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3 incontro: Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli (Mt 6, 1-34)

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28 marzo 2014 Scuola della Parola

3° incontro: “Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli”

(Mt 6, 1-34)

Il Discorso della Montagna, dopo le nove “Beatitudini” e le sei cosiddette “Antitesi”, ha espresso il suo apice nella invitante dichiarazione di Gesù: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48).

Per gli uditori assume il valore di un’indicazione diretta e inequivocabile, ma è altresì di una “chiamata” alla santità senza misura né sconti.

Così per coloro che hanno “ascoltato” il vangelo del regno e si sono mossi sulla via nel perseguire la volontà di Dio, l’invito alla “perfezione”

risuona ogni giorno come un monito e nel contempo avvertono che è un dono che suscita gratitudine e tensione spirituale, come un propellente di energia evangelica.

In realtà la dichiarazione di Gesù funge da molla interiore che attiva e rinnova la nostra intenzione e la nostra decisione di essere e di agire “come il Padre celeste”, in un impegno che abbraccia l’intera esistenza del discepolo, rappresentando l’aspetto ideale e dinamico della fede che non si accontenta mai ma tende sempre più in alto.

Di qui si deduce che la “vocazione alla santità” non è aleatoria, ma corrisponde esattamente alla nuova “identità” del credente, come condizione di riconoscimento e di appartenenza. E’ la santità che ti distingue e ti identifica. Il cristiano infatti appartiene a Cristo e a nessun altro; non ha appartenenze se non quella derivata appunto di essere nella

“compagnia dei santi”. Tutte le altre sono strumentali, storicamente legittime, ma non possono allontanarsi e dissociarsi dalla vera e unica appartenenza a Cristo.

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Solo in questa prospettiva si comprende perché Gesù ci invita a vivere e testimoniare una “giustizia superiore a quella degli scribi e farisei” con un’avvertenza molto importante: che questa giustizia non sia praticata per

“farsi vedere”, per essere applauditi e ammirati dalla società.

“State attenti a non praticare la vostra giustizia…” (Mt 6, 1-18)

Ritroviamo ancora richiamata la “giustizia”. E’ una parola cara a Matteo e alle sue comunità “giudeo-cristiane”. Si riallaccia a profonde risonanze bibliche che connotano una tradizione consolidata di atteggiamenti secondo la santità e la volontà di Dio.

Giustizia infatti non solo può significare rapporti sociali equi, attuati secondo le norme, oppure indicare la corretta distribuzione dei beni, secondo il principio del diritto “unicuique suum tribuere”, ma può allargare il significato a ciò che è “giusto”, anche a chi è “giusto” e dunque “pio” e dunque “santo” perché conformato al “Dio Santo”. Questo ci convince di non giocare mai al ribasso con Dio.

L’ampliamento di significati copre un ampio contesto religioso e indica la pietà e la religiosità (cfr. R. Fabris, p. 151). Giustizia riguarda dunque l’esplicitazione di un’attività di ordine religioso, attiene ad una pratica morale che sottintende una relazione profonda con Dio, cioè una vita che manifesta nei fatti concreti l’autenticità della relazione con “il Padre celeste”.

Vi è dunque uno stretto rapporto tra fede e pratica della fede, tra credere in Dio e conseguenti coerenti comportamenti: non vi può essere una dissociazione tra credere e agire come se appartenessero a “mondi”

separati e distinti. Il nostro rischio consiste nel collocare Dio fuori dalla vita, fuori dai nostri interessi, come fosse un estraneo: Dio di là, noi di qua, creando una combinazione di schizofrenia spirituale.

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La conseguenza sarebbe che le nostre scelte e le nostre azioni accadono come se Dio non ci fosse o dovessero rispondere a finalità del tutto a se stanti, esteriori rispetto a Dio. D’altra parte, possiamo misurare dove sta Dio nella nostra vita e quale peso comporta, se appena consideriamo la sua importanza e presenza effettiva quando siamo di fronte a decisioni ordinarie da prendere. L’appello a Dio come avviene e come nasce nella coscienza?

