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Capitolo 7. Le scelte traduttive

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Academic year: 2021

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Capitolo 7. Le scelte traduttive

Nel seguente capitolo si analizzeranno le scelte traduttive messe in pratica nella versione italiana di The Lure of the Labrador Wild di Dillon Wallace. Se la traduzione fosse la mera trasposizione in una lingua diversa da quella del testo di partenza, l’attività del traduttore stesso sarebbe nulla o quasi. Il traduttore si approccia al testo di partenza sia come lettore empirico sia in quanto autore empirico della traduzione, in due momenti diversi e al medesimo tempo. Il lavoro di traduzione presuppone anche buone capacità ermeneutiche, senza le quali il testo finale risulterebbe privo del senso originario. Il traduttore deve essere in grado di riconoscere, oltre al senso globale del testo, anche le scelte stilistiche e retoriche dell’autore del testo originario. Friedman Apel sintetizza magistralmente il lavoro del traduttore con le seguenti parole:

La traduzione è una forma che insieme comprende e dà corpo all’esperienza di opere in un’altra lingua. Oggetto di questa esperienza è l’unità dialettica di forma e contenuto, come rapporto di volta in volta instauratosi fra la singola opera e un dato orizzonte di ricezione […]. Nella nuova configurazione questa costellazione diventa specificatamente sperimentabile come distanza dall’originale1.

Questa definizione mette in evidenza quanto il processo di traduzione non possa che essere condotto attraverso molti mezzi, magari in contrasto fra loro, tutti però convergenti verso l’unico fine, ossia la creazione di un nuovo testo, che deve essere tanto autentico da sembrare autoctono, ma senza la pretesa di essere stato scritto da zero. Perciò il traduttore, pur non essendo l’autore del testo originale, deve essere riconosciuto come l’autore della traduzione; nell’aspirazione a un riconoscimento tale, egli deve trasmettere il senso e la poeticità dell’originale; se non è in grado di cogliere questi due aspetti, il risultato sarà indubbiamente scadente. Il traduttore deve rivivere l’atto creativo del testo originario.

1

F. Apel, Literarische Übersetzung, trad. it. di G. Rovagnati, Il manuale del traduttore letterario, Milano, Edizioni Angelo Guerini e Associati, 1989, p. 28.

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89 7.1 Stile dell’opera e assiomi traduttologici

Poiché, prima dell’uscita di The Lure of the Labrador Wild, Wallace non si era mai cimentato con la scrittura, per la stesura di questo testo, di oltre 200 pagine, richiese l’aiuto del giornalista e scrittore Frank Barkley Copley (1875-1941), amico di Leonidas

Hubbard. I due alternarono sessioni di scrittura a escursioni nei boschi2, tanto per trarre

ispirazione quanto per far sì che certi episodi fondamentali tornassero alla memoria di Wallace.

La prima azione del traduttore è la messa a fuoco della dominante3, la

componente dalla quale dipenderanno in seguito tutte le altre scelte. L’immersione in una landa selvaggia, con tutti i pericoli che comporta, è il tema principale del libro; altrettanto importante è il come, il modo con cui Wallace decide di trasportare il fruitore della sua fatica nella sua avventura nel Labrador. Lo fa con un linguaggio semplice e scorrevole, che tiene il lettore attaccato al libro, per cercare di trascinarlo nelle immense distese del Labrador. Questo tono consente a Wallace anche l’opportunità di trattare, in maniera altrettanto semplice, del bellissimo rapporto di amicizia che viene a consolidarsi fra lui e Hubbard e di quello che si creerà fra loro due ed Elson. Un linguaggio, in particolar modo nei dialoghi, che mette in primo piano l’affetto fraterno fra i tre. Si legga il dialogo in inglese prima e in italiano poi, dove il tono fintamente solenne, ma in realtà pervaso di ironia, fa emergere quanto appena argomentato:

With the sensation that we were the only people in Labrador, a fancy struck me and I suggested to my companions that we ought to organize some sort of government.

“We’ll make you, Hubbard,” I said, “the head of the nation and call you the Great Mogul. Of course you will be commander-in-chief of the army and navy and have unlimited power. We’re your subjects.”

“I suspect,” replied Hubbard, “you are looking for a political job. However, I, of course, stand ready, like our politicians at home, to serve the country when duty calls – if there’s enough in it. As the Great Mogul of Labrador, I appoint

2

L. Millman, “Introduction”, in D. Wallace, The Lure of the Labrador Wild, Guilford (Conn.), The Lyons Press, 2004, p. xiii.

3

F. Cavagnoli, Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, Monza, Polimetrica, 2010, p. 13.

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you, Wallace, Chief Justice and also Secretary of State. George I shall appoint Admiral of the Navy.”

“Where are my ships?” asked George.

“Ships!”, exclaimed Hubbard. “Well, there will be only one for the present. But she’s a good staunch one – eighteen feet long, with a beam of thirty-three and a half inches. And she carries two quick-fire rifles.”

With these and other conceits we whiled away the beautiful evening hours4.

Con la sensazione che fossimo gli unici esseri viventi nel Labrador, fui assalito da una fantasia e suggerii ai miei compagni di organizzare una sorta di governo.

“Hubbard,” dichiarai, “ti faremo capo della nazione e ti eleggeremo Gran Mogol5. Ovviamente sarai il comandante supremo dell’esercito e della marina e deterrai potere illimitato. Noi saremo i tuoi sudditi”.

“Sospetto,” rispose Hubbard, “che tu sia alla ricerca di un incarico in politica. E comunque, come i nostri governanti a casa, sono pronto a servire la nazione quando il dovere chiama, se ne vale la pena. Con i poteri di Gran Mogol del Labrador nomino te, Wallace, Presidente della Corte Suprema e Segretario di Stato. George, ti dichiaro Ammiraglio della Marina”.

“E dove sono le mie navi?” chiese George.

