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INTRODUZIONE. L uomo, il prete, il musicista * * * * * di Gianfranco Nolli

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A NTONIO C ONCESA

Opera omnia

edizione a cura di Gianfranco Bacecchi, Pietro Nespoli e Marco Ruggeri Associazione “M. A. Ingegneri”

Nuova Editrice Cremonese CREMONA 2007-2009

* * * * *

INTRODUZIONE

L’uomo, il prete, il musicista

di Gianfranco Nolli

Non è certo mia intenzione dare un profilo esauriente di una personalità così multiforme (più che complessa) di mons. Antonio Concesa; si tratta piuttosto di rievocare episodi, situazioni, battute e sensazioni, da far riemergere dalla memoria. Nè posso dire che il periodo abbracciato da questo complesso sia molto lungo: si tratta infatti di undici anni di seminario, durante i quali egli fu successivamente mio professore di francese, poi di canto figurato e gregoriano e in fine di

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Sacra Liturgia in utti e quattro gli anni di teologia. Naturalmente sono da comprendere i molteplici ontatti avuti con lui come direttore della cappella musicale del seminario, della quale feci sempre parte, meno i due anni di transizione della voce. Inoltre la fortuna di essere stato per quattro anni “prefetto di canto” mi ha permesso di avere con il professore Concesa ( così lo chiamavamo tutti) dei contatti particolari, dovuti precisamente a questo incarico, oltre il quale devo aggiungere la fortuna di essere stato il suo “paroliere” (anche se allora non si usava questo termine), e come tale necessariamente in comunicazione, non sempre tranquilla, con lui.

Ma non posso dimenticare che per ben cinque anni ho avuto la fortuna di condividere con lui la mensa dell’ “Olimpo”, cioè di essere stato suo collega nell’insegnamento, dal 1950 al 1955, periodo in cui le vicende stesse del seminario (il rettore Dondeo nominato vescovo, il nuovo rettore, il nuovo vescovo ecc.) davano modo alle varie personalità che si incontravano a mensa e per i corridoi di esprimere loro giudizi e di manifestare così coerenze, più o meno reali, ai principi di cui dicevano di essere sostenitori.

Quanto agli avvenimenti che seguirono al mio stabilirmi definitivamente a Roma e che fecero tanto soffrire il prof. Concesa non ho avuto esperienza diretta, anche se, conoscendo personalmente gli implicati nella vicenda, potevo immaginare i dissensi e soprattutto le amarezze di cui dovette essere abbeverato. Di quegli anni non mi giunse che un eco attraverso i miei due compagni di classe (D. Guido Galimberti e D. Antonio Concesa, cugino del professore); ma anch’essi rifuggivano di parlare di un argomento che li rattristava e perciò non potei sapere mai a fondo il corso degli avvenimenti. Di questo però non mi lamento, poiché è una pagina troppo triste per essere desideroso di non ignorarla.

L’ultima volta che vidi il professore fu a Soncino (suo paese natale) ormai giunto agli estremi, stentai a riconoscerlo.

Messo così in chiaro la fonte da cui provengono questi appunti, mi sembra di poterli dividere, per amore di brevità, in vari paragrafi che mi consentiranno più facilmente di tracciarne un profilo. Vorrei perciò esaminare quello che significa per noi il prof. Concesa in quanto uomo, sacerdote, insegnante, “politico” e infine musicista.

L’UOMO

Si dice che la prima impressione è la più vera. Ebbene quando per la prima volta, da ragazzetto appena entrato in seminario, vidi il prof. Concesa, fui subito attratto verso di lui da una simpatia, che allora mi parve naturale. Lo vedo ancora come lo incontrai per la prima volta, sotto i portici del lato est del grande cortile interno; naturalmente elegante, senza essere ricercato, simpatico nel suo sorriso aperto e immediato, come se mi avesse conosciuto da sempre. E’ chiaro che queste impressioni non erano così chiare e distinte come le ho dette ora; ma esse sono ancora nettissime dentro di me, anche (e forse soprattutto) perchè non ebbero mai bisogno in seguito di essere modificate. Lo vedo ancora dopo il cordiale “ciao” allontanarsi ancheggiando leggermente e battendo i tacchi, come era sua caratteristica.

Solo di primo mattino e prima che iniziasse la scuola era possibile vederlo pettinato, cioè con i capelli un pò in ordine: bei capelli, tendenti al biondo, ondulati e lunghi che avrebbero voluto rimanere sempre raccolti indietro, per lasciare libera la fronte, serena e spaziosa; ma ciò era impossibile. Bastavano pochi minuti di lezione e la sua testa diventava aureolata da uno scompiglio di ciocche, ognuna decisa a far da sé; “capelli al vento” lo si sarebbe potuto definire, ma che incorniciavano perfettamente e senza alcuna impressione di disordine il largo sorriso, cui le labbra (sempre un po’ tremanti) aggiungevano una intensità non fastidiosa con la loro carnosità.

Tranne quando si richiudeva nella sua stanza, per smaltire le sua famose “influenze,” era sempre possibile avvicinarlo. Ma in quei momenti quando “doveva star bene”, diventava davvero interessante; senza veste e quindi in calzoncini a mezza gamba, stretti ai polpacci in una forma che richiamava vagamente quella alla zuava, infuocava

la stufa e tramutava le due stanze (studio e camera da letto,che poi formavano un tutt’uno) in un vero e proprio forno, nel quale si faceva fatica a respirare appena entrati. Ma il giorno dopo egli

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usciva da quell’inferno arzillo e aitante, come se nulla fosse; soltanto dopo qualche colpo di tosse, che egli cercava di soffocare con la mano a pugno, con l’unico risultato di fare uno sbuffo che gli gonfiava le gote, come se stesse suonando il trombone.

Naturalmente era distratto; ma non di quella distrazione svagata e senza senso che rivela una noncuranza di sé e degli altri. Al contrario egli era sempre concentrato in qualche cosa;

intendiamoci, una concentrazione che non aveva nulla di musoneria o di atteggiamenti pensosi.

Solo che la sua mente era un vulcano; prendeva tutto sul serio e quindi indagava, ragionava tra sé, parlava da solo e gesticolava nel tentativo di capire tutto. Questo suo atteggiamento,”capire ciò che gli stava attorno”, era (penso) la sua caratteristica principale, non facile da scoprire. Era piuttosto comodo attribuire a bizzaria il suo ragionare sottile e implacabile, magari partendo da punti di vista irrilevanti, ma traendo le conclusioni più imprevedibili, con una logicità direi allucinante. E quando aveva finito di esporre il suo pensiero, sentendo che differiva spesso notevolmente da quello degli altri, faceva un gesto con la mano come per scacciare un insetto importuno e poi diceva in fretta; ”non importa, non importa”.

E in queste sue considerazioni (che spesso, dopo lungo tempo,si rivelavano profonde e sagge) si addentrava come in un mondo nel quale egli si trovava perfettamente a suo agio, dimenticandosi di quello reale, che stava attorno. Per questo gli capitò qualche volta di dover scendere dalla sua stanza per recarsi a scuola in città, con il cappello in testa, i libri sottobraccio, ma senza veste e pantofole. Allora interveniva il portinaio che con la sua flemma gli diceva: ”ma dove và in questo modo! “Egli si guardava, inchinandosi leggermente, faceva un gesto d’impazienza e ritornava in stanza taccheggiando come al solito.

A questo punto, se volessi tentare una sintesi della sua personalità o meglio della sua struttura psicologica, direi che egli aveva un innato senso dell’armonia, in tutto, e che quindi sentiva in maniera quasi morbosa il bisogno della chiarezza.

Non è necessario essere grafologi per constatare questa sua caratteristica con gli scritti. Una calligrafia ordinatissima, stretta e concisa pur nel suo muoversi sinuoso, a volte indulgente a qualche svolazzo, specie alla fine, come soddisfatta di aver raggiunto il termine della fatica; i suoi spartiti musicali sono un capolavoro di ordine e precisione, chiarissimi come uno stampato, meticolosamente chiosati in modo da non lasciare nulla al caso, addirittura con frasi finali che esprimono il giudizio dell’autore sul proprio lavoro, come ad esempio: “L’autore avverte che il mottetto dovrebbe essere completamente rifatto…” e simili. Era fondamentale per lui scoprire nelle cose e negli avvenimenti il motivo conduttore, la ragione intima del suo accadere, sia come fatto singolo che come serie apparentemente scombinata. Da qui le sue analisi, che non gli facevano disprezzare nemmeno il giudizio più avventato dell’ultimo scolaro. Per questo spesso aveva ritagli di giornali in tasca, che egli aveva letto e sottolineato; a fianco per mettere in risalto un pensiero, e riga per riga per far risaltare il modo di esprimere il pensiero stesso. Ma non c’era pericolo che accettasse supinamente anche ciò che collimava con le sue idee; sembrava che lì per lì accogliesse le affermazioni senza criticarle; ma dopo un giorno o magari una settimana, ti sentivi riprendere l’argomento con una tale congerie di sfumature, di ipotesi, di “vediamo!”, che ti chiedevi dove trovasse mai il tempo (e soprattutto la voglia, dicevamo noi scolari) di scrutare con tanta acribia delle cose che noi avevamo magari già dimenticato.

