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1III. NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA III.1. Passato-presente-futuro

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140 1III. NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA

III.1. Passato-presente-futuro

- Si dice che io ho trent’anni; ma se ho vissuto tre minuti in ogni minuto…, non ne ho novanta?1

La preveggenza ha sempre turbato in me la gioia. Ho guardato all’avvenire come a un processo in pura perdita; e non ho mai potuto evitarlo.2

Un’ora non è soltanto un’ora, è un vaso ricolmo di profumi, di suoni, di progetti e di climi. Ciò che chiamiamo la realtà è un certo rapporto fra le sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente – rapporto escluso da una semplice visione cinematografica, la quale, dunque, tanto più s’allontana dal vero quanto più pretende di limitarvi ad esso -, unico rapporto che lo scrittore deve trovare per incatenarne per sempre l’uno all’altro, nella sua frase, i due diversi termini.3

Se la percezione nel presente è condizionata dall’esperienza passata che la veste di aspettative, e se il passato viene continuamente rielaborato in base alle esigenze soggettive nel presente, allora bisogna collocare la memoria, in particolare quella autobiografica, su un asse che va dal passato al futuro (o viceversa) e che ha centro nel presente.

La memoria non è nel passato, benché i suoi contenuti siano passati, ma nel presente in cui si ricorda, così come il futuro, che si può immaginare solo nel presente, e a partire dalle conoscenze e dalle esperienze vissute nel passato.

Non sarebbe infatti possibile immaginare il futuro se non avessimo un’idea di come possano andare le cose.

E come afferma Lejeune4 la lettura del passato si può definire ‛profetica’, a posteriori, nel suo collegare elementi del passato a quelli del presente, come a dire che in base a quanto accaduto doveva andare proprio così.

È questo il senso della ricerca costante di coerenza nella ricostruzione autobiografica, in cui è fortemente presente anche la dimensione del futuro, quanto a desideri e progetti.

1 Baudelaire C. (1887), Diari intimi, tr. it. e note Zatto L., Mondadori 1970, p.59

2 Rousseau J.-J-, Le confessioni, tr. it. Cesarano G., Garzanti, Stampato in Italia 2000, p.109 3 Proust M., Il tempo ritrovato, tr. it. Raboni G., Mondadori, Milano 1993, p.202

4 Lejeune P., “Auto-genèse. L’étude génetique des teste autobiographiques”, Genesis, n.1, pp. 73-87, 1992

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141 Bruner5 ravvede nella narrazione di sé proprio la peculiare opportunità di riprogettarsi, dal momento che la ricerca di senso può essere uno stimolo al cambiamento.

Ma il futuro nella scrittura autobiografica è presente anche sottoforma di desiderio di lasciare una traccia di sé, collegato alla paura della morte, confine ineluttabile della vita, dell’esserci.

Gli io che popolano un soggetto, quindi, oltre ad essere quelli andati ma conservati, oltre a quelli presenti e talvolta in conflitto tra loro, sono anche quelli possibili6, proiezioni e fantasie indispensabili per non arrestarsi sulla strada complessa e accidentata che è la vita.

Singer e Salovey hanno definito ‛self-defining memory’7 quei ricordi che hanno la caratteristica particolare di essere strettamente legati al presente (secondo la prospettiva soggettiva) e che rappresenterebbero bene il legame tra memoria e personalità: il ricordo di un interesse, o all’opposto di un problema, nato nel passato e che si è protratto nel presente.

La connessione temporale, per questo tipo di ricordi, non si limita a passato-presente, ma coinvolge anche il futuro in termini di mete che il soggetto si prefigge, partendo dall’utilizzo fatto dei ricordi per spiegare il presente.

Il soggetto, nel suo rimuginare sul passato, fa avanti e indietro tra passato e presente, per recuperare i ricordi utili ad una narrazione che regga la necessità di senso, in funzione del futuro: l’iniziativa riguardo ad esso inizia dalle considerazioni su ciò che è stato.

Qui il tempo è inteso come tempo della coscienza, dove il presente è lo stato del soggetto che utilizza il passato per orientarsi e proiettarsi sul futuro.

Il tempo lineare in senso newtoniano è un paradosso: poiché passato e futuro non esistono e il presente, se inteso come l’attimo, un punto non esteso, è destinato a divenire rapidamente passato.

5 Bruner J.S., (1990), La ricerca del significato: per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992

6 Markus H., Nurious P., “Possible Selves”, in American Psychologist, 41, 954-9, 1986

7 Singer J.A., Salovey P., Motivated memory: self defining memories, goals, and affect regulation, in Martin L.L, Tesser A. (Eds), Striving and feeling: interactions among goals, affect, and self-regulation (pp.229-250), Eribaum, Hillsdale, NJ 1996

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142 Inoltre, come ha osservato Rossi8, il tempo rappresentato dalla freccia che parte da un punto per dirigersi verso un altro, non ammette ripetizioni e gli eventi sono considerati unici e irripetibili, mentre, dai numerosi racconti introspettivi, di cui presenteremo alcuni esempi significativi più avanti, emerge chiaramente che certi eventi ritornano, che ciò che è passato non è andato per sempre né concluso.

Una concezione del tempo vicina alla vita degli individui e alla realtà circostante è quella del ciclo (si pensi all’alternanza giorno-notte, a quella delle stagioni, fondamentali per l’agricoltura ad esempio) e l’idea dell’immortalità dell’anima presente in numerose culture e religioni antiche, permetteva di bypassare l’ostacolo della particolare condizione umana, per cui la morte spezzerebbe il cerchio.

Ma anche questa interpretazione del tempo non soddisfa appieno le istanze psicologiche di una soggettività in continuo mutamento: se infatti l’immagine del cerchio chiuso presuppone il continuo ritorno, dall’altro può rappresentare, a suo modo, una sorta di stasi, in cui tutto cambia apparentemente, ma nulla veramente.

Se torniamo al concetto di linea, si potrebbero ipotizzare più linee e non soltanto una: ad esempio il tempo della veglia è diverso da quello del sonno; quello della fisica (che è irreversibile) è diverso da quello della matematica (per cui il tempo non ha valore). Oppure può cambiare la direzione della freccia: nella cultura ebraica il tempo parte dal futuro per andare verso il passato.

Ma se cerchiamo di definire il tempo spazialmente, non si può che incorrere, come già detto, che in un paradosso.

Se il presente fosse l’istante, diventerebbe subito passato, quindi inafferrabile. Proprio al tempo Agostino, nelle sue Confessioni ha dedicato ampio spazio:

Cos’è invero il tempo? Il passato non è più, il futuro non è ancora; solo il presente è, e il tempo è in quanto presente. Ma dove, a chi? All’esperienza del soggetto, che ricorda il passato, attende il futuro, misura il presente. E il soggetto come lo misura? Il tempo non è certamente costituito dal movimento misurabile, come volle qualcuno, che anzi il tempo stesso misura la durata del movimento, sì che è pur sempre il tempo che in ultima analisi occorre misurare. Il tempo: ma quale? Non il passato, né il futuro, che ci sono apparsi inesistenti; e neppure il presente, che è inarrestabile. Dunque il tempo in se stesso non è misurabile; ma si può presentare in qualche modo come un’estensione: un’estensione dell’animo. Nell’animo esistono continuamente il passato, il presente e il futuro, ricordati, percepiti, attesi

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143 in diversa misura; e nell’animo non misuriamo infatti le impressioni, stabili, queste, e comparabili, che esse vi lasciano nel loro moto incessante.9

Il tempo esiste solo come estensione dell’animo, in cui tutte e tre le dimensioni sono presenti, in forma di ricordo o di attesa.

Più avanti Agostino afferma che c’è una conoscenza interiore del senso del tempo, ma una conoscenza inesplicabile.