“Navi!”, esclamò Hubbard. “Allora, per il momento ce ne sarà soltanto una, ma affidabilissima, lunga cinque metri e con un baglio di ottantacinque centimetri. E trasporta due fucili a ripetizione”.

Con questa e simili fantasie trascorremmo le belle ore della sera.

L’autore fa anche delle descrizioni dell’ambiente circostante innalzando il registro, assumendo, quando opportuno, un tono alquanto solenne, come a introdurre momenti cruciali. Il primo esempio è all’inizio del capitolo 4, quando inizia l’avventura vera e propria:

The atmosphere was crisp, pure, and exhilarating. The fir trees and shrubs gave out a delicious perfume, and their waving tops seemed to beckon us on. The sky was deep blue, with here and there a feathery cloud gliding lazily over its surface. The bright sunlight made our hearts bound and filled our bodies with

4

D. Wallace, The Lure of the Labrador Wild, cit., pp. 57-58.

5

Termine con cui ci si riferisce all’imperatore dell’Impero Mogol; i componenti discendevano dai guerrieri di Gengis Kahn, di origine turco-mongola, da cui il nome (nota inserita nella traduzione).

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vigour, and as we stood there on the edge of the unknown and silent world we had come so far to see, our hopes were high, and one and all were eager for the battle with the wild6,

che noi abbiamo tradotto in italiano con tutta la fedeltà sintattica possibile, allo scopo di mantenere inalterato l’innalzamento del registro, come si può leggere qui sotto:

L’aria era frizzante, pura, inebriante; abeti e arbusti emanavano un odore delizioso, le loro cime ondeggianti sembravano invitarci. Il cielo era blu scuro, una nuvola soffice come una piuma scivolava pigramente qua e là sulla sua superficie. L’intensa luce solare rassicurò i nostri cuori e ci riempì di vigore, e siccome ce ne stavamo là, ai confini del mondo sconosciuto e silenzioso che eravamo venuti a visitare, le nostre speranze erano vive, ci sentivamo impazienti di iniziare la lotta con la natura selvaggia.

Il secondo esempio è alla fine del capitolo 10, quando Hubbard propone di ritirarsi: “Weather-beaten, haggard, gaunt and ragged, he stood there watching; then seemed to be lost completely in thought, forgetful of the wind and weather and dashing spray. Finally he turned about briskly, and, with quick, nervous steps, pushed through the brush to the fire, where George and I were still sitting in silence” (ibidem, p. 98), che, di nuovo, abbiamo riproposto attenendoci ad un registro alquanto alto in confronto a quello dominante l’intero testo: “Esposto alle intemperie, smunto, magro e vestito di stracci, se ne stava là a guardare; allora parve completamente perso nei suoi pensieri, dimentico del vento, del tempo, della schiuma che si frantumava. Bruscamente si volse indietro, e, con passo rapido e nervoso, percorse la boscaglia fino al fuoco, dove io e George eravamo ancora seduti in silenzio”.

Come si vede, ci siamo attenuti alla lettera, nei limiti del possibile, con l’obiettivo di mantenere l’atmosfera cercata dall’autore, limitandoci a pochi aggiustamenti, ma solo come conseguenze inevitabili derivanti dal processo di traduzione, per preservare il carattere evocativo di questo frammento. Tali aggiustamenti sono in genere necessari, poiché non è possibile fornire un’equivalenza

assoluta nel trasferimento da lingua di partenza a lingua d’arrivo7; si noti che, nel primo

6

D. Wallace, The Lure of the Labrador Wild, cit., p. 29.

7

S. Bassnett, Translation Studies, trad. it. di G. Bandini, La traduzione. Teorie e pratica, Milano, Bompiani, 2003, pp. 27-29.

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dei due esempi citati, abbiamo sostituito un punto con un punto e virgola (“L’aria era frizzante, pura, inebriante; abeti e arbusti emanavano un odore delizioso […]”), poiché, in italiano, la secchezza della separazione netta dovuta al punto avrebbe fatto percepire la descrizione dell’aria come la frase di un metereologo.

Ma rispettare la sintassi dell’originale non significa seguire severamente l’ordine delle parole e ogni virgola. Significa, semmai, capire il ruolo che la sintassi svolge nel testo nel suo complesso, e trasportare questi valori nella lingua di arrivo, in modo che la sintassi del testo tradotto svolga le medesime funzioni della sintassi del testo originario.

Non abbiamo mai condotto nessun tipo di operazione riconducibile alle “belle infedeli”, non abbiamo mai abbellito il testo secondo certi gusti, ma, semmai, abbiamo cercato, e solo quando lo abbiamo ritenuto necessario, di rendere il testo più apprezzabile al lettore italiano. Il testo di arrivo deve attrarre il lettore, quasi sedurlo, non deve mai fargli pensare che sia tradotto, ma indurlo a credere che il testo sia stato prodotto in italiano. Forse questa è una pretesa irraggiungibile, poiché è impossibile non lasciarsi influenzare da alcune strutture dell’inglese, che magari vengono riportate in italiano e che sembrano sì innaturali ma anche piacevoli; un eccessivo distanziamento pare spesso un modo di nuocere all’autore. Anche perché la traduzione dovrebbe essere la riproduzione di un testo nuovo in una lingua diversa da quella originale, con un diverso modo di organizzare il pensiero. Nel nostro testo, quindi, abbiamo lasciato wigwam in inglese: avremmo usato la medesima parola – e non, ad esempio, capanna, o casupola, eccetera – anche se avessimo realmente scritto da zero un testo in cui si parla delle abitazioni delle popolazioni amerinde, poiché si tratta di un realia, l’unico di tutto il testo.