Tuttavia sbaglierebbe di grosso chi pensasse al prof. Concesa come a uno spirito gretto, magari scrupoloso. Era proprio l’opposto e probabilmente nella mia vita non ho incontrato mai una persona dalle vedute così vaste e disposta ad accogliere ogni idea con tanta comprensione.

Ma allora donde gli veniva quella sua incessante ricerca, che potrebbe farlo passare per un pedante?

In questi mesi, dopo che mi è stato chiesto di scrivere questi appunti, ho riflettuto a lungo su questo aspetto del prof. Concesa, perché mi è sembrato fondamentale. Dopo varie considerazioni, dopo cioè aver provato a spiegarmi la sua personalità partendo da diversi punti, mi è sembrato che l’unico valido fosse il seguente: egli sentiva la realtà del mondo intorno a lui come un immenso contrappunto, nel quale ogni nota ha il suo nome e la sua funzione ben precisa, che non può essere compresa se non esaminata a fondo in se stessa e poi collocata al suo posto ben

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definito in tutto il tessuto musicale. Da quì i suoi passaggi illogici ma direi sonori, cioè che egli sentiva o meglio udiva negli avvenimenti, che si traducevano per lui in un impasto di accordi musicali e che gli facevano prendere atteggiamenti giudicati bizzarri; ma egli si sentiva intonato con la realtà e questo gli bastava. Anzi questo suo accordo con l’armonia che egli scopriva in tutto ciò che accadeva, formava il suo rifugio, la sua sorgente di forza, da cui attingeva quella che poteva sembrare una facile filosofia o addirittura una insensibilità, ma in realtà era la coscienza di sentirsi a posto; come una nota musicale in uno spartito o una canna d’organo perfettamente intonata.

La sua capacità di ritornare sereno dopo violentissimi scontri, dopo “liti” rimaste famose era proprio dovuta a questa sua musicalità del mondo circostante, poiché l’urto dei suoni apparentemente inconciliabili è il fondamento stesso della musica; tutto sta a sapere trovare il gusto che li sa comporre. Ma come una stonatura non potrà mai essere giustificata da un musicista e lasciata passare, così egli non recedeva da certi atteggiamenti, con una fermezza serena e imperturbabile. Guai se riusciva a far entrare in un suo ragionamento il giudizio su una persona e su un avvenimento! Bisognava attendere che un altro ragionamento demolisse il primo, altrimenti non c’era verso di fargli cambiare idea; tuttavia in tal caso rimaneva sempre un gentiluomo e non usciva mai in espressioni che anche solo rasentassero la volgarità. Ma soprattutto questo spiega la sua generosità. Non si rifugiava mai; né libri, né tempo, né sacrifici, né colloqui o viaggi o discussioni anche nei momenti meno opportuni.

Sempre pronto a giustificare l’atteggiamento criticabile degli altri, non si lamentava mai della mancanza di nulla. Non che non vedesse o non capisse; solo aveva il dono di vedere il lato positivo di tutto, anche delle cose più fastidiose. Chi lo ha visto negli anni di quasi-miseria, passati fuori seminario, nei vari alloggiamenti, sa bene come dalla sua bocca non uscì mai altro che un sorriso.

IL SACERDOTE

Potrà sembrare strano, eppure il prof. Concesa è l’unico sacerdote del seminario per il quale non è valida la distinzione professore - prete. Mi spiego. Nel ginnasio e nel liceo (intendo dire in scuola, non in cappella o nelle conferenze speciali) ben raramente si parlava di sacerdozio o di contegno sacerdotale; i professori ci apparivano degli insegnanti normali, più o meno severi, ma dai quali ben raramente traspariva la loro qualità di preti, probabilmente perché ne mancava l’occasione. Questo è vero per tutti i miei professori, salvo una eccezione: d. Secondo Bertolazzi, che aveva un ruolo tutto particolare, assolutamente unico. Ma per il prof. Concesa le cose erano diverse; non l’ho mai visto sdoppiato, cioè quando insegnava in classe e quando, in cotta bianca, dirigeva la corale nelle funzioni solenni in duomo o celebrava la messa, in cappella, all’altare di S. Carlo. Si può dire che in lui cambiasse soltanto il modo di essere vestito, ma per tutto il resto egli era lo stesso di tutti gli altri momenti della giornata. Per questo motivo, dopo cioè aver riflettuto cosa significa quanto ho affermato, comprendo ora i suoi infiniti sbadigli delle messe mattutine, divenuti celebri presso i seminaristi; il suo sfogliare il breviario sempre in cerca di un segno che sembrava non esserci mai; il suo tracciare i numerosi segni di croce (che allora erano prescritti nella liturgia della messa) in maniera che poteva sembrare quasi frenetica; il suo fermarsi bruscamente, nel mezzo di una Lettura, colpito da un pensiero o per trovare nel messale un altro riferimento. Allora mi sembravano bizzarrie e tutti avevamo finito per trovarle naturali in lui; ed era vero. Egli non diventava prete in determinate occasioni, perché lo era sempre e si presentava sempre con la stessa serenità e gli stessi modi di fare. Il ricordo più coerente a queste considerazioni mi è dato dal suo contegno durante le funzioni, solenni che fossero o di terza classe, in duomo o in cappella del seminario.

Egli si muoveva spontaneamente, senza quell’incedere da cerimonia che viene assunto in tali occasioni. Né questo era dovuto al suo essere professore di Liturgia, poiché le cerimonie non erano certo il suo forte; ma egli aveva un modo suo di sentire le funzioni sacre, di viverle senza

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affettazione, con la stessa disinvoltura e nello stesso tempo affettuosa attenzione con cui faceva lezione a scuola.

Non dipendeva certo da insensibilità se dava le intonazioni alle diverse voci del coro voce sempre alta, un po’ roca, che faceva mormorare i canonici perché si sentiva dappertutto; oppure quando voleva che si camminasse in processione, con un passo sciolto, non duro, in ordine che poteva sembrare invece un disordine, ma che prendeva il suo motivo dal ritmo interno alla manifestazione. Però non era facile cogliere queste sue idee, che spesso venivano o non capite o addirittura derise; egli se ne accorgeva e ne soffriva, ma in silenzio, pronto al sorriso se appena si accennava ad accostarsi al suo modo di pensare.

Ma dove il suo spirito di comprensione liturgica aveva modo di manifestarsi senza impacci era nell’organizzare le manifestazioni dei fanciulli. Lo sapevano bene i dirigenti di Azione Cattolica di Roma, che lo volevano puntualmente ad animare (come si dice oggi) i convegni con canti di ogni genere, ma che finivano sempre per dare un tono sacro anche alle più chiassose adunate e lo facevano idolo di tutti i bambini. Vederlo in quelle occasioni era assistere ad una trasformazione; non nel senso che egli cambiasse, ma nel senso che in quelle circostanze aveva modo di esprimere un fascino ed una attrattiva veramente eccezionale.

Chi ha occasione di vedere sull’Enciclopedia Cattolica l’unica foto dei bambini convenuti a Roma, vedrà il prof. Concesa, con la sua veste che gli arriva poco sotto i polpacci, sorridente e con il famoso fischietto in mano, pronto a galvanizzare quelli che nessuno meglio di lui sapeva tenere in ordine - disordinato, a lui caratteristico.