E questo perché, se è vero che possiamo parlare di passato perché ci sono fatti che sono passati, se possiamo parlare di futuro perché arriva, e se possiamo parlare di presente, perché in esso siamo, tuttavia il tempo ‛tende a non esistere’10: se il presente non passasse non esisterebbe il passato e se il futuro non divenisse presente non ne potremmo parlare.

Difficile, anzi impossibile misurare il tempo, eppure, rileva Agostino, tutti stabiliamo la durata degli eventi e confrontiamo tra loro le diverse durate; quello che si può misurare è però solo il passare del tempo:

Eppure, Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l’uno è più lungo o più breve di un altro, rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo, essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l’inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è.11

Anche i ricordi, secondo Agostino, non sono una realtà, ma esistono solo nel presente sottoforma di rievocazione grazie alla memoria.

Notiamo in questo passaggio un’intuizione che verrà poi confermata dagli studi sulla memoria in tempi recenti e di cui abbiamo ampiamente parlato: i ricordi sono riformulazioni del passato a partire dal presente.

A questo punto non si può che affermare che passato e futuro non esistano, o meglio bisognerebbe dire che:

[…] i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le

9 Agostino, Le Confessioni, C. Carena (a cura di), Mondadori, Milano 2012, p.304 10 Ibidem, p.317

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144 vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. […] la tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato.12

La memoria non serve soltanto a collegare tra loro e a spiegare gli eventi accaduti, ma anche per intessere sopra essi le aspettative e i sentimenti legati al futuro, futuro che è immaginato come presente.

Per Rousseau solo attraverso la memoria è possibile la comprensione degli avvenimenti: nel presente si è colpiti dall’aspetto esteriore delle cose, mentre quando esse non sono più, sono passate, si possono comprendere i pensieri che hanno generato determinate situazioni.13 Il presente è indecifrabile, è il passato la fonte della conoscenza.

Il futuro, incerto, non merita investimenti di lunga durata, per l’autore, ed anzi, la vera gioia deriva dal ritornare sul passato, un passato consolante rispetto ad un presente contrassegnato dalle sventure.

Pare che l’unico tempo significativo per l’autore sia il passato, fonte di conoscenza e di consolazione, ma allo stesso tempo di rimpianto per la sensazione di non aver vissuto appieno:

I ricordi dei diversi periodi della mia vita mi condussero a riflettere sul punto cui era pervenuto, e mi vidi già sul declino dell’età, preda dei mali dolorosi, e convinto di approssimarmi alla fine del mio cammino senza aver gustato nella sua pienezza quasi nessuno dei piaceri di cui il mio cuore era assetato, senza aver sprigionato i vivi sentimenti che vi sentivo rinserrati, senza aver assaporato, senza nemmeno aver l’inebriante voluttà di cui sentivo, in potenza, gonfio il mio animo e che, in assenza d’oggetto, vi si trovava eternamente compressa, senza poterne esalare che sospiri. […] Divorato dal bisogno d’amare, senza mai averlo potuto soddisfare, mi vedevo toccare le soglie della vecchiaia e morire senza esser vissuto.

[…] Mi sembrava che il destino mi dovesse qualcosa che non mi aveva dato. A che pro farmi nascere con doti squisite, per lasciarle sino alla fine inoperose? Il sentimento del mio interno valore, dandomi quello di tale ingiustizia, mi compensava in qualche modo, e mi faceva versare lacrime che mi piaceva lasciar scorrere.14

Se per Rousseau l’unico tempo significativo è quello del passato, perché solo in esso è possibile afferrare il senso degli eventi e solo esso può lenire la sofferenza presente,

12 Ibidem, p.323

13 Rousseau J.J., Le confessioni, cit., p.118 14 Ibidem, p.442

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145 Nietzsche nella sua Inattuale già citata precedentemente considera il passato una vera e propria catena per l’uomo, impossibilitato a vivere la beata cecità dell’attimo e schiacciato dal fardello di questo ininterrotto essere-stato, da cui può essere liberato solo con la morte:

L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò.

Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. È un miracolo: l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. […] Allora l’uomo dice “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante. […] L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello, che egli può ben far mostra di rinnegare, e che nei rapporti coi suoi simili rinnega fin troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso perduto, il vedere il gregge che pascola o, in più familiare vicinanza, il bambino che non ha ancora nessun passato da rinnegare e giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro. E tuttavia il suo giuoco deve essere disturbato: anche troppo presto egli si risveglia dal suo oblio. Allora impara a intendere la parola “c’era”, quella parola d’ordine con cui lotta, sofferenze e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua esistenza – qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa.15

Questo ragionamento estremo, per cui l’animale immemore sarebbe più felice dell’uomo per la condizione di perenne presente in cui vive grazie alla mancanza di memoria, serve in realtà a sottolineare il fatto che, sebbene in effetti l’uomo divenga tale grazie all’attualizzazione del passato che gli permette di pensare, riflettere, connettere, tuttavia un eccessivo sbilanciamento verso il passato inibisce l’azione e l’iniziativa. Quindi anche se il disprezzo per il passato è ridimensionato, sembra che il tempo privilegiato nella riflessione nietzscheana sia quello presente, in cui la giusta dose di passato, quel tanto che serve a fare di un uomo un uomo, è propedeutica all’azione rivolta al futuro.

15 Nietzsche F. (1874), Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. S. Giametta, Adelphi, Milano 1973 e 1974, pp.6-7

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146 La storia al servizio della vita e non della conoscenza è quella che prende in considerazione il passato solo per evidenziare il processo esistenziale, per comprendere il presente e desiderare il futuro: il tempo dovrebbe essere una freccia che si proietta sempre dal passato verso l’avvenire e la felicità sta ‛dentro il monte verso cui camminano’.16

Il culto antiquario per la storia, quello cioè che non si limita a riconoscere l’importanza delle radici per sentirsi frutto di un passato sensato, produce una visione distorta della realtà, poiché gli eventi passati non sono misurabili e confrontabili tra loro: a tutto viene dato importanza dal punto di vista del soggetto o della collettività che si volta costantemente a guardare indietro.

Quando il passato non è più ravvivato dal e nel presente prima muore la pianta e da ultime le radici stesse, poiché la vita è stata ‛mummificata’.17

Essa è capace appunto solo di conservare, non di generare vita; perciò sottovaluta sempre ciò che diviene, in quanto non ha per esso alcun istinto divinante – come per esempio lo ha la storia monumentale. Quindi la storia antiquaria ostacola la forte risoluzione per il nuovo, quindi paralizza chi agisce, il quale sempre, come agente, violerà e deve violare qualche pietà.18

L’uomo ha bisogno di affrontare il passato in modo ‛critico’, trovando ‛la forza di infrangere e dissolvere un passato per poter vivere’: il passato non va contemplato, ma condannato, perché a ben vedere si scorge la costante presenza al potere della ‛violenza’ e della ‛debolezza umana’.19

Proprio per lo stesso motivo, talvolta è necessario affrontare il passato per estirpare, sradicare le ingiustizie legate a privilegi di casta o di dinastia, ad esempio.

La storia è necessaria, ma solo al servizio della vita e non della pura conoscenza: la vita, il presente sono la dimensione principale per l’uomo: “Solo con la massima forza del presente voi potete interpretare il passato: solo nella più forte tensione delle vostre qualità più nobili indovinerete ciò che del passato è degno di essere conosciuto e preservato ed è grande.”20

Solo i giovani sono in grado di combattere la malattia storica: 16 Ibidem, pp.6-7 17 Ibidem, p.27 18 Ibidem, p.28 19 Ibidem, p.28 20 Ibidem, p.55

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147 Ma è malata, questa vita liberata dalle catene, e deve essere guarita. È malata di molti mali e soffre non solo per il ricordo delle sue catene – essa soffre, ciò che a noi qui principalmente importa, della malattia storica. L’eccesso di storia ha intaccato la forza plastica della vita, essa non è più capace di servirsi del passato come di un robusto nutrimento. Il male è terribile, e nondimeno, se la gioventù non avesse il dono chiaroveggente della natura, nessuno saprebbe che esso è un male e che si è perduto un paradiso di salute. Ma questa stessa gioventù indovina anche col salutare istinto della natura come questo paradiso si possa riconquistare; essa conosce gli unguenti e le medicine contro la malattia storica, contro l’eccesso dell’elemento storico:come si chiamano?