Postuliamo che, per Wallace, il lettore modello fosse il general reader, il suo vicino di casa, l’americano come lui, che con ogni probabilità condivide con l’autore di The Lure of the Labrador Wild il desiderio di partire per un lungo viaggio d’esplorazione; per noi, il lettore modello della traduzione non poteva che continuare a essere il lettore comune. Il libro fu infatti un successo di pubblico, sia negli Stati Uniti che in Canada, tanto che in un anno venne ristampato ben sei volte. In Europa non è mai divenuto famoso, e, pertanto, non è stato tradotto in nessuna delle maggiori lingue. L’esplorazione raccontata nel libro risale al 1903, la prima edizione del testo al 1905: erano anni in cui negli Stati Uniti si parlava molto dell’esplorazione dell’Artide e

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dell’Antartide, ad opera di Fridtjof Nansen, Otto Sverdrup, Roald Amundsen, oltre che dello statunitense Robert Peary; parte della popolarità è molto probabilmente da attribuire, oltre al fatto che il libro sia “[…] a rousing and a dramatic story, along with a

cliffhanger ending every bit as suspenseful as a first-rate thriller”8, al forte interesse da

parte degli statunitensi per spedizioni con lo scopo di conoscere territori ancora non civilizzati.

Non si ha a che fare con una narrazione da romanzo, lo stile si presenta per quello che è, ossia la messa in prosa del diario dello sfortunato Hubbard e dello stesso Wallace, inframmezzata da descrizioni dell’ambiente, sensazioni e ricordi dell’autore. Le vicende narrate in The Lure of the Labrador Wild scorrono rapidamente. Il registro è quasi sempre basso, con alcune eccezioni, il che viene confermato dal fatto che Wallace, a più riprese, si rivolga al lettore con espressioni fatico-conative e allocuzioni dirette. È ovvio che Wallace non fosse intenzionato a scrivere un testo raffinato da studiare in ambito accademico, né che avesse la pretesa di entrare nelle antologie della letteratura americana.

Il ritmo della prosa letteraria viene scandito, in primi luogo, dalla sintassi e

dalla punteggiatura9; Wallace non rappresenta di certo un’eccezione a questo principio

della traduzione. Lo stile informale trova il suo ritmo ideale nell’offrire al lettore un testo scorrevole, che possa essere letto velocemente. In senso generale, noi ci siamo impegnati a restituire un testo che avesse lo stesso ritmo e la stessa scorrevolezza, riproponendo una punteggiatura che, in italiano, garantisse tali qualità. Per quanto Franca Cavagnoli sembri ferrea nell’invitare il traduttore a non modificare in maniera

eccessiva la punteggiatura, e il punto in particolare10, è pressoché impossibile non

apportare modifiche del genere. Abbiamo comunque badato che il ritmo generale del testo non subisse forti modifiche. Alcune volte, durante la traduzione di The Lure of the Labrador Wild, abbiamo agito sulla punteggiatura, ma non vi sono casi rilevanti su cui dilungarsi. Ci limitiamo a dire che spesso abbiamo unito due periodi separati da un punto, allo scopo di rendere la lettura meno brusca, sostituendo il punto o con una virgola o con un punto e virgola.

Quando, invece, la punteggiatura ravvicinata serve a imporre un ritmo alla narrazione, abbaiamo deciso di non agire. Si guardi l’esempio seguente:

8

L. Millman, “Introduction”, in The Lure of the Labrador Wild, cit., p. xi.

9

F. Cavagnoli, Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, cit., p. 23.

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I was glad to leave the valley of the Susan. Our whole course up the valley had been torturous and disheartening. We had been out fifteen days from Northwest River Post and had covered only eighty miles. Hubbard had been ill, and I had been ill. Always, as we pressed onward, I dreaded the prospect of retracing our steps through the Susan Valley. I hated the valley from end to end. I have more reason to hate it now. To me it is the Valley of the Shadow of Death11.

Fui contento di abbandonare la valle del Susan. L’intero percorso era stato tortuoso e scoraggiante. Eravamo partiti da quindici giorni dalla stazione del fiume Nord Ovest e avevamo coperto solo 130 chilometri. Hubbard era stato malato, io ero stato malato. Nell’avanzare, la possibilità di ripercorrere la valle del Susan all’indietro mi spaventava di continuo. L’ho odiata da un estremo all’altro. Oggi ho ulteriori ragioni per farlo. Per me è la Valle dell’Ombra della Morte.

Si è così mantenuto quel ritmo spezzato dalle frequenti pause e privilegiato una scelta stilistica forte e precisa dell’autore.

Un’altra impostazione di ritmo al testo di Wallace è data dal dash (–), usato con una certa frequenza. L’italiano se ne serve con meno frequenza dell’inglese. Noi abbiamo o deciso di lasciarlo, quando anche in italiano sarebbe stato utilizzato in maniera naturale, per cui, ad esempio, il trattino in “We could only hope that as we neared the ‘height of land,’ we should find more game – find plenty of caribou, at least, on the moss-covered barrens” (ibidem, p. 43) viene riproposto in italiano: “Potevamo solo sperare che, nell’avvicinarci allo “spartiacque,” avremmo trovato più selvaggina – caribù in abbondanza, almeno nei terreni incolti coperti di muschio”. Ciò perché esso contribuisce alla scansione del ritmo: “At that George raised his head and gave a peculiar laugh – a laugh of wild exultation – an Indian laugh” (ibidem, p. 97), passo in cui i trattini servono a separare tre gradi di caratterizzazione della risata tramite l’imposizione di una leggera pausa: “Allora George alzò la testa e proruppe in una risata bizzarra – una risata di giubilo selvaggio – una risata indiana”.

Al contrario, abbiamo proceduto alla sua eliminazione quando esso sarebbe risultato innaturale, fuori luogo o pesante: “There were dark shadows ahead of us among the rocks and the forests, and – but in a moment the thought was drowned and forgotten in the beauties of the scenery. Beauties? – yes; for bleak and desolate Labrador has a beauty and a charm all its own” (ibidem, p. 30), che dà come risultato:

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“C’erano ombre scure davanti a noi fra le rocce e le foreste, e… ma in un momento il mio pensiero annegò e si perse fra le bellezze del paesaggio. Bellezze? Sì; per quanto sconfortante e desolato, il Labrador ha una bellezza e una forza d’attrazione tutte sue”.