Del suo ministero di confessione non so nulla, né mi pare che egli non sia mai stato il confessore fisso di nessun istituto o parrocchia; devo anzi dire sinceramente che non so immaginarmi il prof. Concesa in confessionale. Tuttavia nella scuola pubblica di religione e nel contatto con la gente egli sapeva fare una direzione spirituale nel più profondo significato della parola, senza ciarpami di teorie e di scuola. La sua capacità straordinaria di analizzare i problemi e di indurre gli altri a farlo, era di una utilità immensa e aiutava a chiarire situazioni molto più che non i saggi discorsi e le illuminate direttive ascetiche. Senza averne l’aria, egli riusciva a rendere chiari i problemi più intricati, sapeva condurre per mano ad un’analisi delle situazioni che, specialmente per i giovani studenti, era un fattore importante per le decisioni da prendere in seguito. Inoltre la sua innegabile facilità di trovare parole semplici e di riunirle in una specie di motto o sentenza o frase a carattere gnomico per riassumere analisi di fatti e di situazioni, riusciva a imprimere la soluzione in maniera incancellabile o almeno faceva ricordare per lungo tempo quelle osservazioni che egli aveva suggerito, quasi senza accorgersi o addirittura con l’aria di chiedere scusa per il consiglio, invariabilmente accompagnato da un sorriso.

L’INSEGNANTE

Parlare del prof. Concesa come docente è toccare un tasto che a tutta prima sembra decisamente stonato. Infatti in tempi in cui la disciplina era l’unico ed esclusivo metro per giudicare la capacità all’insegnamento, egli diventava inevitabilmente l’ultimo in graduatoria.

Sembrava che fra lui e l’ordine in una classe ci fosse una totale incompatibilità e solo in occasioni eccezionali o con ragazzi di temperamento particolare egli riusciva ad ottenere un discreto silenzio e un’attenzione che poteva chiamarsi passabile.

Ricordo che mentre si tenevano le lezioni nell’ala occidentale del seminario, a porte spalancate nelle primavere calde e senz’aria, venivano a tratti dei veri urli corali e degli schiamazzi collettivi dalle aule di ginnasio, poste di fronte; di solito il professore che stava tenendo la lezione sorrideva e noi commentavamo: alunni del prof. Concesa. Non so quante volte il rettore dovette intervenire a mettere ordine nelle aule in cui egli teneva lezione, se non altro per evitare disturbo ad altre classi, vicine e anche lontane. Ma il più bello era che quando Mons.

Dondeo (che tutti ricordano così rigido e severo nella scuola) entrava in quelle aule trasformate in bolge non trovava il professore affannato, disperato o che so io! Al contrario,egli sedeva di solito in cattedra sorridente, in conversazione con dieci o quindici alunni che in piedi lo attorniavano e

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gli ponevano le domande più illogiche sulla materia dell’insegnamento. All’entrare del superiore era un fuggi fuggi generale e il silenzio che cadeva in mezzo a quegli scalmanati riempiva d’imbarazzo prima gli alunni stessi, poi il rettore; l’unico che rimaneva sorridente era lui, il professore, che chiedeva cosa fosse successo. Di solito il rettore, per non umiliarlo davanti alla scolaresca o gli si avvicinava a dirgli qualche cosa o lo chiamava fuori classe, per dargli qualche avviso di nessuna importanza.

In tanti anni d’insegnamento, ricordo che pochissime volte e per ragioni affatto estranee alla scuola (che riguardavano cioè situazioni o scherzi indirizzati ad altri) il prof. Concesa fu visto veramente arrabbiato o rosso d’ira, contro disturbatori che sistematicamente avrebbero voluto (in quelle occasioni) avere dalla loro la compiacenza dell’insegnante, che sarebbe diventata complicità.

Come si spiega allora la sua tradizionale incapacità ad ottenere una disciplina dagli alunni?

Semplice: egli aveva una concezione tutta sua della disciplina in fatto di scuola e quindi tendeva a realizzarla nei tempi in cui impartiva il suo insegnamento. Certo non si può dire che fosse facile capire come egli intendesse la necessaria collaborazione fra maestro e discepolo, ma è sicuro che non si trovava in accordo con le idee del tempo e degli ambienti in cui viveva. Oggi le sue premesse e i suoi ragionamenti che ne derivavano sarebbero riguardati come assolutamente normali ed egli sarebbe il maestro ideale; i primi clamorosi esempi di scuola all’aperto sono venuti da lui, nelle belle mattinate primaverili, sotto i tigli dei cortili del ginnasio. Ma al di la di questi che possono essere aspetti esteriori del problema, egli aveva una vera fantasia inesauribile e una pazienza senza limiti nell’inventare modi nuovi di collaborazione: colloqui, crocchi, canti, gesti, sfide si trasformavano per lui in altrettanti mezzi di educazione e di istruzione. E insieme a questo, un sapere parlare sempre a tu per tu, come se ogni alunno fosse solo e non immerso nella babele che gli altri facevano; un riuscire a interessare e una capacità di continuare a guidare la conversazione, anche in mezzo alla irrequietezza di cui specialmente le prime classi ginnasiali erano largamente fornite.

Studiando oggi i suoi sistemi e metodi per entrare in comunicazione con i ragazzi, devo riconoscerne la validità, anche se il metterli in pratica richiede un complesso di capacità di cui non tutti sono forniti. In fondo la critica spietata che gli veniva dai suoi colleghi non era priva di una punta d’invidia per il suo essere in grado di trasformare in ore piacevoli anche quelle dedicate alle discipline più indigeste; come la matematica, cui fu insegnante nelle prime classi. E’ vero che nelle sue “ore” in teologia c’era chi sistematicamente studiava altre materie (qualche volta l’abbiamo fatto tutti, specie se dopo veniva il prof. Boccazzi, con le sue “domandine” da recitare a memoria); ma egli era di una comprensione incredibile e attribuiva la cosa a necessità urgenti, mai a cattiva volontà. Una volta che glielo feci osservare, con una certa amarezza e direi quasi con un malcelato fastidio per la sua tolleranza, mi guardò come se non capisse esattamente cosa intendevo dire; poi con il suo gesto caratteristico, concluse: “Lascia perdere”.

Me lo ricordo benissimo quando ci insegnava i primi rudimenti della musica; le note che dovevamo solfeggiare (senza un libro stampato, che veniva considerato un lusso a quei tempi) egli le andava scrivendo sulla lavagna e ogni tanto si fermava, quasi ad ascoltare l’armonia interna che egli sentiva. Ben raramente erano soltanto esercizi; di solito erano piccoli brani e melodie compiute, che rendevano piacevole l’apprendimento dei primi elementi e ci permettevano di cantare a squarciagola con il pretesto di solfeggiare.

Egli si limitava a sorridere e a fare un gesto per calmare i più bollenti, ma gli piaceva sentire le nostre voci emesse a tutta forza, grezze e schiette, senza alcun raffinamento; lo si vedeva dalla gioia che gli brillava negli occhi.

La cosa si faceva seria durante la scuola di gregoriano, in liceo e in teologia. Allora a provare fastidio per chi chiacchierava senza costrutto eravamo noi, alunni desiderosi di imparare e certi di avere nel prof. Concesa un esperto e un finissimo interprete.

Fedele alle teorie di Solesmes, egli soffriva di non poter dare al canto gregoriano quello sviluppo che aveva invece il canto figurato. I rettori antecedenti (ricordiamo soprattutto Mons.

Guarneri) e la presenza continua del maestro Caudana formavano una barriera troppo massiccia.

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D’altra parte in quei tempi il gregoriano, salvo rarissime eccezioni, veniva considerato il canto dei conventi e, pur ammettendone la congenialità con la liturgia, veniva sostituito volentieri con quello figurato. Ma quando egli riusciva a farci cantare alla meno peggio (in classe, s’intende, perché in chiesa le cose andavano meglio) qualcuno dei brani che tutti dovevano per forza considerare “belli”, allora faceva il suo commento, che non era tanto musicale -tecnico, quanto estetico - teologico; in ogni caso ben poco apprezzato dalla massa. E qui mi sia consentito di fare una citazione personale. Era la Pasqua del 1940 e io da due anni ero stato incaricato dal rettore del seminario di procedere alla riforma del gregoriano (come pomposamente dicevamo in quei giorni); cioè costituire un gruppetto che si preparasse coscienziosamente e in via del tutto privata a cantare i brani di gregoriano, sia in cappella che in duomo (la cosiddetta “sistona”, ironizzando sulla Cappella Sistina!). Dopo le fatiche della Settimana Santa con i suoi mattutini e i responsori di Perosi, ci eravamo ritirati nella schola cantorum a preparare l’introito “Resurrexi”, che avremmo dovuto eseguire il giorno dopo in cattedrale e che trovavamo particolarmente difficile, non per difficoltà tecniche, ma per la sua interpretazione, che ci rimaneva ostinatamente insipida.