In tal senso il vangelo delle Beatitudini, accolto come criterio di verifica della qualità cristiana della nostra vita, ci dice se siano o no sotto la luce e il pensiero di Dio. Gesù ha posto il “criterio” di giudizio nella corrispondenza del nostro essere e agire alla volontà di Dio.

Conseguentemente è “Dio il nuovo centro gravitazionale e la relazione con lui determina l’agire giusto dei discepoli” (R. Fabris, p. 152). Ciò significa diventare “religiosi”, cioè “legati” a Dio.

Come a verifica della “pratica della giustizia”, Gesù propone tre ambiti particolari e già collaudati nelle tradizioni ascetiche della fede ebraica.

Sono l’elemosina, la preghiera, il digiuno. Così vediamo come siano state trasferite nelle comunità cristiane le “usanze” della pietà di Israele.

“Quando fai l’elemosina…” (Mt 6, 2-4)

Un esempio concreto di “fare giustizia” è la pratica dell’elemosina. Gesù non mette in discussione questa antica prassi, ma la stigmatizza, con un po’

di caricatura, nella modalità con cui viene posta in esercizio dagli

“ipocriti”. Questi ultimi non si configurano come una vera e propria “setta religiosa”, ma come individui abituati a fare beneficenza con eccesso di ostentazione, diventando un po’ ridicoli nella loro affettata esibizione.

Fanno della scena nella pubblica piazza, in stile pittoresco: sono un po’

teatrali. Ma non è tanto il senso del gesto generoso verso i bisognosi messo

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alla berlina, invece è la sua smaccata forzatura esterioristica, fatta apposta per essere onorati, ben notati.

Gesù li sferza con una condanna senza appello, talmente forte da bastare a mettere in guardia i discepoli. In realtà lo scopo della sentenza di Gesù mira a purificare il gesto ponendolo in relazione con il “Padre celeste” che mai sopporterebbe una condotta di autoglorificazione. L’elemosina risulta benefica se è fatta “nel segreto”, solo così potrà sperare nella ricompensa del Padre.

Val bene sottolineare la novità dell’insegnamento di Gesù che, rifuggendo da una mentalità di accumulo di meriti – come fosse un incremento di capitale per il paradiso – per le eventuali opere buone, indica la motivazione da configurare nella filiale relazione con il Padre il quale saprà riconoscere la bontà dell’atto nel giudizio finale.

Occorrerebbe qui osservare da vicino la nostra “religiosità” che, in qualche modo, si evidenzia dal gesto dell’elemosina. Tale disposizione deve nascere dal cuore buono e ricco di pietà, dal cuore che sa condividere e spogliarsi non tanto del superfluo, ma del necessario che “duole” perderlo per gli altri (cfr. Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2014).

“Quando pregate…” (Mt 6, 5-8)

La religiosità qui proposta riceve la verifica nella “preghiera”, come elemento caratterizzante della relazione con Dio. Dire “preghiera” è dire quale “immagine” di Dio abita in noi. Infatti la preghiera rivela il nostro intimo e insieme il nostro rapporto con Dio. Ci domandiamo: perché spesso si dichiara che è difficile pregare o che non si prega affatto o addirittura che non serve pregare?

Queste domande nascono dalla nostra condizione di vita, dello “stato”

della nostra interiorità, e dunque rispecchiano l’anima. Gesù qui suppone che comunque si preghi. Ma come si prega? Chi preghiamo? Cosa ci

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attendiamo dalla preghiera? Vi è un’attesa di essere esauditi? Per non confonderci dobbiamo pregare come si conviene e solo Gesù ci insegna a pregare.

La nostra preghiera infatti avviene sempre nel nome di Gesù; è lui che intercede incessantemente per noi (cfr. Rm 8, 34; Eb 7, 25); è lui il mediatore tra noi e il Padre, che grida in noi e per noi con la voce del suo Spirito che interviene presso Dio in favore dei santi (cfr. Rm 8, 27).