L’eliminazione del primo trattino a favore dei tre puntini rende più naturale e veloce il passaggio da una situazione descrittiva a una in cui l’autore, ammaliato dalle meraviglie dell’ambiente, abbandona il fluire dei suoi pensieri. L’eliminazione del secondo, come si sarà notato, non cambia né lo stile né la semantica, ma contribuisce a rendere meno pesante il discorso nel suo complesso.

A nostro avviso, quel che deve prevalere nel tradurre un testo quale The Lure of the Labrador Wild è il senso, cioè il “cosa”, non certamente il “bello scrivere”, ma se nella scrittura non si dà importanza al “come”, è ovvio che non vi sarà interesse da parte del lettore nel fruire l’opera. Dunque restituire un’opera che sia quanto più aderente all’originale e che presti poca attenzione alla lingua d’arrivo non può produrre un buon testo finale, e la traduzione non sarà che una resa di pessima qualità. Se è la restituzione del senso l’obiettivo principale da seguire, allora il rispetto della sintassi sarà di un grado d’importanza inferiore; anzi, essa dovrà adeguarsi allo scopo cardinale.

In italiano si è cercato di mantenere la semplicità sintattica del testo fonte; anche la traduzione di un testo senza particolari difficoltà dovute a costruzioni sintattiche atipiche non è di semplice resa. In italiano si è tentato di conservare il linguaggio fluido, per permettere la scorrevolezza, un lessico vivo e colorato, allo scopo di non annoiare il lettore, che di certo non si aspetta un testo di chissà quali ambizioni letterarie, e un modo d’esprimersi vario, per evitare inutili ridondanze. Mentre la ridondanza, sia essa lessicale o fonetica, in inglese è maggiormente accettata, in italiano risulta molto meno apprezzata. L’italiano letterario tende ad una maggiore varietà linguistica dell’inglese. Non che questa sia stata una regola seguita sempre, poiché quando una ripetizione era inevitabile o non fastidiosa non l’abbiamo evitata. Sarebbe risultato fastidioso se avessimo tradotto “Systematically and thoroughly” (ibidem, p. 3), con “sistematicamente e scrupolosamente”; abbiamo infatti preferito rendere con “in maniera sistematica e scrupolosa”, molto più leggibile e naturale. Bisogna trasmettere le medesime emozioni e sensazioni, i medesimi concetti, i medesimi stati d’animo, frustrazioni e soddisfazioni, l’amicizia e il senso di libertà o di nostalgia d’una calda casa newyorchese nella lingua italiana, usando parole di questa lingua.

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96 7.2 Fra i doveri del traduttore

Fra i compiti cui il traduttore assolve vi è quello di mediatore culturale. Spetta a lui decidere come gestire un personaggio o un evento radicati nella cultura di partenza, ma non in quella di arrivo. Il metodo più diffuso nelle traduzioni è quello di introdurre una nota e fornire, sinteticamente, le minime informazioni necessarie alla contestualizzazione di un certo lemma nel testo, senza però interrompere per un tempo eccessivo il fluire della lettura. Nella seconda pagina del testo inglese ci troviamo di fronte alla seguente frase: “Boone and Crockett were his [Hubbard] heroes,” (ibidem, p. 2). Con scopi esplicativi, per i due personaggi abbiamo aggiunto una breve nota (“Daniel Boone (1734-1820), famoso per l’esplorazione del Kentucky, e David Crockett (1786-1836), pioniere e leggenda del Far West statunitense”), ove abbiamo riportato alcuni dati essenziali, che non hanno la pretesa di essere esaustivi, ma che forniscono quelle informazioni di base atte a creare un minimo di contesto. È evidente il motivo per cui Wallace si limita a scrivere il cognome: Boone e Crockett sono considerati due eroi americani, tanto per Hubbard come per milioni di americani suoi contemporanei. Il lettore autoctono non ha bisogno di alcuna informazione aggiuntiva; quello italiano, al contrario, potrebbe ritrovarsi spaesato, con due nomi noti ma non necessariamente familiari.

L’espressione “I couldn’t hurt a rabbit” (ibidem, p. 177) mette in evidenza quanto la mera sostituzione di elementi lessicali della lingua di partenza con gli equivalenti della lingua d’arrivo sia inadeguato. Considerato anche il contesto, in cui un Elson stremato giunge alla casa di Donald Blake, è verosimile che egli pronunci una frase fatta, ovvero che dica “non potrei far male a una mosca” – come si è tradotto – e non, poco credibilmente, qualcosa di più letterale: “non potrei far male a un coniglio”. Dinanzi a quest’espressione, il lettore italiano potrebbe rimanere perplesso se si traducesse la lettera e non il significato culturale e idiomatico dell’espressione.

Per quanto concerne le misure – distanze fra due luoghi, lunghezza di un fiume, peso dei viveri dell’equipaggiamento – abbiamo convertito tutto nelle unità di misura in uso in Italia, facendo ovviamente qualche arrotondamento, in eccesso o in difetto, poiché la conversione da miglio a chilometro, da pound a chilo non dà numeri interi. The Lure of the Labrador Wild non è un libro di statistica, ove la precisione è

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necessaria; qualche volta, abbiamo quindi potuto arrotondare senza danno eccessivo per la fedeltà e a tutto vantaggio della comprensione.

7.3 I termini tecnici

Per la traduzione dei nomi delle piante abbiamo optato per il nome comune. Alla base di questa decisione, il fatto che The Lure of the Labrador Wild non è un libro tecnico di botanica, il fatto che né Wallace, né Hubbard o Elson fossero con ogni probabilità esperti in tale materia. Anche lo stesso lettore implicito, con poche eccezioni, non avrà competenze notevoli di botanica.

