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Giovanni Verga. Vita e opere

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Academic year: 2022

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Giovanni Verga

 

Vérga, Giovanni. ‐ Scrittore (Catania 1840 ‐ ivi 1922). Autore di novelle e romanzi, il cui stile e linguaggio hanno rinnovato profondamente la narrativa italiana, V. è considerato il più autorevole esponente del verismo. Raggiunse la notorietà con alcuni romanzi, Eva e Tigre reale (1873) e novelle (Nedda, 1874), nei quali espresse la sua predilezione per temi legati a diversi ambienti sociali e per il gusto per una scrittura asciutta e comunicativa. Tra il 1878 e il 1881 elaborò un progetto innovatore rispetto alle esperienze precedenti, quello di trasferire nei romanzi l'attenta osservazione del mondo circostante, ponendo l'accento sui desideri degli uomini e sul loro modo di parlare. Ne I Malavoglia (1881) V. perfezionò una tecnica narrativa caratterizzata dall'uso del discorso indiretto libero, che permette di inserire nel racconto le voci e i punti di vista dei personaggi, le loro parole semplici e la loro grammatica elementare.

In Mastro don Gesualdo (1889) rispetto allo stile corale de I Malavoglia, V. raffigurò con distacco luoghi e paesaggi lividi e desolati, specchio della miseria umana che i personaggi del romanzo rappresentano.

Vita e opere

Nato a Catania nel 1840, fu il massimo esponente del verismo. La sua prima formazione romantico‐risorgimentale si svolse a Catania, dove abbandonando gli studi giuridici, decise di dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Trasferitosi a Firenze nel 1865 compose i suoi primi romanzi Una peccatrice e Storia di una Capinera. Successivamente a Milano frequentò

l'ambiente degli Scapigliati, rappresentando in modo fortemente critico il mondo

aristocratico‐borghese (Eva, 1873; Tigre Reale, 1873; Eros,1875). In seguito alla scoperta del

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naturalismo francese matura la sua svolta decisiva verso il verismo che sarà segnato dai racconti e dai romanzi di ambiente siciliano (Vita dei campi, 1880; I Malavoglia, 1881; Novelle rusticane, 1883; Mastro don Gesualdo, 1889). Lo scrittore crede nel progresso ma si interessa ai vinti e ai deboli; la sua è una visione della vita tragicamente pessimistica che si pone in antitesi con l'ottimismo imperante nei suoi tempi. Rappresenta un mondo di primitivi in lotta con il destino avverso cui inesorabilmente soccombono quando si staccano dalla religione, dalla famiglia e dal lavoro. Il linguaggio verghiano è arditamente innovatore: dando spazio al linguaggio dialettale riesce a raggiungere effetti di grandiosa coralità. Alla produzione narrativa si accompagnò quella teatrale, connotata sempre da una intensa drammaticità (Cavalleria rusticana, 1884; La lupa, 1884; In portineria, 1885; Dal tuo al mio, 1903). Lo scrittore morì nella sua città natale nel 1922.

La poetica

Verga, a differenza di altri scrittori, non espose le proprie idee sulla letteratura e sull’arte in opere compiute; preferisce invece immergersi nel suo scrupoloso e concreto lavoro di

scrittore. Il canone fondamentale a cui si ispira è quello dell’impersonalità (per altro comune ai veristi), che egli intende innanzi tutto come "schietta ed evidente manifestazione

dell’osservazione coscienziosa". Verga vuole indagare nel misterioso processo dei sentimenti umani presentando il fatto nudo e schietto come è stato "raccolto per viottoli dei campi, press’a poco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare", sacrificando "l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno imprevedibile ma non meno fatale"; l’obiettivo è quello di giungere a un romanzo in cui l’affinità di ogni sua parte sarà completa, in cui il processo della creazione rimarrà un mistero, la mano dell’artista rimarrà invisibile e "l’opera d’arte