Allora “quando egli è in noi nella fede, nell’amore, nella grazia, nel suo spirito, quando la preghiera sale, dunque, da questo centro della nostra esistenza che è lui, quando tutto ciò che noi siamo nella preghiera e nel desiderio viene raccolto e unificato in lui e nel suo spirito, allora il Padre ascolta. In questa preghiera c’è tutto” (K. Rahner).

D’altra parte dobbiamo essere convinti che, “nell’unica grande preghiera dello Spirito di Cristo, nel nome di Gesù” (ivi), noi saremo davvero esauditi perché Gesù tanto ha accresciuto la nostra vita da essere “ripieni” di Dio. Il nostro “io” sarà pienamente soddisfatto, e lo sperimentiamo “nel segreto”

del cuore. In realtà, Gesù ci esaudisce “perché ci dà se stesso” e questo ci basta.

Di qui possiamo meglio comprendere un certo atteggiamento polemico di Gesù. Per Gesù il confronto è posto in relazione oppositoria agli

“ipocriti” e ai “pagani”. Sono considerati come categorie estreme di modi di pregare, da evitare da parte dei discepoli. I primi rappresentano i

“professionisti” della preghiera, quelli che ne conoscono tutte le minuzie, e perciò possono mettersi in mostra e vantarsene nel caso. I secondi rappresentano i “passionari” della preghiera, verosimilmente coloro che ritengono di condizionare Dio, fatto a loro immagine e somiglianza.

Riguardo ai primi è più evidente la strumentalizzazione di Dio per trarne profitto sociale ed essere ammirati. Anche qui la critica di Gesù è micidiale e senza scampo. I discepoli devono esattamente comportarsi in modo

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contrario per salvaguardare l’intima relazione con Dio: non possono porsi alla loro stregua e non vantarsi delle loro preghiere.

Gesù invita ad un’assoluta discrezione nella preghiera, tanto da essere fatta, paradossalmente, nel “ripostiglio” della casa. Qui il vangelo non intende contrapporre la preghiera pubblica con quella privata, quella personale con quella comunitaria, ma elevare la preghiera alla dignità del rapporto profondo con Dio. La preghiera viene dal cuore e lo “Spirito prega in noi” (Rm 8, 26; Gal 4, 6) e ci trasforma in Dio per “riposare” in lui.

Riguardo ai secondi la “critica” si volge alle modalità del pregare. Gesù contesta il tipo di preghiera esterioristica, fatta di ripetizioni esasperate e di ossessioni magiche quasi per piegare Dio a se stessi. Questa è una preghiera che sta tutta nell’orizzonte dell’umano. E’ lontana da Dio, è confabulata a partire da mentalità suggestionate, superstiziose e a volte maniacali.

Il confronto con i “pagani” appare curioso. Perché Gesù si riferisce a loro? Probabilmente perché intravede un rischio di ritorno a forme pagane o scorge il pericolo di ibridazione e di invischiamento con quelle modalità e credenze che di fatto non levano lo sguardo al Dio vivente.

Dunque occorre vigilare per non confondere la preghiera con le parole, la ricerca del proprio io o di emozioni o sensazioni interiori con un fecondo dialogo con Dio. In realtà non sono “tecniche” tese a favorire l’unione con Dio, ma per muovere se stessi. Gesù vuole insegnare che la preghiera è essenzialmente relazione di amore con Dio, un evento personale che si crea nel profondo dello spirito.

“Voi dunque pregate così: Padre nostro…” (Mt 6, 9-15)

Gesù contrappone alla deriva della preghiera degli “ipocriti” e dei

“pagani”, una speciale e unica nel suo genere “preghiera al Padre”. Essa

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dev’essere molto semplice e pienamente esaustiva. Così Gesù inventa il

“Padre nostro”. E’ una composizione letteraria di due strofe, suddivise in tre “stichi” ciascuna.