Non ci si stupisca, si chiamano con nomi di veleni: i rimedi contro l’elemento storico si chiamano – l’anti-storico e il sovrastorico. […] Con il termine “l’antistorico” designo la forza e l’arte di poter dimenticare e di rinchiudersi in un orizzonte limitato; “sovra storiche” chiamo le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione.21

Anche Papini riconosce la preminenza della dimensione presente, ma in un momento di crisi esistenziale, di smarrimento, il soggetto, che è un soggetto incarnato e non metafisico, deve tornare alle proprie radici per ritrovarsi: non è quindi dal presente che si dota di nuovi significati il passato, ma sembra che il passato contenga delle verità intaccabili, a cui tornare per ridotare di significato il presente:

Eppure per ricostruirmi, per raddrizzarmi, per rimettermi a camminare, ho bisogno di appoggiarmi a qualcosa, di rimetter le radici in qualche posto. Non ho che me stesso ma questo me stesso è legato più strettamente con una parte dell’universo. Non sono un uomo metafisico e assoluto sospeso nell’atmosfera dei concetti. Sono nato in un certo posto, appartengo a una certa razza, ho dietro di me una storia, una tradizione. Raccogliere e concentrare me stesso significa pure rimettermi in contatto colla mia terra nativa, col mio popolo, colla cultura da cui, voglia o no, sono uscito.

Debbo ricominciare da capo, rinascere – tornare, cioè, alla matrice prima, non quella di carne della mamma, ma quella più vera e maggiore della patria. Finché sono stato soltanto un maniaco di cerebralità la mia patria era il mondo e la mia libreria era la nazione dove ritrovavo le sole leggi che rispettassi. Ma oggi che voglio rifare gli ossi e rimettere il sangue in movimento debbo ripigliar lo slancio dalle origini e tornare alle ràdiche più profonde del mio essere completo e concreto. Per questo ho voluto rifar conoscenza col mio paese e ritrovandolo ho riscoperto meglio anche l’anima mia. I dottori ordinano ad alcuni malati l’aria nativa. Per un caso felice quel convalescente ch’io sono è tornato a riempirsi il petto dell’aria paesana e se n’è trovato bene.22

21 Ibidem, pp.94-95

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148 Il fatto di avere un passato garantisce, per Papini, la certezza di avere anche un futuro e la vera nascita avviene quando l’individuo è consapevole di cosa sia e di cosa desideri per sé:

In quel momento il fanciullo entra in agonia e le ossa dell’uomo si assodano e si saldano. Allora la sorte ci tatua sulla fronte il suo marchio invisibile; il mondo firma il nostro passaporto; e la pelle del nostro corpo diventa senza avvedersene una divisa, un’uniforme, una livrea. Tu sarai dottore, tu sarai astronomo, tu sarai calzolaio, tu sarai facchino, tu ateo, tu scettico, tu rivoluzionario.

Questa terza nascita è il principio della morte: tutte le altre vite possibili sono allontanate, condannate, dimenticate, uccise.23

Costretto su un letto ad una quasi immobilità e ad una temporanea cecità in seguito ad una ferita da guerra, D’Annunzio, attraverso le bende, non vede il futuro, secondo l’immagine comune che attribuisce la chiaroveggenza ai ciechi, ma il passato:

[…] solo il passato esiste, solo il passato è reale come la benda che mi fascia, è palpabile come il mio corpo in croce.

Sento il fiato e il calore delle mie visioni.

Nel mio occhio piagato si rifucina tutta la materia della mia vita, tutta la somma della mia conoscenza. Esso è abitato da un fuoco evocatore, continuamente in travaglio.24

Il passato è talmente vivido che si riattualizza con il suo carico emotivo di dolore e rimpianti: in uno slittamento temporale frutto di questo allucinante stato di infermità addirittura il caro compagno morto resuscita per vegliare sulla bara del protagonista.25 Nell’impossibilità temporanea di vedere, gli occhi si riempiono di immagini del passato, di volti e delle passioni tracciate su essi.

Il presente è temporaneamente annientato dal passato debordante che non è cercato, ma frutto di una condizione imprevista, e il cui ritorno pare non avere alcuno scopo.

L’infermo, confinato in un presente in cui non può agire, è letteralmente succube di un passato fatto di ombre, immagini, allucinazioni, sentori, su cui il protagonista non ha alcun potere:

Il male che ha devastato tanta parte della mia esistenza, che ha guastato tanta mia ricchezza, che ha avvilito tanta mia passione, che ha affievolito tanto mio impeto, difformato tanta mia opera, distrutto tanti germi, contaminato tanto desiderio,

23 Papini G., Cinque capitoli di Un uomo finito non pubblicati da Papini, in Un uomo finito, cit., p.327 24 D’Annunzio G., Notturno, RCS, Milano 2011, p.14

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149 umiliato tanto dolore, il mio male originario, il mio male ereditario, ecco, forse per la prima volta, accumulato, isolato, concentrato in me; e mi duole come dolgono le infezioni mortali.

Non ho se non questo, non sento se non questo, non soffro se non di questo.26

Poter aprire gli occhi metterebbe fine a queste terribili apparizioni, ma gli occhi sono bendati e la tortura non può essere interrotta.

Alle visioni del passato è associato il buio della cecità; solo la luce farebbe cessare il martirio, solo la possibilità di vedere rimetterebbe al suo posto questo inquietante ripresentarsi del passato:

“Ho voglia di strapparmi le bende e di strapparmi gli occhi.

Voi mi bendate la fronte, mi fasciate le palpebre, mi lasciate nell’oscurità. E io vedo, vedo, sempre vedo. E di giorno e di notte, sempre vedo.”27

Il dolore che ritorna, ricordato forzatamente, è peggiore del dolore originale e non c’è niente da fare: quel dolore che, grazie all’oblio, il protagonista era riuscito a tenere a bada, riprende forma in maniera terribile:

Il passato mi piomba addosso col rombo delle valanghe; mi curva, mi calca. Soffro la mia casa fino al tetto, fino al comigno, come se le avessi fatto le travature con le mie ossa, come se l’avessi scialbata col mio pallore. […]

Ho vissuto tant’anni nella dimenticanza di queste cose; e queste cose possono rivivere così terribilmente in me?28

Questo brano sembra dare ragione a S. Freud e alla sua teoria della rimozione: non esiste vero oblio e i ricordi apparentemente obliati sono quelli più carichi emotivamente e non quelli meno significativi; ma essi possono ripresentarsi in forma patologica, perché proprio grazie all’oblio conservano una forza che, attraverso il ricordo e la ripetizione, avrebbero perso, come avviene per i ricordi usuali.

Il passato, come costante e ininterrotta sensazione fisica del dolore e del buio, pervade il presente, che diviene l’unica dimensione per il soggetto infermo: l’immobilità fisica ferma il tempo, o meglio lo annulla. C’è un continuo scorrere di immagini provenienti dal passato che non servono al soggetto per orientarsi, ma anzi, lo disorientano, lo confondono: “Il mio dolore è pieno di sangue. Ogni mio pensiero ha un peso di sangue.

26 Ibidem, p.85 27 Ibidem, p.94 28 Ibidem, p.102

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150 Talvolta in me repugnante il mio passato sanguina come un macello ingombro di bestie squartate e appese.”29

La condizione descritta è quella, provvisoria, di disperazione, in cui la vita sembra una lenta morte, senza prospettive, distesa su un presente senza scansione, su cui scorrono le immagini di un passato che però consiste in pure e semplici allucinazioni, per cui è impossibile immaginare un futuro.

Nella opposta riflessione autobiografica di Croce, in cui il filosofo prova a ricostruire lucidamente la sua storia di uomo intellettuale, il passato si può giudicare dalla prospettiva presente.