Quanto scritto qua sopra vale anche per la fauna. Vorremmo limitarci a segnalare che, per il totano zampegialle, abbiamo ritenuto necessario apportare una nota, nella quale si sono fornite alcune informazioni elementari, poiché questo uccello

non è presente in Italia12.

Un’espressione che merita un piccolo approfondimento è “fuoco di bivacco”. Essa suonerà certamente un po’ strana all’orecchio. “Fuoco di bivacco” è la traduzione di “campfire”. “Fuoco del bivacco” o “fuoco da bivacco” risultano più naturali, ma “fuoco di bivacco” ha un suo senso specifico. Lo spieghiamo partendo da “fuoco del bivacco”: quest’espressione indica, nel linguaggio dell’esplorazione e dell’avventura, il fuoco che viene acceso dai gruppi di escursionisti una volta giunto il momento di accamparsi, non solo per riscaldarsi e cucinare, ma con l’idea di attribuire alle fiamme valori magici, religiosi o sacri. Se, dunque, attorno al fuoco vengono organizzate danze o preghiere (per esempio, dai boy-scout), si parla di “fuoco di bivacco”; se, al contrario, il fuoco è percepito come mero elemento atto a soddisfare i bisogni fisiologici di scaldarsi e nutrirsi, è necessario utilizzare il termine “fuoco di bivacco”.

Per la traduzione di “snowshoes” la nostra scelta è ricaduta su “racchette da neve”, e non poteva essere altrimenti; l’eventuale utilizzo dei moderni “ciaspe” o “ciaspole” sarebbe stato un errore anacronistico. Mentre il lemma inglese non fa

12

Per una brevissima ma interessante teoria circa la necessità di una traduzione tecnica precisa, cfr. B. Osimo, Manuale del traduttore, Milano, Hoepli, 1998, pp. 43-44.

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distinzioni, l’italiano, con “racchette da neve”, indica lo strumento tradizionale, costruito con legno e corda intrecciata, con “ciaspe” o “ciaspole” fa riferimento all’attrezzo moderno, generalmente in plastica, molto più sicuro ed efficace. Infatti, il

secondo significato è disponibile solo a partire dal 199213.

Per quanto riguarda il resto dei termini (strumenti per pescare e cacciare, equipaggiamento) non riteniamo necessario soffermarsi, poiché essi vengono nominati non con scopo didattico o tecnico, ma meramente descrittivo. Come già detto sopra, il libro è destinato al general reader, non all’esploratore esperto. Infatti, neanche nel capitolo 3, dove si trova la lista dell’equipaggiamento, Wallace si dilunga in descrizioni tecniche. I vari “traina”, “fucile a canna liscia”, eccetera, sono tutti traducibili con una attenta consultazione dei dizionari.

7.4 I toponimi

La bibliografia sul Labrador in italiano scarseggia. La nostra speranza era quella di trovare i toponimi già pronti da essere usati, invece non sempre è stato così. Le località o i fiumi più importanti fanno ovviamente eccezione. Forse anche a causa del fatto che il Labrador sia una regione la cui mappatura è recente, in Italia non sono ancora stati fatti studi approfonditi sulle sue conformazioni, tanto che in internet non si trovano nomenclature ufficiali. Fra i pochi toponimi già tradotti vi sono San Giovanni di Terranova e Lago Saint-Jean (rispettivamente di St. John’s e Lake St. John), per molti si è dovuto procedere caso per caso.

Dato che, come già detto, ai tempi della spedizione Hubbard il Labrador era un territorio di cui non si aveva quasi nessuna conoscenza, i tre partecipanti battezzano corsi e masse d’acqua a loro piacimento, anche a seconda dell’impatto di questi sulla spedizione; il modo con cui vi si riferiscono non è dunque casuale, ma altamente simbolico. Procediamo con i più importanti: “Lake Hope” è stato reso come “lago della Speranza”.

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http://www.treccani.it/vocabolario/ciaspola_(Neologismi)/, vocabolario on-line di neologismi a cura dell’Enciclopedia Treccani.

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The cold rain continued when we broke camp the next morning (Saturday, August 22). For a time we again encountered rough work, forcing a passage over rocks and through thick brush and scrambling down high banks, and then, as we neared the end of the pass, the portage became less difficult. Before noon we came upon a lake of considerable size and unmistakable signs that in directing our course through the pass we had kept upon the old Indian trail. On the edge of the lake—we shall call it Lake Hope—trees had been blazed to make plain the exact point where the portage trail left the water, and near this place were sweat holes where the medicine men had given baths to the sick14.

Crediamo che non sia necessario soffermarsi più di tanto su questo punto.

“Lake Disappointment”, reso come “lago della Delusione”. “Our experience there led us to call it Lake Disappointment” (ibidem, p. 73). “Lago dello Scoraggiamento”, oltre a risultare poco piacevole all’orecchio, sarebbe stato, come del resto “lago dello sconforto”, leggermente fuorviante. Wallace, Hubbard ed Elson restarono delusi quando ben presto si resero conto che questa massa d’acqua non era il lago Michikamau, ma l’infrangersi delle loro aspettative non li scoraggiò, né li fece cadere nello sconforto: proseguirono nel loro obiettivo di raggiungere il lago Michikamau. Pertanto, un traducente diverso da “delusione” avrebbe connotato con eccessiva negatività il nome attribuito al lago, aggiungendo una piccola sfumatura semantica non richiesta dal contesto.