sembrerà essersi fatta da sé". Verga vuole rappresentare la lotta per la vita ripercorrendo la scala sociale, dai livelli più bassi a quelli più elevati e questo sia per la sua esigenza personale di rimeditare la propria esperienza umana e artistica e anche per estendere l’indagine che si era in genere limitata ai ceti popolari, alle classi più alte. Le tecniche narrative riguardano il rapporto tra autore e materia rappresentata, le tecniche espressive, la sintassi e il lessico. La novità di Verga sta nella distinzione tra autore e narratore e nella definizione e invenzione del narratore regredito. L’autore per essere impersonale deve rinunciare ai suoi pensieri e giudizi, alla sua morale e cultura perché non deve esprimere se stesso ma si deve nascondere impedendo così al lettore di percepire la sua presenza. Verga cerca di realizzare l’eclissi dell’autore delegando la funzione narrante a un narratore che è perfettamente inserito nell’ambiente rappresentato, regredito al livello sociale e culturale dei personaggi

rappresentati che assume la loro mentalità e non fa trapelare l’idea dell’autore. Il narratore assume così, un aspetto camaleontico evidente soprattutto nei Malavoglia. Verga vuole essere impersonale fino in fondo e, oltre a rinunciare alla sua mentalità ai suoi ideali e principi rinuncia anche alla sua lingua e cerca di adottare un tipo di espressione più vicina possibile agli umili rappresentati; l’autore cerca, infatti, di studiare la sintassi del dialetto siciliano e tenta di riprodurre tale struttura della frase nella lingua italiana, citando spesso proverbi che appartengono alla cultura locale. L’autore utilizza anche la tecnica del discorso indiretto

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libero tutte le volte che ha bisogno, nel descrivere fatti e luoghi, di far risuonare i modi tipici del linguaggio popolano e di identificarsi col pensiero della gente del posto. E’ utilizzato anche l’artificio dello straniamento realizzato attraverso un modo di raccontare i fatti secondo cui quello che è normale appare strano e viceversa.

Primo testo della raccolta ​Vita dei campi​, ​Fantasticheria​ (già comparsa sul «Fanfulla della Domenica» del 24 agosto 1879) svolge un’importante funzione nell’introdurre la determinante silloge verghiana, in quanto teorizza esplicitamente alcuni capisaldi della poetica verista degli anni a venire, oltre ad introdurre per rapidi accenni quelli che saranno i personaggi principali del romanzo ​I Malavoglia​, che frattanto sta lievitando nella mente dello scrittore catanese.

 

Fantasticheria

Testo

“Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci‐Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: ‐ Vorrei starci un mese laggiù! ‐

Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott'ore; i terrazzani che

spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d'anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e

dell'azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott'ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci‐Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli scogli;

col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a' barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l'alba ci sorprese in cima al fariglione ‐ un'alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, mentre in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. ‐ Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell'alba. ‐ Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo in cui vi

modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell'altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina allora, di faccia al sole nascente? Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: ‐ Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita ‐.

Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra quegli scogli

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giganteschi, incastonati nell'azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch'esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.

È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così ‐ per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, «gente di mare», dicono essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano ‐ quando ne mangiano ‐ giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti...

Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c'è folla sull'uscio dell'osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.

Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.

Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino,

torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. ‐ Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ‐ ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale?

Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.

Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant'è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l'elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in fila sul panchettino dinanzi all'uscio.

Ora il panchettino non c'è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po' più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchioPosto della guardia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com'è, vi aveva vista passare, bianca e superba.

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Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove ‐ forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti ‐ e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell'adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante ‐ sazia così, da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro.

Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l'effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi ritornerete, e siederemo accanto un'altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, ‐ o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri ‐ oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro!

Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all'ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.

Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le sue tegole», tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi.

Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua «occhiata di sole»

accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s'inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.

La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro.

Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch'essa. Chi sa quali povere

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gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell'altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l'avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all'ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra ‐ un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria ‐

«nei guai!» come dicono laggiù.

Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l'uno, il più grande, quello che vi

sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell'ellera. Grande e grosso com'era, si faceva di brace anch'esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un'ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d'isolano; l'altro, quell'uomo che sull'isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v'eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d'inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c'erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual

disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell'uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.

Meglio per loro che son morti, e non «mangiano il pane del re», come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell'altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio ‐ una grazia assai magra ad Aci‐Trezza.

Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell'ostessa, l'ultima volta che andò all'ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle

chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi

dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l'estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo.

Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio.

Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance;

rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d'arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c'è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e

affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e

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grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci‐Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull'asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.

‐ Insomma l'ideale dell'ostrica! ‐ direte voi. ‐ Proprio l'ideale dell'ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi ‐.

Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul

mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano ‐ forse pel quarto d'ora ‐ cose serissime e rispettabilissime anch'esse.

Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. ‐ Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.

Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che

conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: ‐ che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch'egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. ‐ E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.”

Nuclei Tematici

Novella divisa tematicamente in quattro parti :

● Prima parte​ : Ha la funzione di introdurre il lettore nella vicenda

● Seconda parte ​: Presentazione delle reazioni della dama di fronte alla vita degli abitanti di Aci‐Trezza ‐ Incapacità da parte della dama nel capire come essi possano vivere un’esistenza cosi umile

● Terza parte ​: Sancisce l’inconciliabilità del mondo nobiliare della dama con quello genuino e povero dei pescatori

● Quarta parte ​: Accenna alle vicende di alcune persone che saranno i futuri personaggi de “I Malavoglia”

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Analisi

Fantasticheria è un racconto che Verga utilizza come introduzione a “I Malavolglia”. Più che racconto, esso potrebbe essere definito come una sorta di lettera d’amore, ironica e

nostalgica, indirizzata dallo scrittore a una dama elegante e superba, della quale era stato forse l’amante. La dama non viene identificata con un nome, ma riesce comunque a rimanere ben impressa nella mente del lettore. Tutto ciò è merito dei suoi connotati e dei suoi

comportamente, e delle descrizioni che le vengono fatte.

Interpretazione e approfondimento

Il racconto contrappone in maniera netta e distinta la condizione sociale della dama con quella dei pescatori catanesi. Il contrasto viene delineato insistendo su differenti aspetti:

● Abbigliamento sofisticato ed elegante della dama, contro quello lacero dei popolani

● Contrasto della Mentalità : Per la dama sarebbe impensabile vivere una vita in quello sperduto paesino siciliano, gli abitanti invece, si ostinano con tanta tenacia a restarvi attaccati

Malavoglia = studio microscopico delle vicende e dei protagonisti già presenti in Fantasticheria. 

 

I Malavoglia

Trama e riassunto

Capitolo I​: Ad Aci Trezza, un piccolo paesino presso Catania, in Sicilia, vive alla casa del nespolo unafamiglia di pescatori, i Toscano, soprannominati da tutti Malavoglia​ ​1​. Capo

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famiglia è padron ‘Ntoni, ci sono poi il figlio Bastianazzo con la moglie Maruzza, soprannominata Longa, e i figli: ‘Ntoni, il maggiore, di vent’anni, Luca, Mena,

soprannominata Sant’Agata perché passa tutto il suo tempo al telaio, Alessi e la piccola Lia. Il quadro familiare è quindi variegato: se pardon ‘Ntoni è il capofamiglia, Bastianazzo ne ha ereditato la forza e la dedizione al lavoro; ‘Ntoni è da subito un giovane buono ma sfaticato. I Malavoglia, dal punto di vista sociale, sono dei “possidenti” poiché, oltre alla casa del

nespolo, sono i proprietari della “Provvidenza”, una barca da pesca.

L’ordine della famiglia viene turbato quando ‘Ntoni riceve la chiamata di leva​ ​2​: quest’evento priva la famiglia di una vitale forza‐lavoro. Essendo in un periodo di ristrettezze e pensando di fare un affare, padron ‘Ntoni, con la mediazione di Piedipapera, acquista a credito dal ricco zio Crocifisso, l’usuraio del paese, un carico di lupini e manda Bastianazzo con la Provvidenza, a venderli a Riposto. Con lui parte pure Menico.