Ma non si tratta di una sentenza definitiva e questo fa insorgere nel filosofo la pratica della modestia e il sentimento di indulgenza verso se stesso e verso gli altri pensatori, poiché non è possibile giungere ad un’eterna verità:

Ora l’impossibilità che io osservava in me di riposare sul pensiero già pensato, e il rivedere rifiorire i problemi appena mietuta una messe di soluzioni, e ritornare in questione il già pensato (il che mi accadeva per gran parte della filosofia che andavo trattando o ritrattando), mi ammaestrarono col fatto, che la verità non si lascia legare una volta per tutte. E, a un tempo, m’ispirarono modestia pel mio pensiero presente, che sarebbe apparso a me domani insufficiente e da correggere, e indulgenza verso il me stesso del giorno prima, ossia del passato, che qualcosa aveva pure effettivamente pensato di vero, per inadeguato che apparisse al mio presente: modestia e indulgenza, che si convertirono in pio sentimento verso i pensatori dei tempi trascorsi, ai quali mi guardai dal più rimproverare, come prima solevo, di non aver saputo fare ciò che nessun uomo o grand’uomo può: fermare l’eterna verità, ossia fissare come eterno l’attimo fuggente.30

La modestia e l’indulgenza verso se stessi consentono di accettare la condizione precaria della lettura che del passato si fa e quindi delle convinzioni che si formano nel presente: il soggetto è in continua evoluzione, questo l’unico dato certo.

Il passato raccontato da Proust non è una sostanza omogenea, come abbiamo già visto: ci sono ricordi accessibili, che però hanno perso l’alone emotivo, esperienze che al momento di viverle erano state reputate importanti, ma che nel corso della vita sono andate perdute, mentre altre, al contrario, solo attraverso il tempo hanno acquisito importanza generando gioie e dolori; ci sono ricordi difficili da comprendere e ricordi

29 Ibidem, p.167

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151 che non possono essere recuperati, ma che riaffiorano indipendentemente dalla volontà riportando in vita le sensazioni che accompagnarono l’esperienza stessa.

Ci sono ricordi che diventano più vividi in un momento esistenziale di maggiore calma, silenzio: ad esempio il protagonista della Recherche riesce a sentire i singhiozzi del bambino che era quando il padre smise di dire alla madre di accompagnarlo. Per spiegare questo tipo di ricordi Proust ricorre all’inganno uditivo legato al suono delle campane: durante il giorno, soffocato dai ‛rumori della città’, può sembrare che non ci sia, per poi farsi nuovamente nitido nel silenzio notturno.31

Il tempo lineare, che è un’illusione che fatica ad essere rimossa (simile a quella per cui, pur sapendo che la Terra gira non ce ne rendiamo conto), introdotto dal padre al piccolo protagonista della Recherche con espressioni che sottolineano la crescita e quindi la fine dell’infanzia del figlio, genera nel personaggio principale una profonda tristezza.

Mentre il tempo della coscienza non è rigido, bensì elastico, dove le passioni possono dilatarlo o restringerlo e solo l’abitudine lo amalgama.32

La percezione del tempo è dunque legata allo stato psichico in cui si trova un soggetto: ad esempio l’alcol può allentare la coscienza e far risaltare il momento vissuto, un presente in cui il passato non si proietta sul futuro:

[…] l’alcool, tendendo eccezionalmente i miei nervi, aveva dato ai minuti attuali una qualità, un fascino che non avevano avuto per effetto di rendermi più idoneo e neppure più risoluto a difenderli; perché, facendomeli preferire mille volte al resto della mia vita, la mia esaltazione li isolava; ero rinchiuso nel presente come gli eroi, come gli ubriachi; momentaneamente eclissato, il mio passato non proiettava più avanti a me quell’ombra di sé che noi chiamiamo il nostro avvenire; ponendo lo scopo della mia vita, non più nell’attuazione dei sogni di quel passato, ma nella felicità del minuto presente, io non vedevo più lontano di esso. 33

E c’è il tempo del sonno, diverso da quello della veglia:

Il tempo che trascorre per il dormiente, durante simili sonni, è pienamente diverso dal tempo in cui si svolge la vita dell’uomo sveglio. A volte il suo corso è assai più rapido, un quarto d’ora sembra una giornata; a volte assai più lento, crediamo d’aver fatto un lieve sonnellino e abbiamo dormito un’intera giornata. […] del

31Proust M. (1913), Dalla parte di Swann, tr. it. Cappelletti F., Fratelli Melita, La Spezia 1992, p.43 32 Proust M. (1922), Sodoma e Gomorra, tr. it. Giolitti E., Nuova Universale, Torino 1963, p.173

33 Proust M. (1919), All’ombra delle fanciulle in fiore,tr. it. Calamandrei F., Neri N., Mondadori 1963, pp.352-353

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152 resto, quando il sonno lo portava così lontano fuori del mondo abitato dal ricordo e dal pensiero, attraverso un etere in cui era solo, più che solo, non avendo nemmeno quel compagno in cui sogliamo scorgerci, noi stessi, egli era fuori del tempo e delle sue misure.[…] 34

Il fatto di misurare il tempo del sonno con l’orologio è un’attività che compiamo da desti, che non dice nulla del tempo del sonno: è una misura fittizia.

Se la percezione soggettiva non rispecchia la concezione newtoniana del tempo, allo stesso modo la lettura del passato non garantisce acquisizioni stabili (proprio come affermato da Croce):

“Non c’è un uomo, per quanto saggio” mi disse, “che non abbia, in un periodo della sua giovinezza, pronunciato parole, o anche condotto una vita, il cui ricordo non gli sia spiacevole o che desidererebbe abolire. Ma non deve assolutamente rimpiangerlo, perché non può essere certo di esser divenuto un saggio, nella misura in cui questo è possibile, se non è passato attraverso tutte le incarnazioni ridicole o odiose che devono precedere quest’ultima incarnazione. […] Non si riceve la saggezza, bisogna scoprirla da sé, dopo un tragitto che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci, perché essa è una visuale sulle cose.35

Un esempio di come la lettura al presente di eventi passati possa completamente stravolgere l’ordine comunemente accettato che va dal passato al futuro, viene fornito da Proust attraverso l’analisi del sentimento della gelosia: la morte dell’amata non impedisce che esso continui ad essere presente, pur essendo certo il fatto che la morte sancisca la fine del pericolo di tradimenti nel presente e nel futuro.

Eppure il rimuginare continuo su alcuni ricordi, apparsi precedentemente privi di significato, può far balenare nuove prospettive che l’autore definisce ‛eventi essi stessi’36 per cui il tradimento può accadere anche in assenza dell’amata. M. Proust conclude il ragionamento sentenziando quindi che in amore non basta avere paura del futuro, ma bisogna temere anche il passato, e non solo nel senso di fatti scoperti a posteriori, ma anche di dettagli che già erano in noi e che semplicemente non li avevamo letti in un certo modo.

Non solo: il ricordo dell’amata in qualche modo la riporta in vita e quindi i suoi possibili tradimenti, avvenuti forse nel passato, non possono che essere percepiti come attuali, insieme all’io ferito del passato.

34 Proust M., Sodoma e Gomorra, cit., pp.409-410 35 Proust M., All’ombra delle fanciulle in fiore,cit., p.395

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153 In conclusione: il sentimento della gelosia è sempre presente, mai passato.37

Nel tempo il soggetto oscilla tra un futuro sbiadito ed un passato agitato e la sua realtà può essere colta solo retrospettivamente.38

Ed il passato non è statico, ma nella memoria continua il suo movimento verso il futuro, che a sua volta diviene passato, portandosi via anche l’io che l’ha vissuto; e condiziona il futuro, poiché le esperienze presenti sono filtrate attraverso il ricordo di quelle passate.