Non abbiamo tradotto alcuni dei toponimi poiché abbiamo preferito non attribuire identità ex catedra. Tradurre o non tradurre “Crooked River” (due occorrenze in tutto il testo) non avrebbe aggiunto né tolto niente al lavoro finito. Se, invece, non avessimo tradotto “Lake Hope” o “Lake Disappointment”, avremmo eliminato il valore simbolico di questi due laghi, di grande importanza nella spedizione, e perduto l’effetto psicologico di rispecchiamento dell’animo dei tre avventurieri, come ci fosse una corrispondenza fra corsi e masse d’acque e chi si avventura attraverso essi. Se avessimo tradotto “Crooked River” con “Fiume Tortuoso” o “Fiume Deforme” avremmo, da un lato, riproposto il significato letterale che il corso ha in inglese, dall’altro, avremmo rischiato che, esistendo per “lago della Speranza” e “lago della Delusione” un significato simbolico, il lettore si aspettasse per “Fiume Tortuoso” o “Fiume Deforme” una valenza semantica al di là di quella letterale, ad esempio, che i tre vi navigassero e

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lo valutassero difficoltoso. Osservando la mappa della zona in cui il Crooked River si trova, si notano le continue curve che il corso d’acqua presenta, ma non ci è dato sapere se la sua navigazione sia effettivamente difficile o meno; pertanto, per evitare che il lettore potesse essere fuorviato, abbiamo preferito non tradurre il nome del fiume.

7.5 Le espressioni ridondanti

Si sarò notato una certa ricorrenza delle espressioni “landa selvaggia” e “territorio selvaggio” come traducenti di wilderness o wild. La ridondanza non è frutto di sbadataggine o di pigrizia nella ricerca di sinonimi, ma è il risultato di una precisa volontà. Anche per ragioni etimologiche, wild rimanda al “selvaggio” (si veda 3.1), che semanticamente già include il non essere ancora stato esplorato e, di conseguenza, indica luoghi non abitati. Dunque, l’uso dell’aggettivo “vergine” al posto di “selvaggio” ci è sembrato riduttivo. Ma il punto decisivo è un altro: la possibilità di un rimando sia al libro Into the Wild che al film omonimo era altissima, forse inevitabile. La versione italiana del libro ha come titolo Into the Wild – Nelle terre estreme; per la distribuzione del film è stato scelto Into the Wild – Nelle terre selvagge. Ci troviamo di fronte a due traduzioni diverse per lo stesso titolo. Il libro, e il film in particolar modo, visto l’enorme successo commerciale e la notorietà a livello nazionale, riecheggiano bene nella mente di tutti; per questo motivo, abbiamo evitato, scientemente, che il lettore italiano potesse associare, sbagliando, l’esplorazione raccontata in The Lure of the Labrador Wild all’avventurosa storia di Christopher Johnson McCandless. Fra le due storie non persiste alcun legame.

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101 7.6 La lingua dei nativi

Mentre il libro si sta avviando verso la fine, con i tre esploratori all’estremo delle forze, questi si imbattono in alcuni abitanti della zona alla foce del fiume Susan, che eviteranno la morte a Wallace e ad Elson, ma non riusciranno a salvare Hubbard. Il loro inglese è stentato sotto molteplici aspetti; noi abbiamo pertanto deciso di riprodurre i loro errori in italiano. Il loro modo di parlare denota scarsa conoscenza dell’inglese e il basso livello d’istruzione; due dei quattro nativi sono del resto ragazzini, che, invece di essere a scuola, passano l’inverno a cacciare. Le vicende con i nativi sono narrate, tra gli altri, nei capitoli 19 e 20, ed è soprattutto in quest’ultimo che emergono. Abbiamo cercato di riprodurre tali errori, riproducendo anche la struttura di questi.

Wallace fa pronunciare la parola “tobacca” (ibidem, p. 183), che in inglese non esiste, ad uno dei nativi, con l’evidente scopo di rafforzare la caratterizzazione dei nativi come parlanti inadeguati. In traduzione si è riprodotto l’errore, variando la vocale in fine di parola (“tabacca”), ed eliminando l’articolo determinativo, richiesto dall’italiano. All’inizio del capitolo 20, già vi è un errore di concordanza fra il soggetto e la forma coniugata del verbo. Duncan McLean, uno dei nativi, dice: “I hopes you feels better, sir,” (ibidem, p. 183); noi abbiamo riportato l’errore in maniera letterale: “Io spera voi senta meglio, signore”, ovvero abbiamo coniugato i verbi to hope e to feel come se dovessero accordarsi con la terza persona singolare; allo stesso modo, l’errata

concordanza in “The’s deer signs right handy,”(ibidem, p. 183) diviene “C’è impronte

di cervo proprio qui vicino”. Diversa è invece la strategia utilizzata per tradurre un’affermazione di Gilbert Blake: “Let me fill he, sir,” (ibidem, p. 183), dove he si riferisce alla pipa. In questo caso, abbiamo optato non, ad esempio, per un letterale “permettetemi di riempire lui”, ma per l’innaturale e scorretto “Permettete me riempirla”. Quel “lui”, a nostro avviso, connoterebbe quasi di stupidità i nativi, il che pare evidentemente scorretto. Indicherebbe che essi non sono in grado di distinguere fra un essere umano e un oggetto. Ma la motivazione principale risiede nella scarsa padronanza grammaticale dei parlanti: se avessimo deciso di attenerci alla lettera, “Let me fill he, sir,” sarebbe divenuto “Permettetemi di riempirlo”, tutt’altro che scorretto.

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Infine, è da notare l’estrema gentilezza dei nativi, la quale emerge immediatamente: concludono ogni frase con un sir, “signore”, il che ci ha convinti ad usare il “voi” come appellativo da essi usato.

7.7 Altre scelte

Per quanto concerne le date, che in questo testo hanno un ruolo di primaria importanza nella scansione del tempo, sono ovviamente state rese nella forma consueta in italiano, quella del numero del giorno seguita dal mese. Abbiamo deciso, allo scopo di snellire il testo, di scrivere sia il giorno che il mese alla prima apparizione di ogni capitolo e al cambio di mese all’interno del capitolo stesso; per le successive, ci siamo limitati al solo numero. Dopo attente e numerose letture, siamo giunti alla conclusione che questa scelta abbia reso il testo meno ridondante, e quindi meno indigeribile, senza però mai lasciare il dubbio circa il significato del numero e non creando alcun problema nella scansione del tempo.