Il “Padre nostro” è in realtà la preghiera di Gesù, il Figlio. Lui ci fa essere ciò che siamo: uguali a lui, figli nel Figlio, che si rivolgono al Padre con il suo stesso Spirito (S. Fausti, p. 93). Questa preghiera raccoglie e condensa la contemplazione, la conoscenza e l’amore del Figlio verso il Padre e insieme la tenerissima cura del Figlio verso i suoi fratelli.

Così, con grande evidenza, da una parte emerge la “signoria sovrana di Dio” e dall’altra si enumerano “i bisogni fondamentali dell’uomo” (R.

Fabris, p. 154). E’ dunque una preghiera che riassume il desiderio intenzionale del credente verso Dio, che è Padre, riconoscendo in se stesso il suo stato di penuria, di limite, di tentazione, e l’esigenza di riconciliazione: esattamente lo stato di figlio (cfr. Parabola del padre misericordioso, Lc 15, 14-32).

Gesù inizia con un “pregate così”, in modo perentorio. Appare essere un comando indicativo di un’azione da intraprendere, di una direzione da imboccare con sicurezza. Tale indicazione si sbarazza delle precedenti modalità di pregare che sono inconcludenti e vane perché non promuovono la relazione personale con un “Dio Persona”. Gesù ci dona la sua preghiera come modello insuperabile e come interprete di ogni altra preghiera.

“Padre nostro che sei nei cieli” costituisce l’invocazione di inizio che apre al senso e al contenuto della preghiera che sta per snodarsi. Gesù inizia con uno sguardo in alto, puntato verso il Padre “che sta nei cieli”.

L’aggettivo pronominale “nostro” ci fa intuire la “vicinanza” del Padre pur nella “distanza” dei cieli. Certamente si sottolinea la “trascendenza” di Dio, la sua “alterità” rispetto all’uomo, la sua “signoria” rispetto al mondo.

Nell’appellativo “Padre”, Gesù rivela chi è Dio per noi, la sua paternità per

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la quale noi siamo figli, per la quale è possibile rivolgere la parola, è udibile la sua voce, è ascoltabile la sua volontà. Queste caratteristiche rendono effettivo il “dialogo” tra Padre e figlio e tra figlio e Padre. E’ un dialogo nel “tu”, nella verità e nella libertà, nell’adorazione e nella confidenza, producendo fiducia e abbandono, obbedienza e sottomissione.

Il “nostro” Dio è “Padre”, grido dello Spirito che abita il cuore (Rm 8, 16) che ci fa figli (1 Gv 3, 1).

“Sia santificato il tuo nome” coglie la “persona” chiamata e che chiama a rispondere. L’invocazione indica che la santità di Dio sia riconosciuta come “santificante” in ordine alla salvezza. Dio sia onorato perché salva, purifica, costituisce il suo popolo sotto il suo nome santo: che Dio si riveli per quello che è come Dio fedele e salvatore. L’invocazione mira a far sì che tutti i popoli riconoscano il Dio che ama e lo glorifichino.

“Venga il tuo regno” rappresenta in primis la missione del Figlio ed è il desiderio dei discepoli. L’avvento del regno costituisce l’essenza della predicazione-missione di Gesù: è stato inviato per annunciare l’avvento del Regno (Mt 3, 2). Il che comporta instaurare nel mondo l’amore salvifico del Padre. Il regno è il compimento del disegno di salvezza: è la stessa volontà del Padre che tutti siano radunati nel suo Regno di giustizia, di amore e di pace. E’ la stessa convinzione dichiarata di Gesù: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17, 21).

“Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” senza confini in una rigenerazione totale e universale. La volontà di Dio è che tutti gli uomini siano salvi, nessuno escluso: “Che nessuno si perda di quelli che mi hai dato” (Gv 6, 39). Nella volontà del Padre si realizza totalmente la missione di Gesù: per questo volontà e missione sono coestese e compenetrate. Gesù è venuto per fare la volontà del Padre, non la sua (Mt 26, 42) e d’altra parte, riguardo a noi, “la volontà del Padre è la vostra santificazione” (1Ts 4, 3).

