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La notte irruppe violenta nella foschia incerta del primo chiarore mattutino e risuonava il grido del chiurlo volteggiante tra i rami del pino.

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Academic year: 2021

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(1)

La notte irruppe violenta nella foschia incerta del primo chiarore mattutino e risuonava il grido del chiurlo volteggiante tra i rami del pino.

Ecco cosa scriveva il celebre signor Doppia-Vu-Bi Yeats di Sligo, quando non si arrovellava dietro ai cigni o sulla propria responsabilità per la rivolta del 1916 – quella “terribile bellezza”, come la chiamava lui.

Immagino che qualcuno sarà sorpreso nel sapere che molti di noi in prigione leggevano quel miope vecchio rimbambito, ebbene sì, con la convinzione che ciò ci avrebbe innalzato agli apici dell'arte e della storia, o qualcosa del genere. Tanto tempo fa, in quei gloriosi giorni di liberazione e di romantica insurrezione, eh già, negli spensierati anni settanta e ottanta, gli anni della banda Baader Meinhof, frazione dell'Armata Rossa, quando mi ritrovai a vivere in quella squallida e tetra prigione che chiamavano The Maze, Il Labirinto, insieme a molti dei miei compagni repubblicani. O “terroristi”, se preferite.

Spesso, poi, ci confrontavamo in prove di scrittura. Primo, perché la cosa ci distraeva dalle sconvolgenti condizioni in cui versavamo e secondo, devo ammetterlo, perché ciò calzava a puntino con il modo in cui ci vedevamo. Speciali. Incorruttibili difensori di una nobile e duratura stirpe di irremovibili e fedeli paladini. O di eccentrici utopisti.

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Così, non appena la “protesta dello sporco” prese avvio, ce la mettemmo proprio tutta per somigliare a Gesù Cristo, con tutto il rispetto. Il nostro comandante dell'epoca, una specie d'asceta smilzo e spilungone chiamato Jimjoe White, negli ultimi tempi aveva addirittura assunto le sue stesse movenze. Camminava nell'umido cortile di calcestruzzo simile a un profeta e dispensava perle di una presunta saggezza rivoluzionaria.

—Ricordatevi soltanto, diceva, che saremo per sempre gli unici detentori della verità. Semper et in æternum.

Era questo il miglior consiglio che potesse darci, diceva. —Che questo vi guidi in qualsiasi momento, compagni.

Poi, poco tempo dopo, nel 1980, il comandante cominciò a manifestare uno strano interesse nei miei confronti e la cosa mi metteva a dir poco a disagio. Avevo sempre percepito un non so che di inquietante nel suo sguardo. Si credeva un tantino dotto il vecchio Jimjoe. Una volta, mentre mi camminava davanti, l'avevo addirittura sentito dire: Un terribile nemico l'incalza da vicino e non s'arresta, e aveva sorriso nel pronunciare queste parole, ammesso ci sia qualcosa da ridere in Coleridge. Non che all'epoca sapessi che citasse l'autore in questione. Lo scoprii in seguito, a dire il vero. Riuscivo a intravedere L'Epistolario di Seneca che gli spuntava dalla tasca. Eh già, era proprio una personcina istruita il nostro comandante Jimjoe White.

—Ecce veritas, esclamò un altro giorno mentre sorridendo mi guardava e si voltava verso gli altri, strizzando l'occhio con intenzione maliziosa.

—Seneca fu precettore e in seguito consigliere dell'imperatore Nerone, lo sapevi Gabriel?

Scossi la testa. Dove voleva arrivare?

—E sai cosa gli accadde? Il poveretto fu accusato di essere complice della congiura di Pisone per l'assassinio del suo allievo!

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Non dissi niente, mi pare di ricordare. Me ne stavo chiuso nel mio mondo, probabilmente. Sono sempre stato un po', come dire, introverso. Almeno prima di incontrare Beni Banikin. Da questo punto di vista, devo ammetterlo, mi ha cambiato la vita. Anche se scommetto che qualcuno – di sicuro qualche mio ex compagno – avrebbe un paio di cose da dire a riguardo.

—E chi volevi che beccasse, se non una lesbica? Beh, in questo ci ha battuto tutti, cazzo!

O forse no. Non direbbero mai una cosa del genere. Forse è semplicemente frutto della mia immaginazione. La prigione può portarti a essere paranoico, in un certo senso.

Comunque, tutto questo accadeva negli anni ottanta. Quando, insieme a molti altri, ero impegnato nella liberazione dell'Irlanda e nella deposizione finale di quella macchina assassina ricolma di imperialisti inglesi, come la chiamavamo noi. Più che pronto se fosse stato necessario, così come molti dei miei amici, a dare la vita per principi quali l'onore, la verità e la giustizia.

È così che mi sentivo, che lo crediate o meno. Ed è così che ancora oggi mi sento, nonostante tutto quello che è successo.

Beni diceva sempre che questa era la cosa che più ammirava in me:

—Gabriel King, sai essere la persona più snervante al mondo, diceva, ma una cosa almeno è certa: si sa da che parte stai!

Era una bella cosa da sentirsi dire e quando lo fece eravamo in viaggio con una Trans Am, fermi a Cincinnati a fumare del tabacco con lo sguardo rivolto verso dei pini – l'unico modo per non afferrarla e darle un bacio.

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all'inizio. Aveva un sacco di problemi con sé stessa in quel periodo quando la incontrai, per la prima volta, agli inizi degli anni novanta, mentre lavoravo in un bar chiamato Rory's nel Queens. Veniva spesso lì insieme all'amica Mia Chiang e a un altro ragazzo, un docente universitario, un ragazzotto scozzese di nome Gartland. Giorno dopo giorno, avevamo stretto amicizia. Terry Gartland era un uomo di cultura, è vero – ma cazzo sapeva tutto sulle baruffe irlandesi! Per non parlare di Yeats. Sapeva tutto, cazzo! Gli dicevo. Faceva conferenze alla biblioteca pubblica di New York. Mia Chiang era cameriera all'epoca – prima che mollasse tutto per dedicarsi esclusivamente al teatro. Ma su questo ci torneremo più avanti. Adesso voglio tornare a parlare del signor Coleridge, “Seneca”, White.

Un giorno, mentre camminavamo, mi accorsi che guardava con insistenza dalla mia parte. Poi mi si piazzò di fronte, con le braccia conserte. Faceva uno strano rumore coi denti e sorrideva. Mi dava incredibilmente ai nervi.

—Che cazzo vuoi? Dissi. Ripeto: che cazzo guardi Jimjoe?

Rimase in silenzio, con lo sguardo fisso a terra. Poi si tirò su con un sorriso enorme. Un ghigno da vera faccia di culo, come si dice.

—Rilassati, il Cane sta solo scherzando, disse con uno scintillio negli occhi. Questo era il suo soprannome all'epoca. Lo chiamavamo “Il Cane”.

Avevo il cuore in gola e, nel frattempo, una leggera pioggerellina iniziò a cadere. Adesso il suo sorriso era a malapena accennato.

—Un terribile nemico l'incalza da vicino e non s'arresta, bisbigliò sottovoce. Mi hai sentito mentre lo dicevo, eh?

—Coleridge, il grande erudito. Risposi, incrociando il suo sorriso. —Coleridge. Giusto.

La sua mano confortante mi afferrò la spalla, mentre mi diceva che voleva solo farsi quattro risate.