Ricordo che quella sera ne discutemmo e fu allora che mi ripromisi di chiedere qualche spiegazione al prof. Concesa, approfittando dell’omelia del vescovo ( allora non esistevano i microfoni e quindi nel coro della cattedrale era ben difficile poter sentire la voce di chi parlava dal pulpito, così come non era facile far star zitti i cantori, disoccupati per tutto il tempo della predica!). L’esecuzione del brano non fu più malvagia del solito, ma proprio questo fatto mi porse il destro di parlare con il professore. Nacque un commento interessantissimo, sottovoce, cui nessuno volle prendere parte quando intese a volo che si trattava di quel noioso introito; ma io ne fui contento. Il professore si mise a parlare con una passione contenuta ma vibrante, me ne fece penetrare lo spirito e concluse con una frase che non dimenticherò mai in vita mia e che è la vera chiave per interpretare esattamente questo brano: “C’è una gioia che fa esplodere in canti e in grida quasi incontenibili (ne hai un esempio nell’Alleluia di Haendel), ma c’è anche una gioia più intima, più profonda, che si manifesta con le lacrime, una gioia che fa piangere; e questa è la gioia del “Resurrexi”. Ho avuto parecchie occasioni di commentare questo brano di musica e di sentirlo commentare, anche da celebrità del canto gregoriano, a Roma e in Svizzera; ma nessuno ha mai raggiunto l’efficacia di questa interpretazione del prof. Concesa. E quando ebbi la gioia di aggiungere il mio commento a quello dei grandi ed esposi punto per punto quanto mi aveva insegnato il professore, ho sempre visto i volti trasformarsi; meraviglia, stupore, gioia, consenso.

Uno dei brani più difficili di tutta la produzione gregoriana ha avuto finalmente la sua interpretazione, che nessuno dubita sia la migliore e la più aderente al testo musicale.

Ma anche la polifonia era la sua passione. Alunno di Casimiri, egli aveva chiosato diligentemente i brani riportati sulla prima e sulla seconda antologia, traducendo in segni dinamici gli insegnamenti del grande maestro romano e si sforzava di trasmetterli anche a noi.

Non era certo facile ottenere di cantare brani polifonici, anche se per questo scopo esisteva una apposita “ora di canto”; la maggior parte dei chierici era più attratta dalla musica contemporanea, più “pastorale” (come già si blaterava anche allora) e perciò la polifonia era limitata a qualche canto di accademia, più per onore di firma che per convinzione. Ma quando si riusciva a mettere insieme qualche brano e a dargli quella “espressione” che egli voleva, allora era un vero godimento; ricordo (anche se può sembrare ridicolo) i brividi di commozione che mi correvano per la schiena nell’esecuzione di Tenebrae del Vittoria; quelle “e” che egli voleva chiuse, quasi come la “e” semimuta francese, in modo da ottenere anche con il colore delle vocali quel senso di oscurità e di paura che la musica voleva esprimere. Erano momenti in cui si sentiva con fastidio la campanella che suonava la fine della lezione; il che avveniva proprio raramente per gli scolari!

Come docente di sacra Liturgia, il prof. Concesa mi è rimasto impresso per la straordinaria diligenza che metteva per preparare le lezioni. Noi scherzando dicevamo che avrebbe risparmiato tempo se avesse mandato il testo in tipografia, dove lo avrebbero sottolineato riga per riga. Infatti se si gettava uno sguardo su una pagina qualunque del suo libro, si poteva vedere che nessuna parola era stata trascurata; sottolineata in rosso o in blu a seconda dell’importanza, tutta la pagina veniva poi contrassegnata con linee verticali di vario colore, sui margini bianchi. Come

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segnalibro egli aveva foglietti di varie dimensioni, sui quali aveva tracciato scrupolosamente schemi e sottoschemi, con diagrammi, graffe, rimandi e richiami in tutte le direzioni;

naturalmente in quel guazzabuglio finiva per capirci soltanto lui, ma questo gli permetteva di esporre la materia con una scrupolosità che noi chiamavamo volentieri pedanteria. Sembrava impossibile, eppure nelle ore di Liturgia non indulgeva a nessuno dei suoi “voli” e non era possibile distrarlo con domande di questo genere, anche di politica (che è tutto dire!). Aveva coscienza di quanto sia importante per un sacerdote conoscere a fondo la liturgia, le sue origini, i suoi sviluppi (a ripensare a queste cose, mi sembra di parlare di favole!) e quindi non si permetteva alcuna disgressione che non riguardasse la materia. Naturalmente noi scolari sapevamo quali erano i suoi punti deboli e quasi ogni ora lo stuzzicavamo con domande: i codici, i libri pontificali, le scoperte archeologiche nelle catacombe, gli oggetti di culto ecc. Egli era appassionato di queste cose e ne parlava con entusiasmo, anche se si accorgeva che il tempo passava… Ma poi diceva: “Queste sono cose che ci devono interessare, sono la nostra ricchezza”.

Quante volte mi sono ricordato di queste parole nei miei studi al Biblico, specie quando l’archeologia palestinese conduceva inevitabilmente alle prime origini del cristianesimo! Era un ritornare indietro di anni, ma anche un constatare con gioia che i miei professori di Cremona avevano ragione; e per chi si trovava circondato solo da tedeschi e inglesi, in quei tempi, non era soddisfazione da poco.

Si era sempre battuto per una adeguata preparazione musicale dei giovani sacerdoti, ma non aveva praticamente ottenuto che magrissimi risultati. Uno dei più vistosi e che sembrava dovesse schiudere un’epoca nuova fu l’istituzione dei corsi facoltativi di armonium. Ricordo quando nella schola cantorum vennero tolti i banchi e furono costruiti sul lato sud dell’aula gli stanzini per i vari strumenti, separati fra loro da pareti di vetro, abbastanza isolanti. Ma anche qui nacquero subito le complicazioni. I seminaristi si buttarono letteralmente alla nuova disciplina e il professore dovette faticare non poco a dare i primissimi rudimenti, anche a chi di musica non aveva mai capito niente. Ma ci furono le reazioni dei professori delle materie serie, i quali protestavano che i chierici invece che studiare se ne andavano a far gemere gli armonium, trascurando così lo studio delle vere materie importanti. Ne nacquero dissensi, accuse, ripicche ecc. ma la conclusione fu che il prof. Concesa non potè più interessarsi di questo settore, che venne affidato alla buona volontà dei chierici stessi, con le conseguenze che tutti conoscono.

Anche questa fu una occasione in cui la capacità di soffrire in silenzio del prof. Concesa apparve fin troppo chiara; ma dalla sua bocca non potei mai cogliere nessuna parola di critica, anche se mi sforzavo di provocarla. Tutt’al più mi guardava con quei suoi occhi chiari, un po’ offuscati in quel momento da una preoccupazione (che era quella di evitare la mormorazione) e poi diceva la sua frase solita: “Lascia perdere”.

Ma non posso chiudere questi accenni senza parlare del suo modo di insegnare i canti.

Inimitabile nei gesti e negli atteggiamenti del volto quando si sforzava di arrivare alle note più alte dei tenori, era addirittura incantevole quando impostava la voce dei contralti; il suo canto diventava un sorriso e la sua raccomandazione ai piccoli era sempre la stessa: sorridete quando cantate. Egli avrebbe voluto che tutti “leggessero” e dopo aver abbozzato le varie parti, metteva insieme il coro dicendo che le difficoltà si superano meglio sentendo l’insieme dell’armonia che non ostinandosi nelle singole parti. Un criterio (sia detto tra parentesi) che ho trovato validissimo e che seguo anch’io da ormai quarant’anni, anche se non con l’inimitabile disordine - ordine del professore! Eppure riusciva ad entusiasmare proprio per quel suo sopravvalutare le capacità dei suoi cantori; ci si sentiva stimolati e impegnati a non deludere una fiducia così serena e continua.

