una relazione amorosa, sentivo che mi era dovuta.

Più tardi, quella stessa sera, mi si presentò un uomo che, al primo sguardo, mi sembrò il candidato perfetto per una storia d’amore. A quell’epoca, a Città del Capo, chiunque avrebbe capito dopo poche parole chi era l’uomo al quale mi riferivo “un artista, afrikaner, alto, pittoresco” (lo chiamerò René). Era comunista ma, del resto, chi non lo era?

La storia d’amore fu possibile solo per la mia ingenuità. René stava insieme a un’altra donna. Faceva dei veri giochi di destrezza con le ragazze e le donne, con un piacere allegro e privo di scrupoli.

Fino a quel momento era riuscito ad evitare il matrimonio – aveva quarant’anni – ma aveva messo incinta una ragazza e avrebbe dovuto sposarla. Era attratto da me. Non mi amava: uomini del genere sono ben protetti contro le passioni.

Quando non mangiava e non faceva l’amore, partiva in macchina, io insieme a lui, per quello che definiva “il mio compito rivoluzionario”. Il Partito Comunista, i compagni, contavano su di lui per raccogliere voti.

René certamente amava le donne, ma al minimo segno di intelligenza dava segni d’irrequietezza. René diceva “Accidenti, perché Dio ha dato alle donne il cervello?

Rovina tutto, te lo garantisco”.

Sono stata spesso tentata di raccontare questo paradiso d’amore fisico,

cancellando la verità, e cioè il fatto che ero depressa. Non mi importava che René mi trattasse con condiscendenza, perché presto me ne sarei andata – ed era esattamente questa la ragione per la quale ero angosciata e triste, perché dovevo tornare a casa.

Certo no spasimavo per rimanere accanto a quell’uomo, del quale ancora non sapevo che era in procinto di sposarsi.

Viaggio in treno, cinque giorni, sto tornando a casa – intanto il treno si riempiva di polvere e io stavo sulla cuccetta infelice come mai in vita mia.

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E’ stranissimo come una persona possa essere l’immagine del benessere fisico, e dentro essere tanto infelice.

Quando tornai a casa ero incinta di cinque mesi, abbronzata e piena di salute.

Gottfried ed io riprendemmo le fila del nostro matrimonio, infelice ma cortese.

Non c’è niente in questa storia di cui io sia orgogliosa, ma Gottfried ed io, nati per sconcertarci e sconvolgerci a vicenda, ci comportammo bene, davvero bene.

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Cap. 18

Tornata da città del Capo pensavo: presto me ne andrò … invece sapevamo già che niente sarebbe successo tanto presto.

Ma in fondo è durata solo tre anni e mezzo, cosa sono mai? … Non sapevamo che sarebbero stati tre anni e mezzo.

Era il periodo in cui le notizie su quello che era successo nei campi di

concentramento in Germania divennero reali. All’inizio fu una cosa difficile da

“mandare giù”

Nell’ottobre 1946, esattamente il giorno previsto, come già era successo per gli altri due bambini, entrai alla Lady Chancellor Nursing Home.

La caposala annunciò che era un bel maschietto. E ancora una volta io davo per scontato che – maschio o femmina che fosse – sarebbe stato sano, forte e integro.

Fu il primo bambino del gruppo e per di più un bambino nato subito dopo la guerra, ovvero capace di trasmettere un senso di speranza e di resurrezione.

La grande stanza che usavamo per dare ospitalità a tanta gente, accolse facilmente un neonato, che aveva un lettino nello spazioso corridoio, ma, in verità, passava tutto il tempo con noi. Questa volta avere un bambino fu facile e piacevole. Io ero innamorata di questo bambino.

Più o meno in quel periodo cominciò la guerra fredda. All’improvviso. Da una settimana all’altra diventammo dei paria. Di sicuro nel giro di un mese.

Un’esperienza salutare, per molti anni eravamo stati i rossi, quelli che amavano i neri e così via, ma eravamo molto conosciuti e questo per merito dello zio Joe (Stalin – ndr ), il nostro valoroso alleato.

Adesso, tutto a un tratto, vecchi amici e conoscenti, quando ci vedevano arrivare, attraversavano e andavano dall’altra parte della strada. Fu quello il momento in cui capii cosa voleva dire la guerra fredda, lo capii alle sue radici o a livello di marciapiede.

Dal momento che formavamo un gruppo non era possibile isolarci singolarmente, ma venivamo isolati sempre più come gruppo. Quando per decenni mi è stato proibito l’ingresso in Rhodesia del Sud, nessun bianco ha mai saputo dire una parola buona in mio favore. Il mio nome era fango.

