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FABRIZIO FONDI IL POSTO DEGLI ANGELI

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Academic year: 2022

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FABRIZIO FONDI

IL POSTO DEGLI ANGELI

Italia centrale, marzo 1952.

I trentadue bambini erano stati riuniti nella sala dell'educazione. Era la sala del convento che tutti, senza eccezioni, temevano come l'inferno. Quella che preannunciava dolori e sofferenze a non finire. Dai lunghi finestroni situati in alto filtrava una luce povera che giungeva dabbasso già morta. Le candele che costeggiavano i muri, accanto alle armature medievali, rendevano la scarsa luce naturale ancora più tetra. I bambini erano stati posizionati in cerchio lungo le pareti.

Al centro della stanza suor Fulgida si inginocchiò e giunse le mani in preghiera.

Abbassò la testa e pronunciò sottovoce alcune frasi. Poi puntò di colpo i suoi occhi acquosi e severi su uno dei bambini. Lui esitò qualche istante, supplicando con il suo sguardo una pietà che già sapeva non sarebbe arrivata, ma in risposta alla sua supplica scorse il viso della suora farsi duro come la pietra. Era un viso lungo e pallido, con due guance scavate e una pelle vizza, sul quale svettavano un naso simile alla pinna di uno squalo e una bocca sottile che ricordava quella di un serpe.

Il bambino si fece coraggio e venne avanti fino ad affiancare il cavallo a dondolo che stava di fronte alla madre superiora. Appoggiò le sue piccole dita sulla groppa del dondolo e saggiò la durezza spietata dei chiodi che fuoriuscivano dalla sella.

Acuminati, arrotati a dovere e studiati per infliggere il massimo dolore al minimo movimento.

Il silenzio nella stanza era assoluto, neppure il sibilo di un respiro. Solo, di quando in quando, lo scricchiolio improvviso del vecchio legno del cavallo che basculava, un suono che significava le pene dell'inferno per chi doveva subire l'educazione.

La suora annuì solennemente. Il bambino chiuse gli occhi e montò sul cavallo. Emise subito un rantolo disperato ma la suora lo zittì con uno sguardo fulminante.

«Ora vai» gli disse sottovoce «e non fermarti finché non ti sarà ordinato».

Spinse sulla schiena del bambino e il cavallo prese a dondolare. Il dolore si fece sentire subito. Eruppe come un fiume in piena attraverso gli occhi spiritati del bambino e sul suo viso deformato da quella sofferenza inaudita. I chiodi, con le loro punte ricurve e taglienti, entravano spietati nelle sue carni. Laceravano, dilaniavano,

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squarciavano le sue natiche e le sue cosce e il male prendeva via rapido per tutto il suo corpo, toccando gli angoli più remoti, fino ai piedi e al cervello Poi tornava indietro, attraversando di nuovo le gambe e la schiena, rientrava sulle natiche e là si moltiplicava sotto l'onda di un nuovo dondolio, e ripartiva più forte e crudele di prima, fino a lasciarlo senza respiro, privo persino della forza per tenere in mano le briglie.

«Se ti fermi adesso dovrai ricominciare e farlo tre volte» sibilò la suora senza nascondere il suo godimento intenso.

Poi si voltò verso gli altri bambini, le mani scheletriche posate sul grembo e una freddezza polare che la circondava come una cappa:

«Dimenticare una preghiera è uno dei peccati più gravi che si possa immaginare. E' come dichiarare a Dio di averlo dimenticato, di non pensare a Lui durante la nostra giornata. Giovanni ha dimenticato e adesso noi lo rieduchiamo affinché questo non accada più».

I bambini osservavano la scena nascondendo a fatica il loro sgomento. Capitava sempre più spesso di venire riuniti in quella stanza e di assistere a rieducazioni come quella. Ne uscivano terrorizzati, invasi da una fobia cruda che circolava per settimane tra i loro corpi e paralizzava ogni possibile velleità di reazione. E suor Fulgida non educava solo con il cavallino. A volte ricorreva anche a un infernale strumento a vite che stringeva sui pollici fino a schiantarli e faceva esplodere il cranio dal dolore. Altre volte chiudeva le braccia del peccatore nella gogna e lavorava sulla sua schiena con il gatto a nove code. Bastava un niente per ritrovarsi sotto i suoi strumenti. Bastava scordare una parola del Vangelo, abbandonarsi distrattamente a un sorriso, ritardare di trenta secondi alle lezioni. E anche chi teneva una condotta irreprensibile doveva periodicamente assoggettarsi a quella pratica. Perché, sentenziava suor Fulgida, «il dolore fisico rafforza la devozione e l'amore per Dio e aiuta a mantenere la retta via».

I più fortunati, quelli che riuscivano a non sgarrare, se la cavavano con una educazione ogni tanto.

«Ancora due minuti» ordinò impassibile sentendo su di sé lo sguardo supplicante del bambino. Il cavallo cigolava sinistro e il rumore rimbalzava tra i muri e tra i presenti portando tra loro un po' dell'atroce dolore che stava dilaniando le carni del piccolo Giovanni.

In un modo o nell'altro i due minuti passarono. Quando la superiora gli ordinò di

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smettere, il bambino piangeva copiosamente ma in silenzio. Scese lentamente dal dondolo facendosi sfuggire un gemito di dolore. Le sue natiche erano rosso fuoco, la carne viva riluceva attraversata da rivoli di sangue che scendevano fino alle sue caviglie. Ma non poteva permettersi di svenire. Restò immobile, col mondo che gli girava intorno e il dolore che gli toglieva il respiro. Quello era il momento più importante della lezione, riservato alla meditazione sulle conseguenze dei propri peccati. Svenire voleva dire sottrarsi alla meditazione e vedersi raddoppiare le pene.

«Ognuno nella sua camera» ordinò finalmente la superiora. In pochi istanti la sala si svuotò senza il minimo rumore. Suor Maddalena entrò proprio un attimo dopo.

Teneva tra le mani una busta e aveva un'espressione nervosa.

«È del Ministero»sussurrò porgendola a suor Fulgida. La superiora l'aprì e la lesse con attenzione. Poche ma importantissime righe. Il suo viso si caricò di rabbia , i suoi occhi si strinsero fino a diventare due fessure che sparavano odio.

«È per la prossima settimana. E il dottor Alberghi è andato in pensione. Ci sarà un ispettore nuovo» disse pronunciando le ultime parole con un palese disprezzo per un uomo che ancora neppure conosceva.

Quello era un giorno che al convento aspettavano con ansia da qualche mese.

L'ispezione biennale del ministero, fino a quel momento, non era mai stata un problema. Ma forse adesso le cose stavano per cambiare.