Capitolo II​: Mentre la Provvidenza salpa, vengono presentati gli altri personaggi di Aci Trezza (il farmacista don Franco, il vicario don Gianmaria, il maestro Silvestro, la Zuppidda). Mentre aspetta notizie del carico di lupini, padron ‘Ntoni discute con altri uomini sui gradini della chiesa dell’impresa dei lupini: se l’affare andasse in porto, Mena avrebbe la dote per sposare Brasi Cipolla, anche se lei è innamorato del povero compare Alfio. Alla casa del nespolo, la Longa e le altre vicine discutono della Mena e fanno pettegolezzi su altri paesani.

Capitolo III:​ Di notte si scatena la tempesta. Tutti al villaggio pensano alla barca con il carico di lupini e, pur criticando i Malavoglia nella bettola di suor Mariangela la Santuzza, poco dopo si ritirano in chiesa a pregare. Zio Crocifisso vuole che padron ‘Ntoni, davanti a testimoni, ammetta che i lupini li ha presi a credito. Nel frattempo tutti i Malavoglia ‐ in particolare la Longa,moglie di Bastianazzo ‐ si disperano. Il naufragio della Provvidenza, che preannuncia la rovina economica della famiglia Toscano, viene raccontato in maniera indiretta, attraverso le voci e le reazioni di questo “coro” popolare.

Capitolo IV:​ Sono passati tre giorni e ormai è chiaro anche ad Aci Trezza che la barca e il suo carico sonoaffondati e cheBastianazzo è morto affogato. Alla commemorazione per

Bastianazzo tutti si interessano alla sventura dei Malavoglia (per compassione o per ineteresse) e ognuno ha qualcosa da dire sulla loro situazione. Infatti i Malavoglia con la morte di Bastianazzo, il carico di lupini da ripagare a zio Crocifisso e la Mena da maritare, per non parlare dell’infelice annata per colpa dell’assenza di pioggia, si trovano in grandi

difficoltà economiche. Nel frattempo, in paese si intersecano le trame tra i personaggi per guadagnarsi un matrimonio vantaggioso.

Capitolo V​: Alfio Mosca fa sapere a Mena che ha sentito che i Malavoglia, per far fronte ai problemi economici, vogliono farla sposare a Brasi Cipolla, figlio di padron Fortunato, che possiede barche, chiuse e vigne. Viene nel fratempo ritrovata sulla spiaggia la Provvidenza: la barca è distrutta ma si pensa di ripararla. ‘Ntoni riesce ad ottenere la lettera di congedo e a tornare a casa e il fratello Luca decide di partire per la leva al posto suo.

Capitolo VI​: ‘Ntoni, tornato ad Aci Trezza per aiutare economicamente la famiglia, scopre che Sara di comare Tudda, la ragazza che egli amava, si è sposata con un vedovo. Tutti Malavoglia, nel frattempo, si mettono a lavorare per ripagare il debito che viene

provvisoriamente rimandato e che lo zio Crocifisso, per non inimicarsi tutto il paese, finge di cedere il credito a Tino Piedipapera. Se i Malavoglia (che lavorano assiduamente per riparare

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le perdite del naufragio) non ripagheranno il debito, zio Crocifisso potrà prendersi la barca e la casa del nespolo; tuttavia, un avvocato di città cui i Malavoglia si sono rivolti assicura che non devono nulla all’usuraio, dato che non ci sono documenti ufficiali e che la casa

costituisce la dote della Longa (quindi non può essere espropriata). Tuttavia, padron ‘Ntoni, per un superiore senso dell’onore, vuole rispettare la parola data. La Longa, convinta

dall’ipocrita Don Silvestro (che odia ‘Ntoni per faccende sentimentali), alla fine rinuncia alla dote.