La ripetizione, tipica del parlato, è qui stata riportata, a dimostrazione di quella spontaneità dialogica di cui si è discusso all’inizio:

“I’ve told you, Wallace, about the maple sugaring on the farm, and you had some of the syrup I brought from there when I visited father and mother before I came away on this trip. We used to bring to the house the very first syrup we made in the spring, while it was hot—the first, you know, is always the best—and mother would have a nice pan of red hot tea biscuits, and for tea she’d serve the biscuits with cream and the hot new syrup. And sometimes we’d mix honey with the syrup; for father was a great man with bees; he kept a great many of them and had quantities of honey. He had a special house where he kept his honey, and in which was a machine to separate it from the comb when the comb was not well filled. In the honey house on a table he always had a plate with a pound comb of white clover honey, and spoons to eat it with; and he invited every visitor to help himself.

“Once, I remember, a neighbor called on father, and was duly taken out to the honey house. He ate the whole pound. ‘Will you have some more?’ asked father. ‘Don’t care if I do,’ said the neighbor. So father set out another pound comb, which

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the neighbor proceeded to put out of sight with a facility fully equal to that with which he demolished the first. ‘Have some more,’ said father. ‘Thanks,’ said the neighbor, ‘but maybe I’ve had enough.’ I used to wonder how the man ever did it, but I guess I myself could make two pounds of honey disappear if I had it now.” (ibidem, pp. 91-92).

“Wallace, a te ho raccontato dell’acero, di cui mangiasti un po’ dello sciroppo che portai da lì dopo aver fatto visita a mamma e papà prima di partire per questo viaggio. Avevamo l’abitudine di portare a casa il primissimo sciroppo primaverile, ancora caldo, che, come sai, è sempre il migliore, e mamma preparava una bella teglia di biscotti caldi al tè rosso, e per merenda portava in tavola del tè, i biscotti, della crema e il nuovo sciroppo caldo. E a volte mischiavamo il miele con lo sciroppo. Mio padre ci sapeva fare con le api; ne aveva un bel po’ e ci faceva un monte di miele. Lo conservava in un’apposita stanza, dove una macchina lo separava dal favo quando era pieno. Su un tavolo aveva sempre un piatto con un favo di miele di trifoglio bianco da mezzo chilo e dei cucchiai per mangiarlo, e invitava ogni ospite a servirsi.

“Mi ricordo di una volta in cui un vicino venne a visitare mio padre e fu immediatamente condotto al mielificio. Si mangiò l’intero favo. ‘Ne vuoi dell’altro?’ domandò mio padre. ‘Se non ti dispiace,’ rispose il vicino. E così mio padre tirò fuori un altro favo da mezzo chilo, che il vicino fece di nuovo sparire con la stessa facilità con cui era divorato il primo. ‘Prendine altro,’ disse mio padre. ‘Grazie,’ disse il vicino, ‘ma forse ne ho mangiato abbastanza.’ Mi chiedevo come avesse fatto, ma ora, se l’avessi con me, anch’io sarei in grado di far fuori un chilo di miele”.

“Well,” said George, “it’s a long story about a boy and girl that lived together in a wigwam by a great water. Their father and mother were dead, and the boy had learned to be a great hunter, because he had to hunt for them both, though he was young. One day he found a tree that was very high, and he climbed it, and told his sister to climb it with him; and they climbed higher and higher, and as they climbed, the tree grew taller and taller; and after a while they reached the moon. And then the boy laid down to sleep, and after a while he woke up with a bright light shinin’ in his face—it was the sun passin’ ‘long that way. The boy said he would set a snare for the sun and catch it, and the next night he had his snare set when the sun came ‘long, and he caught the sun, and then it was always bright on the moon” (ibidem, p. 84).

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“Dunque,” disse George, “è la lunga storia di un ragazzo e di una ragazza che vivevano insieme in un wigwam vicino a un grande specchio d’acqua. Il padre e la madre erano morti, e il ragazzo divenne un grande cacciatore, perché doveva cacciare per entrambi, sebbene fosse giovane. Un giorno trovò un albero molto alto e ci si arrampicò, e disse a sua sorella di salire con lui. S’inerpicarono sempre più in alto, e man mano che salivano, l’albero diventava sempre più alto; dopo un po’ raggiunsero la luna. Il ragazzo si distese per dormire, e dopo un po’ si svegliò con una luce intensa che gli illuminava il viso: era il sole che passava di lì. Il ragazzo disse che avrebbe piazzato una trappola per catturare il sole, e le notti successive piazzò la trappola, e quando il sole apparve lo catturò, che quindi fece brillare la luna per sempre”.

Per di più, “la ripetizione dialogica […] può svolgere varie funzioni, tra cui quella stilistica, che amplifica le emozioni e segnala il coinvolgimento emotivo dei

personaggi”15. Eliminare quelle ripetizioni avrebbe significato fare un torto all’autore e

un danno irreparabile al contenuto del dialogo, poiché quei lemmi sono il nucleo attorno al quale il discorso ruota e da cui tutti i significati dipendono.

Il seguente frammento, dal diario di Hubbard (capitolo 20), “After the boys left

– they left me tea, the caribou bones […]”16

, guida il traduttore verso una certa strada. L’autore gioca sul fatto che, in inglese, il verbo to leave è inteso nei suoi due significati principali: “partire” e “lasciare”. L’omonimia era impossibile da rendere. Qui noi ci siamo serviti del solo verbo “lasciare”, ma facendo in modo che esso – con l’aggiunta di un’informazione, ovvero che cosa “lasciano” – che assumesse lo stesso significato di “partire”. Dunque la nostra traduzione è la seguente: “Dopo che i ragazzi lasciarono il campo – e mi lasciarono tè, le ossa del caribù […]”.