La commistione tra passato e presente che rende l’essere umano un anfibio del tempo causa un graduale e impercettibile cambio di stato rispetto alla morte di Albertine:

Certo, dal momento che ero un uomo, uno di quegli esseri anfibi immersi simultaneamente nel passato e nella realtà attuale, dentro di me c’era sempre una contraddizione fra il ricordo vivo di Albertine e la conoscenza che avevo della sua morte. Ma questa contraddizione era in qualche modo l’inverso di ciò che era stata una volta. L’idea che Albertine era morta, idea che nei primi tempi andava a scontrarsi in me con l’idea che fosse viva con tanta veemenza da costringermi a fuggire di fronte ad essa come i bambini al sopraggiungere dell’onda, l’idea della sua morte aveva finito col conquistare in me, a causa appunto di quegli attacchi incessanti, il posto occupato sino a poco tempo prima dall’idea della sua vita – a costituire per la maggior parte il fondo delle mie inconsce fantasticherie, così che, se le interrompevo di colpo per riflettere su me stesso, a provocarmi stupore non era più, come i primi giorni, che Albertine, così viva in me, potesse non esistere più sulla terra, che era morta, fosse rimasta tanto viva in me. Costruito dalla contiguità dei ricordi che si susseguono l’un l’altro, il nero tunnel sotto il quale il mio pensiero rimuginava se stesso da troppo tempo per rendersi conto di dove si trovava, era bruscamente interrotto da un intervallo di sole che cullava in lontananza un universo sorridente e azzurro, dove Albertine non era più che un ricordo indifferente e pieno d’incanto.39

Processo graduale che talvolta, ad esempio attraverso il sonno che riporta a galla un ricordo doloroso che pareva accantonato per divenire attuale, si arresta, subisce un da capo; ma, d’altro canto, non è un caso che ciò possa avvenire nel sonno che è, come abbiamo visto precedentemente, un tempo diverso da quello della veglia, non caratterizzato cioè da una divisione infinitesimale, e che quindi ha il potere di annullare la difficile conquistata consolazione attraverso graduali transizioni.40

Questa elasticità della dimensione temporale soggettiva si riflette anche sul senso di sé:

37 Proust M. (1927), Albertine scomparsa, tr. it. Raboni G., Mondadori, Milano 1995, p.77

38 Beckett S., in M. Proust, I Guermantes (1913), tr. it. Nessi Somaini M.T., RCS, Milano 2006, p.7 39 Proust M., Albertine scomparsa, cit., pp.120-121

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154 L’uomo, infatti, è uno strano essere senza età fissa, un essere che ha la facoltà di ridiventare in pochi secondi più giovane di molti anni e, circondato dalle pareti del tempo in cui è vissuto e vi galleggia come in una vasca che cambia continuamente di livello mettendolo alla portata ora di un’epoca, ora di un’altra.41

E così può capitare la triste esperienza di rendersi conto del tempo che è passato solo riflettendosi negli altri:

Le parti bianche di barbe prima completamente nere rendevano malinconico il paesaggio umano di quel ricevimento come le prime foglie gialle sugli alberi quando ancora si credeva di poter contare su una lunga estate, e prima ancora d’aver cominciato a goderne si vede che è già autunno. E io che fin dall’infanzia ero vissuto della giornata, ma con un’impressione definitiva di me stesso e degli altri, mi accorsi allora per la prima volta, dalle metamorfosi verificatesi in tutte quelle persone, del tempo che era passato per loro, il che mi sconvolse con la rivelazione che esso era passato per me.42

E ancora:

Per me che l’avevo conosciuto alle soglie della vita e non avevo mai smesso di vederlo, era il mio compagno, un adolescente di cui misuravo la giovinezza su quella che, avendo creduto di viverla da allora, attribuivo inconsciamente a me stesso. Sentii dire che dimostravo la sua età, notai con stupore sul suo volto alcuni dei segni che sono perlopiù le caratteristiche di chi è vecchio. Capii che così avveniva perché in effetti lo era, e che degli adolescenti che campano molti anni la vita fa appunto dei vecchi.43

Segue una riflessione importantissima, in cui l’autore rivela il suo intento narrativo: il protagonista scopre cioè che esiste un tempo del corpo che segue quello del calendario, potremmo dire, proprio nel momento in cui aveva preso la decisione di dedicare la sua attività ad esplicitare ‛in un’opera d’arte, delle realtà extratemporali’.44

È una scoperta amara e dolorosa dal punto di vista del protagonista, mentre dal punto di vista dello scrittore mette in luce la sua evidente capacità di non ridurre le realtà indagate a nessuna forma assoluta.

L’insistenza che pervade l’opera su tali realtà extratemporali viene esplicitamente e volutamente ridimensionata, riuscendo a riposizionare il tanto contrastato tempo lineare: non si può far finta che il corpo non proceda verso il decadimento e, da ultimo, verso la morte, limite non elastico e soprattutto inconoscibile e dunque inenarrabile.

41 Ibidem, p.203

42 Proust M., Il tempo ritrovato, cit., p.240 43 Ibidem, p.342

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155 Allo stesso tempo questa amara riflessione è anche un omaggio all’arte, giacché lei sola può restituire dignità alla dimensione interiore e al suo tempo-fuori-dal tempo, che altrimenti sarebbe adombrata dalla schiacciante ed ingombrante evidenza corporale, che pare inequivocabilmente, appunto, dirigersi senza sosta e senza indietreggiamenti verso la fine.

“Non c’è umiliazione per quanto grande, cui non ci si debba rassegnare, sapendo che nel giro di qualche anno i nostri errori, sepolti, non saranno più che una polvere invisibile sulla quale sorriderà la pace sorridente e fiorita della natura.”45

Tornando alla dimensione interiore, ribadiamo che dall’opera di Proust quello che emerge chiaramente è che niente è stabile, neppure il passato, per cui andare alla ricerca del tempo perduto è un tentativo che non può che deludere le aspettative, un’illusione a cui non segue mai un vero ritrovamento:

Ma anche per quanto concerneva immagini d’altro genere ancora, quelle del ricordo, sapevo che la bellezza di Balbec non l’avevo mai trovata quando ero a Balbec, e persino quella che me n’era rimasta, quella del ricordo, non era più la stessa ritrovata al mio secondo soggiorno. Avevo sin troppo sperimentato l’impossibilità di raggiungere nella realtà ciò che stava in fondo a me stesso; sapevo che in piazza San Marco non avrei ritrovato il Tempo perduto più di quanto l’avessi ritrovato nel mio secondo viaggio a Balbec o nel mio ritorno a Tansonville per vedere Gilberte, e che il viaggio, limitandosi a propormi una volta di più l’illusione che le vecchie impressioni esistessero al di fuori di me, all’angolo d’una determinata piazza, non poteva essere il mezzo che cercavo.46

Come sappiamo, nella sua opera monumentale, Proust cercò di dare forma letteraria alle intuizioni di Bergson47, che aveva colto lo stretto legame, evidenziato dalla fisica, tra spazio e tempo: il tempo lineare risponderebbe ad un principio spaziale.

Mentre secondo il filosofo esisterebbe un altro tempo, diverso da quello cronologico, e cioè il tempo della durata.

Mentre il tempo cronologico è omogeneo e suddivisibile in parti eguali, quello della durata (che è un tempo psicologico) sarebbe caratterizzato dalla discontinuità, in quanto connesso con l’attenzione.

45 Ibidem, p.263 46 Ibidem, p.189

47 Bergson H.(1896), Materia e memoria, in Opere 1889-1896, Rovati P. (a cura di), tr. it. di Sossi F., Mondadori, Milano 1986

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156 E non sarebbe misurabile in termini di quantità, bensì secondo la qualità, perché determinato dai suoi contenuti.