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A causa dell’atmosfera più velenosa provocata dalla guerra fredda, un numero ancora più alto di persone trovò rifugio nel nostro appartamento.

Io lottavo per trovare del tempo per scrivere, non lottavo contro il bambino, che era dolce e tranquillo, ma contro gli amanti dei bambini e gli altri che avevano bisogno di qualcuno che li stesse a sentire.

Mio fratello tornò a casa dalla sua guerra. Era diventato ancora più sordo, anche se si era fatto operare da uno dei più famosi specialisti del mondo. Mia madre era sorda. Mio padre era sordo. Era una casa in cui i membri della famiglia urlavano l’un l’altro in mezzo agli ospiti di mia madre, che sordi non erano. Harry era imbambolato, sorridente ed era come se vivesse dietro un muro di vetro. Era in uno stato di shock da guerra. Senza l’affascinante uniforme della Marina era un nomo gentile, educato e di bell’aspetto.

Harry ed io non parlavamo quasi, non c’è stato periodo della nostra vita in cui abbiamo avuto meno cose in comune di allora.

Molti pomeriggi Harry ed io ci trovavamo al capezzale di nostro padre. Mio padre continuava a ripetere “Perché non mi liberano da questo tormento”? biascicando la frase con tono arrabbiato, mentre mi teneva stretta la mano o accarezzava il

bambino con gesti bruschi e pieni di amarezza.

Noi volevamo che morisse, per la tensione di tutta la faccenda e poi perché immaginavamo quanto dovesse essere terribile per lui trovarsi in questo stato, anche se in realtà era terribile per noi pensare che lui sapeva di essere in quello stato.

Una mattina, mentre stavo facendo il bagno al bambino, si presentò a casa mia un uomo a dire che mio padre era in ospedale e stava morendo e, se volevo vederlo, sarei dovuta andare al più presto, Non lo feci… non volevo trovarmi lì quando lui fosse morto.

Quando alla fine lo vidi, non era affatto come se dormisse o sognasse, o una qualunque di tutte le bugie che la gente ti racconta. Semplicemente, se n’era andato.

Quando vidi il certificato di morte avrei voluto grattare via quello che avevano scritto come causa di morte e al suo posto scrivere “I Guerra Mondiale”.

Poco tempo dopo, una mattina, mi madre arrivò con l’annuncio di una sciagura.

Era pallida e sconvolta. Disse che mio fratello stava per sposarsi. “E allora? Qual è il problema?” “E’ una donna assolutamente inadatta. E’ una tragedia.

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Cosa mai poteva esserci che non andava in Monica (Monica Allan – ndr )?

Semplicemente non era un’inglese di classe borghese. Suo padre era uno dei migliori agricoltori del paese. Ma non era un borghese. E poi era scozzese.

E, se lei era sconvolta, lo ero anch’io. Tutto a un tratto mi misi a urlare Lasciali in pace. Non interferire. Non rovinargli tutto.”

Era stata una scena crudele e fino a che punto lo era stata io davvero non l’avevo capito.

Misi Harry in condizione di sposare Monica senza scenate e rimbrotti.

Il tempo si trascinava con grande lentezza. La mia vita era tutta briciole e

frammenti, era a pezzi, senza alcuna coerenza, eccetto che per un solo pensiero:

presto sarò fuori di qui.

A volte, malata d’irrequietezza, lasciavo Gottfried a leggere la storia di Bisanzio, a studiare il russo e me ne andavo a camminare su e giù per le strade e lungo i viali.

La piccola città vuota si ritirava nella terra sotto la pressione delle stesse e di una luna che era sempre in rapido movimento da punto imprecisato ad un altro.

Si poteva camminare per un’ora o due e sentire la stessa musica provenire da ogni casa. Da ogni casa, allo stesso momento, per riempire quei cervelli ricettivi,

compreso il mio, per nutrire il mio desiderio di amore e di fuga.

Continuai a camminare per le strade, sera dopo sera, per settimane, per mesi, senza la minima sensazione di pericolo: oggi sarebbe impossibile per una donna giovane, nera o bianca, andarsene girovagando a caso.

(35)

Cap. 19

Forse perché eravamo già tanto depressi e perché il mondo aveva fama di buone notizie dopo tutto quell’orrore, che la notizia della scoperta della penicillina e dei suoi ritrovati della medicina portò tanta eccitazione. Di tutti i miei ricordi di quel tempo, questo è il più vivo.

Io stessa ho sperimentato questa nuova “epoca”.4Era un giorno di giugno o luglio del ’47 – pieno inverno – freddo secco e polveroso.

Una mattina sulla faccia e sulle braccia del bambino, e poco dopo su tutto il corpo, apparvero chiazze rosse che quasi subito si aprirono trasformando in piaghe purulente. Il bambino aveva otto mesi e non era mai stato malato prima.