E poi, quando era soddisfatto del come andavano le cose, attaccava qualche brano d’opera, suonando a orecchio ma senza il minimo sbaglio di note, improvvisandone l’accompagnamento con i suoni approssimativi e asmatici dell’armonium della schola. E allora specie con i più grandi, che ricordavano i brani più famosi per averli cantati (cambiando spesso le parole), si faceva una vera incursione nel campo della lirica profana, non tanto per eseguire pezzi noti quanto per commentare l’efficacia musicale dei vari brani. Egli cioè aveva cura, senza averne l’aria, di indicare i veri valori delle musiche accennate, richiamando passaggi, imitazioni, reminescenze e

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abituandoci così ad una critica auditiva prima di una tecnica, che allora non eravamo nemmeno in grado di formulare. Ma in questo campo il suo gusto era veramente straordinario, come eccezionale era la sua capacità di comunicarlo agli altri, benché i mezzi di cui si serviva (la sua voce straziata dagli sforzi che le imponeva e le sue mani tremanti per l’emozione musicale sui tasti ingialliti) non fossero certamente i più adatti allo scopo. Eppure ancora oggi certi suoi indirizzi, certe rettifiche e precisazioni mi sono ancora preziosi; alcune sue impostazioni di critica mi hanno valso di fare spesso una figura ben più da competente di quello che non fossi!

IL “POLITICO”

Intendiamoci su questo termine. In seminario, ai miei tempi, non era possibile leggere alcun giornale; solo in teologia, per mettere i chierici al passo con i tempi, entrava l’Osservatore Romano. Perciò ogni notizia, di qualunque genere, veniva portata a noi o da un superiore (generalmente un vicedirettore) che subito dopo il pranzo veniva a giocare con noi e poi faceva

“circolo” oppure filtrava attraverso la portineria ( i nostri parenti che ci facevano visita) o più frequentemente erano i professori che, incidentalmente lasciavano cadere qualche notizia durante le lezioni. Il risultato era che noi seminaristi eravamo praticamente all’oscuro di tutto, ma desiderosi di sapere, di conoscere; inoltre era inevitabile che ogni notizia si colorasse diversamente a seconda della persona che ce la riferiva; il prof. Cugini (popolare e antifascista nato) o il prof. Bertolazzi (filogovernativo per la pelle) riferivano le stesse cose con angolature così diverse da provocare inevitabilmente discussioni a non finire. Le cose andavano bene fino a tutto il ginnasio; ma quando si passava in liceo, con lo studio della filosofia, le esigenze di maggiore chiarezza si facevano sentire acute; in teologia poi le discussione erano all’ordine del giorno.

E’ chiaro che i professori preferivano parlare e scambiare le loro idee con i teologi, più maturi e ormai giunti alla soglia di spiccare il volo per il mondo; perciò praticamente gli atteggiamenti spefici e le idee singolari dei vari professori venivano alla luce solo negli ultimi quattro anni di seminario, mentre prima se erano conosciute lo si doveva a quel processo misterioso di osmosi, che si verifica in tutte le comunità, anche fra le più rigidamente divise.

Per quanto riguarda il prof. Concesa le cose erano un po’ diverse; il contatto continuo che egli aveva con noi cantori lo metteva in grado di commentare anche solo di sfuggita persone e cose, con una frequenza che gli altri professori non avevano; era quindi possibile conoscere le sue idee con maggior facilità. Ma solo in teologia ho potuto penetrare a fondo quel suo modo particolare di impostare la critica degli avvenimenti che doveva procurare a lui tanti fastidi e a noi profondi turbamenti. Porto un esempio solo. Durante la campagna di Abissinia solo il prof. Cugini, rimaneva freddo e muto, la sua ostilità infatti non poteva venire manifestata chiaramente, per suggerimento di superiori e amici, essendo egli “tenuto d’occhio”. Ma il prof. Concesa discuteva apertamente, contestava (come si direbbe oggi) partendo sempre dai suoi punti di vista e ragionando principi di diritto naturale, dei quali veramente noi non avevamo mai sentito parlare.

Qui infatti si rivelavano la debolezza e la incompletezza dell’educazione di quei tempi; noi seminaristi accettavamo quello che i superiori ci dicevano e li seguivamo nei contrasti che essi (specie il vescovo Cazzani) incontravano con le autorità politiche; ma ignoravamo completamente le ragioni storiche, i motivi profondi e umani di questi contrasti, mentre ci scandalizzava sentire dai nostri parroci, durante le vacanze, le vicende e le lotte del partito popolare. In pieno regime fascista, quando nessuno osava nemmeno contrastare con il pensiero (si fa per dire), noi eravamo cresciuti senza alcun termine di confronto, per cui il dissentire dall’autorità civile (in materia di politica e non di religione) ci sembrava una cosa assurda. Chi legge oggi queste parole si può fare un’idea dello sconvolgimento che portava alle nostre coscienze il contegno “politico” del prof. Concesa.

Che se in un primo momento lo avevamo preso sul serio, vedendo poi che non solo non era nè apprezzato nè seguito ma addirittura contrastato e ridicolizzato dagli altri superiori e professori (anche se con molta prudenza, a dire il vero), abbiamo finito per prendere le sue idee come bizzarrie e originalità da artista.

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Però le cose cambiarono radicalmente non solo con il nostro ingresso in teologia, ma soprattutto con lo scoppio della guerra della Germania contro la Polonia. Quando in quel settembre rientrammo in seminario, l’atmosfera non era più quella di prima e ce ne accorgemmo subito dalla gravità e serietà che più di ogni altro risultava nel contegno del prof. Concesa. Da allora ebbero inizio delle conversazioni che a volte si protraevano ben oltre il tempo previsto dalle regole e nelle quali parecchi di noi teologi hanno potuto conoscere più a fondo l’animo del professore. A parte il commento ai singoli avvenimenti politico - militari, era per noi entrare in un mondo diverso da quello in cui eravamo abituati a vivere, condotti a valutare gli avvenimenti con altri occhi e a considerare la realtà da altri punti di vista. Dapprincipio ci fu una specie di sospensione, quasi di attesa per la novità dell’impostazione, dopo però cominciò a farsi sempre più chiaro che non si poteva continuare sulla sua strada senza abbracciare i principi e le impostazioni che ne condizionavano l’esistenza stessa; una scelta si imponeva. E fu quella che tutto l’ambiente suggeriva da sé; il prof. Concesa si trovò isolato, guardato sempre con rispetto ma considerato fuori tempo, un originale a tutti i costi, le cui osservazioni potevano essere materia di discussione fino ad un certo punto, perché facilmente diventavano poi oggetto di divertimento. Questo fenomeno, credo, fosse dovuto sia alla mancanza di adeguate informazioni su quanto accadeva, sia al senso di disagio che aveva preso ciascuno di noi quando anche l’Italia entrò in guerra, sia soprattutto al fatto di trovarsi in un ambiente chiuso, limitato al suo orizzonte e soggetto quasi completamente a sentire una sola campana.

Intendiamoci bene: non ci è mai passato per la mente che il prof. Concesa non seguisse con una meticolosità incredibile tutto quanto era possibile sapere. Le sue informazioni erano sempre più numerose, documentate, particolareggiate di quelle di tutti gli altri professori messi insieme; e questo fatto a volte ci faceva considerare con maggior attenzione certe sue “sparate” (come le chiamavamo noi). Ma egli aveva poi un suo fascino particolare quando si metteva a tavolino, nella sua stanza sempre surriscaldata e mi faceva vedere, carta e matita alla mano, le ragioni e i motivi delle sue deduzioni; confesso che ne uscivo scosso, a volte quasi convinto, sempre ammirato per la sua diligenza, la modestia con cui aveva parlato e soprattutto per l’evidente passione che lo animava. Per riassumere in un solo episodio tanto la sua perspicacia quanto il disagio che essa causava a noi, ricorderò che appena entrata l’America in guerra e dopo i primi rovesci in Africa, egli iniziò l’esposizione di un suo “piano”. Davanti ai nostri occhi sbalorditi egli parlava di “invasione” dell’Italia, dalla Sicilia e dal Lazio; questo naturalmente per quanto riguarda le nostre sorti. E il suo “ragionamento” derivava da una serie lunghissima di considerazioni, in cui confluivano la storia, l’economia, la psicologia, l’istruzione e, diciamo pure, una certa fantasia che non aveva paura di affrontare l’avvenire. Il lettore dubiterà di queste cose; ma tanti anni dopo, quando in professore era già morto, un giorno con D. Galimberti ci capitò di tornare sull’argomento. E sapete qual è stato il nostro commento? Una domanda: “Ti ricordi quando egli parlava dell’invasione dell’Italia, due anni prima che avvenisse e noi sorridevamo per non disgustarlo troppo?”. Quella sua capacità di vedere il futuro (o fu soltanto un caso?) mi ha sempre fatto riflettere; essa s’inquadra perfettamente nel suo temperamento e non diventa un fatto sporadico quando è calata in quella sua mentalità e in quel suo modo di “sentire”

la realtà, di cui parlavamo prima. La sua non era abilità politica nel senso normale della parola, ma il frutto di una sensibilità straordinaria, che si manifestava in un modo tanto diverso dal solito da non essere creduto da nessuno. Eppure gli avvenimenti da lui “sentiti” a tanta distanza di tempo gli danno perfettamente ragione. Fu dunque un uomo sprecato? Non nel senso che intendeva lui, ma in quello che intendiamo noi ordinariamente. Egli sapeva di essere “sale” e di dare fastidio con le sue idee, ne soffriva profondamente e cercava di rendere “ragionevole” il più possibile quanto per lui era tanto chiaro. Quante volte ho visto i suoi grandi occhi gonfiarsi e lacrimoni scendere silenziosi; due grossi lacrimoni che egli asciugava subito nervosamente per poi sorridere e dire: “Lasciamo perdere”. Viene qui il desiderio di citare la frase di Gesù:

“Nessuno è profeta in casa sua”. E per lui fu vero; anche troppo.