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—Stai tranquillo, non ce l'ho con te. Sputò sul calcestruzzo bagnato. —Voglio dire, perché dovrei?

—E che ne so, risposi, mi sa che sarei fottuto se lo sapessi, Cane. Scosse forte la testa.

—Non c'è di che preoccuparsi, riprese, Gabriel King è tutto fuorché disonesto, chi lo conosce lo sa bene. È la perfetta incarnazione dell'affidabilità. Irreprensibile, direi.

Mi diede un buffetto malizioso sulla guancia per poi andarsene, a passo di lumaca.

—Il sacro custode della verità – ecco cosa sei. Veritas Gabriel. Un tenero angioletto venuto al mondo privo di astuzia.

A ripensarci adesso, è sorprendente notare quante cose avessero in comune Gartland e White da questo punto di vista. Motivo per cui, all'inizio, andavamo d'amore e d'accordo. Finché le cose non iniziarono a prendere tutt'altra piega, non chiedetemi come. Ma suppongo sia andata così.

L'81 fu un anno difficile per tutti. Nessuno era in grado di dire se addirittura saremmo sopravvissuti al carcere – tiravamo avanti, giorno dopo giorno. Di certo, sarebbe stato più semplice senza le costanti frecciatine di White, se solo avessi saputo che cazzo voleva da me! Camminavo senza senso quando – santo cielo! – eccotelo di nuovo che mi premeva le labbra contro l'orecchio e bisbigliava. —Fingo di essere il tuo amante, sogghignò. Spero di non averti spaventato! Poi attaccò a parlare di Seneca.

—Tra i peggiori cattivi della storia, Gabriel – soprattutto sotto il regno di Tito, vi erano gli istigatori. Eh sì – i fomentatori, i sobillatori, coloro che per molto tempo avevano assaporato il gusto della libertà.

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Ma io mi domando, lo sai cosa successe loro alla fine?

Picchiettava il piede, rimanendo immobile con il resto del corpo. Prima di continuare con tono esitante, ma misurato:

—Alcuni furono condotti al Foro e percossi, altri costretti a esibire nell'arena la propria vergogna.

Per qualche motivo – probabilmente perché cominciavo davvero ad averne abbastanza di quell'accanimento nei miei confronti – venni assalito da un senso di disagio ancora più profondo del solito, che non mi abbandonò nemmeno quando, dopo aver sollevato lo sguardo, mi accorsi che se ne era andato.

Come ho detto, Jimjoe assomigliava a T.J. Gartland, l'amico di Beni. Un tipo a posto finché Beni non iniziò a riscuotere successo con le sue opere teatrali. Opere per cui Gartland fu di grande aiuto. In effetti, prima di incontrarlo, non credo che Beni fosse così informata su Yeats. Di sicuro, non conosceva le opere Nō, di cui T.J. non faceva altro che parlare. Una volta ricordo di averlo sentito dire:

—Ne sei sicuro? Non credo che i fatti siano andati esattamente così, Gabriel. Riferito a qualcosa che avevo detto riguardo all'Angola. Mi infastidiva, ma non volevo fare casini, per rispetto di Beni.

—Ma che vada affanculo! Mi ero limitato a dire.

Sembrava la brutta copia di Willie Nelson, quel cazzone!

Durante gli scioperi della fame, non mi capitò di vedere Jimjoe troppo spesso. Anzi, come tutti, non vidi proprio un bel niente in quel periodo. La pazzia e il dolore mi accecavano. Poi, tutto a un tratto, resuscitò. E insieme a lui riprese la sua “propaganda”, se così la possiamo definire. Chiamava Pearse Gavigan, detto anche “Il Contadino”, ad alta voce, scandendo bene le lettere per mia fortuna.

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—Pearse, lo sentivo gridare, hai mai sentito parlare di Seneca e del suo complotto? Non era una congiura come tutte le altre, sai? Era un'operazione ben articolata, ma alla fine Nerone la scoprì e costrinse Seneca al suicidio.

Come Il Cane ben sapeva, a Pearse Il Contadino non importava un granché di cospirazioni. Anzi, non gli importava proprio un fico secco, come si dice. E infatti sbuffò, scrollò le spalle e per finire si girò dall'altra parte. Assorto nei suoi pensieri, s'immaginava sulla strada di casa nella valle a fumare erba e ad ascoltare il suo eroe, Phil Lynott. Eh già, il grandissimo Philip Lynott del gruppo rock Thin Lizzy che dalla sua chitarra tirava fuori accordi heavy metal da far girare la testa. Lontano anni luce da “La Prigione di Sua Maestàˮ e da qualsiasi altro posto. Gli si leggeva in faccia, mentre fingeva di affiancare il chitarrista in un assolo. Così a Jimjoe White non rimase che guardare.

Poche cose sono paragonabili alla sensazione di essere osservati e presto, di lì a breve, cominciai a provare una certa inquietudine per ombre, rumori improvvisi, passi e brusii in lontananza. A essere sincero, la sola cosa che iniziai a desiderare con tutto me stesso era la fine di quelle costanti e palesi diatribe. Ma non era ancora finita. Tornato in cella mi accorsi di un bigliettino che mi aspettava.

—Dato che sei un appassionato di letteratura, ho pensato che forse avresti apprezzato queste due righe. Sono tratte dal Paradiso Perduto, il capolavoro di Milton, dedicato a Sua Eminenza La Stella del Mattino.

Stia attento alla disgustosa e diabolica meccanica del suo cuore, signor King. —Sei passato dalla parte del sommo traditore, Gabriel. Tuttavia, avrai tempo per scagionarti, aggiunse.

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Sognavamo di partire per l'America mentre ce ne stavamo sdraiati a picchiettare messaggi in codice Morse, trasmettendo via cavo le nostre speranze e i nostri desideri più reconditi.

—Non vi azzardate a prendere per il culo i ragazzi della Iron Valley! Urlava Donal Givney. E poi riattaccava a parlare di quel film pazzesco che aveva sognato – in cui noi tre “figli di puttana” tornavamo a casa da eroi. Non volava una mosca quando raccontava la stronzata del film. Ci teneva incollati, sul serio – mentre descriveva tutte le scene di Ritorno dalle Meadowlands, ogni singolo cespuglio che cresceva ai pendii del Big Iron Mountain e le sponde del lago in cui avevamo trascorso l'infanzia.

—Quindici anni e siamo fuori di qui – e partiamo! Gridava Gavigan, picchiando sul muro.

Alla fine, avevamo fatto un patto – non appena usciti, avremmo racimolato un bel gruzzoletto e saremmo partiti alla volta dell'America.

—Ce la giriamo con una Trans Am, urlava Givney, a tutto gas! —Da parte a parte, il lungo e in largo, cazzo!

—A tutta birra! Figli di puttana! I ragazzi della valle stanno arrivando!

Ed era per onorare questo patto che in seguito feci il viaggio con Beni Banikin, attraversando l'America da parte a parte. Fin dove riuscivamo ad arrivare.

Il Contadino si sbagliava sempre. Quando cantava il pezzo dei Thin Lizzy diceva “Giuda King” al posto di “Eunice King”, il vero nome. Ero sempre stato lì lì per dirglielo ma, quando lo vedevo tutto preso dal suonare la sua chitarra immaginaria, come al solito, non ne avevo mai avuto il coraggio.