Arrivò il medico, appena laureato, che annunciò: “E adesso assistiamo a un miracolo”.

L’uomo strofinò tutto il corpo del bambino con una lozione di penicillina “Torno fra un paio d’ore, vi garantisco che non ho mai visto niente del genere” e poi fu davvero un miracolo perché dalle piaghe non uscì più pus. Il dottore ritorno, a tarda sera sulla pelle ancora arrossata c’erano delle croste asciutte. “Dicono che è una magia. E lo dico anch’io.” L’indomani le croste erano cadute e la pelle era rosa. Meno di 24h erano bastate.

Gottfried faceva ancora due lavori, era sfinito, scoraggiato per la lunga attesa.

Insieme ad alcuni amici andammo a visitare Zimbabwe a Ford Victoria, i ruderi che quarant’anni dopo avrebbero dato il nome all’intero paese.

All’epoca si pensava che Zimbabwe fosse stato costruito dagli Arabi. Mi

arrampicai sulla collina che si affacciava sulle rovine e mi sedetti su una roccia. Il silenzio di metà pomeriggio sul veld, il tubare delle colombe, le cicale, i grilli…

c’era un altro suono che, da allora, non ha mai smesso di perseguitarmi. Da qualche parte laggiù, in una capanna che non riuscivo a vedere, o da sotto un albero, arrivarono due note su un tamburo, una nota alta e poi una più bassa, poi un intervallo, poi di nuovo le due note. Si tratta di note che non si trovano su nessun pianoforte e l’intervallo di tempo fra loro trova la sua giustificazione in una regione sconosciuta a orecchie europee. Come due gocce di pioggia che cadono, tap-tap, poi silenzio, tap-tap, secondo silenzio. Senza sosta. E ben presto ogni cosa – i ruderi – il paesaggio – le rocce – le distese nebbiose nel cielo infuocato popolato di nuvole pomeridiane, ogni cosa sembrava essere stata assorbita in quelle due note che si ripetevano e poi continuavano e si sentivano ancora un paio di ore più tardi scesi dalla collina.

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C’erano tre donne fra noi, che non “avevano mai tenuto testa” alla propria madre, come si soleva dire, rituale necessario per la loro salvezza psicologica. Noi

sapevamo cosa non andava in queste madri, che riuscivano a vivere soltanto attraverso le loro figlie: avevano bisogno di un lavoro e di una vita tutta per loro.

Avevano ragione. Ma quelle donne erano di un’altra generazione. In un modo o nell’altro le figlie soffrivano. Se “tenevano testa” alle loro madri, come avevo fatto io, sapevano di essere scortesi. Se non lo facevano, diventavano come i conigli quando vengono ipnotizzati dai fari delle macchine.

In verità io Gottfried lo tradivo. In quel periodo stavo vivendo la classica storia d’amore che ogni donna dovrebbe avere una sola volta. Il pomeriggio veniva a casa, percorrendo il viale sotto il grande albero, senza guardare né a destra né a sinistra, sapendo bene che le tendine delle finestre lungo tutta la strada si stavano agitando. Parlavamo di letteratura, ridevamo tanto e facevamo l’amore, con un orecchio teso per sentire se arrivava qualcuno.

Non avrebbe potuto esserci relazione più soddisfacente per entrambi, se non fosse stato per il fatto che, mi vergogno a dirlo, mi innamorai. La cosa mi

sconvolse. Tutti i progetti di andare via … si erano dileguati di fronte al bisogno di sposare quest’uomo, che avrebbe lasciato moglie e figli.

Era arrivato il momento di avere un altro bambino. Era la natura che lo diceva.

All’incirca in quello stesso periodo, dei fortissimi dolori alla schiena mi

costrinsero ad andare dal medico, il quale disse che avevo l’utero retroflesso, cui occorreva dare dei punti di sutura e, visto che mi doveva aprire “avrebbe potuto togliermi anche l’appendice, che tanto non serviva” e mi consigliò anche di farmi chiudere le tube.

Mi lasciò quarantott’ore di tempo per pensarci. Io sapevo che prima di arrivare alla menopausa mi sarei innamorata parecchie volte, e che ogni volta avrei voluto un bambino. La mia natura più profonda era contro di me. La mia natura in combutta con la natura.

E’ stata probabilmente la cosa più sensata che io abbia fatto in vita mia.

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Cap. 20

Ogni gruppo di qualunque genere, comunque sia nato, finisce per diventare un gruppo a carattere religioso o mistico. Così affermano gli psicologi. Il nostro era cominciato come un insieme di gente di sinistra proveniente da ogni parte

d’Europa; per un breve periodo era stato comunista in senso stretto, almeno in teoria, ma una volta perduta la sua purezza comunista, era diventato qualcosa di più simile a un servizio sociale o caritatevole.