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IL MUSICISTA

Quando abbiamo detto finora non è che la preparazione, indispensabile e logica, di quest’ultima parte del nostro profilo. Il prof. Concesa fu soprattutto un musicista, non per elezione ma per natura. Poche volte un temperamento musicale fu così spiccato, non tanto nel senso da formare la caratteristica fondamentale di un uomo, quanto nel senso di aver costituito l’essenza stessa di un individuo, ciò che ha penetrato ogni sua azione o gesto in tutta la vita e senza del quale non è possibile nemmeno immaginare l’esistenza di quella persona.

Porterò il giudizio di un competente: Il giorno 1 ottobre 1954 incontrai, per caso, da Casimiri a Roma, mentre acquistavo lo spartito della messa Regina martyrum, l’autore della messa stessa, il Maestro Licinio Refice, la cui fama non ha bisogno di essere qui affermata. Vedendo che comperavo una sua composizione (e vi appose volentieri l’autografo, che tengo ben prezioso!) mi chiese di dov’ero. Sentita la mia origine da Cremona esclamò: “Ah Cremona, dove c’è Concesa!

E’ stato mio alunno. Quello si che era un vero musicista. Peccato che non l’abbiano lasciato finire!”. In questa frase è condensato tutto quanto volevo dire: il valore del prof. Concesa e il limite impostogli. Non dimentichiamo che a quei tempi la musica si riassumeva in Caudana e tutti e tutto era (non per volere del Maestro, ma degli altri che gli stavano attorno) dominato da lui, né poteva vivere se non alla sua ombra, senza possibilità di uscirne. Credo che nessuno soffrì di questa situazione quanto il professore Concesa; si può dire che era il suo dramma quotidiano.

Ricordo bene quando doveva dirigere le esecuzioni in cattedrale; con quanta trepidazione e impegno vi si preparava! Si trattava infatti di dover dirigere spartiti che erano stati insegnati e interpretati da altri, con un temperamento diverso dal suo e dalla cui interpretazione non gli era lecito distaccarsi nemmeno per un pelo, per non suscitare polemiche a non finire. Può sembrare una cosa facile, ma con una personalità spiccata come la sua, a volte diametralmente opposta a quella di Caudana, dover restare al di sotto, non poter mai dire il proprio pensiero, non manifestare la propria interpretazione, e proprio in quella musica religiosa che era il suo campo specifico e per il quale era stato mandato a Roma, non poteva essere una cosa semplice.

Certamente questa situazione ha influito sul suo modo di venire a contatto con il prossimo, benché la sua forza di carattere gli abbia impedito di tramutare in dramma più di un episodio, che altri avrebbero sfruttato ben diversamente.

Nello stesso tempo il suo temperamento musicale fu la sua salvezza; e non poteva essere diversamente. Quando entrava nel suo studio, dimenticava tutto e si abbandonava totalmente alla

“sua” musica. E allora non c’erano limiti di tempo o di ore; infervorato nella creazione, non si accorgeva di nulla, nemmeno dei pasti, che spesso e volentieri venivano saltati. C’è ancora chi si ricorda quel benedetto pianoforte a tutte le ore della notte, non che del giorno; e quando si riusciva a fargli arrivare qualche protesta, era il primo a cadere dalle nuvole e a rammaricarsi dell’involontario disturbo.

La sua produzione fu veramente immensa; purtroppo ora è dispersa e sarà ben difficile rintracciarla, non dico tutta ma anche solo in parte; è accaduto ai suoi lavori quello che egli non avrebbe mai immaginato, anzi l’opposto di come li teneva. Tutti classificati, bellamente divisi in cartelle dai vari colori a seconda del genere cui apparteneva la composizione, con scrupolosi riferimenti all’esistenza di parti o partiture nell’archivio musicale del seminario, puntualmente datate con rimandi a eventuali rifacimenti; il suo archivio era così rigorosamente diviso che se per caso (lo diceva lui stesso) una composizione per sbaglio veniva collocata in un reparto diverso da quello che le competeva, non sarebbe più stato possibile rintracciarla, se non facendole passare tutte, una per una. E siccome egli era notevolmente distratto, mi è capitato più volte di dover rintracciare qualche composizione più a naso che per divisione logica; mi ci ero talmente abituato che mi bastava un colpo d’occhio: “Professore, qui ha inserito una cosa che non va”. E lui:

“Guarda tu, non lo so”. E immancabilmente dovevo spostare quello che, mentre gli frullava chissà quale altro motivo, aveva collocato nel primo posto che gli era capitato davanti.

Ma questi sono aneddoti propri di ogni musicista e possono interessare fino a un certo punto.

Ora invece vorrei (brevemente, anche per il pochissimo materiale che ho sottomano) fare una

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panoramica della sua attività di compositore e mettere in risalto i notevoli lati positivi, forse non a tutti noti.

Le prime composizioni in cui egli si cimentò con impegno furono i canti per accademia, che gli venivano richiesti dai vari prefetti in occasione delle feste dei patroni delle camerate;

specialmente S. Tommaso. Si tratta di mottetti a tre voci virili, necessariamente limitati nello svolgimento e nella tessitura delle voci, perché dovevano essere eseguiti non da tutta la schola cantorum al completo, ma da quei cantori che facevano parte di quella camerata, integrati per l’occasione da qualche Scarto della Schola. Ricordo come se fosse ieri l’impeto lirico e la larghezza di frase che mi colpì (ce l’ho ancora nell’orecchio) nel mottetto di cui non ricordo il nome, ma che musicava le parole celebri: “Che dice la pioggerellina di marzo?”. L’insistere sull’imitazione della pioggia che cade sui tegoli si apriva all’improvviso con la frase: “Domani uscirà primavera”, tipica del lirismo concesiano.

Così ricordo ancora l’effetto sonoro - imitativo nelle “Campane del lago di Oria”, su parole di Fogazzaro; una malinconia dolce e ricorrente, leggera e quasi diafana, come il grande autore romantico aveva tracciato nella sua poesia e il maestro aveva saputo cogliere con estrema delicatezza.

Ma quello che per me è sempre rimasto il mottetto tipico di questo genere e che il maestro compose proprio nella mia camerata (prima liceo 1935 - 36) è il “Notturno” a 3 v.p. Nella prima parte la visione cupa e romantica della notte, piena di fantasmi e di insidie, è resa magistralmente con il canone sulle parole “di tetto in tetto svolazza la civetta” cui segue in contrasto la visione calma e serena dell’anima che contempla senza timori di fantasmi: “Ma a tanta pace del cielo e della terra, di tanto in tanto manda un gorgheggio l’usignolo, e tace”. Seguiva poi la chiusura a bocca chiusa, la quale, concepita in puro stile moderno e dissonante, formava lo scoglio di tutto il pezzo e quindi lo rendeva di non facile esecuzione.