Capitolo VII:​ Luca Malavoglia parte per il servizio militare. Nel frattempo la Provvidenza è finalmenteriparata da compare Zuppiddu e può di nuovo prendere il largo: i Malavoglia sperano quindi di far buona pesca e non dover vendere la casa. Pare anche che Mena possa sposarsi con il ricco Brasi Cipolla. ‘Ntoni, scontratosi violentemente con Piedipapera per il debito da estinguere, chiede di sposareBarbara Zuppidda, ma padron ‘Ntoni gli nega il permesso, sia a causa dei problemi economici sia perché prima deve sposarsi Mena. In paese invece si assiste a una ribellione contro la dirigenza (e in particolare contro Don Silvestro) per l’aumento il prezzo del sale della pece.

Capitolo VIII:​ Mena sa che manca poco al saldo del debito e poi dovrà sposare Brasi Cipolla, mentre lei ama Alfio Mosca, che, prima di partire per lavorare a Bicocca (dove c’è la malaria) le confessa i propri sentimenti. Gli altri pretendenti di Barbara Zuppidda (cioè il brigadiere don Michele e Vanni Pizzuto) decidono di unirsi contro ‘Ntoni, che è un’effettiva minaccia, infatti i due giovani sognano di poterscappare e sposarsi. I Malavoglia organizzano un incontro tra Mena e Brasi Cipolla, il ragazzo è molto interessato, mentre Mena è visibilmente triste.

Capitolo IX: ​Mena e Brasi Cipolla si stanno per sposare, ma durante la cerimonia della

spartizione dei capelli della sposa giunge la notizia che una nave italiana è affondata durante la battaglia di Lissa. Nei giorni successivi il silenzio di Luca rende evidente che è successo qualcosa: i Malavoglia si recano alla capitaneria e scoprono che effettivamente Luca è morto nella battaglia di Lissa. Padron ‘Ntoni cerca di ritardare ancora il pagamento ma Tino

Piedipapera rifiuta: i Malavoglia devono così cedere la casa del nespolo e ritirarsi a vivere in affitto nella casupola di un beccaio. Padron Cipolla rompe il fidanzamentodi Mena col figlio e anche ‘Ntoni perde le simpatie di Barbara.

Capitolo X:​ Una tempesta coglie padron ‘Ntoni e Alessi mentre sono sulla Provvidenza.

Naufragano contro gli scogli e padron ‘Ntoni batte la testa, ma dopo giorni di cure riesce a sopravvivere. I Malavoglia lavorano e si impegnano per ripagare il debito e riscattare la casa del nespolo: da un lato, alcuni affari fortunati fanno tornare la speranza, ma dall’altro ‘Ntoni, che passa sempre più tempo all’osteria, comincia ad estraniarsi dalla vita familiare e della

“religione della casa” di suo padre.

Capitolo XI: ​‘Ntoni desidera partire da Aci Trezza per cercare fortuna, ma le preghiere della Longa riescono a dissuaderlo. A Catania però scoppia un’epidemia di colera che presto arriva anche ad Aci Trezza; vecchia e stanca, la Longa si ammala e muore rapidamtne. Senza più nessuno che lo trattenga,‘Ntoni decide di partire. La Lia nel frattempo è cresciuta ed è diventata bella.

Capitolo XII:​ Padron ‘Ntoni decide di vendere la Provvidenza allo zio Crocifisso; lui e il figlio Alessi lavoreranno sulle barche di padron Cipolla. I Malavoglia sono ancora ridotti allo stato di povertà ma fantasticano su come riscattare la casa del nespolo. ‘Ntoni torna, più povero di

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prima: passa il suo tempo all’osteria, è stanco di lavorare ed è invidioso di chi ha molti soldi e non deve fare nulla.