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“Dacci oggi il nostro pane quotidiano” è il nutrimento necessario per l’esistenza umana. Corrisponde al “Padre nostro” che è dono per tutti. E qui il “pane” è “nostro” perché è proprio “dei discepoli solidali con tutti quelli che condividono la loro condizione di uomini” (R. Fabris, p. 159). Il pane è la vita, è “il pane di vita” (Gv 6, 32-35), è la parola del Padre fatta carne (cfr. S. Fausti, p. 94) di cui si ha bisogno per vivere nel modo voluto da Dio. E’ il pane necessario e indispensabile per vivere bene la giornata, che dona fiducia oltre gli affanni quotidiani. Questo pane sazia a sufficienza per raggiungere il Regno di Dio da cui nessuno può essere scartato. Si prefigura la manna dell’esodo, ma soprattutto il “pane dell’eucaristia” di cui i discepoli hanno bisogno per essere in comunione con Cristo e poter resistere nella sequela del Regno.

“Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” significa che siamo liberati dai pesi che ci opprimono, cioè dai nostri peccati e possiamo condividere il pane da fratelli. Qui emerge tutta la durezza del renderci liberi dai fardelli che appesantiscono la coscienza.

Ancor più si eleva il contrasto: siamo debitori di fronte a Dio e chiediamo di essere alleggeriti per vivere nel perdono e nella gioia con il prossimo.

Perciò è necessario che al perdono richiesto a Dio corrisponda il nostro perdono verso i fratelli.

“E non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male”, ciò sarebbe per noi fatale perché il maligno ci attira a sé con ogni mezzo. Si chiede al Padre di non farci entrare nel circolo micidiale della tentazione, ma di tenerci protetti tra le sue braccia che ci avvolgono come una difesa sicura.

Il male è sempre insidioso e subdolo, “va in giro cercando chi divorare”

(1Pt 5, 8) e da soli si rischia di soccombere. Come Gesù ha vinto la tentazione nel deserto (cfr. Mt 4, 1-11) e la prova del Getzemani (cfr. Mt 26, 36-46) appellandosi al Padre, così i discepoli pregano perché il Padre

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non permetta al maligno di tirarci fuori dal suo amore o di lasciarci sprofondare nell’abisso del nulla.

La preghiera di Gesù traduce il “Discorso della Montagna” in una tensione di sguardo ardente verso il Padre e nel contempo senza perdere il contatto con la realtà di ogni giorno che assomma il carico dei nostri bisogni e debolezze, l’urgenza della riconciliazione e la dura prova contro il maligno. Ultimamente, il “Padre nostro” esprime un atto di fiducia illimitato (cfr. la Preghiera d’abbandono di Charles De Foucauld).

“Quando digiunate” (Mt 6, 16)

Gesù dopo l’istruzione sulla preghiera e l’inclusione del “Padre nostro”, presenta un insegnamento sulla pratica del “digiuno” come esemplificazione in ordine ai mezzi per assecondare la religiosità singola e comunitaria già presente nelle tradizioni bibliche.

La pratica del digiuno era “regolata” da precetti e era ufficializzata in particolari circostanze penitenziali e di purificazioni. L’astinenza dai cibi aiutava a riconoscere la sovranità di Dio e dunque la sua volontà nelle vicende umane. Il digiuno era prescritto dalla Legge per la festa dell’Espiazione (Yom Kippur, cfr. Lv 23, 26-32) e successivamente nel tempo la pratica si era estesa in circostanze di lutto (cfr. Zc 7, 1-5) e sia per invocare la benevolenza di Dio (Ger 36, 6-9).