E da che ci siamo, trattiamo l’argomento delle dissonanze. Amante della musica moderna, capace di comprenderne gli ideali ma timoroso di lanciarsi in essa per la totale incomprensione dell’ambiente che non avrebbe mai consentito di portare in chiesa una musica somigliante alla dodecafonia, anche alla lontana, egli volle introdurre nelle sua composizioni qualche cosa che richiamasse quelle armonie, senza però dover rinunciare alla linea melodica tradizionale. Ci fu quindi un periodo in cui noi cantori eravamo messi a dura prova. La nuova composizione (e ci furono dei momenti in cui quasi ogni giorno ce n’era una!) di solito si apriva con una bella frase, ispirata, che si lasciava cantare volentieri; ma poi veniva il bello! Accordi dissonanti, attacchi impossibili, gruppi di note nei quali (ci diceva) si poteva scegliere quella che si voleva, ecc. E durante le prove era una babilonia in quei punti; si finiva per fare quello che si poteva ed egli si accontentava ; accaldato, con il suo fazzolettone bianco per tergersi il copioso sudore (inverno o estate che fosse), naturalmente sempre sorridendo. Il primo esempio fu il mottetto in onore di S.

Cecilia, un “Cantantibus organis” nel quale le spese… dodecafoniche le fece proprio il nome Cecilia, ripetuto e urlato in tutte le dissonanze, quasi per far giungere alla Santa il suo grido di musicista incompreso.

Vivacissimo invece e di una immediatezza che non ho mai visto in una composizione del genere fu il “Quem vidistis pastores” , concepito quasi come contrasto realistico a quello di Vittadini, solenne e da oratorio. Sono sprazzi di luce che si sono fissati nella memoria e denotano ancora oggi la vena sicura e la fantasia fervida del compositore.

Ma qui bisogna entrare in un discorso più serio. Senza dire niente a nessuno, ai primi del 1939 egli si presentò addirittura con lo spartito di un’opera in tre atti, da portare sulle scene per carnevale, secondo l’antica tradizione del seminario: Azaele. A parte le nostre proteste per il tempo troppo breve a disposizione, l’opposizione fu tenace, anche se sorda e muta, per l’argomento scelto. Non che il tema del “figlio prodigo” fosse di per sè da scartare, ma egli aveva voluto realizzare tutto da sè, non per presunzione, piuttosto per sfiducia di trovare un collaboratore. Dal punto di vista musicale la cosa poteva passare, ma da quello teatrale il disastro era completo. Egli infatti non si era preoccupato che ci fosse un minimo di azione drammatica, ma lo aveva concepito quasi come un oratorio. La cosa avrebbe potuto interessare se però non

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avesse voluto ad un certo punto che ci fosse una scena, con movimenti di cori e di solisti, con sfondi arcadici e di città antiche… La lotta fu accanita, ma il rispetto e (diciamolo pure) l’affetto che ci legava a lui ci persuase ad assecondarlo. Si cominciò ad imparare i cori principali, nell’attesa di distribuire le parti ai solisti, e la musica, veramente bella, calmò un poco gli animi.

Tuttavia un avvenimento eccezionale stroncò ogni cosa; il 10 febbraio moriva Il Papa Pio XI e il seminario decretava lutto per tutto il carnevale, con la soppressione di ogni spettacolo. E qui i superiori commisero un errore di psicologia; entro sera vollero che fosse smantellato il palcoscenico destinato all’opera e noi, durante lo studio del pomeriggio, sentivamo i colpi di martello di chi demoliva la costruzione. La reazione fu immediata. Pochi giorni dopo mi recavo dal professore e lo persuadevo a cominciare un’opera nuova, con un soggetto diverso e con un libretto studiato in tutti i particolari. Dapprima non volle credere ai suoi occhi, ma poi avendogli narrato per sommi capi il canovaccio di quello che doveva essere l’ ”Absalom”, accettò con entusiasmo. Il lavoro divenne frenetico; studio dell’ambiente biblico per non dover introdurre elementi troppo stridenti con la verità storica (e qui ci fu di grande aiuto l’allora professore di S.

Scrittura Piazzi, vescovo di Crema e di Bergamo); composizione della trama, teatralmente eseguibile e non troppo statica; ricerca del linguaggio che pur non discostandosi troppo da quello convenzionale, dicesse però qualche cosa di nuovo. Tutte le vacanze del 1939 se ne andarono in tentativi, in progetti e in stesure di testi per cui all’inizio del nuovo anno scolastico il professore potè avere a disposizione l’opera intera, quasi definitiva anche nel testo. Egli si gettò al lavoro con entusiasmo che si riflette ancora oggi nella prima “romanza” di Farfal nel primo atto: “Tanto cara al mio cuore”, che appena udita, suscitò in tutti un entusiasmo incontenibile. Addio studio per il primo trimestre! Era un continuo su e giù, dalla camerata alla stanza del professore;

aggiungere un verso, togliere un altro, modificare un finale, cambiare una scena, litigare per lasciarne un’altra; tutte cose che capitano ai librettisti alle prese con i compositori. E poi le polemiche interne; chi credeva di ravvisare nella trama del libretto gli estremi di corruzione morale, però si fermava davanti al fatto che era tolto dalla Bibbia; altri ripiegavano sull’accusa che noi avevamo svisato il fatto storico (infatti avevamo dovuto eliminare ogni donna, per un motivo molto semplice!) Ma il giorno in cui , in classe, durante la lezione di S. Scrittura, il prof.

Piazzi ci difese e dimostrò anzi che noi avevamo interpretato molto bene il Testo anche là dove taceva circa gli intrighi che caratterizzano quel periodo della vita di Davide, le cose presero un’altra piega; piena collaborazione, entusiasmo in tutti, e dedizione al lavoro (che fu veramente molto!), così che il giorno di carnevale di quell’anno vide la prima esecuzione di “Absalom”. Fu un trionfo.

Noi la conoscevamo a memoria e tutto il seminario, qua e là, echeggiava di quei motivi, qualche volta anche durante il silenzio; non per disprezzo, ma per l’entusiasmo. La vena del professore si dimostrò in tutta la sua ampiezza e la sua maturità artistica non potè non venire riconosciuta anche dai suoi denigratori più accaniti.

Oggi ripensando a quell’opera, rimango ancora stupito dal susseguirsi quasi inesauribile di motivi, di temi che si rispondono e si inseguono, costruendo l’ossatura musicale dell’opera in perfetta corrispondenza a quella drammatica; cori e solisti che intrecciano dialoghi nei quali l’abilità del compositore richiama i classici dell’ottocento, pur riproponendo le situazioni in una maniera più moderna. E qui ci fu una delle tante lotte; si discuteva sul fatto che il professore aveva spesso ripreso motivi ben noti e li aveva sviluppati, tanto che a volte era arduo riconoscere dove terminava p.e. Wagner e dove incominciava Concesa! Le lamentele e i rimproveri però cadevano tutti su di noi librettisti, responsabili fra l’altro di avere iniziato parecchie romanze proprio con le parole stesse di quelle famose (un trucco, da noi escogitato per suggerire al professore la fonte di ispirazione!). Ma per fortuna nel nostro accanito studiare i modelli (fu allora che mi lessi tutto, dico tutto Metastasio!) ci venne in soccorso la citazione della risposta di Virgilio a chi lo accusava di aver copiato Omero; “E’ segno di gran forza togliere la clava di mano a Ercole!”. Ne facemmo nostro motto e fece davvero l’effetto di una clava; si azzittirono tutti così l’opera andò in porto, felicemente.

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Ma ci rendiamo conto della mole di lavoro che dovette affrontare il prof. Concesa? Non parlo della composizione di tutta la musica, dell’ispirazione dell’elaborazione dei vari motivi, ma anche solo del lavoro materiale nello scrivere le note; tre atti in tre mesi! Cose da grande campione. Eppure egli si sottopose a questo sforzo immane con la gioia di un fanciullo; sempre sorridente, lieto (quando tornava a casa dalla scuola in città) di vedere la sua stanza invasa dagli appunti, dai libri, dai fogli di musica in tutti i formati. E sostava, la bocca un po’ aperta come quando si compiaceva di una cosa bella, a sentire dove avevamo scovato quel verso, quante parti aveva scritto il tale, quante prove avevano fatto i contralti (i ragazzi sono l’elemento più labile del coro), ecc.