Musil, nell’opera considerata un caposaldo della letteratura novecentesca, con al centro una soggettività disintegrata, usa un’immagine molto forte e in qualche modo inquietante e macabra per descrivere l’incombenza del passato sul presente: “Cucita nella cieca, raccapricciante pelle dei morti, che è ancora una parte dell’individuo eppure è già estranea: la sacca da viaggio della vita.”48

Dal passato non si trae consolazione, eppure è necessario, altrimenti non sarebbe possibile vivere: il presente non può essere senza il passato, che però non è ammiccante né accogliente, ma riferito soprattutto agli altri morti, la cui eredità ci è indispensabile. E talvolta possono, passato e presente, confondersi: “Walter sentì una fitta alla testa; una testa piena zeppa di passato e nel quale il presente si incuneava senza che la differenza tra presente e passato apparisse convincente.”49

Ci può essere poi il semplice gusto di ridare vita agli eventi del passato, con atteggiamento e passione da indagatore, ricercatore, archeologo, storico: il presente, come nel caso delle Care memorie della Yourcenar, serve, attraverso un deliberato sforzo del soggetto, per restituire vita a ciò che assomiglia ormai ad una foglia secca:

La vita passata è una foglia secca, screpolata, senza linfa né clorofilla, crivellata di buchi, lacerata e sfrangiata, che, vista in controluce, presenta soltanto lo scheletro delle sue nervature sottili e friabili. È necessario un certo sforzo per renderle l’ aspetto carnoso e verde di foglia fresca, per restituire agli eventi e ai casi quella pienezza che appaga coloro che li vivono, impedendo loro d’immaginarli diversi.50

Qui non c’è dissidio interiore, non c’è frammentarietà, potremmo quasi dire che non c’è il singolo individuo, che scruta in punta di piedi e ponendosi ai lati, una storia che in parte lo riguarda.

Eppure in questo atteggiamento pacato ed apparentemente distaccato, o meglio, a distanza, si percepisce l’emozione e l’affetto intrinseci in questa opera di rimessa a vita di fatti andati e quasi sconosciuti.

Da quanto emerso sino ad ora possiamo dire che il tempo lineare non è in grado di rappresentare quanto accade nella dimensione psichica, dove il passato non è detto che

48 Musil R. (1940), L’uomo senza qualità, Vigliani A. (a cura di e tr. it.), Mondadori, Milano 2013, p.690 49 Ibidem, p.847

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157 passi e che, anzi, volontariamente o involontariamente, si rigenera nel presente sottoforma di riflessioni o di emozioni che aiutano o, all’opposto, impediscono al soggetto di comprendere se stesso e la realtà circostante.

Il passato non è un insieme statico di fatti e nel presente viene continuamente riscritto a posteriori, attraverso il criterio dell’utilità.

Si può affermare che il futuro non esisterebbe senza il passato ed il passato esiste solo in quanto presente, riattualizzato dal soggetto.

Ed anche il presente non è definibile spazialmente, poiché la durata può estendere o restringere un’esperienza: il tempo, in minuti, dell’attesa di una telefonata importante, ad esempio, non può essere paragonato a quello di una piacevole pausa caffè.

Banalmente e comunemente si usa dire che le cose belle durano poco; è il chiaro segno che anche chi non intraprenda un viaggio interiore alla scoperta di sé, come avviene nella scrittura autobiografica, entra in contatto con la realtà dei tempi differenti.

Nel caso della scrittura autobiografica, poi, rimettere in ordine il proprio passato, può far assumere al tempo un valore teleologico, dotato di senso: il passato non è più un peso ed il futuro una sfida da affrontare con rinnovato interesse:

[…] perché dall’accettazione, dall’ordine che viene messo nel proprio passato attraverso il lavoro autobiografico può venire una nuova spinta ad affrontare il futuro. Mettere ordine nel passato per andare avanti. Nel lavoro autobiografico il passato non è più un peso. Invece che un peso, è come una fonte di narrazione che sgorga dal sottosuolo e ti disseta per continuare nel tuo faticoso cammino.51

[…] lo scrivere la mia storia mi ha ridato la dimensione del futuro, una dimensione che dal momento in cui avevo vissuto la malattia e poi la perdita della mia mamma, non avevo più. Non ce l’ho ancora spesso… da quel momento ho imparato ad apprezzare ogni giorno senza stare a guardare troppo al futuro e a vivere giorno per giorno e vedere quello che mi succede, quello che il Signore permette che mi accada nella vita… però scrivere tutta la mia storia mi ha ridato la dimensione del futuro e la dimensione di sapere che in qualche modo ci sarei ancora stata; cosa che, fino a quel momento, per qualche anno, era mancata alla mia mente.52

Proprio nella possibilità di riscattare la propria storia e contemporaneamente di rinnovare la fiducia nel futuro sta l’importanza assegnata alla scrittura di sé come forma di autocura.

51 Di Cesare A., Imparare la memoria, in Noferi A. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, edizione fuori commercio realizzata e stampata in proprio con il contributo della Banca di Anghiari e Stia, 2009, Sansepolcro (AR) pag.327

52 Moretti S., Cosa ho imparato, in Noferi A. ( a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-La storia, le storie, cit., pag.519

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158 Questo è importante e valido anche per gli anziani: l’introspezione non dovrebbe essere troppo sbilanciata sul passato, ma riuscire a cogliere nel futuro nuove possibilità, riuscire a fantasticare sul domani. Le sfide e le occasioni certo non mancano: riuscire a superare barriere culturali in favore dei figli (si pensi alle unioni gay o a quelle multietniche, ad esempio), o investire nel mondo le proprie conoscenze ed il proprio ritrovato tempo, come ad esempio impegnandosi in associazioni di volontariato o in battaglie per la salvaguardia e la tutela dei beni della nostra società.

Un anziano completamente ricurvo sul proprio passato, incapace di guardare avanti, perde la possibilità sia di dotare di nuovi significati il proprio sé che quello di continuare a dare un contributo al mondo, in cui a lungo è stato attore.

Concludiamo questa riflessione sul tempo con le parole struggenti di Svevo:

“A tutti avviene di ricordarsi con più fervore del passato quando il presente acquista un’importanza maggiore. […] Il mio passato m’afferrava ora con tutta la violenza dell’ultimo addio perché io avevo il sentimento di allontanarmene di molto.”53

III.2. Narrazione autobiografica come teoria sul sé

Il dottore, quando avrà ricevuto quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso.54

Le storie assolvono a molteplici funzioni: trasmettere informazioni, spiegare fenomeni, ipotizzare e immaginare ciò che non è, preservare il passato, proprio ed altrui.

L’organizzazione della propria storia, nel suo dotare di senso gli eventi passati e gettando uno sguardo sul futuro, può determinare una nuova prospettiva sul sé da condividere con gli altri.

È attraverso il racconto che possiamo tentare di capire e comunicare le nostre esperienze.

La narrazione organizza il rimuginare interiore fatto di immagini, pensieri e ricordi, che altrimenti rimarrebbe un flusso scarsamente significativo sia rispetto a sé che rispetto agli altri.

53 Svevo I. (1923), La coscienza di Zeno, Mondadori, stampato in Italia 1988, p.77 54 Ibidem, p.412

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159 In questo senso è il racconto che rende l’uomo ‛pienamente e compiutamente culturale’.55

L’utilizzo del linguaggio verbale infatti permette al soggetto di trasformare quelle voci e quelle impressioni interiori in una vera e propria interpretazione flessibile della realtà, collegando, ancorando il sé al mondo.

La peculiarità del linguaggio risiede nel fatto che esso sia contemporaneamente un elemento connotato soggettivamente (nella misura in cui ciascun soggetto ha un modo specifico di utilizzarlo), ed allo stesso tempo oggettivamente, in quanto frutto di una condivisione sociale anteriore al soggetto che lo utilizza.

Secondo la teoria cognitivista della mente, di derivazione piagetiana, sin da bambino l’individuo è impegnato a fare ipotesi sia sugli oggetti che sulle persone, sui loro atti e sulle intenzioni ad essi connessi.56

E per indagare la realtà circostante il bambino ha già un insieme di strumenti forniti dalla famiglia che trasmette un primo copione di comportamenti normali, attraverso cui egli può prevedere ciò che accadrà: Bruner li definisce ‛strumenti protesici’57.