E’ il profeta Isaia che con veemenza e rigore etico riprende la prassi del digiuno. Osservando la decadenza e richiamando il senso profondo e profetico del digiuno, il profeta proclama:

“Ecco nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari,/angariate tutti i vostri operai./Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi/e colpendo con pugni iniqui./Non digiunate più come fate oggi,/così da far udire in alto il vostro chiasso./E’ forse come questo il digiuno che bramo,/il giorno in cui l’uomo si mortifica?/Piegare come un giunco il proprio capo,/usare sacco e cenere

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per letto,/forse questo vorresti chiamare digiuno/e giorno gradito al Signore?/non è piuttosto questo digiuno che voglio:/sciogliere le catene inique,/togliere i legami del giogo,/ rimandare liberi gli oppressi/e spezzare ogni giogo?/Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,/nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,/nel vestire uno che vedi nudo,/senza trascurare i tuoi parenti?” (Is 58, 3b-7).

Gesù sottopone a critica non la pratica del digiuno – da lui stesso assecondata nel deserto – ma la esteriorizzazione e la strumentalizzazione delle modalità del digiuno. Con accenti assimilabili alla parodia, Gesù mette a nudo la vacuità degli “ipocriti” che pubblicizzano il digiuno come prestigio, deformandolo in gesto plateale.

Non così si comportino i discepoli del Signore. Di fatto nella visione cristiana il digiuno assume il suo vero valore se mira a consolidare la relazione con Dio, come fosse “una preghiera del corpo” (S. Fausti, p. 98).

In altro versante, il digiuno esprime una privazione per soddisfare la fame del povero e ricerca una condivisione con l’affamato, attraverso il segno della sobrietà, che è la misura dell’accontentarsi in riferimento alla morigeratezza dei sensi. Così diventa una forma di regolatore della voracità e degli istinti in vista della purezza del cuore che “vede” Dio.

A ben vedere le culture che fondano l’edonismo e il consumismo contemporanei rivelano ed esprimono un’insaziabilità sfrenata. Essa va ordinata da un giusto equilibrio delle tendenze istintuali per promuovere la custodia della mente e del cuore.

Non si dimentichi che oggi si diffondono patologie da digiuno come l’anoressia e la bulimia o le diete ipocaloriche: sono sintomi di un male oscuro, dove all’uomo-donna viene sottratto l’amore, la filialità, la relazione positiva con il corpo. Così la pratica del digiuno diventa perversa e contro la dignità della persona.

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“Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21)

Ora il discorso di Gesù tocca alcune situazioni di vita che sono riconducibili alla valenza decisiva del primato di Dio nell’ordinaria quotidianità perché il regno dei cieli si attui giorno per giorno in noi. In particolare lo sguardo di Gesù si volge alle scelte della coscienza. Lui si preoccupa di depurare le intenzioni del cuore e i comportamenti che da lì scaturiscono. Con immagini semplici scandaglia ciò che muove il profondo: il tesoro nel cielo, l’occhio luce del corpo, Dio e la ricchezza, la ricerca del regno di Dio come espressione di libertà e di essenzialità.

Sembra che Gesù scelga alcuni ambiti più a rischio per la nostra risposta a Dio. E’ del tutto evidente che sussistono “situazioni critiche” per le quali siamo impediti di seguire Gesù: come l’attaccamento al denaro, l’ambiguità dello sguardo, l’ambivalenza del possesso e degli affetti, l’eccesso di preoccupazione per le “cose” del mondo. Questi rischi ostacolano la pratica semplice ma esigente delle Beatitudini.

L’immagine del tesoro accumulato (Mt 6, 19-21), illustra un atteggiamento che propizia l’idolatria del possesso che obnubila la mente e sostituisce e devia l’orientamento verso la piena fiducia in Dio. Se uno è tutto preso dal tesoro che luccica, affascina, tende a dimenticare la destinazione ultima dell’uomo che è il cielo. Si comprende bene la sentenza di Gesù: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Sotto la forza suadente del “tesoro”, fonte di soddisfazione narcisistica, si sarà attirati come un magnete, e tutto finirà in un’immensa illusione. In realtà quale delusione per uno che ha scelto Cristo, come suo tesoro, e tutto ha venduto per “possedere la perla preziosa del regno” (cfr. Mt 13, 45-46) e poi si ritrova denudato e privo di ogni prospettiva eterna! Meglio sarebbe liberarsi da “cose” ingombranti e donarsi totalmente al regno dei cieli.