«Forse... forse sarà comprensivo come il dottor Alberghi. Lui in questi anni ci ha sempre capito...» azzardò suor Maddalena.

«Forse. Ma forse no. I tempi cambiano, cara mia. I cristiani integri e devoti come il dottor Alberghi sono sempre più rari. Le nuove generazioni non accettano la disciplina e il sacrificio come invece abbiamo fatto noi. E allevare orfani che hanno visto le peggiori nefandezze, crescerli con i giusti valori della fede e della devozione, trasformarli in fedeli servitori di Dio... non è davvero un compito facile. Senza rigore, senza una disciplina severa e assoluta, l'uomo cresce simile alle bestie. E appena finita la guerra, in questo paese ha cominciato a soffiare un vento nuovo, cara suor Maddalena. Un vento che incoraggia il lassismo, la corruzione dei costumi.

Spensieratezza, leggerezza. Ballare, scherzare sguaiatamente, perfino baciarsi in pubblico sono diventati i comportamenti dei quali ormai non si scandalizza più nessuno. E questo ispettore potrebbe appartenere a questa nuova razza così vicina alla bestia che noi combattiamo ogni giorno».

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«Dio non voglia che sia così» sussurrò suor Maddalena abbassando la testa e cominciando a pregare.

«Dio è dalla nostra parte. L'Onnipotente non abbandona mai chi gli è davvero devoto. E tuttavia...»

Suor Maddalena alzò la testa e si preparò. Era il momento degli ordini, non c'era bisogno che qualcuno glielo ricordasse. Sapeva bene che le invocazioni al Padreterno, per funzionare davvero, andavano aiutate con una concreta e robusta attività terrena.

«... e tuttavia sarà bene prepararci a ogni eventualità. Non possiamo permettere che anni di lavoro vengano distrutti da un burocrate che risponde del suo operato a un ministero anziché a Dio».

«Dunque ci prepariamo... al peggio?» Chiese suor Maddalena con voce incerta.

«Esatto» rispose impassibile suor Fulgida «dopodiché sarà quel che Dio vorrà».

* * *

«Piano... fate piano...» supplicò Giovanni agli amici che lo aiutavano a sdraiarsi sul letto. Suo fratello Enrico, tre anni più grande di lui, si avvicinò alle sue natiche per osservare meglio quelle atroci ferite. Se ne pentì immediatamente. La carne viva rilasciava un odoraccio nauseabondo e penetrante che lo fece quasi vomitare. Si alzò e si voltò rapido verso la finestra per cancellare quella visione.

«Brucia... brucia peggio del fuoco...»

«Dai, resisti. Paolo è andato a prendere un po' di camomilla. Tra un po' arriva e ti facciamo l'impacco».

«Mamma mia, come l'hanno conciato» osservò Marco con le lacrime agli occhi

«chissà domattina a scuola che problema...»

«Qui ormai è sempre un problema» sentenziò Enrico. Con i suoi quattordici anni era il più grande dei quattro. Quello che, accanto al terrore, cominciava a percepire fitte di rabbia cupa farsi largo nel suo cervello. Non ancora al punto di azzardare una reazione, però. Al solo pensiero di ribellarsi, anche semplicemente a parole, il terrore tornava a sommergerlo come un'onda inarrestabile. Però vedere suo fratello in quelle condizioni era davvero dura.

La porta della stanza si aprì di colpo e Paolo entrò rapido e silenzioso. Portava una cassetta di legno piena di piante di camomilla. Senza che aprisse bocca, gli altri gli si fecero intorno e afferrarono un mazzo per uno, poi cominciarono a lavorare sull'erba.

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«Io non ne posso più» disse Enrico mentre grattava rabbiosamente i capolini delle piante e li faceva cadere su un panno.

«È meglio che non ti fai sentire» gli rispose Marco. «quelle si mettono dietro la porta e ascoltano tutto. E meno male che non hanno beccato Paolo nel corridoio, sennò oggi toccava anche a lui...»

«Però ha ragione» intervenne Paolo «piano piano queste ci ammazzano. Stanno sempre a parlare di Dio che è buonissimo, ma loro secondo me non sono buone per niente».

«Resisti, Gio', abbiamo quasi finito».

Il bambino stringeva tra i denti la federa del cuscino e cercava di tenere a bada i singhiozzi del pianto.

«Se c'era qui mio papà, glielo faceva vedere lui, a quelle...» disse Marco con una voce che era poco più di un sussurro.

«Se c'era tuo papà, tu non eri qua dentro» gli rispose Enrico chiudendo la questione.

«Tanto moriremo comunque» disse rassegnato Paolo «quando siamo più grandi ci ammazzano tutti. Non lo sai? »

«Ma che ci ammazzano!» gli rispose Marco senza troppa convinzione «cioè... ma che dici...»

«Giuseppe ha detto che prima che arrivi a vent'anni ti ammazzano, perché sennò te ne puoi andare dove ti pare e raccontare tutto. Allora ti portano giù, dove tengono la ruota, e ti ammazzano».

«Ma che ruota!» riprese Marco sempre meno convinto «ma se neanche esiste, la ruota...»

«Esiste, esiste» gli rispose Paolo «sta nelle stanze basse. Quelle dove noi non possiamo andare».

«E tu l'hai vista?»

«No. Però Giuseppe dice che sta laggiù. Negli stanzoni bassi del castello dove vanno solo le suore».

«Giuseppe, Giuseppe! Ma lui che ne sa?»

«Perché lui qua dentro c'aveva suo fratello Franco che un giorno l'hanno ammazzato.

Lui aveva solo sei anni quando l'hanno portato via. Quel giorno ha sentito per tutta la giornata le sue grida nel castello. Nessuno le ha riconosciute, ma lui sì. Dice che gli hanno fatto la ruota. E infatti non l'ha più visto».

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«Io non ci credo» gli rispose Marco. Ma quelle parole gli avevano seccato la gola «No, non ci credo. Non è possibile».

I lamenti di Giovanni si erano fatti strazianti. Raccolsero in un coccio i capolini e li amalgamarono con un po' d'acqua per formare una poltiglia.

«Faccio io» disse Enrico afferrando il coccio. Si avvicinò a suo fratello.

«Eccomi, Gio'. Ora te lo metto. Tra poco ti passa tutto».

In realtà il dolore sarebbe diminuito ben poco, lo sapevano bene entrambi. Ma in quel momento anche poco era un gran passo avanti.