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Non che la cosa sembrasse dare fastidio al nostro comandante, il quale si avvaleva della storpiatura della parola per mettere a segno alcuni dei suoi colpi bassi. Che tipetto pieno di risorse!

—Allora, come sta Giuda oggi? Diceva. Ora come ora, mi rendo davvero conto che in quegli ultimi giorni di prigionia il mio risentimento nei confronti di White, Il Cane, era aumentato a tal punto che a fatica mi trattenevo dal picchiarlo. —Non tutti hanno la fortuna di avere una canzone dedicata a loro, non è vero Gabriel?

Preferii essere prudente e saggio, e rimanermene zitto. Mentre lui si sganasciava dalle risate, prima di andarsene di nuovo.

Ma non era ancora finita per me, come scoprii poco dopo quella stessa sera, quando un altro bigliettino strisciò sotto la porta della mia cella. Mentre lo leggevo, la mia fronte si riempì di gelide goccioline di sudore.

—Addio, signor Ratto. Ultinam viscos tuos canes inferni schifosissime edeant. Possano i cani dell'inferno divorare le tue schifosissime interiora.

________________

Ma, qualunque disaccordo potesse esserci tra me e White, Il Cane, poco importava a quelli che crepavano nell'orrore sconvolgente degli scioperi della fame che continuavano indisturbati. Donal Givney aveva scioperato cinquanta giorni e la sua morte fu davvero un evento drammatico, terribile. Ma non ricordo un solo momento, in prigione, in cui la solidarietà fosse mai stata più forte. Perfino le nostre controversie si placarono – intendo tra me e White. Le ostinate attenzioni nei miei confronti sembravano essersi arrestate, almeno per il momento. E in effetti, ora che ci ripenso, ricordo che aveva detto:

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—Va tutto bene, amico mio. Adesso, non c'è proprio niente di cui ti devi preoccupare.

Mentre ognuno di noi in ginocchio pregava per rendere l'ultimo saluto all'anima del nostro rispettato compagno. Il cui corpo, devastato, alla fine non aveva retto. Non riuscii a chiudere occhio quella notte. Ripensavo a quel viaggio in America con la Trans Am che avremmo dovuto fare. Ci immaginavo ormai giunti nelle Meadowlands, il nome che noi avevamo dato al sud del paese, con Il Contadino che sventolava euforico una canna davanti a tutti e sbatteva il cofano perché alla fine ce l'avevamo fatta.

—Finalmente i ragazzi della Iron Valley sono arrivati nella Terra Felice!

Non fosse che non andò esattamente così, no. Non arrivammo mai nelle Meadowlands, né in qualunque altro posto. O almeno, non insieme. Dato che la maggior parte dei miei compagni erano morti, grazie a Margaret Thatcher e all'intransigenza del governo britannico. Ma c'era una cosa che non sarebbe successa ed era la prima cosa che decisi una volta uscito di galera – non avrei mai dimenticato il patto che avevamo fatto. Anche se, e il solo pensiero mi ferisce, la realtà era ben diversa da quella che avevamo immaginato mentre fantasticavamo sulle Meadowlands. Sdraiati nelle nostre cuccette in quelle lunghe, desolate e interminabili nottate di prigionia. Una volta usciti, ci rendemmo conto di avere perso quasi tutto ciò per cui avevamo lottato. E, ancora peggio, che a nessuno non importava più di niente. È così che andò alla fine. Lungi da essere l'eroe della Iron Valley o il valoroso ribelle irlandese che tornava a casa, altro non ero che l'ennesimo, stremato, rivoluzionario che passava la maggior parte del suo tempo al bar. Insieme, questo è chiaro, ad alcuni tra gli amici più validi e in gamba che uno possa avere. Deluso? E come non esserlo?

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riusciti a uscire vivi da quel posto, dopo avere affrontato una battaglia tremendamente estenuante, sotto ogni punto di vista. Alla fine, alcuni membri del movimento, tra cui il mio vecchio amico White Il Cane, si dedicarono alla politica dei grandi partiti. White non aveva mai disdegnato farlo, come mi disse in seguito, quando ci ritrovammo tutti quanti in un locale al confine chiamato Mickey's. —Slán1, aveva detto infine il mio ex ufficiale comandante, salutandomi per

l'ultima volta, dopo che gli avevo confidato di avere ottenuto il visto per l'America. Ci eravamo persino abbracciati perché entrambi sapevamo che, qualunque cosa fosse successa tra di noi, adesso faceva interamente e irrevocabilmente parte del passato.

—Per fortuna, ricordo che aveva detto, saremo in assoluto l'ultimo gruppo di volontari a doverlo fare – mettere in scena il proprio incubo generazionale.

C'eravamo tutti quella notte al Mickey's – Bobby, i Bonners, tutti quelli che erano in gabbia insieme a me. Erano tristi al vedermi partire, avevano detto. E devo ammettere che anche io avevo dovuto asciugare una lacrima.

—Vi saluto le Meadowlands, avevo detto loro e subito dopo mi ero voltato e me ne ero andato.

Mi ero lasciato alle spalle anche la cara Esther, la donna con cui mi ero frequentato di tanto in tanto nel corso degli anni. La verità era che l'unica cosa di cui avevo bisogno era andarmene dalla valle. Viaggiare, per onorare il patto e sgombrare la mente. Ovunque la strada mi avesse portato, mi ero detto. In onore dei miei vecchi amici i Bonners e molti altri. In nome di tutti quelli che avevano combattuto insieme magnificamente comandati, nonostante le nostre incompatibilità, dal leggendario Jimjoe White “Il Cane” – ufficiale comandante della Brigata dell'Ulster centrale della Provisional IRA negli anni settanta e ottanta, fino alla fine della guerra.

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Letteralmente sconvolto, ero salito sull'autobus appena fuori dalla valle. La canzone Ashes of Love, che avevo ballato con Esther McCaul quasi fino a mattino inoltrato, se la memoria non mi inganna, continuava a ronzarmi in testa.

—Questa è veramente la fine del conflitto, aveva sentenziato Il Cane, e qualunque cosa dicano abbiamo combattuto una buona battaglia. E tu sei stato uno dei migliori Gabriel, a chara2.

________________

È lì che li avevo lasciati, una volta salito sull'autobus ai piedi dell'Iron Mountain, con la promessa che un giorno sarei tornato. Cosa che sto facendo adesso: in un barattolo, mio malgrado. O forse dovrei dire in una splendente urna di rame. Non esattamente ciò che intendevo, in ogni caso. Ma c'è un particolare che devo ammettere mi diverte molto. Vi ricordate di Ashes of Love? Anche se, in effetti, non posso dire di amare Esther. Sapeva essere una vera stronza, a dire il vero. Probabilmente anch'io lo ero stato a suo tempo. E alla grande. Ma eravamo solo dei ragazzi. Le cose si consumano e poi muoiono. Non è quello di cui parla quella maledetta canzone?

Tutti moriamo un giorno. Per poi tornare a casa, sull'Iron Mountain, in un vasetto.

Ma come cavolo è potuto succedere? Beh, dopo la diagnosi di un cancro alla prostata, decisi di essere diretto con Beni, di dirle la verità. Anche se la cosa mi costò due bottigliette di vodka.

—Non so dirti quanto di preciso, le dissi, potrebbe trattarsi di un anno o diciotto mesi. Comunque sia tirerò le cuoia.