Negli ultimi due anni prima della nostra partenza, si poteva dire che il gruppo non ci fosse più, somigliava a un’onda che rimanga ferma mantenendo la forma

iniziale mentre l’acqua le scorre dentro impetuosa.

Oggi credo che la sola reale forma di utilità che noi abbiamo avuto per i neri – e quando dico “noi” intendo dire tutti “noi progressisti” – era che i nostri libri venissero prestati e dati a chiunque ce li chiedesse.

Charles (Mzingele) portava amici e, prima ancora che si fossero seduti, gli occhi di queste persone correvano alla nostra libreria. Era sempre penoso vedere come quegli uomini – all’epoca erano sempre uomini – che toccavano quei libri preziosi, e come li maneggiavano con delicato rispetto per le possibilità che essi

racchiudevano, perché quegli uomini cercavano l’istruzione che alla maggior parte di loro era stata negata.

La rivoluzione in Europa: per l’africa, Gottfried aveva perduta la speranza “Forse tra 100 anni” sentenziava. La formula “corretta” era ancora che solo un

proletariato nero poteva liberare l’Africa. Ma non esisteva alcun proletariato nero nel senso in cui lo intendevano i Padri della Teoria.

Lo sciopero alla location, famoso quanto l’assemblea alla location, ci colse di sorpresa, e colse di sorpresa anche Charles. Il leader si trovava a Bulawayo.

Scioperavano per un salario minimo di 1£ al mese, il corrispettivo di quanto allora guadagnava un cuoco, che in più riceveva razioni alimentari e regali.

Nessuno avrebbe potuto vivere con 1£ al mese. La richiesta di salario minimo venne respinta dal Parlamento. Ma dietro a quella richiesta la sofferenza,

l’infelicità e le violenze erano estreme. Noi lo sapevamo bene, ma sembrava che i bianchi non lo sapessero.

Non era possibile che i munts scioperassero di loro iniziativa: doveva essere opera degli agitatori comunisti. E a quel punto i bianchi fecero qualcosa di molto

stupido.

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A quell’epoca erano pochi i neri politicamente motivati e informati sulla loro situazione e meno che mai sulla situazione in altri Paesi. Quasi non sapevano dell’esistenza dei sindacati.

Quando le autorità furono certe che l’intera forza lavoro della città era rientrata nella location, chiusero a chiave i cancelli e misero delle guardie tutto intorno al perimetro dell’area. I bianchi affamavano i loro sudditi ribelli per indurli alla sottomissione. Noi non riuscivamo a credere che l’Autorità potesse essere così stupida; ma l’Autorità, quando ha paura, di solito è stupida.

I bianchi si trovavano faccia a faccia con l’incubo, sempre latente, che i neri si sollevassero e tagliassero loro la gola.

Credo che questo scioperò rappresentò un vero momento di svolta; lo sciopero fece capire a tutti fino a che punto i bianchi fossero davvero crudeli e soprattutto quanto ignorassero le sofferenze dei neri.

Ci si chiederà “Ma voi non avrete certo continuato a credere nella perfezione del Comunismo? Di sicuro dovevate sapere” (della collettivizzazione forzata, dei processi, etc.)

Mi ci vollero 4 o 5 anni dal mio primo innamoramento per il comunismo, anzi per il comunismo ideale, nel 1942, per diventare sufficientemente critica da discutere i miei “dubbi” con persone che si trovavano ancora all’interno della congrega comunista. Nel giro di altri 2 o 3 anni discutevo con altri comunisti fatti e idee per i quali in un paese comunista saremmo stati torturati o uccisi. Nel 1954 non ero più comunista, ma fu soltanto all’inizio degli anni ’60 che smisi di provare dei conflitti residui di fedeltà, che fui davvero libera. In altri termini, mi ci vollero altri vent’anni buoni per smettere di sentirmi colpevole, per scuotermi tutto questo di dosso.

E’ stato certamente il periodo peggiore della mia vita. I periodi brutti, che sembrano non finire mai, trasformano il cuore in una sorta di buco nero, che assorbe ogni vita, ogni energia.

Non avevo altra alternativa che aspettare, allora, a quell’epoca, che era l’epoca lenta, confusa, lacerante, del dopoguerra.

Io leggevo, leggevo, leggevo. Leggevo per salvarmi la vita.

Ogni notte sognavo il mare, che sciabordava dentro e fuori del mio sonno, con ondate cariche di nostalgia, di forte desiderio.

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