Cominciò ad applicare con delicatezza l'impasto sulla carne mentre Giovanni reagiva al contatto senza riuscire a controllare gli spasmi. E mentre Enrico assisteva a quello spettacolo, pensò ancora una volta che non poteva lasciare che le cose continuassero così. La disperazione e la rabbia gli gridavano di inventarsi qualcosa. Ma era un grido che gli giungeva ancora troppo flebile. Il muro della paura era massiccio e altissimo.

Scavalcarlo era un'impresa troppo grande per lui.

Giovanni riprese a piangere. Si morse le mani, quasi impazzito per quel male feroce che gli sconvolgeva i pensieri.

«Portami via, Enrico. Ti supplico, portami via da qui. Se restiamo qua dentro, io muoio. Ti prego, Chicco. Portami via...»

Vederlo gemere e supplicare in quel modo era uno strazio. Una sofferenza che faceva forse addirittura più male del dondolo.

Fece un gran respiro e si impose a forza di non piangere. Lui era il più grande, se cominciava a piangere lui era davvero finita.

«Te lo prometto, Gio'. Ti porto via da 'sto posto maledetto. Te lo giuro su mamma e papà. Te lo giuro, che appena stai bene noi ce ne scappiamo via».

* * *

«Sia lodato Gesù Cristo» disse l'uomo abbozzando un timido sorriso. I suoi occhi chiari vagavano attorno curiosi e rapidi, arrampicandosi lungo le mura esterne del castello senza un attimo di pausa. Erano occhi intelligenti e accesi, di un azzurro intenso e decisamente peccaminoso. Pareva un attore del cinema, con quei lineamenti dolci e quella pelle olivastra. I capelli erano decisamente troppo lunghi e tirati indietro da una brillantina che lasciava un profumo penetrante e fastidioso. Era uscito dalla sua auto nera come un malavitoso, chiuso in un cappotto lungo che gli

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scendeva fino alle caviglie, e si era lentamente avviato verso il convento osservando con eccessiva attenzione i dintorni. Poi si era fermato davanti al portale d'ingresso togliendosi il cappello. Suor Fulgida aveva colto un alone di ironia nel suo saluto. E una sfumatura di arroganza che l'uomo era forse riuscito a nascondere agli altri ma non certo a lei. Il suo intuito le gridava che quello era un uomo pericoloso. Ma era troppo presto per scoprire le carte. Chiese al suo Dio di darle la forza necessaria a respingere l'attacco del nemico e si mise in attesa. Conosceva perfettamente il funzionamento di quella procedura: prima le schermaglie di rito, nascoste dietro le chiacchiere apparentemente innocue, poi i tentativi di affondo, sempre più aperti e sfacciati. Da quel momento avrebbe dovuto fargli trovare un muro solido e invalicabile.

«Sempre sia lodato».

«Sono l'ispettore Matteo Filippi. Spero che il ministero vi abbia avvertito del mio arrivo. Sa, i nostri uffici spesso restano un po' indietro...»

«L'hanno fatto, stia tranquillo. E vi siamo grate per questo. Così abbiamo potuto organizzare al meglio la nostra ospitalità».

«Immagino...» rispose lui. L'ironia era sempre meno velata. Suor Fulgida si trovò improvvisamente a pensare che quello, quello sì era un soggetto che aveva bisogno di una bella rieducazione. Uno che Dio lo aveva smarrito troppo presto, se mai lo aveva incontrato.

«Da dove vuole cominciare, ispettore?»

«Le confesso che vorrei concludere piuttosto rapidamente. Le relazioni del mio predecessore, il dottor Alberghi, sono decisamente lusinghiere. Sarà sufficiente confermare quanto ha scritto lui. Se per lei va bene, sorella».

«Naturalmente. Venga, la accompagno».

Cominciarono con le camere dei bambini. Erano appena state pulite e sistemate. Le lenzuola e la biancheria macchiate di sangue erano state prontamente rimosse. I bagni e i pavimenti erano immacolati, le divise di ricambio perfettamente stirate e pronte all'uso.

«Però. Davvero notevole» disse l'ispettore lasciandosi scappare una smorfia di ammirazione.

«Troppo gentile, ispettore. Venga, la accompagno al refettorio».

Filippi ispezionò la cucina e la grande sala riservata ai pasti. L'ordine e la pulizia

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regnavano sovrane. Non c'era un oggetto fuori posto. Tutto ordinato e tirato a lucido come fosse il giorno di apertura.

Si sentì un pelo inquieto. Quello era l'orfanotrofio perfetto, come lo aveva sempre idealizzato e immaginato. Lontano anni luce dei modelli operosi ma zeppi di difetti che aveva ispezionato fino a quel momento.

«La biblioteca» gli annunciò la superiora introducendolo in una stanza enorme, circondata da scaffali stipati di volumi. I tavoli erano spaziosi e comodi. Una suora ne stava spolverando uno e si interruppe per salutare l'ispettore.

«Non c'è che dire, il dottor Alberghi aveva ragione. State davvero operando bene, sorella».

«Facciamo del nostro meglio. Ma agli occhi di Dio non sarà mai abbastanza».

«Se proprio devo fare un'osservazione... direi che l'ambiente, per quanto impeccabile, sembra un po' troppo... come dire... sobrio, ecco. E' un po' carente sul lato della fantasia, diciamo. In fondo stiamo parlando di bambini».

Il viso della superiora si rabbuiò di colpo. Percepì un nodo di collera furente salire dal suo stomaco e si sforzò di tenerlo a bada. Quello era il primo affondo, tirato sapientemente dopo una serie di moine e di complimenti finalizzati ad ammorbidirla.

Si impose di rintuzzarlo senza perdere le staffe.

«Il nostro è un orfanotrofio, ispettore. Il nostro primo obiettivo è quello di riunire questi bambini ai propri genitori. Ma poiché questo accade sempre più raramente, allora dobbiamo occuparci della loro educazione. Formare buoni cittadini, dotati di senso civico e di una cultura soddisfacente. Senza naturalmente tralasciare la fede.

L'aspetto ludico è l'ultimo dei nostri pensieri, ispettore. In fondo non sono tempi tanto allegri questi, non trova?»

«Be', certamente no. Comunque... va bè, lasciamo stare. La mia era solo un'osservazione oltremodo pignola. In fondo potrebbe aver ragione lei. Bene:

possiamo vedere i bambini?»

«La accompagno all'aula. Stanno facendo lezione».

Attraversarono un paio di corridoi lunghi e bui, decorati di crocifissi, ritratti di santi e di pergamene incorniciate che riportavano preghiere e passi dei Vangeli.