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Come si dice quando uno viene a sapere che ormai è spacciato. —Voglio che tu riporti le mie ceneri a casa, le confidai.

E così, se non sbaglio, iniziò il nostro viaggio verso le Meadowlands. Era nata nell'Indiana e eravamo amici da un bel po' di anni. Ci eravamo conosciuti in giro, nei bar del Queens. Molto tempo prima, chiaramente, che diventasse famosa. Cosa di cui mi riconobbe il merito, in un certo senso, anche se Gartland non ne era convinto. O almeno così non sembrava. Mi aveva parlato della sua passione per la scrittura per anni e anni e aveva anche arrischiato una specie di opera in versi sulle mie esperienze. Ma fu con The Night Visitor che fece centro. In cui raccontava, attingendo direttamente da fatti realmente accaduteli, come le avevo consigliato di fare, di quando era stata praticamente violentata da un tizio del sud in un appartamento nel Queens. Il successo le piombò addosso all'improvviso. E poco dopo lei e Mia si sistemarono in una mansardina. T.J. Gartland, o forse dovrei dire Sua Eminente Autorità newyorkese in storia e letteratura irlandese, si era preso l'incarico di dirigere lo spettacolo che inaspettatamente riscosse un successo strepitoso e per finire andò in scena a Broadway. Incredibile!

—Certo che porterò le tue ceneri a casa, rispose, ma prima dobbiamo fare un salto nelle Meadowlands.

E ci mettemmo in viaggio. Mia era contenta – avrebbe portato The Bones in giro per il mondo. Gartland, come al solito, rimase seduto a fissare il vuoto con quegli occhietti marroni, piccoli e penetranti, e con la mente rivolta a qualche colta e autorevole massima di Yeats. Era sua l'idea del titolo. In realtà, prima di The Night Visitor, aveva proposto Insomnium Ossiae.

—Gli spiriti che non trovano riposo osservano le ceneri di uno spaventoso passato che ritorna, disse.

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Prima di tenere l'ennesima conferenza sulla caratteristica cruciale delle opere Nō, in cui le anime vagano in cerca di riscatto da peccati passionali o da errori di giudizio commessi in vita.

—Più in generale, si tratta di stati di implacabile rimorso, spiegava, lisciandosi i baffi con le ditina paffute.

Gartland aveva preso parte allo sciopero dei minatori nel Regno Unito. Una terra che, aveva giurato, non avrebbe mai più supportato.

—La Thatcher ha rovinato il nostro paese, ripeteva, è un'assassina, niente di più, Beni.

Poi si voltò verso di me con un bicchiere di vino in mano. Si intendeva anche di quello, ovviamente.

—Ma chi meglio di te può saperlo, eh Gabriel? Mi disse, prima di lanciarsi nell'analisi di ottocento anni di disordini irlandesi. Sapeva tutto a riguardo – compresi gli scioperi della fame.

—Come è stato ritrovarsi in prigione in quel periodo? Mi domandò, sollevando il sopracciglio con quel fare interrogativo, come se non ti credesse ancor prima di sentire la risposta. Sapeva essere la persona più fastidiosa al mondo. Ma era molto intelligente. Oh sì, molto intelligente. Beni lo adorava, con tutto il cuore. E sono sicuro che anche per lui fosse la stessa cosa.

Non che mi importasse un granché di lui. Ma cosa potevo farci se era amico delle ragazze? In ogni caso, quello che c'era tra me e Beni era un affare privato, un rapporto così forte che mai avrei creduto possibile. Dopo tutto, la mia esperienza con le donne era seriamente limitata – e non solo a causa della prigione. Esther McCaul e le sue sceneggiate, nel corso degli anni, avevano contribuito alla cosa. Non potevo nemmeno uscire a bermi qualcosa che me la vedevo spuntare tutta

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barcollante all'ingresso, su quelle gambette scheletriche che parevano le zampette di una cavallina, vestita di straccetti e con gli occhi strabuzzati. Ecco perché dico che, in seguito, sono stato abbastanza fortunato ad aver incontrato una come Beni. Anche se non le piacevano gli uomini, in quel senso. O così diceva. Ma a volte mi domandavo se era vero. Dato che un paio di volte mi aveva mostrato chiaramente segni...beh, di affetto, diciamo così. Di sicuro il signor Gartland lo avrebbe ritenuto un insulto sessista, essendo un'autorità nella salvaguardia dei diritti delle donne.

Perché Beni – e sarò onesto come lo era stata lei fin dall'inizio – sì, Beni Banikin aveva un sacco di problemi. E credo che, in un certo senso, questo abbia contribuito alla cosa – intendo a creare un bel legame tra di noi. Dato che entrambi soffrivamo per alcune mancanze, se così possiamo dire. Io stavo male per i miei compagni e per un conflitto che, alla fine, non aveva portato da nessuna parte; lei per aver trascorso un'infanzia e un'adolescenza che aveva descritto come “un vuoto vertiginoso”. Definizione che andai a cercare subito dopo. A differenza di TJ, questo è chiaro, il celebre drammaturgo di Broadway, che mi aveva già accusato di citare Yeats a sproposito.

—Non sono mica un docente universitario e che cazzo! Ero sbottato.

Ma voi pensate che ciò potesse avere turbato il piccolo Willie Nelson dell'università, nonché tenace sobillatore socialista?

Oh, niente affatto! Aveva semplicemente arricciolato i baffi, meditando:

—In realtà Gabriel, penso si legga così: Ho sentito parlare di fantasmi adirati che vagano in costante solitudine.

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Ricordo che era una bellissima giornata mite d'estate ed eravamo nel mezzanino dell'appartamento di Long Island. Il vino scorreva nelle vene e il sole entrava nella stanza. E l'ultima cosa che uno si sarebbe aspettato, date le circostanze, era che mi ritrovassi a tremare dall'ansia e dalla rabbia repressa che avevo in corpo. Per non parlare del fatto che me ne stavo lì seduto, bianco come un cadavere, con gli occhi sgranati come quelli di un sonnambulo. Ma era proprio così che mi sentivo. Grazie a Dio, non avevo detto niente. Ero rimasto al mio posto, in silenzio, a girarmi le mani, mentre il dottor Gartland mi esaminava dalla testa ai piedi, lanciandomi le sue solite occhiatine furtive.

Questo accadeva circa una settimana prima che ci mettessimo in viaggio verso quella che chiamavo La nostra casa nelle Meadowlands. In memoria del Contadino e di tutti i miei compagni di galera.

A ripensarci adesso è come se il viaggio, in un certo senso, sia servito da terapia per tutti e due. Su e giù per l'America con una Trans Am (doveva essere questa l'auto per onorare il patto) per scaricarci di tutto, senza pensare a niente se non a dove effettivamente fossimo diretti. In quel viaggio, credo proprio di averle raccontato tutto riguardo al conflitto. E ciò mi sollevò tantissimo, solo per il fatto di avere buttato fuori quello che mi tormentava. Addirittura le mostrai una notizia di un giornale del '79. Ero sul campo già da un paio di anni. L'articolo parlava di un incidente davvero raccapricciante persino per gli standard, spesso sconvolgenti, dell'Irlanda del Nord. La copia dell'Impartial Reporter era sbiadita e il giornale stesso era leggermente ingiallito, ma la foto in prima pagina parlava da sola: un poliziotto in piedi davanti a un'umile casetta senza tetto. Agonia. Ecco cosa traspariva dal suo volto. Il titolo di prima pagina era lapidario e diceva così: BOMBA LANCIATA IN CULLA. E continuava: queste le vittime uccise dai terroristi “in questa

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1) Nathan Douther, contadino, 67 anni. 2) Elizabeth Douther – sua moglie, 62 anni. 3) John Clone – contadino, 59 anni.