La specificità della narrazione autobiografica sta nella ricerca di senso riguardante gli avvenimenti significativi per il sé, che è quindi sia soggetto che oggetto dell’indagine. Il principio che guida nella scelta dei contenuti da trattare è condizionata dalla necessità di legare i fatti coerentemente, trovare il filo che unisce i vari io e garantire quindi una certa continuità al sé.

Non è il sé dunque che si piega al racconto, ma è il racconto a doversi piegare al sé: motivo per cui gli eventi devono rispondere al principio di plausibilità, piuttosto che a quello di veridicità (ma di questo parleremo ampiamente nel paragrafo dedicato al tema cruciale della verità autobiografica).

“Il resoconto quindi è uno sguardo sul passato ma anche un’anticipazione sul futuro, una guida per l’azione. […] l’autobiografia considera e costruisce il Sé come testo, un lungo testo sul quale apportare aggiunte e correzioni.”58

55 Smorti A., Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Giunti, Firenze 1994, p.10

56 Ibidem

57 Bruner J.S., La ricerca del significato: per una psicologia culturale, cit.

58 Smorti A., Il sé come testo – Costruzione delle storie e sviluppo della persona, Giunti, Firenze 1997, pp.31-32

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160 La narrazione permette di trasformare il flusso interiore che continuamente aggiorna le esperienze passate in funzione del presente, in una organica successione di fatti caratterizzati dalle connessioni causa-effetto.

Si tratta di uno sforzo notevole, poiché le voci sono molteplici e non sempre coerenti tra loro: di esse il soggetto che intenda ricavarne un’immagine plausibile di sé deve farne un’intelaiatura dove le varie istanze vadano a collocarsi in modo armonico.

Per farlo si ricorre, più o meno inconsapevolmente, ad un modello culturalmente accettato, una sorta di copione per cui usualmente viene usualmente raccontata la propria esistenza.

La possibilità di comprendersi attraverso il racconto necessita che l’esperienza assolutamente unica sia in qualche modo ‛normalizzata’, uscendo dalla dimensione prettamente soggettiva per entrare in consonanza con le storie degli altri.

Questo è un aspetto molto importante, perché solo in questo modo l’individuo può sentire di appartenere ad un gruppo, ad una cultura: sono le storie, più che i fatti, che legano tra loro gli individui che vivono nello stesso spazio e nello stesso tempo.

La necessaria operazione di normalizzazione è bilanciata dall’introduzione nel racconto di eventi che segnano svolte e crisi, e questo consente di evitare che l’esposizione si limiti ad essere banale e noiosa, delineando così l’unicità accettabile del soggetto che racconta.

Il giusto equilibrio tra stabilità e mutamento consente, quindi, di evitare che il racconto risulti scarsamente significativo o, all’opposto, eccessivamente caotico.59

L’impegno a dotare di senso gli eventi della propria vita si traduce in una vera e propria teoria sul sé.

Come abbiamo già visto a proposito dei ricordi che sarebbero organizzati secondo schemi, anche la narrazione segue il canovaccio di un protagonista che vuole raggiungere un determinato obiettivo, e nel farlo incontra un ostacolo da superare. Si tratta di un modello praticamente universale, sottostante ai racconti mitologici, religiosi e ideologici, ad esempio.

Nei racconti riferiti al sé i fatti selezionati sono reputati importanti dal soggetto (sia dal punto motivazionale che emozionale) che in essi svolge un ruolo principale, nel senso di aver condizionato od essere stato condizionato dal corso degli eventi; da essi si può

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161 quindi trarre la necessaria materia per dotare di coerenza il sé; coerenza costruita sul principio per cui lo sviluppo prevede un inizio ed una fine tra essi connessi.

In questo, la narrazione non è dissimile dal romanzo di formazione (Bildungsroman) e la teoria sul sé implica necessariamente una teoria sullo sviluppo in generale.

Il sé narratore e il sé narrato sono distanti all’inizio della storia, per poi fondersi alla fine: questa è una caratteristica esclusiva del racconto autobiografico.

Il sé narrato inizia il suo percorso lontano nel tempo per poi raggiungere gradualmente e coerentemente il sé attuale e nel farlo slitta temporalmente tra passato e presente: la scrittura avviene nel presente, ma pone l’inizio nel passato per arrivare, nella conclusione, al presente in cui fatti narrati ed atto narrativo si compenetrano.

Al termine del viaggio narrativo la vita così come è stata rappresentata appare come un processo teso verso una meta, rappresentata appunto dal presente della narrazione: ciò significa che l’ordine dato alle esperienze non è solo cronologico, ma ‛causale’ e ‛teleologico’, che A. Smorti60 definisce teleologia retrospettiva, e che rivelerebbe una sottesa prospettiva metafisica sullo sviluppo, grazie a cui si illumina il presente a partire dal passato (non dimenticando però che la lettura del passato è già condizionata in partenza in funzione della necessità di dare una spiegazione del presente).

Nella narrazione ciò che è semplicemente accaduto si trasforma in doveva proprio andare così, ovvero necessario, perdendo il senso della casualità, che percepiamo talvolta nel vivere al presente alcune esperienze.

Anche P. Lejeune61 ha messo in rilievo la dimensione retrospettiva della narrazione autobiografica, attraverso cui un soggetto si occupa della propria vita, di qualcosa cioè che è ontologicamente dato.

I benefici di questa modalità narrativa di pensare sono rilevanti soprattutto nei rapporti sociali ed essa viene utilizzata quotidianamente per posizionarsi e definirsi; e questo in particolar modo quando ci siano delle criticità e l’uscita dalla norma prevista dal copione imponga di elaborare l’evento, al fine di dotarlo di senso e riuscire quindi a trovargli la giusta collocazione.

60 Ibidem

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162 In qualunque narrazione si mescolano il tempo della storia raccontata, quello in cui gli eventi sono scanditi ed il tempo della narrazione stessa, che tra loro sono interconnessi, ma con una chiara posizione privilegiata del tempo del discorso narrativo.

La primaria importanza del presente narrativo è dovuto al fatto, come nel caso del semplice recupero mnestico, che è in quel punto temporale esistenziale di un soggetto che parte l’indagine a ritroso, la ricerca di senso.

La miscela temporale dei tre ordini dà origine al tempo dell’autobiografia.

È proprio questa complessa struttura narrativa sviluppata su diversi piani temporali a rivelare la prospettiva teleologica secondo cui gli eventi del passato vengono ordinati in funzione del presente, o meglio, è attraverso il presente che si orientano gli eventi passati per dare risposte sul presente.

La psicologia, ed in particolare quella narrativa, da tempo pone al centro della sua attenzione le modalità in cui gli individui, attraverso il racconto, cercano di dare senso alla propria storia e a quella dei propri cari.

Per poter dare ordine è evidente che sia sotteso uno schema attraverso cui far agire i personaggi degli eventi rappresentati, schema che orienta non solo in senso temporale ma soprattutto in senso causale, andando ad indagare le motivazioni e le conseguenze che possono aver provocato o seguire determinate azioni.

Se non passassero attraverso la narrazione, le esperienze avrebbero un’aurea di inesplicabilità, di diffusa mancanza di connessione.

Questa operazione di inquadramento degli eventi nell’orizzonte di senso avviene anche nell’esperienza di vita quotidiana, per cui quando capita un fatto insolito, il soggetto si impegna psicologicamente a riportarlo al grado di plausibilità.

Qui è necessario fare una riflessione che diviene cruciale per quello che si vuole sostenere in questo lavoro: sebbene i fatti siano inevitabilmente spostati dal piano della autenticità a quello della plausibilità per mantenere fede al piano narrativo e alla prospettiva teleologica sottostante, anche al costo di distorsioni e modifiche, tuttavia nella narrazione emerge una verità soggettiva: quindi il vero in un’autobiografia non sarebbe da ricercare tanto negli eventi narrati, quanto nella narrazione stessa che rivela molto della dimensione psicologica, sociale e cognitiva del narratore.