La porta dell'aula era enorme, di un legno pesante e scuro che ricordava più le porte di un carcere che quelle di una scuola. Suor Fulgida battè un paio di volte il batacchio sulla piccola incudine, poi aprì. I bambini si alzarono all'unisono salutando

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l'ispettore con un "buongiorno" mentre lui entrava e accennava un inchino nei confronti dell'insegnante.

«Lei è suor Anna» gli disse la superiora «sta insegnando latino».

L'ispettore passò i suoi occhi su quelli dei bambini. Intercettò sguardi rispettosi e timorosi, gli occhi di chi soffriva in silenzio una situazione ingiusta e immeritata, in attesa di una rivincita che forse la vita non avrebbe mai offerto loro. Occhi rassegnati e stanchi come neppure un vecchio a un passo dalla morte avrebbe potuto esibire.

Solo un bambino tra loro, uno dei più grandi, presentava una determinazione fuori dal comune. Il suo sguardo era intenso e disperato. L'ispettore gli sorrise cercando di tranquillizzarlo, ma Enrico non mutò espressione, anzi. Era sul punto di gridare, di chiedere aiuto a quell'uomo mandato dalla provvidenza, di confessare tutto quell'orrore che lui e i suoi amici avevano subito per anni, ma qualcosa, una forza strana e indefinibile, lo teneva paralizzato. Agganciò i suoi occhi ansiosi a quelli dell'uomo, cercando di non spostarli da lì, perché c'era il terribile rischio di incontrare lo sguardo glaciale di suor Fulgida e farsela addosso davanti a tutti. I crampi allo stomaco lo stavano divorando.

Adesso grido, pensò. Adesso grido e poi gli racconto tutto. Dai Enrico, basta un urlo e questo inferno finisce per sempre.

Ma la voce non voleva uscire. La pancia era un groviglio pesante cattivo, le gambe e le braccia erano molli, solo i suoi occhi urlavano con tutta la loro forza quella disperata richiesta di aiuto. Ma non bastava, non poteva bastare. L'uomo rimase attaccato al suo sguardo per qualche istante, poi gli regalò un timido sorriso e riportò i suoi occhi altrove.

«Vi lasciamo lavorare, adesso» disse suor Fulgida ammazzando di colpo ogni speranza.

«Giusto» confermò lui. Salutò suor Anna e i bambini.

«Arrivederci» risposero loro in coro.

No! Aspetta! Non te ne andare!

Sentì il suo cervello urlare quelle parole, le sentì rimbombare nella sua testa nitide e potenti, ma la sua bocca non lo seguì.

Salvaci! Salvaci! Non te ne andare!

Un attimo dopo la porta si chiuse tranciando ogni barlume di speranza. Enrico si sedette, in preda a un tremore da malaria che non riusciva a controllare.

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«Oh, ma che c'hai?» gli chiese sottovoce Marco, che gli stava accanto. Enrico non rispose. Doveva entrare in contatto con quell'uomo. Forse gli rimaneva qualche minuto appena. Poi, prima di un'altra occasione come quella, sarebbero passati anni.

E il piccolo Giovanni non avrebbe mai retto tutto quel tempo.

«Suor Anna» disse alzandosi di nuovo «potrei andare in bagno?»

* * *

«E...al piano di sotto?»

«Magazzini. Ci teniamo le nostre scorte alimentari e gli attrezzi per lavorare la terra.

Abbiamo anche qualche bestia, ma non molte. Anni fa avevamo un bell'allevamento, ma ora siamo rimaste in otto. Non ce la facciamo più. Purtroppo i giovani di oggi non sentono la vocazione come una volta...»

«Già, immagino sia un bel problema per voi...»

«Certo che lo è, ma non ci abbattiamo per questo. Dio saprà provvedere a noi. La nostra è unafede solida e profonda che... voialtri non potete comprendere».

«Ovviamente. Comunque, un'occhiata veloce e poi abbiamo finito».

La superiora non rispose. Si diresse verso le stanze basse tirandosi dietro l'ispettore come fosse un cagnolino.

«Non ho la chiave di tutte le porte, ispettore, solo di alcune. Se vuol vedere le altre dovrò tornare su a prenderle...»

«No, no. Sarà sufficiente un'occhiata veloce».

«Bene. Allora... ecco: questo è il magazzino principale».

Appena si aprì la porta, un odoraccio rivoltante si infilò tra le sue narici e lo travagliò fino a fargli girare la testa. Era un posto umido, silenzioso eppure pieno di suoni minacciosi e sconosciuti. L'aria era rancida, ammuffita. Ma era soprattutto il clima che vi si respirava a lasciarlo confuso. Un'atmosfera cupa e malata stagnava nell'aria come pulviscolo in sospensione. Una specie di tomba corale, le viscere segrete di un castello che si portava dietro secoli di storia. Stanze che certamente non avevano sempre fatto da magazzini.

«Adesso accendo una fiaccola. Altrimenti non vede nulla... »

«No, no. Possiamo andare» disse l'uomo quasi supplicando. La superiora chiuse prontamente la porta e lo guidò verso l'uscita. Ogni passo che lo avvicinava verso la

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luce del mondo esterno era un passo benedetto. Appena fuori, si rese conto di aver rasentato un vero e proprio attacco di panico. Sorrise delle sue paure quasi infantili.

Si era fatto suggestionare al punto da credere di aver udito l'urlo di centinaia di anime che lo pregavano e supplicavano il suo aiuto.

«I... i bambini non vanno là sotto sotto, giusto?»

«Assolutamente no. Neanche i più grandi».

«Bene. Perché non è davvero posto per bambini, quello. E io credo di aver terminato, sorella. Vi ringrazio per l'ospitalità e vi faccio i miei migliori complimenti».

«Lei è troppo buono, ispettore».

«Non ne ho trovati molti di orfanotrofi messi così bene, sa? La guerra ha davvero lasciato il segno».

«Ma l'Onnipotente ci ha indicato la strada per uscirne. E ci ha dato la forza per ricominciare».

«E voi lo state facendo nel migliore dei modi. Arrivederci, sorella».

«Per noi è stato un piacere, dottor Filippi».

Abbozzò un sorriso sghembo ma ne uscì fuori una smorfia di livore che le socchiuse gli occhi. L'uomo si allontanò dal castello continuando a osservare i dintorni. Una volta in auto scrisse alcuni appunti sul suo quaderno poi, mentre stava per mettere in moto, colse un'ombra dietro al suo finestrino. Lanciò un urlo di paura prima di accorgersi che era solo un bambino, quello dallo sguardo inquieto. Sembrava anche un po' ritardato, con quegli occhioni grandi e spalancati che gli teneva attaccati come due chiodi e quella bocca tremolante. Aveva appoggiato i palmi al finestrino dell'auto e spingeva in basso.