4) Robert Clone – suo figlio, 19 anni. 5) James Cole – 23 anni.

6) Joseph Mc Kay – 20 anni. 7) Boab Douther (neonato, 6 mesi).

Si diceva che le vittime avessero chiesto ai loro assassini: “Cosa abbiamo fatto?” Per sentirsi rispondere con freddezza: “Siete sporchi protestanti”. Facevo fatica perfino a reggere il giornale. Beni mi poggiò la testa sulla spalla.

—E dopo questo non ce la feci più, le spiegai, dovevo guardare avanti, ecco perché alla fine mollai tutto e me ne andai. Non potevo coordinare e consentire operazioni del genere. Non era questo il motivo dello scontro. Questo è settarismo bell'e buono, indifendibile su qualunque libro stampato. Capisci di cosa parlo? Mi baciò la mano, un gesto bellissimo.

—Sono contenta che tu l'abbia fatto, rispose, c'è già abbastanza dolore al mondo, senza che il tuo movimento ne aggiunga dell'altro.

—Quando entrai a far parte del movimento, alla fine del '75, era per la libertà. Era questo il motivo. E, all'epoca, molto tempo prima degli scioperi della fame e di Altnavogue, sembrava fosse davvero così. Non potevo immaginare cosa sarebbe diventato in seguito. Per questo me ne dovetti andare. Questa è la verità, Beni. Dovevo scrollarmi questo schifo di dosso e andare via, lontano da quel conflitto, se così si può chiamare. Dovevo lasciarmi tutto alle spalle, una volta per tutte.

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E come sembra lontano tutto ciò adesso che Beni riporta quello che è rimasto di me – infilato per benino e al calduccio nel suo borsone – nella mia terra, l'Iron Valley. Un pellegrinaggio speciale, intrapreso per disperdere ciò che rimane di Gabriel King e cospargere della sua polvere grigia la superficie luccicante dell'Iron Lake. Dove io ed Esther andavamo dopo avere ballato e dove Il Contadino suonava la sua chitarra invisibile. Sarebbe stata una cerimonia umile, su questo eravamo d'accordo. Con pochissimi presenti oltre a lei. Dopo averci riflettuto sopra, decisi che era così che la volevo. Sobria, informale. Del resto, tutti erano andati avanti con la loro vita e molti di loro erano anni che non li vedevo. Di certo, qualche mio ex compagno si sarebbe risentito. Il movimento è, per così dire, ossessionato dai rituali funebri. Ma volevo che fosse una cosa speciale tra me e Beni. Queste erano le mie esplicite volontà: Beni, la montagna e l'urna di rame sollevata al cielo. Soltanto lei e il rumore della brezza, niente più. Ma, ancora adesso, riesco a sentirle quelle voci contrariate. E, tra loro, Sua Maestà il Dottor Gartland, il dotto, che arcua le sopracciglia e si posa le manine paffute sul petto e mi deride così:

—Ah, quel cuore farabutto.

Citando per l'ennesima volta il suo idolo Doppia-Vu-Bi. Per non parlare di come aveva proseguito la frase. Che schifo. Forse è stata una vera fortuna che non abbia mai incontrato Il Cane. Già, Il Cane. Con le mani in tasca, nel cortile della prigione, aveva sospirato, prima di sibilare un fischio lungo e sommesso.

—Ecco che se ne va. L'uomo di cui tutti si possono fidare. Non ero l'unico ad avere dei sospetti nei tuoi confronti. Stai attento, amico mio, a quel diavolo accorto e riprovevole.

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Lasciate che dicano pure ciò che vogliono – non mi importa. La sola cosa che so, è che non sarei più stato in grado di vivere dopo quello che avevano fatto ad Altnavogue. Voglio dire, santo cielo, il massacro di un neonato innocente!

—All'inizio non era così, Beni. E mai sarebbe dovuta diventare una cosa del genere. Una squallida e faziosa schermaglia. Il motivo che mi spinse a farne parte era la liberazione del mio paese da quello che consideravo il giogo dell'oppressione. Doveva essere una lotta per la libertà nazionale e non l'assassinio di vicini di casa e bambini indifesi. Così, quando sentii cosa avevano fatto non mi rimase che affrontarli, uno a uno. Chi erano veramente i miei colleghi e commilitoni?

—E voi lo chiamate combattimento? Chiesi a Hushabye Bonner e Toby, fratelli gemelli, tra i volontari di confine più rispettati. E lo dissi pure a White Il Cane! Come fate a permettere certe cose? Domandai. Tutto questo è terrificante, è una vergogna! Un episodio riprovevole, una macchia nella gloriosa storia del movimento.

—E io non voglio averci più niente a che fare!

Non la presero bene, come è facile immaginare. E come dissi a Beni, dopo avere disseminato i semi della mia crescente disillusione, all'indomani dello sciopero della fame, andò tutto in frantumi. Lasciai l'IRA una volta per tutte, dopo avere deciso che non mi avrebbe più potuto rappresentare.

Era sempre voluta andare in Irlanda. Da prima ancora che la conoscessi. Me lo aveva ripetuto un milione di volte, fin dalla prima volta che aveva messo piede al Rory's nel Queens. Da quando aveva fatto la grandiosa scoperta – quando si era innamorata perdutamente delle poesie di Yeats. Sarebbe dovuto accadere, prima o poi.

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Aveva perfino scritto qualcosa a riguardo. Come noi in prigione sognavamo le Meadowlands, allo stesso modo lei si era immaginata sulla vetta del Big Iron con lo sguardo rivolto verso la valle sottostante, bagnata da una soffice pioggerellina di aprile portata dal vento.

Ma – ah ah! – non credo si sarebbe mai aspettata che sarebbe andata a finire così! Con me, alle sue spalle, che la guardo avanzare con passo deciso lungo la strada principale, dove le tende sono già sollevate e la gente si chiede: chi cazzo è questa?

Sembra uscita da Hazzard! O forse è Ellen DeGeneres –– Ehi, ciao bambini! Eccomi qua a presentare il mio programma televisivo pomeridiano! –– masticando una gomma e camminando come se quel posto le appartenesse. Con la solita arroganza da maschiaccio che si era cucita addosso in adolescenza per mascherare una vulnerabilità, a tratti sconcertante.

Venni a conoscenza di questo suo lato del carattere nel '93, all'incirca. Ormai la conoscevo da un paio di anni. Una solida corazza che si frantumava per rivelare, al suo interno, un tenero cuore. Ecco come era. E devo ammettere che la trovavo estremamente attraente. Per questo, da subito, era nata un'intesa perfetta tra noi. Cosa che mi rallegrava dato che, a parte Esther McCaul e un numero considerevole di lucciole dell'Asia e di altri posti in cui ero stato durante i miei viaggi, non è che avessi avuto tutta questa esperienza con le donne. Così mi godevo il viaggio in Trans Am con Banikin, imbambolandola con le mie “vecchie storielle irlandesi”, come le piaceva chiamarle.