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Così l’altra immagine che indica “la lampada del corpo è l’occhio” (Mt 6, 22-23), Gesù intende mettere a fuoco una mentalità balorda e nebulosa, complicata e falsante la realtà, che allontana dalla verità di Dio. Prende in considerazione la simbologia dell’occhio/luce. Dall’occhio infatti passa la visione delle cose che determinano le decisioni. Per questo dev’essere limpido, “luminoso” e capace di verità. Se l’occhio è “cattivo”, tutto è già compromesso. Il comportamento, così come la relazione con gli altri, subisce una distorsione. Tieni l’occhio pulito e il corpo sarà libero da ombre maliziose. Se il tuo occhio è malato, guariscilo nella luce del collirio di Dio, diversamente produrrà in te le opere putride della carne. Se il tuo occhio è tenebroso, tutto si trasforma in notte fonda e smarrisci la retta via.

 Gesù costringe a scegliere tra due padroni (Mt 6, 24). In realtà la nostra indole ci porterebbe a stare contemporaneamente di qua e di là, a cavalcare due cavalli (S. Fausti, p. 103), a tradire l’uno per l’altro. Forse la doppiezza costituisce l’accomodamento della vita: tenere insieme “due padroni” (Mt 6, 24). Ma ciò sbilancia ogni equilibrio. L’alternativa si pone: o stare con Dio o stare con gli idoli, o essere figlio di Dio o creatura senza scopo.

L’insidia più incisiva è l’idolatria della ricchezza. Gesù getta un giudizio molto pesante sul denaro perché ne conosce l’intrinseca ambigua natura, quella di accalappiare le coscienze e di ammorbarle. Qui è messa sotto accusa la cupidigia della ricchezza che conduce alla follia, alla schiavitù.

Servire il denaro diventa una prostituzione, procura un piacere finto.

Occorre dunque essere liberi per dedicarsi al “servizio di Dio”. Il vangelo è antitetico al culto della ricchezza.

“Perciò” – è una formula conclusiva e riassuntiva – Gesù ci sprona ad una libertà più grande che si attua nel solo modo possibile ai cristiani:

“Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6, 33).

Questo “cercare” implica la logica di uno strappo liberante che procura un autentico alleggerimento della vita, un vero abbandono alla Divina

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Provvidenza. Sembra avvertire un vento leggero che solleva lo spirito, che spinge ad uscire dalle nostre preoccupazioni, paure e angosce esistenziali.

Gesù sa trovare delle immagini suggestive e convincenti: “Non preoccupatevi per la vostra vita” – è ripetuto tre volte! – e subito invita a guardare gli “uccelli del cielo” e “i gigli del campo”. Queste proposte di Gesù non si possono ridurre a poetiche e nostalgiche visioni naturalistiche.

In realtà Gesù scuote i discepoli da una tentazione paganeggiante che si strugge nelle convenienze di apparire e negli affanni del vivere in un certo stile. Per non intorpidire la bellezza e l’integrità che derivano dalla purezza delle Beatitudini, Gesù indirizza la scelta dei discepoli nella linea nella coerenza della relazione di fede con il Padre celeste. Ciò non è detto come assunzione di un fatalismo contro un attivismo smodato: sono estremi, entrambi dannosi e controproducenti. Gesù propone la libertà di scelta del meglio se si intende accogliere la promessa del regno, senza cadere nell’angustia del quotidiano. Chi vive nella certezza della paternità di Dio, sa bene che non mancherà di nulla. L’argomento a fortiori di Gesù fa risaltare la bontà di Dio verso le sue creature. Per dire: se Dio cura gli uccelli e i gigli, non avrà ancora più cura degli uomini?