Filippi abbassò il vetro ma era già troppo tardi. Suor Fulgida era ormai a qualche metro da loro.

«Enrico. Si può sapere perché disturbi l'ispettore? E perché non sei a lezione con i tuoi compagni?»

«Non mi sta disturbando, sorella. È solo che...»

«In ogni caso non dovrebbe stare qui. È l'ora di latino, figliolo. Il tuo posto è in classe».

Il ragazzo taceva e teneva i suoi occhi spalancati addosso all'ispettore.

«Ma... parla?»

«Certo che parla. Solo che non ha niente da dire. Se non da giustificarsi per questa

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bravata. No, Enrico? Non è così?»

Enrico slacciò lentamente il primo bottone della sua divisa tenendo la mano fuori dallo sguardo della superiora. La giacchetta si aprì a "v" sotto il suo mento. Dietro il tessuto, un paio di solchi di un rosso acceso attraversavano il suo petto. L'ispettore fece appena in tempo a posarvi gli occhi senza riuscire a mettere bene a fuoco quell'immagine. Un attimo dopo suor Fulgida appoggiò una mano sulla spalla del ragazzo e lo spinse via.

«Torniamo in classe, adesso. Mi ha davvero stupito questa tua uscita, Enrico. Sei tra i ragazzi più grandi, dovresti dare il buon esempio. E invece...»

Filippi li guardò allontanarsi rapidamente, ancora spiazzato da quel comportamento.

Si sentiva confuso, come se gli fosse sfuggito qualcosa.

Cosa aveva visto? Due occhi disperati, d'accordo. E poi?

«E poi... e poi un ragazzino nervoso. Un ragazzino che... che forse cerca ancora suo padre...»

Può darsi. E poi? Cosa hai visto davvero?

Scosse la testa, quasi per ribellarsi a un pensiero assurdo che aveva attraversato il suo cervello come una folgore.

«Era solo tanta disperazione» si rispose accendendo l'auto «ma io non sono qua per guarire i disperati. Nossignore».

L'auto imboccò la strada sterrata che scendeva verso la piana e lentamente sparì. Il mondo esterno avrebbe ripreso la sua vita senza più interessarsi alle vicende del convento.

* * *

Era l'unica rieducazione che non si svolgeva nella sala. I bambini erano stati trascinati di primo mattino nel retro del castello, dove stavano i lavatoi. Una delle vasche era piena fino all'orlo. L'inverno da quelle parti era ancora vivo e l'acqua era a un passo dal congelare.

«Dentro» ordinò suor Fulgida.

Stavolta no, pensò Enrico. Stavolta mi ribello davvero.

Restò immobile, le braccia conserte e gli occhi piantati a terra. Tra i bambini si levò un brusio di sorpresa e di preoccupazione che somigliava al lontanissimo rombo di un tuono.

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«Silenzio!»latrò la superiora. Poi si rivolse al ragazzo: «Ogni volta che mi costringi a ripeterlo, sono due minuti in più. E dopo qualche minuto là dentro, si muore. Questo lo sai, vero? Ci hai pensato bene?»

Nonostante l'ordine della suora, il brusio riprese quasi subito. Enrico si voltò per osservare i suoi amici. Li guardò uno per uno e gli prese lo sconforto. Erano solo bambini, sui loro volti era stampato il terrore di chi non avrebbe mai trovato la forza per ribellarsi. Temevano per lui, ma temevano soprattutto per se stessi. Non sarebbero mai andati al di là di un brusio di solidarietà. Era solo.

Fece un sospiro colmo di rassegnazione e si avviò verso la vasca. Addosso aveva solo le mutande e le cicatrici di una battaglia combattuta qualche settimana prima contro il gatto a nove code di suor Fulgida e persa senza troppi complimenti. Contro di lei non si vinceva mai.

Non morire. Non puoi morire. Lasceresti Giovanni qui da solo. Tu hai il dovere di restare vivo, capito?

Appoggiò le mani sul bordo in pietra della vasca. Il freddo gli si propagò fino ai testicoli e lo fece rabbrividire. Pareva un pozzo senza fondo, nero come la notte, pronto a risucchiarlo giù e a congelarlo fino a paralizzargli il cuore.

Lo hai già fatto e non sei morto. Ed eri più piccolo, no? Resisterai anche stavolta.

Si arrampicò a sedere sul bordo e infilò in acqua le gambe. I ricordi di quella volta si fecero subito chiari. Il dolore, la testa che stringeva come pressata da una tenaglia, il cuore che picchiava forte, come ingigantito eppure al tempo stesso rallentato, sempre più affannato, come una vecchia carretta che sputa gli ultimi colpi; il respiro che si faceva sottile, come se qualcosa gli stringesse forte sul torace; gli arti che non rispondevano più ai suoi comandi e si staccavano dal suo corpo, galleggiando in acqua come pezzi di un cadavere mutilato; la sofferenza che a poco a poco cedeva il passo al torpore, i sensi che si affievolivano e la morte che si apriva la strada e veniva a prenderselo. In quel momento lo avevano bruscamente tirato su e gli avevano avvolto una coperta addosso. Ricordava, anche allora, le parole di suor Fulgida secche come frustate, che lo esortavano a tenere una condotta degna del convento nel quale era stato così amorevolmente ospitato e a fare tesoro di quella lezione.

* * *

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Il titolare della locanda staccò un foglio dal suo blocchetto delle ricevute e lo consegnò all'ispettore.

«Grazie, signor Filippi. Torni a trovarci quando passa da queste parti».

«Arrivederci» rispose brusco l'uomo infilando le ricevute tra le spese da consegnare al ministero. Mentre si avviava verso l'uscita ebbe un giramento di testa e dovette fermarsi un attimo. Era stata una notte agitata e piena di sogni orribili. Ricordava solo tanto sangue e grida disumane. Si era addormentato tardi, aveva dormito poco e male. E da quando si era risvegliato quel pensieraccio aveva ripreso a tormentarlo come un fastidioso e incessante sgocciolio d'acqua sulla testa.

Se vuoi far finta di niente, allora è un altro discorso...

«Non voglio far finta di niente».

Non vuoi, però è proprio quello che stai facendo...

Appoggiò la valigia nel bagagliaio e si sedette in auto. Si voltò verso il finestrino e per un istante gli sembrò di rivedere quel ragazzino magro e spaventato che gli stava davanti. Rivide la giacchetta che si apriva e...

Quelli erano tagli. Erano TAGLI. E quella era una richiesta di aiuto, caro il mio ispettore. Muta, eppure urlata a squarciagola.