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—Non mi verrai mica a dire che questo è il nome che avevi dato al gruppo!? —Io e Bobby Owens lo formammo insieme, tanto tempo fa. Molto prima dello scontro e di tutto il resto! Agli inizi dei fatidici anni '70, Beni!

Chi poteva immaginare come sarebbe andata a finire? Le domandai, prima di aggiungere con un filo di voce:

—Con Bobby che, santo cielo, si toglieva la vita!

Non disse niente, non doveva e lo sapeva bene. Come sarebbe stato bello poterla amare come si amano di solito un uomo una donna. Ma, da questo punto di vista, il suo cuore apparteneva già a un'altra persona – anche se lei e Mia avevano avuto i loro problemi. Ma ormai tutto ciò fa parte del passato. Adesso sono felici più di quanto non lo siano mai state e vivono nel loro strepitoso appartamento di Long Island, acquistato grazie al suo capolavoro, The Night Visitor, “la sensazionale reinterpretazione dell'opera di W.B. Yeats”, come lo aveva descritto il Village Voice.

—Non possiamo essere nient'altro che amici, mi aveva spiegato all'inizio.

E mi stava bene. Beh, a dire il vero, non mi stava affatto bene. Appena me lo disse, andai su tutte le furie. Ma poi, dopo un po', ci feci il callo. Sì perché, in fin dei conti, mi resi conto che Banikin era una persona estremamente corretta. Una qualità molto rara in questo mondo e quando uno ha la fortuna di averla tra le mani non deve lasciarsela scappare. In fin dei conti, cosa ci rimane? A nessuno piacciono i disertori e gli ipocriti. Su questo Jimjoe White aveva ragione.

—Gabriel e gli Svitati! Che nome assurdo per un gruppo rock.

Beh, dopo questa non ne voglio sentire altre! Non ne voglio sentire altre, mister Gabriel Looney Tunes King! E rideva, mentre la Trans Am procedeva a tutta birra per le strade del paese, diretti verso lo stato dell'Indiana.

(22)

________________

Quanto ce la siamo spassata io e Banikin, eh già. Almeno per la maggior parte del tempo. E non mento – non voglio di certo cominciare adesso – quando dico che, tutto sommato, il viaggio filò liscio fino all'ultimo.

Beh, a essere sincero, tutti i miei grattacapi con la prigione e cose del genere erano tutt'altro che risolti. Lo ammetto, per buona parte del tempo, me ne ero letteralmente infischiato. Adesso non ho problemi a confessare queste spiacevoli cosucce. Niente affatto. Quando si tratta di Banikin dico sempre la verità. È vero, certe notti me ne andavo senza dire una parola, senza nemmeno preoccuparmi di lasciarle un biglietto o di farle una telefonata più tardi. Andavo via. Mi rifugiavo in qualche bettola ai bordi della strada a buttare giù birre come se non ci fosse un domani. Ancora adesso mi chiedo come faceva tutte le volte a ripresentarsi e a riuscire a perdonarmi. Ma che ci crediate o meno, lo faceva. Sul serio! Non che Banikin fosse una debole, tutt'altro! Con quella testolina piena di capelli rossi e crespi e la faccia zeppa di lentiggini, a denti stretti ruggiva:

—Non ne posso più delle tue stramaledette cazzate!

Un paio di volte mi aveva addirittura menato. Come dire, qualche volta era un tantino esagerata. Ma poi ci addormentavamo come due bambini indifesi, lo giuro. In qualche squallido motel, sotto il vasto cielo del Midwest. Quando ripenso a quel viaggio, mi rendo conto di quanto fosse assurdo. Ma, nonostante tutto, si fidava di me. Forse perché in lei si era fatta spazio una nuova consapevolezza. Dopo tutto, fu a seguito di quel viaggio che riscosse il suo primo successo. A prescindere dal fatto che Tubby Gartland gliene desse merito o meno. Ero io che l'avevo indirizzata, eh già proprio io, il galeotto “autodidatta”.

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—Lascia perdere la poesia, le consigliai. Voglio dire, dopo tutto ci sono tanti altri generi da esplorare.

—Sai cosa? Rispose. Credo proprio tu abbia ragione. È giunto il momento di decidere se smettere una volta per tutte o andare avanti a oltranza a scrivere queste porcherie alla Sylvia Plath. Our skinny breasts, my father's death. Santo cielo, a volte mi faccio schifo da sola.

E così, dopo quella conversazione, stese la prima bozza di The Night Visitor, in una biblioteca del Wisconsin.

Per cui fanculo a te e al tuo “autodidattismo” del cazzo, Tubby!

Sdraiati sul letto di quel motel, le avevo contato le lentiggini sulla parte superiore del naso, pensando tra me e me – e intanto ridacchiavo – a quanto somigliasse a Michael J. Pollard! Di certo non lo conosceva. Era il benzinaio in Bonnie and Clyde. C. W. Moss. È così che si chiamava nel film. Forse era quel suo modo di arricciare il naso mentre sorrideva o, più in generale, la sua faccetta tonda. Caspita, le sarebbe preso un colpo se avesse saputo che pensavo certe cose. Poi mi ero addormentato stretto a lei.

—Notte, CW! Ricordo di avere pensato, tappandomi la bocca. Cavolo, quanti bei momenti passati insieme in quel viaggio.

Era nata in un paesino dell'Indiana del nord e qui era stata cresciuta dai suoi genitori Amish fino a che, nel 1983, una tragedia colpì la sua famiglia – suo padre si tolse la vita in circostanze raccapriccianti.

A volte, se avevo bevuto, tentavo di obbligarla a fare l'amore con me. Cosa che – mai! – avrei dovuto fare. Non era giusto, e solo adesso mi rendo conto di quante volte l'avevo fatto.

(24)

Così come sarei dovuto stare alla larga da quei pub e dalle migliaia di bettole squallide in cui mi scovava. A riempire di stronzate sull'Irlanda del Nord dei perfetti sconosciuti. Cavolo, a volte andava su tutte le furie!

—Avrei dovuto prendere la Trans Am e squagliarmela! Sei solo uno stramaledetto egoista! Mi aveva detto una notte con la faccia contorta in una smorfia di disprezzo.

—Oo-hii! Non posso fare a meno di pensarci. —Scusa, Michael! Ah, ah!

Ma non aveva detto niente. E, date le circostanze, era la cosa più saggia che avesse potuto fare, credetemi.

Mi ricordo di quella volta in quella topaia – un locale di Mobile – quando, dopo avermi cercato per un paio di ore, alla fine mi sorprese a tessere le lodi di White, Il Cane, a due camionisti. L'unica cosa che ricordo è che, quando l'avevo vista sbucare, avevo fatto finta di niente – che vergogna! –. Si era fermata sulla porta e mi cercava con lo sguardo. Forse mi aveva ricordato Esther. Non lo so, ero ubriaco fradicio. Così, ero andato avanti con un'altra intricata storiella delle mie. Questa volta raccontavo dei primi giorni di gloria del conflitto. Gli zappaterra con cui parlavo erano dei contadini che lavoravano nel terreno circostante. Uno di loro aveva il tipico buzzo da alcolizzato mentre il suo amico era su per giù come me, un selvatico, con sopracciglia folte, un viso spigoloso dai tratti ben marcati e due occhi volpini che scrutavano qua e là, sotto la visiera di un cappellino da baseball. Non riuscivano a fare a meno di ascoltare i miei pipponi, soprattutto quello sul periodo trascorso in Angola. E intanto, i bicchierini di Jack si allineavano sul bancone.