 Pare del tutto evidente che, se i discepoli si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni del cibo e del vestito in modo ossessivo, Gesù li apostrofi

“gente di poca fede”(Mt 6, 30), che risente di un rimprovero atto a suscitare una risposta positiva e “credente”. In definitiva a Gesù sta a cuore la perseveranza della fede, la purificazione di atteggiamenti che colludono o confliggono con una vera relazione filiale con il Padre celeste il quale “sa di quello che ne avete bisogno” (Mt 6, 32).

Lontano dunque “da un ottimismo incurante e ingenuo” (R. Fabris, p.

174), Gesù suscita una responsabilità che ottimizza fede e libertà, che sono le condizioni perché si attui la “giustizia di Dio”, cioè la sua volontà

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misericordiosa. E’ il senso della esortazione finale: “Cercate, invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6, 33). In tale prospettiva si compie il disegno di salvezza che ci libera da tutte le pastoie dell’esistenza e ci apre la strada alla felicità, dono specifico e proprio del Regno dei cieli, adempiendo la promessa delle Beatitudini.

Preghiera finale Signore, sempre con più consapevolezza mi rendo conto che chiedi l’impossibile.

La tua parola,

che prende nel profondo e travolge il cuore, mi procura un senso di impotenza.

Mi chiedi una decisione troppo grande, superiore alle mie forze.

Ma, nonostante tutto, voglio seguirti, dicendo “basta” alle mie incertezze.

Elemosina, preghiera, digiuno, gesti religiosi che siano fatti senza ostentazione.

Va bene, capisco che non è opportuno fare del teatro.

Ma mi chiedo: quando davvero faccio elemosina?

Quando davvero prego? Quando davvero digiuno?

Per l’elemosina? Lascio che la faccia il mio vicino.

Per la preghiera? Sì, quando ne sento la voglia.

Per il digiuno? E’ affare da eremiti.

Così, povero me, non faccio un bel niente!

Fammi capire il valore dell’elemosina, della preghiera, del digiuno:

mi ci vuole uno scossone,

di quelli che costringono a rinsavire e ritornare a te.

Oh, ecco il Padre nostro!

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Mi scopro figlio di fronte al Padre e mi commuovo nell’invocarti “Padre”,

come il figliol prodigo che si prostra fino a terra e sente il tuo caldo abbraccio.

Grazie, papà! Tu sei mio Padre, io sono tuo figlio.

Adesso posso guardarti, fissarti dritto negli occhi, scoprire il tuo amore senza misura.

Grazie Signore! Abbi compassione di me!

Donami la forza della tua parola:

che possa riprendere il cammino della vita, ed essere portato sul palmo della tua mano.

Il mio tesoro sei tu, come la mia sicurezza.

La mia giustizia sei tu.

Che io cerchi anzitutto il tuo regno,

perché so che non avrò più bisogno di nulla.

Tu sei tutto per me.

E il domani non mi sarà di pena perché mi basta la tua grazia.

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Preghiera d'abbandono

Padre mio,

io mi abbandono a te, fa di me ciò che ti piace.

Qualunque cosa tu faccia di me Ti ringrazio.

Sono pronto a tutto, accetto tutto.

La tua volontà si compia in me, in tutte le tue creature.

Non desidero altro, mio Dio.

Affido l'anima mia alle tue mani Te la dono mio Dio,

con tutto l'amore del mio cuore perché ti amo,

ed è un bisogno del mio amore di donarmi

di pormi nelle tue mani senza riserve con infinita fiducia

perché Tu sei mio Padre.

C. De Foucauld

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Il Regno di Dio si realizza nella nostra storia quando la volontà di Dio diventa storia, vita quotidiana, quando cioè i credenti sanno mettere in pratica il Vangelo, compiendo

Poi lo ha asciugato così delicatamente e lo ha porto a Simona che lo ha toccato come l’essere più prezioso del mondo. Erano tutte e due attente,

 Un cristiano deve, per vocazione e professione di fede cristiana, aver la passione dell’unità della Chiesa, per amore della verità di Dio che è il solo e vero solido fon-