Mise in moto l'auto ed entrò lentamente in carreggiata. La strada tagliava in due una macchia grigia e morta che usciva da un inverno duro e ancora insidioso. Il manto era fangoso e a tratti pericolosamente ghiacciato. Quel pensiero non voleva mollare la presa. Era scomodo e doloroso come un coccio di vetro sotto un piede.

Due ore e avrebbe finalmente rivisto la sua famiglia dopo una lunga settimana in giro per la penisola. Solo due ore, poi due giorni di meritato riposo.

Meritato? La pensi davvero così?

«Ma con i bambini è dura, accidenti! A volte servono... servono punizioni esemplari, per Dio! E d'altra parte... non è mica detto che...»

Ma il suo cuore aveva già deciso altrimenti. A pochi metri la strada si apriva sulla destra in una larga piazzola. L'auto vi entrò decisa, fece un ampio giro e invertì la marcia. Rientrò in strada senza neppure guardarsi alle spalle.

Filippi scosse la testa rassegnato ma al tempo stesso sollevato. In cuor suo aveva sempre saputo di non poter riabbracciare la sua famiglia senza prima essersi tolto dal piede quel maledetto coccio di vetro.

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* * *

Le parole di suor Fulgida cominciavano a farsi ovattate, quasi incomprensibili. Erano invocazioni in latino che assomigliavano a un esorcismo. Enrico aveva più o meno afferrato le prime frasi, nelle quali la superiora chiedeva a Dio di intervenire su uno spirito invaso dal demonio e irrimediabilmente avviato verso la perdizione. Poi il dolore aveva preso il sopravvento e gli aveva abbuiato tutti i sensi.

Non ti addormentare, si era gridato. Ma l'acqua era più forte. Se l'era preso alla svelta, come un narcotico potente e inarrestabile, lo aveva avvolto tra le sue spire e in un attimo ogni cosa era scomparsa.

Non ti addorm...

Neppure aveva terminato il pensiero. Aveva solo sentito il suo collo cedere e la testa sprofondare di schianto dentro l'acqua. Allora chiudere gli occhi gli era sembrata la soluzione migliore. Smettere finalmente di combattere senza vincere mai e rifugiarsi invece dentro quella grotta buia che lo invitava con una voce calda e tranquillizzante.

Un posto dove il freddo spariva d'incanto, dove non c'era né dolore né paura.

E così sia, era stato il suo ultimo pensiero.

E allora l'acqua era entrata ovunque. Nel naso, nella bocca. Perfino nei suoi pensieri non riusciva a vedere altro che acqua. Poi era arrivato il buio, e con esso un silenzio spesso e totale come non aveva mai provato nella sua brevissima vita.

* * *

Ciò che stava per fare non aveva davvero precedenti e lo preoccupava da morire. Un supplemento di indagine deciso senza consultare i suoi superiori e senza un elemento che la giustificasse in qualche modo. Era una pazzia bella e buona, nonchè un utilizzo abusivo delle risorse del ministero. E tutto questo nei confronti di uno degli orfanotrofi più prestigiosi della nazione. Eppure il piede spingeva sull'acceleratore dell'auto senza rallentare, neanche in prossimità delle curve più pericolose. Significava mettersi contro le procedure previste dal ministero, contro le relazioni del suo predecessore, contro gli ordini ricevuti dai suoi superiori. E naturalmente contro suor Fulgida. La superiora non l'avrebbe presa troppo bene, questo era sicuro.

Ma lui aveva bisogno di vedere quel ragazzino e di parlarci. Aveva bisogno di

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spazzare via una volta per tutte quei terribili dubbi. Sapeva che, se non l'avesse fatto, quei sogni sanguinolenti sarebbero venuti a trovarlo tutte le notti.

Forse perché sai che sono dubbi fondati...

Strinse forte le mani sul volante per cercare di fermare quel tremore insidioso che aveva attaccato il suo corpo. Le ruote scivolarono su una curva e l'auto sbandò rischiando di finire fuori strada. Filippi si risvegliò di colpo da quel groviglio di pensieri che gli aveva intorpidito i riflessi e riprese rapidamente il controllo dell'auto.

Terminata la curva, la strada si allungava in un tranquillo rettilineo prima di cominciare una salita fatta di tornanti insidiosi e interminabili. Al termine di quei tornanti, più vicino al cielo che alla terra, si stagliava il convento. Mentre l'auto imboccava decisa il rettilineo, Filippi si rese conto che adesso stava osservando quella imponente costruzione con occhi molto diversi.

* * *

Freddo. Un freddo feroce e assoluto, che non lasciava libero neppure un centimetro del suo corpo. Un buio profondo che però si andava schiarendo a poco a poco. E una voce familiare che lo chiamava e lo supplicava di risvegliarsi. Tante mani che strofinavano con forza le sue gambe, le sue braccia, il suo petto. Il freddo che allentava un po' alla volta la sua morsa. Il buio che diventa chiarore e mostra ai suoi occhi un ovale sfocato eppure già così inconfondibile.

«Giò...»

Giovanni si aprì in un sorriso radioso, uno di quelli che avrebbero meritato una bella rieducazione.

«Ti sei svegliato! Sei tornato!» Esclamò gettandosi sul letto e abbracciando il fratello.

Enrico accusò la stretta quasi dolorosa del fratello, ma lo lasciò fare. Il calore del suo corpo era piacevole, e poi aveva anche lui voglia di abbracciarlo. C'era stato un momento in cui si era fermamente convinto che non sarebbe accaduto mai più.

«Che... che è successo?»

«Sei... quasi morto. Quando ti hanno tirato fuori, non parlavi e non ti muovevi.

Allora ti hanno chiuso dentro le coperte e hanno cominciato a riscaldarti. Poi ti hanno portato qui e ci hanno detto di continuare a farti questi massaggi, che prima o poi ti svegliavi».

Lo abbracciò di nuovo, con una stretta che gli fece male alle spalle ancora martoriate

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dalla frusta. Ma era un abbraccio talmente bello e pieno d'amore che il fratello decise ancora una volta di sopportare. Poi Giovanni alzò la testa e gli sorrise:

«Dicevano che stavolta non ti svegliavi, ma io lo sapevo che non era vero. Me l'avevi promesso».

* * *

«Si è svegliato» disse suor Maddalena entrando nella stanza. Suor Fulgida non rispose. Continuava a guardare fuori dalla finestra fin dove una nebbiolina spessa e calata all'improvviso avvolgeva la piana sotto la propria cappa. Si sentiva inquieta e sotto l'assedio del demonio. Quella bestia serpeggiava senza sosta tra le sue creature.