(25)

—Avrete sentito parlare di Mike Hoare Il Pazzo. Lo conobbi quando lavoravo in Angola, dove finii per puro caso. Mi ero imbattuto in due tizi a Londra che organizzarono il tutto. Non che mi ammazzassi di lavoro a fare il mercenario. La maggior parte del tempo rimanevo a fissare chilometri e chilometri di acquitrini di mangrovie, incastrato in qualche cespuglio. Ecco perché non fu poi così difficile decidere di ritornare e combattere in Irlanda. Pensai che le mie forze potessero essere impiegate in modo migliore. E perché no per la libertà del mio paese? Per giorni e giorni, dopo quell'episodio, Beni non aprì bocca. Non facevamo che guidare, macinando chilometri su chilometri, stato dopo stato. Fino a che non cominciò a dare segni di cedimento. La sentii mugugnare tra i denti:

—A imbottire sconosciuti di stronzate sulla tua guerra, eh Gabriel? Beh, sai cosa ti dico? Questa storia mi ha proprio stancata!

—Oh, davvero, Michael? Beh, non sai quanto mi dispiace, che peccato. Mi suggeriva una stupida vocina dentro di me.

Una marea di stronzate, detto tra noi. Ma, per fortuna, riuscii a metterla a tacere. E intanto le mie mani cercavano, a tastoni, di raggiungere le sue. A quel punto due begli occhioni mi lanciarono uno sguardo struggente.

—Vaffanculo! Disse, mentre un sorriso le esplodeva sul volto.

E ciò fece sì che quella notte provassimo ad avere un rapporto – che ridere! —Oh, Mia! Mugolò addirittura a un certo punto.

E il mio uccello, demoralizzato e con un cancro alla prostata, chinò la sua testolina, rosso dalla vergogna. Nel mentre, le mie mani non facevano che palparle quel corpicino tozzo e grassottello dappertutto.

La mattina seguente tornò tutto come prima – anche se non avevamo vinto il premio di “Migliori Amanti dell'Anno”.

(26)

—Parlami ancora di quella band, mi disse mentre guardavamo la TV stesi sul letto, stretti in un abbraccio. Le prime luci dell'alba filtravano dalla finestra. E le poggiai la guancia sulla folta chioma color rame.

—Long Black Veil dei The Band, le dissi. L'hanno mai passata alla radio a Goshen in Indiana?

—Goshen, Indiana – ma certo Gabriel! Forse nei tuoi sogni irlandesi! Non sai proprio niente sugli Amish, eh? Non ci è permesso avere la TV né la radio, mi spiegò. Anche se io e Ta Ta andavamo di nascosto a South Bend, per ascoltare Huey Lewis and The News al centro commerciale. Il nostro gruppo preferito. —Sei sempre voluta andare via? Da quello che ti ricordi?

—Tu pensi di avere avuto problemi? Non hai la minima idea di cosa abbia voluto dire crescere in quel posto. La monotonia delle giornate e le interminabili funzioni religiose. Per non parlare di quelle austere matriarche, con quelle noiosissime trapunte e quei campionari senza senso; lì sedute ad aspettare il minimo pretesto per rimproverarti. Ma questa non era la parte peggiore, Gabriel. Quella spettava alle visite in paese – su quei calessi orrendi con gli altri bambini che, anche se non dicevano niente, lo pensavano. E ti squadravano dalla testa ai piedi mentre passavi di fronte a loro con quelle stupide cuffiette ricamate e quelle scarpe da vecchia zitella. Quanto le detestavo! Sai cosa facemmo una volta io e Ta Ta Peterson? Un rituale con un paio di scarponcini! Al ruscello, dove lei faceva finta di essere Huey – cavolo, se lo avessero saputo! Ci imboscavamo e mi canticchiava all'orecchio paonazzo The Power of Love. E io le afferravo tu-sai-cosa e le dicevo, Mi ami Huey? Su, dimmelo ancora!

A quel punto le presi le mani mentre, sdraiati sul letto di quella stanza di motel, ridevamo dell'improbabile innocenza e dolcezza di tutto ciò.

(27)

E, proprio in quell'istante, Esther McCaul fece capolino nella mia mente. Sulla soglia della porta, con quel cappotto di pelle rosso fuoco, a frignare dietro a un fazzoletto.

—Per tutto questo tempo ho pensato che tu mi amassi, diceva. Mentre una lacrima di cristallo le rigava la guancia.

Un attimo prima di partire per gli Stati Uniti – per non tornare mai più. Se non in una scatola probabilmente, ricordo di aver pensato. O in un barattolo, un'urna, come volevasi dimostrare. Anche se, di certo, all'epoca, non potevo saperlo. Quella stupida di Esther mi aveva seguito fino all'autostazione.

—Sei un pezzo di merda! Mi urlava dietro – proprio mentre l'autobus si fermava nel piazzale. Che vergogna!

—Ti odiano tutti! Non sei niente per questa valle, King! Niente! Non sei altro che uno schifoso verme! Addio, signor Ratto!

Incantevole, no? Adesso capite perché ero così contento di sbarazzarmi di lei? Anche se l'amavo. Sì, decisamente. Con tutto il cuore.

Ah, Ah!

Ma non allo stesso modo in cui amavo Beni Banikin – o forse dovrei dire, miss Daisy “Tarchiatella” Duke che adesso avanzava a passo svelto con ai piedi quel paio di solidi stivaletti, comportandosi come l'interprete di un film che sta per essere girato nell'Iron Valley. Il cui titolo sarebbe benissimo potuto essere Le Ceneri di Gabriel Gervase King in cui – nella scena finale – la si vede cospargere delle mie ceneri il mio lago preferito. Simbolo dell'estremo saluto alla mia casa, nella valle, e alla splendida comunità in cui sono cresciuto. Per le quali avrei dato la vita. Un popolo per cui ho lottato con tutte le mie forze. E dove sono stato felice. Felice come in nessun altro posto. Nemmeno in America, dove ho passato dei momenti fantastici. E dove ho conosciuto delle persone davvero terrificanti –

(28)

studiosi di Yeats, lesbiche – che se ne stavano lì, ad aspettare di essere scovati. Che posto magnifico, devo proprio ammetterlo, questo fantastico mondo in cui noi tutti vaghiamo.

________________

Ma basta, ne ho già abbastanza di tutto questo filosofeggiare, come diceva Mia Chiang. Sì, lasciamo che di queste cose se ne occupino i tipi come il dott. Gartland. Il professorino che, mentre si stiracchia i baffi, ti domanda da quale università provieni. E quando si sente rispondere “La Prigione di Sua Maestà”, The Maze, inizia a leccarti il culo fino a che...

Beh, fino a che non cambia ancora idea su di te. Come sono strambe le persone a volte!

Ma, come ho detto, basta con queste stupidaggini. Ho altro di cui occuparmi. Devo fare compagnia a Sua Altezza Beni Banikin Ellen DeGeneres Daisy Duke, che, appena arrivata in albergo, pensava tra sé e sé: e che cazzo! Ma siamo in America! Questa non sembra l'Irlanda!

La via principale, come al solito, era ricolma di brutti ceffi, di provincialotti dell'ovest che strimpellavano qua e là per la strada. Il primo posto spettava ai preferiti di sempre di Esther McCaul, gli unici e inimitabili Big Tom and the Mainliners che, con la loro armonica squillante e la vibrante chitarra elettrica, diffondevano dagli altoparlanti della stazione, situati proprio nel bel mezzo del paese, alcune cantilene sulla fede, la famiglia, l'amore e la redenzione.