All’inizio del libro, quando Wallace e Hubbard stanno parlando, si rivolgono una domanda a vicenda. Hubbard – è la frase che apre il libro – chiede a Wallace: “‘How would you like to go to Labrador, Wallace?’”; qui, il verbo to like, se tradotto alla lettera, diverrebbe o “volere” o “piacere”. Se non fosse che, poco sotto, Wallace chiede ad Hubbard: “‘But why do you wish to go there?’”, ove il verbo to wish, di nuovo alla lettera, non potrebbe che essere “desiderare”. Noi abbiamo invertito il significato dei due verbi. “Desiderare” si attaglia di più alla domanda di Hubbard che a quella di Wallace, essendo essa più formale, mentre un verbo più usuale, come “volere”

15

F. Cavagnoli, Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, cit., p. 37.

16

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o “piacere” (noi abbiamo potato per il primo dei due), è più adatto per la domanda di Wallace, più istintiva. Quindi, la domanda che introduce il libro diviene “‘Quanto desidereresti andare nel Labrador, Wallace?’”, quella successiva “‘Ma perché vuoi andarci?’”

7.8 Source-oriented vs target-oriented

La dicotomia di cui al titolo è un eterno confronto fra due modi di rendere elementi tipici della lingua e/o della cultura di partenza, ma che rischiano di spiazzare il lettore straniero. La prima tende a privilegiare aspetti del testo originario, è una tendenza straniante, che spinge il lettore straniero verso il testo, per fargli capire, attraverso una serie di indizi, che si tratta di un testo tradotto. La seconda, al contrario, tende a far sì che il lettore del testo tradotto trovi il contesto di riferimento accessibile, oltre che ovviamente nella propria lingua, anche nella propria cultura. È una tendenza neutralizzante, che spinge il testo verso il lettore, ossia elimina o tende a naturalizzare il più possibile quanto di forestiero vi è nel contesto e nel testo di arrivo, per mascherare il fatto che si tratti di un testo tradotto.

È forse impossibile risolvere tutti i problemi legati a questa dicotomia17, che

concerne la pretesa di fedeltà all’originale e la problematica dell’inconciliabilità fra testo di partenza e di arrivo. Anche perché, come ci fa giustamente notare Franco Buffoni, non si traduce da lingua a lingua, bensì, poiché il contesto ci fornisce molte

delle linee guida da seguire, da testo a testo18. In Apel si legge quanto segue:

Secondo l’analisi ermeneutica del problema della traduzione, nessuna traduzione è dunque restituzione del senso oggettivo o del significato oggettivo di un testo, ma oggettivazione linguistica di una specifica comprensione di un testo […]. La […] traduzione non può dunque derivare la sua scientificità da criteri come quelli di “verificabilità”, “evidenza” o “coerenza”, ma esclusivamente dalla

17

Crf. F. Apel, Il manuale del traduttore letterario, cit., p. 38.

18

F. Buffoni, “Traduttologia”, in Franco Buffoni (a cura di), Traduttologia. La teoria della traduzione

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caratterizzazione del rapporto, di volta in volta determinato, fra condizioni date e identità del soggetto interpretante […]19

.

Come giustamente sostiene Emilio Mattioli, è giunto il momento di rinunciare a vivere schiacciati da opposizioni di questo tipo, e cercare di adeguare, di volta in volta, con le dovute precauzioni e secondo coscienza, il testo di partenza a quello di arrivo20.

È, per questo motivo, dovere del traduttore cercare di fondere tutta una serie di problematiche di varia natura e giungere a dei compromessi, i quali privilegino comunque colui che va a leggere il testo finale. Il lavoro di traduzione è infatti anche un’elaborazione del testo italiano. Il testo tradotto dovrebbe idealmente presentarsi come un testo dotato di dignità autonoma, riprodurre la semantica dell’originale ma

mantenere una totale autosufficienza stilistica21.

Ad ogni modo, ci sono due casi in cui noi abbiamo preferito portare il testo verso il lettore italiano. Il primo caso riguarda la nota al termine wigwam, ove abbiamo spiegato brevemente che cosa sia l’oggetto in questione; il secondo caso è la nota apportata al totano zampegialle, in quanto uccello estraneo al general reader e noto ai soli esperti di ornitologia.

7.9 Difficoltà traduttive

L’espressione “cup of contentment” contenuta in “Supper eaten, our cup of

contentment was full to the brim”22 è stata alquanto problematica. Non è di certo la

semantica dell’immagine evocata a creare problemi, bensì la resa traduttiva. L’immagine in lingua inglese è, stando alla lettera, quella di una “coppa della gioia” che è colma fino all’orlo. Quindi, non vi sono problemi di comprensione: “cup of contentment” indica lo stato d’animo dei tre esploratori. Un letterale “Dopo cena, la

19

F. Apel, Il manuale del traduttore letterario, cit., pp. 43-44.

20

E. Mattioli, “La traduzione letteraria”, in Traduttologia. La teoria della traduzione letteraria, vol. I, pp. 188-190.

21

F. Apel, Il manuale del traduttore letterario, cit., pp. 59-60.

22

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nostra coppa della gioia era colma fino all’orlo”, suonava eccessivamente innaturale, ricordando un calco. “La nostra coppa era gioiosamente colma fino all’orlo” – altra ipotesi presa in considerazione – risulta, a nostro avviso, eccessivamente pesante a causa dell’avverbio. La nostra scelta è stata la seguente: “Dopo cena, la nostra gioia era una coppa colma fino all’orlo”, dove abbiamo preferito spezzare “cup of contentment”, impostando l’espressione secondo l’esplicazione dello stato d’animo (la gioia), evidentemente più naturale.

È stata questa ricerca della naturalezza e della sobrietà che ha guidato, in primo luogo, la nostra esperienza di traduttiva.

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