Le tentava, le accarezzava, le invitava continuamente al peccato. La sentiva aleggiare nell'aria, quasi alitarle addosso la sua puzza d'inferno. Si rifugiava nei corpi di quei poveri bambini costringendola a continui e pesanti castighi corporali per ricacciarla indietro. Era l'unico modo efficace lei che conoscesse per ripristinare la purezza di un essere umano. Ma il giorno dopo toccava a un altro, e poi a un altro ancora, in una spirale senza fine contro la quale non bisognava mai distrarsi.

«Bene» disse dopo un po'«tra venti minuti in refettorio per la colazione. Oggi studiamo Marco e Matteo».

Suor Maddalena uscì dalla stanza per riferire l'ordine alle altre. La superiora rimase alla finestra, i pensieri concentrati sul modo migliore di difendere la sua oasi di fede dai continui attacchi del male. E mentre si arrovellava su questi pensieri, la macchina nera di Filippi spuntò dalla nebbia, indubbiamente diretta verso il convento.

Suor Fulgida strinse i denti fino a farli scricchiolare mentre una rabbia furente scorreva tra le sue vene.

Ecco il perché di questa inquietudine, pensò.

La bestia era di nuovo in agguato.

* * *

Filippi scese dall'auto e si rivolse seccamente alla superiora, stavolta dritto al punto senza preamboli.

«Vorrei vedere quel ragazzino che ieri mi si è avvicinato».

«Potrei sapere perché, ispettore?»

«Ho bisogno di parlare con lui».

«Non vedo cosa potrebbe...»

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«Mi dispiace, sorella. Ho bisogno delle sue parole. E vorrei parlarci adesso».

«Il ragazzo è indisposto. Ha una brutta febbre».

«Ieri stava piuttosto bene. Un po' agitato ma in salute. Cosa gli è successo?»

«I ragazzi si ammalano, ispettore. Corrono, sudano, si agitano».

«Vorrei vederlo ugualmente».

«Come vuole. L'accompagno alla sua stanza. Mi segua».

Si voltò e si avviò bruscamente verso l'entrata del castello. Non parlò più, attenta solo a contenere una rabbia che minacciava di spaccarle il cervello. Si fermò davanti a una porta.

«Bene. Questa è la stanza del ragazzo. Io l'aspetto giù».

Filippi attese che la suora fosse lontana. Quando aprì la porta, neppure lui sapeva cosa sperare. Il ragazzo stava sotto le coperte, pallido e spaventato come un capriolo smarrito. Aveva ancora le labbra viola e venne improvvisamente colto da un brivido che lo fece tremare dalla testa ai piedi, ma subito dopo si rilassò in un sorriso caldo e colmo di gioia.

«Io lo sapevo che tornavi» disse all'ispettore «l'avevo promesso al mio fratellino».

Filippi si sedette sul bordo del letto. Non riusciva a staccare gli occhi da quel ragazzo.

«Cosa ti è successo?» gli chiese appena trovò la forza per farlo «me lo vuoi raccontare?»

Enrico sentì un groppo in gola che lo fece quasi soffocare.

«Io te lo racconto» gli rispose sottovoce «ma prima devi andare a guardare dietro la porta. E poi mi devi promettere che ci porti tutti via. Se me lo prometti, io ti racconto tutto quello che mi ricordo da quando sono qui».

* * *

Lungo il corridoio che conduceva alle stanze riservate all'amministrazione il suono secco dei passi rompeva un silenzio quasi innaturale.

«Arriva» sussurrò suor Maddalena, poi si dileguò attraverso un'uscita secondaria che portava nel ventre del castello. Qualche attimo dopo Filippi entrò nella stanza senza bussare. Aveva i capelli scomposti e due occhi carichi di rabbia che inchiodò su suor Fulgida senza il minimo rispetto. La superiora alzò le sopracciglia quasi in segno di domanda.

«Voglio vedere tutte le stanze. E subito».

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«È successo qualcosa, ispettore?»

«E me lo domanda anche! Quel bambino è stato... torturato!»

«È una parola piuttosto azzardata, ispettore. Anzi, direi...»

«Azzardata un corno! Quelle sono torture! E le cose che mi ha raccontato sono...

sono... oh Dio...»

«Lasci stare l'Onnipotente. Lei non è mai stato punito da bambino? Proprio mai?»

«Non ricorra a queste argomentazioni da quattro soldi! Voglio vedere le stanze. E sarà meglio che lei collabori appieno, perché le cose per voi si mettono piuttosto male!»

La superiora attese pazientemente che l'ira dell'ispettore decantasse, poi si alzò d'improvviso, aprì il cassetto del tavolo di fronte a lei ed estrasse un enorme mazzo di chiavi. «Come vuole. Avrà tutte le risposte che cerca. Andiamo».

«Quelle di sotto. Dove tenete i vostri... strumenti. Voglio vedere quelle».

«So benissimo cosa crede di voler vedere» rispose rassegnata suor Fulgida «ma la avverto che resterà deluso. Questo non è un...»

«Lo lasci decidere a me, cos'è. Lei mi porti là e basta».

«Lei ordina, io eseguo» rispose suor Fulgida piegando la bocca in un sorriso cattivo e deformato.

Scesero ai piani bassi senza dirsi una parola. La suora si fermò davanti a un portone in legno massiccio rinforzato da spranghe di ferro che ne costituivano lo scheletro. La chiave girò nella toppa almeno sei volte, poi il portone si aprì cigolando.

«Prima osservi con attenzione, poi le spiegherò tutto».

L'ispettore entrò con foga nella stanza fin dove si estendeva la luce che filtrava dalla porta. Da lì le forme delle cose potevano solo intuirsi, ma era più che sufficiente. Si respirava aria di inquisizione. O forse era tutta suggestione.

«Un paio di fiaccole» ordinò.

Un attimo dopo suor Fulgida gliene allungò una e ne posò un'altra su una maniglia di ferro cementata nel muro. La luce incerta e ondivaga delle fiamme diede vita a un museo degli orrori. L'ispettore rimase sbalordito da ciò che aveva davanti. La cura e la meticolosità dell'ingegno umano avevano raggiunto nella fabbricazione di quei pezzi un livello ineguagliabile. Si fermò ad ammirare una botte dall'interno chiodato, simile a quella della storia di Attilio Regolo. Accanto stava una gogna, e accanto ancora un cavallo a dondolo in legno con una sella ricoperta di chiodi ricurvi e

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acuminati. Si piegò fino a portare i suoi occhi a pochi centimetri: il sangue sulle punte dei chiodi era secco ma certamente non vecchio di secoli. E poi ancora coltellacci, una sega lunga quasi due metri, strumenti per schiacciare, per allungare, per squartare. In un angolo, in una specie di posto d'onore riservato al pezzo più bello, una ruota gigantesca e nera come la notte si confondeva nel buio. A prima vista poteva sembrare la ruota di un mulino, ma Filippi aveva letto qualche volta delle terribili proprietà di quello strumento. Gli pareva addirittura che le grida di dolore venissero proprio da quell'angolo.