—In onda tutto il giorno, tutti i giorni su RV109! Cinguettava DJ Bj. E intanto io ripensavo alle lacrime di Esther di quel giorno. Perché, lo giuro su Dio, prima che io partissi, si era esibita proprio sulle note di Ashes of Love nella versione di Big Tom.

(29)

—E mi lasci così? Dopo tutti questi anni che ti sono venuta a trovare in prigione! Dovevamo sposarci, avere figli! Che ti è saltato in testa, King? Ti guardavo negli occhi e pensavo di vederci qualcosa, ma adesso mi chiedo cosa cavolo c'ho visto! Ho come l'impressione che non fosse niente di buono! Proprio niente di buono! Da dietro le vetrate che davano sulla via principale, dove scorreva una fiumana di gente, adesso Bj ostentava un sorrisetto ridicolo.

—E vai! Gridava, sì, cazzo!

Non era poi così strano che Beni si sentisse un tantino spaesata.

Sapete, a ripensarci adesso, sono contento di avere baciato Esther. Giusto un tenero bacetto sulla guancia, prima di prendere lo zaino e voltarmi per l'ultimo saluto. Perché, detto tra noi, alcuni al posto mio, l'avrebbero menata. Ma non sono il tipo per certe cose.

—Addio, avevo detto ed ero corso a prendere l'autobus. E lei era rimasta, tutta tremante, sulla soglia della porta.

Proprio la stessa porta su cui adesso stava Banikin. Mentre un ragazzetto le si avvicinava e le porgeva un lucido volantino.

—Il Miglior Film Festival delle Midlands! Annunciava il titolo di copertina. Poi il giovane se ne andò maldestramente, a gambe levate.

—Oltre alla programmazione dedicata ai più piccoli, quest'anno siamo lieti di presentare una stagione di film sulla storia della politica irlandese – Ecco alcuni dei film in programma: Angel, In the Name of the Father e Some Mother's Son, lesse Beni.

L'ultimo titolo la turbò così tanto che, per poco, non scoppiò a piangere. Soprattutto quando scorse la figura di Gesù Cristo, che per lei in quel momento altro non rappresentava che l'immagine straziante di un deperito, tutto pelle e ossa, che esalava l'ultimo respiro appeso a una ruvida croce di legno. Di certo, mentre stringeva forte quel volantino, ripensò alle mie parole.

(30)

—Dopo il fallimento degli scioperi della fame, Beni, la guerra per me era ormai giunta al termine. Cinquantacinque giorni di digiuno è più di quanto uno possa sopportare. E ce la misi tutta. Ma poi, come molti dei miei compagni, non ebbi più la forza di andare avanti. Non c'era più niente che potessi fare.

Mi commossi, devo ammetterlo, quando vidi che tremava e che le sue labbra mimavano il mio nome. Aprì il portafoglio e tirò fuori una foto che le avevo dato in America, quella in cui diceva che somigliavo a Levon Helm, il batterista dei The Band. Soprattutto quando mi mettevo quel giubbotto di jeans smanicato, da cui spuntavano due braccette scheletriche tutte ricoperte di tatuaggi. Una faccia spigolosa, i capelli biondi raccolti in un ciuffo e un paio di folte sopracciglia completavano il tutto. Me la faceva sempre lunga sul mio sorrisino enigmatico, il sorriso di “Lupo Magro”, come lo chiamava lei. Mi mancava un incisivo, l'avevo perso da qualche parte, in un combattimento in Asia.

Per poco non mi misi a piangere quando vidi che dava un bacio alla pagina della programmazione. Ferma, immobile, nella via principale. Come le avevo detto, Bobby Sands non si vedeva nella foto. Bobby Sands, ventisette anni, aveva scioperato sessantasei giorni prima di morire. Undici in più del suo amico, nonché spasimante Gabriel King, la sentii riflettere con dolore. Il quale, forse per tutta la vita, aveva sognato di morire per l'Irlanda. Per distinguersi, offrendosi letteralmente in sacrificio. Proprio come Gesù. Proprio come Gesù – Nostro Signore, ah ah! Che pensa di avere fatto chissà che. O come quel santo di Tubby Gartland!

Ma le cose, come sappiamo, non sempre sono ciò che sembrano.

A cosa sono serviti i suoi cosiddetti sforzi per l'umanità, se non a dare prova del suo ostentato narcisismo – anzi, egoismo, se proprio vogliamo dirla tutta. Perché le cose, proprio come sussurrava Jimjoe “Il Cane” sotto la doccia:

—Non sempre sono come sembrano!

(31)

Perché sa che un terribile nemico l'incalza da vicino e non s'arresta. Ancora adesso mi fa venire i brividi lungo la schiena.

E sarebbe accaduta la stessa cosa a Beni, se solo lo avesse saputo. Dato che, proprio quando stava per rientrare in albergo, letteralmente dal nulla apparve Jimjoe White.

—Céad mile fáilte romhat! Lo sentì esclamare, sono felice di darle il benvenuto nella valle, signorina Banikin! Sì, centomila volte benvenuta, come diciamo qui in Irlanda!

Il Cane da poco era stato eletto sindaco. E, in quell'elegante completo tre pezzi a spina di pesce, sembrava proprio rappresentare il rigore in persona. I lucenti capelli biondo platino gli arrivavano fino a metà schiena. Sembrava il gemello irlandese di Tubby Gartland, spiaccicato! Un altro autentico profeta della Bibbia, un altro Willie Nelson. Si dondolava sulle caviglie e sogghignava.

—Con quei pantaloncini, signorina, l'avrei potuta scambiare per l'attrice di Hazzard! Le disse.

Beni era rimasta a bocca aperta, si vedeva lontano un miglio. Poco dopo, il solo accento le sarebbe venuto a noia. Oh, come sono tenere e ingenue le Amish! Non aveva nulla del sindaco, pensava. Non era austero, né borioso come un funzionario di Bloomington o di Mishawaka. Tutto il contrario! Il sindaco White era un omone alto e distinto.

—Un uomo davvero affascinante! Pensava.

Poi, Jimjoe diede un'occhiata all'orologio e, con un sorriso, annunciò:

—Beh, sfortunatamente, devo scappare. Ma, per fortuna, la rivedrò presto signorina Banikin, non è così?

(32)

Come faceva a sapere il suo nome? Si domandò Beni. E, nel mentre, il sindaco se ne andò con al seguito un branco di leccapiedi tra cui due miei amici di vecchia data, i gemelli Bonner, Toby e Hushabye, che sgattaiolarono via con dei fascicoli sotto il braccio.

—È al terzo piano, signorina Banikin, ripeté il receptionist una volta rientrata in albergo. Spero davvero che il posto sia di suo gradimento. Anche se immagino che in America, di certo, sarà abituata a qualcosina di meglio, ah ah!

Che cavolo voleva dire? Si domandò Beni. Ma, non appena salita sull'ascensore, diretta al terzo piano, la cosa le passò di mente. C'era davvero motivo di essere così paranoica?

E la risposta fu: —Sì.

Perché, nella valle, la paranoia è uno stile di vita. S.T. Coleridge avrebbe senz'altro gradito un soggiorno da queste parti.

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