Mi dispenso dal commentare l’opera; cito soltanto i brani più significativi, anche perché genuina farina del suo sacco! Come ho già detto, la romanza di Farfal nel primo atto “Sempre cara al mio cuore”, cui fa seguito lo stupendo brano di Absalom, tolto di peso da Isaia nella parte centrale e musicato con un impeto degno del testo profetico: “Oh davvero fossi re!”; il canto del pastore all’inizio del secondo atto, di una mestizia accorata, perfettamente intonato al deserto e della cui malinconia ho sentito tutta la struggente bellezza nei miei viaggi in Oriente, al tramonto, su quei colli del deserto di Giuda che allora immaginavo soltanto con la fantasia; ma il musicista li ha evocati con una melodia ed un’atmosfera indimenticabili. Che dire del “corrotto” del secondo atto, quando tutto il popolo di Gerusalemme esce dalla città abbandonata e segue Davide in esilio, al di là del Giordano? Sono pagine che non dovrebbero essere dimenticate, anche se intensamente drammatiche da pensare che il professore abbia voluto ritrarre gli orrori delle città polacche, distrutte dai nazisti in quei mesi. E l’atmosfera allucinante del sortilegio, di quando Absalom vede evocare dal mago egiziano il suo immediato futuro, che lo porterà alla rovina; e lo straziante grido del coro che nell’ultimo atto ripete con una insistenza da tragedia greca “O sfortunata reggia”, che condensa tutta la disperazione di Davide sotto la profezia di Natan; “La spada non si partirà dalla tua casa”, E infine la breve ma tristissima romanza di Absalom morente: “Mai non fui, come mi chiami, tua pace o padre”, nella quale il lirismo si condensa e invece di sciogliersi in un canto spiegato, (come tanti eroi ed eroine dell’ottocento) si limita a poche frasi, ma di una intensità così appassionata che, appena le intesi la prima volta, pensai al motivo esile e quasi incerto della marcia funebre di Chopin, unica voce che piange. Nè si può dire che uno sforzo così prodigioso esaurisse la vena del professore: al contrario.

Infatti solo pochi mesi dopo egli volle un testo da musicare in occasione della crociata dei piccoli, proclamata da Pio XII per il maggio del 1940 allo scopo di pregare la Vergine che allontanasse dal mondo la guerra. Appena gli presentai le parole di “Exoriare”, in latino perché avesse carattere internazionale, egli si mise al lavoro e in pochi giorni ne fece un capolavoro, Coro, soli, coretto di bambini, preghiera alla Vergine in un soavissimo e stupendo coro a voci miste “O quae tu unica”, il finale a gran coro “Laus tibi o Potentissime”, con un travolgente

“Amen” degno della più splendida tradizione polifonica; tutto ciò dimostrava che il prof. Concesa aveva davvero raggiunto una maturità artistica indubbia e di gran valore.

E poi venne quel mese di maggio, in cui ogni giorno dal suo cuore sgorgava un canto alla Madonna; fu per noi una continua sorpresa. Come faceva a comporre tanta musica e di così elevato pregio artistico? Come non abbandonarsi all’onda melodica di quel “Fulcite me floribus”, anche se egli lo aveva liricamente trasformato in un “Fulcite”, orrendo in latino, ma stupendo in quel contesto musicale.

Fu questa la sua stagione e produsse tanta musica in quel periodo da far restare senza fiato;

poi venne la tragedia della guerra, in casa nostra, che lo stroncò. Da quel momento non fu più lui;

la passione nazionale venne da lui vissuta in maniera così intensa e silenziosa che ne minò per sempre lo spirito; non fu più lui, anche se all’esterno non sembrava cambiato. Compose ancora in varie circostanze, ma senza quell’entusiasmo che noi gli conoscevamo. Probabilmente si stava riprendendo da questo periodo di sospensione creativa e già parlavamo (quando ero in seminario come docente di S. Scrittura) di nuove imprese che ricordassero i fasti dell’“Absalom”, quando venne la tragedia che lo distrusse al completo.

Ma questa è storia che non voglio nemmeno conoscere.

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Amo invece ripensare al mio professore Concesa sorridente, lieto nei suoi occhi azzurri, pieno di vita e di entusiasmo, sempre pronto a musicare un testo che gli presentavo con la spontaneità (ma forse anche sfacciataggine) dei miei vent’anni, quando d’accordo con lui per cantare le lodi, della Vergine andavo spogliando i lirici greci dei loro versi più stupendi e li affidavo a lui perché li facesse rivivere con il suo lirismo caldo e fluente. Mi piace quindi dedicare a lui quei versi di Saffo che egli ha così ben musicato perché rivolti a Maria: “O frutto dolce su ramo altissimo! E’

inviolato il tuo splendore!”.

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Antonio Concesa compositore

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di Ernesto Moneta Caglio

Don Antonio Concesa arrivò a Roma all’inizio dell’anno scolastico 1927-28 e fu accolto nel Seminario Lombardo, che si trovava ancora in via del Mascherone, da mons. Branzini, un vero educatore, che ci teneva al corrente di tutto ciò che avveniva nelle alte sfere. Nel 1929 ci fu la Conciliazione, e noi ne fummo informati fin dall’inizio delle trattative.

Don Concesa era stato ordinato sacerdote dal Vescovo mons. Cazzani – altro uomo di altissimo livello e virtù – l’11 giugno 1927, all’età di 23 anni.

Avrebbe dovuto rimanere a Roma 2 anni: il tempo allora richiesto per diplomarsi in canto gregoriano presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra; ed effettivamente, compiuto il biennio programmato, rientrò in diocesi, nonostante che il maestro Refice abbia detto: «Peccato che non gli abbiano lasciato percorrere la sua strada!» Ma si deve tenere presenta che a volerlo inviare a Roma, dove già studiavano o avevano appena finito di studiare teologia don Boccazzi e don Dondeo, e diritto canonino don Galbiati, era stato il nuovo rettore del Seminario, mons.

Squintani, il quale doveva usare prudenza nel non oltrepassare un certo numero di allievi. In quegli anni poi il Seminario di Cremona, in fatto di musica figurata, poteva contare sull’opera assai valida del maestro Federico Caudana, che era proprio nel pieno della sua attività, sebbene cullasse nell’animo un trasferimento di notevole prestigio.

Era morto, nel 1928, il maestro Salvatore Gallotti, direttore della Cappella Musicale del Duomo di Milano, e la Fabbrica del Duomo aveva indetto subito il concorso per la successione.

Della giuria facevano parte Ildebrando Pizzetti, Gaetano Cesari, Oreste Ravanello e altri; era una giuria piuttosto severa, tanto che non trovò nessuno che potesse aspirare alla nomina per titoli e composizioni, rimettendosi perciò all’esito di esami scritti. Questi furono tenuti in Conservatorio nei giorni 24, 25 e 26 maggio 1929. Non so come la nipote Silvia, nella sua tesi di laurea sul nonno, possa scrivere che la commissione «diede giudizio favorevole al Caudana classificandolo primo». Risulta invece che Caudana in graduatoria fu giudicato sesto su otto concorrenti; ma di questo non fu informato se non il 19 ottobre, vale a dire dopo che era entrato in diocesi il nuovo Cardinale Arcivescovo A. I. Schuster (Archivio della Fabbrica, busta n. 49). Tutto l’anno erano continuate le pressioni di Roma perché si accettasse al concorso il maestro Marziano Perosi, fratello di Lorenzo, ma soprattutto del Cardinale Carlo, che la commissione aveva escluso dagli esami per aver presentato i documenti in ritardo. In altri tempi il Ministero di Grazia e Giustizia, da cui dipende la Fabbrica, ne avrebbe sostenuto l’operato, ma era proprio l’anno della Conciliazione e la Chiesa venne accontentata: il concorso fu annullato, e Caudana si rassegnò a rimanere in perpetuo a Cremona. Si è detto che sia stato lui a fare pressione perché don Concesa venisse fatto rientrare al più presto. A me, che gli ero compagno a Roma, la cosa non risulta, ma supposto che sia vera (e non facile, perché a fine ottobre le destinazioni al Seminario Lombardo erano già decise da un pezzo) non riterrei che Caudana volesse sbarrare la strada a un concorrente, pericolo ancora lontanissimo per lui, ma piuttosto che desiderasse liberarsi al più presto dall’insegnamento del gregoriano, sul quale era molto meno preparato di quanto avesse fatto credere al momento della sua nomina: dopo un breve soggiorno in Francia per la Conferenza di Versailles si rendeva conto di avere barato.

Bisogna riconoscere che il movimento ceciliano a Cremona, anche se aveva trovato sostenitori, non aveva promosso manifestazioni. Nei Congressi lombardi di Musica Sacra figurano a volte organisti cremonesi paesani, ma non preti, soprattutto di città. Sulla rivista

1 Ripubblichiamo il prezioso saggio di mons. Ernesto Moneta Caglio contenuto nel volume Mons. Antonio Concesa.

Musicista di Dio (1905-1967), a cura di Pietro Nespoli, Cremona, 1984, pp. 15-26

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