Nel momento in cui un soggetto decide di fermarsi per ricostruire narrativamente la propria storia, lui/lei si distacca da quelli che sono i lacci dell’immediato per

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163 contemplare il progetto che solo dal suo punto di vista soggettivo e provvisorio è possibile rintracciare.

“Per quanti sforzi io faccia per liberarmi dal mio mondo […] per trovare il mondo, rimarrò sempre legato a un certo punto di vista, e ogni mia ricerca non potrà mai prescindere dalla mia prospettiva”62

Se la necessità di mettere in connessione tra loro gli avvenimenti e dotarli di senso è implicita nel modo stesso in cui, sin da bambini, elaboriamo le esperienze attraverso un canovaccio che ci aiuta anche a prevedere le conseguenze di determinate azioni e a riconoscere ciò che è conforme alla norma da ciò che devia dal canone, nella scrittura autobiografica lo sforzo di richiamare i ricordi e di strutturarli in modo da renderli leggibili consente all’autore di trovare una nuova chiave di accesso al passato, non più semplicemente ricordato ma spiegato: la prospettiva teleologica diviene chiara anche allo scrivente, quindi:

Il rivedermi bambina mi ha permesso […] di fare delle ipotesi sui miei sentimenti di allora, o di scoprirne di nuovi, inaspettati. Il rivisitare i ricordi è stato intanto un arricchirli, un richiamarne di nuovi, un riscoprire i motivi per cui alcuni si erano così ben fissati nella memoria, ed anche portarne a galla altri completamente dimenticati;[…]63

Scrivere la propria vita non è semplicemente salvarla dall’oblio, ma propriamente farla: ciò che è accaduto, attraverso delle ipotesi diviene necessario e legittimo.

Ma la parola ipotesi rivela la natura provvisoria di un progetto in cui si cerchi di comprendersi attraverso la ricostruzione del passato; la prospettiva soggettiva nel presente può a sua volta divenire passato e con essa le sue valutazioni:

[…] mi dico e chiedo: ‛ma davvero vedevo così le cose?’, ed ancora: ‛così avevo inteso lo stimolo autofomativo della pratica autobiografica?’

Insomma, come forse direbbe qualche esegeta o critico, la mia autobiografia ormai ‛è datata’; io preferisco dirmi che è una piccola/grande pietra miliare della mia vita: ma allora se è una pietra miliare vuol dire che la vita è una strada e di regola una strada va avanti…64

62 Jaspers K. (1962), La fede filosofica, cit. in Demetrio D., La scrittura clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Raffaello Cortina, Milano 2008, p.437

63 Pedretti A.M., Premessa, in Pedretti A.M. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, edizione fuori commercio realizzata e stampata in proprio con il contributo della Banca di Anghiari e Stia, 2009, Sansepolcro (AR) pp.49-50

64 Vio M., in Pedretti A.M.(a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., p.298

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164 Il processo autoformativo che consente all’individuo di curare il proprio sé ricomponendolo e donandogli senso, seppur non definitivo, lascia il segno del beneficio dell’atto in sé della presa in carico: non importa se ciò che è stato scritto non sarà più rappresentativo un domani; il contenuto può passare, l’impegno nel portare a termine un’impresa in cui è indispensabile investire in se stessi, avere fiducia nelle proprie capacità, riuscire a ritagliarsi del tempo per sé, affrontare le voci interiori anche quando dicono cose che non ci piacciono, perché dolorose ad esempio, rimarrà, come una pietra miliare, a segnare ed orientare una vita.

il sé narrante è destinato a passare, non c’è mai fine al continuo ricambio di Io che caratterizza il nostro sviluppo; neppure un atto così apparentemente definitivo che cerca di scolpire con le parole un’immagine chiara e coerente: “Rileggendo i brani che ho scelto per l’antologia, mi sono resa conto che questo testo è completamente superato e quella donna fa parte del mio passato.”65

Talvolta chi scrive si rifiuta di accettare l’idea che ci sia un disegno che doti di senso l’esistenza; certamente questo può essere vero se pensato come qualcosa di esterno al soggetto narrante, che nel dipanare i suoi pensieri finisce per esporre il proprio disegno:

Per me la vita non ha un senso, la vita è quello che è, quello che è stato, quello che ho vissuto e basta, con le sue gioie, con i suoi dolori, con le sue emozioni.

Non mi sembra proprio che esista un disegno nel quale la vita di ciascuno è inserita, che questa abbia un senso, la vita è così come io l’ho vissuta, e così come io l’ho sentita ne voglio scrivere.

La vita è come l’acqua versata su un terreno accidentato, si disperde in mille rivoli e forma mille pozze, ciascuna con pari dignità di altre, ed io voglio andare ad esplorarle e raccontarle seguendo il ricordo, l’emozione del momento, non dimenticando, tuttavia il contesto emotivo, la storicità del giorno stesso in cui scrivo.

Credo perciò di dover scrivere un’autobiografia delle emozioni, più che una storia che si snodi sui percorsi canonici infanzia adolescenza prima e seconda maturità e ora anche vecchiaia incipiente.

Chiaro come sempre appare quel che voglio o non voglio fare.

Questa riflessione mi fa comprendere quanto ormai alla mia età, la mia personalità sia già formata e rigidamente strutturata. […]

Non ho un percorso di crescita da fare attraverso l’autobiografia, non ho formazione da fare agli altri attraverso l’autobiografia, non ho nemmeno un lavoro

65 Mirè, in Pedretti A.M.(a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., p.305

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165 futuro da inventarmi, sono alla soglia della pensione e nel futuro voglio solo prendere piccoli e grandi piaceri per me, quello enorme che mi dà la scrittura.66

La vita semplicemente è e l’autore del brano appena esposto vuole limitarsi a seguirla e a raccontarla, e dunque ritiene che l’unica forma possibile sia quella di un autobiografia delle emozioni.

Questo rinnegare lo schema causale è a sua volta uno schema: affermare che la vita non ha un senso ha il suo senso ed il suo modo di essere indagata: non è possibile sfuggire alla logica ordinatrice.

Ed anche rispetto al futuro, il pensiero negativo introdotto da numerosi non è chiaramente bilanciato dall’affermazione della volontà di perseguire piccoli e grandi piaceri, tra cui quello della scrittura.

L’autobiografo vede e racconta il passato, immagina il futuro a modo suo, ma in questo modo particolare di posizionarsi vi è ancora coerenza e progettualità, che non sarebbe possibile se veramente la vita fosse vissuta (non pensata) in modo accidentale.

Il senso di una vita si può rintracciare non solo a posteriori, nel ricostruire e rimettere ordine, formulando così delle ipotesi: si può avere la chiara certezza soggettiva che tutta l’esistenza sia stata segnata da una costante ricerca dell’armonia, con se stessi e con gli altri:

La mia vita è un’incompiutezza che ha cercato un’armonia che non escludesse mai nessuno ponendolo come al di fuori di me una concordia discorde che è spesso riuscita a non chiudersi all’altro e alla prossima pagina di un cammino, che dobbiamo ancora scrivere insieme. Pur nei disinganni e nelle sofferenze, resto in ogni caso un individuo che ha inteso sempre illuminare con un sorriso il pellegrinaggio dell’esistenza.67

L’ultimo brano selezionato di Svevo preannuncia narrativamente quello che verrà affrontato più avanti, a proposito della possibilità di integrare un percorso terapeutico con la scrittura di sé per consolidare il cammino di ricerca introspettiva:

Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed

66 Pane W., Rivoli, in Pedretti A.M. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., pp.463-464

67 Lazzarini C., Una autobiografia in forma di antologia, in Pedretti A.M. (a cura di), Libera Università dell’Autobiografia-Dieci anni di scritture, cit., p. 496

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