«Dio mio...» sussurrò «... allora è vero... è tutto vero! E io stavo per...»

Aveva voglia di vomitare. Alzò gli occhi e scorse attaccato al muro un frustino giallastro con una decina di code che parevano tentacoli di un polipo. Vi accostò la fiaccola e notò le striature rossastre e secche del sangue. Un rosso ancora vivo e recente.

«Voi siete pazze. Un branco di maledette pazze!» urlò voltandosi verso suor Fulgida

«questo è un maledetto campo di concentramento! E io vi faccio chiudere, dannate criminali! Io vi faccio...»

Solo allora si rese conto di essere solo. La fiaccola appoggiata sul braccio a muro non c'era più.

«Sorella?»

Dalla sua posizione la porta d'ingresso non era visibile. Tornò rapidamente indietro con movimenti scomposti, rischiando di spegnere la fiaccola. Quando arrivò al portale lo trovò chiuso.

«Sorella!»

Battè un paio di volte i palmi sul legno ma ne uscì un suono sordo e appena accennato.

«Non faccia scherzi stupidi, sorella! La situazione è già piuttosto pesante per voi!

Quando uscirò da qui...»

Un pensiero agghiacciante tranciò le sue parole.

E quando uscirai da qui?

Il morso della paura lo aggredì di colpo. Quello non aveva proprio l'aria di essere uno scherzo. Fece il giro della stanza costeggiando le pareti. Muro, niente altro che un muro compatto e chissà quanto spesso.

E quanto durerà la luce che hai in mano?

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Osservò la fiaccola e la paura gli addentò lo stomaco. Il legno bruciava rapidamente, accorciandosi veloce verso la sua mano.

E dopo? Cosa succede dopo?

Si voltò verso la ruota, richiamato dal fascino sinistro che quello strumento emanava.

Il versante oscuro della storia di quel castello sembrava racchiuso in quella stanza.

Quelle urla di dolore adesso non gli parevano più solo frutto della sua suggestione. Si avventò sulla porta e la prese a spallate ma dovette desistere quasi subito. La fiaccola ormai era poco più di un tizzone. La luce riempiva solo qualche metro attorno a lui. Il panico gli rapì i pensieri. Prese a guardarsi intorno in cerca di un'idea che lo salvasse, ma scorse soltanto strumenti di morte. Poi sentì il calore della fiamma sul polso.

La porta! Incendia la porta!

Corse verso l'entrata e appoggiò il moncherino sull'anta. Ma la fiamma ormai era debole, una lingua sottile e slavata che aveva già dato il meglio di sé.

Brucia, maledetta, brucia!

La porta non bruciò. Qualche istante più tardi la fiamma si spense del tutto.

Matteo Filippi fu travolto da un mare di grida che provenivano dall'angolo della stanza. E a quelle grida assordanti aggiunse le sue.

Finché ebbe fiato per farlo.

* * *

«Chicco, sbrigati! Tra dieci minuti la lezione comincia!»

Enrico non rispose all'esortazione del fratello. Rimase immobile, nudo con i palmi appoggiati sul vetro della finestra, a osservare l'esterno. Erano passati cinque giorni dall'incontro con l'ispettore. Quello era uscito dalla sua stanza e non si era più visto.

Quando aveva raccontato agli altri di averci parlato, nessuno gli aveva creduto. Ti sei immaginato tutto, gli avevano detto, forse eri ancora intontito dal bagno gelato.

Niente affatto. Ci aveva parlato almeno mezz'ora e gli aveva strappato una promessa solenne. E le promesse vanno sempre...

«Avete sentito stanotte?» chiese Paolo mentre si abbottonava la divisa.

«Sentito cosa?»

«Non lo so. Mi sembravano... grida...»

«Che grida?»

«Non lo so... c'era uno che gridava...»

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«Dove?» Chiese Enrico voltandosi di scatto.

«Io penso... mi sembra dalle stanze basse. Ma era lontano, si sentiva appena. Poi mi sono riaddormentato e non l'ho sentito più».

«E... com' erano? Le grida, intendo».

Paolo tacque un istante. Cercava le parole giuste ma non era facile.

«Erano... brutte. Si sentivano poco, però... mi sembrava che piangeva. Ma forse mi sono sognato tutto».

No che non hai sognato, pensò Enrico. Semmai sono io che ho sognato. Ho sognato un angelo che veniva a liberarci. Ma questo non è posto per angeli.

«Chicco, tra un po' comincia l'appello...» insistè Giovanni.

«Voi andate, io vengo subito».

«Sì, ma sbrigati, sennò...»

«Ho capito, ho capito. Voi andate, ci metto un minuto».

I tre uscirono rapidamente dalla stanza. Enrico cominciò a vestirsi alla svelta, lo sguardo rivolto verso la piana sconfinata che circondava il castello.

Saranno almeno dieci ore di luce. Puoi fare un sacco di strada in dieci ore.

Sentiva il cuore picchiare duro, ma per la prima volta non era paura: era eccitazione.

Il massimo che possono farti è punirti fino alla morte. Nulla di così grave. Ma non succederà: hai fatto una promessa.

Cercò di calmare il respiro, ma un attimo dopo riprese ad ansimare più di prima. Si allacciò bene le scarpe, si chiuse con cura la giacchetta. Di sicuro non avrebbero chiamato la polizia. L'avrebbero cercato da sole. E lui aveva fatto una promessa.

Se ce la faccio, li salvo tutti. Se non ce la faccio... almeno puniranno soltanto me.

Ma non mi prenderanno: ho fatto una promessa.

Uscì dalla stanza e si diresse deciso verso l'uscita. Il portone era già aperto e certamente nessuno si aspettava un colpo di testa così azzardato.

Vola, Chicco, vola. E mentre voli, pensa a tutti loro.

Si avventò giù per la discesa più determinato che mai. E mentre correva verso la libertà, o forse verso la morte, gli parve di sentire la voce di quell'ispettore che gli soffiava alle spalle e lo spingeva forte in avanti.

Vola, Chicco, vola.

Questo racconto è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il

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prodotto dell'immaginazione dell'autore e, se reali, sono utilizzati in modo assolutamente fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.

Proprietà e riproduzione riservate fabriziofondi.weebly.com

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