Capitolo XIII:​ ‘Ntoni passa il tempo a bere alla bettola della Santuzza, con cui ha una relazione. Padron ‘Ntoni riesce a farlo ragionare e per una settimana il ragazzo torna a lavorare, ma poi riprende a bere.Don Michele corteggia la Lia e spesso passa da casa dei Malavoglia, e qui un giorno informa Mena che il fratello si è lasciato trascinare in un affare di contrabbando. Inoltre ‘Ntoni finisce in mezzo in una brutta rissa all’osteria con il brigadiere Don Michele, che, essendo il precedente amante di Santuzza, le permetteva di svolgere traffici di contrabbando con Rocco Spatu e Cinghialenta. Zio Crocifisso e la Vespa si sposano, e la donna comincia a dilapidare il suo patrimonio

Capitolo XIV:​ Qualche notte dopo la rissa del capitolo precedente, ‘Ntoni, sopreso dalle guardie,pugnala al petto Don Michele, pur senza ucciderlo. Viene arrestato e padron ‘Ntoni spende ogni risparmio per assicurargli una difesa al processo. Al processo però l’avvocato difensore per minimizzare l’accaduto sostiene che ‘Ntoni non abbia pugnalato Don Michele per questioni di contrabbando ma per difendere l’onre di Lia, dopo una tresca con Don Michele. Padre ‘Ntoni sviene e si dispera, mentre ‘Ntoni viene condannato a cinque anni di carcere e Lia, non resistendo di fronte al disonore, scappa da Aci Trezza. Si darà alla prostituzione a Catania e non tornerà mai più.

Capitolo XV: ​Padron ‘Ntoni è ormai vecchio e malato, ma Mena e Alessi non vogliono portarlo in ospedale e farlo morire lontano da casa sua. Comprendendo la situazione padron ‘Ntoni chiede ad Alfio Mosca, che è ritornato in paese, di portarlo in ospedale in un momento in cui i due nipoti sono assenti.Alessi si sposa con la Nunziata, che amava sin da ragazzino e riscatta la casa del nespolo, pur a prezzo di durissimi sacrifici. Padron ‘Ntoni muore prima che possano portarlo a casa. Alfio Mosca chiede la mano di Mena ma la ragazza rifiuta perché ormai ha già ventisei anni e la storia di Lia ha fatto sprofondare la famiglia nel disonore. Così Mena si ritira a curare i figli di Alessi e Nunziata. Una notte si presenta a casa ‘Ntoni, da poco uscito dal carcere, Alessi gli propone di restare ma ‘Ntoni sceglie amaramente di andarsene prima del sorgere del sole.

Principali tematiche

● La prefazione de “I Malavoglia” è riassumibile in 4 punti fondamentali : impersonalità, l'ottica dal basso, autodescrizione dei personaggi, narrazione condotta dai personaggi.

● Il protagonista é il popolo, racconta la loro storia di problemi materiali quotidiani

● I personaggi si organizzano secono una contrapposizione morale : da una parte ci sono quelli legati ai valori e alle tradizioni del passato, dall'altra i vizi della modernitá

● I Malavoglia sono uno studio sociale di un villaggio siciliano tipico.

● Scene di gruppo nelle quali i personaggi comunicano facendosi conoscere. Espressioni linguistiche popolari.

● Ne “I Malavoglia” é importante l'attaccamento alla famiglia

● Secondo Verga la vita umana é come quella animale non conosce mutazioni, ma solo un'evoluzione lenta e graduale

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● L'uomo é dominato dagli istinti e dagli interessi materiali che lo isolano dai propri simili; ad eccezione della solidarietá familiare, ognuno é solo con il proprio egoismo, la solidarietá di classe non esiste

● Non esiste la possibilità di cambiare il futuro ne il proprio stato attuale : Rassegnazione

 

Le caratteristiche del verismo:

● Scrittore come scienziato, osservazione causa effetto.

● documentazione della realtà

● osservazione e descrizione impersonale, in maniera del tutto oggettiva.

● l'autore è esterno e impersonale.

● la psicologia dei personaggi è rappresentata dall'esterno

● lo stile si adegua al mondo sociale rappresentato.

● Verga voleva rappresentare tutti i gradini sociali dal basso verso l'alto.

       

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