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INTRODUZIONE
Negli ultimi sei anni abbiamo assistito al fenomeno dell’aumento su scala globale degli investimenti in terra mirati prevalentemente alla realizzazione di coltivazioni agricole. A fare da detonatore di questa nuova “corsa alla terra” è stata la crisi alimentare del 2007-2008, quando la forte instabilità presente sui mercati internazionali aveva portato i prezzi di importanti commodity alimentari a livelli così elevati come mai registrati negli ultimi trent’anni, causando enormi costi sociali per i paesi poveri (Least Developing Countries - LDCs). Le ragioni che hanno condotto a questa crisi sono da ricercarsi sia in fattori di lungo periodo, che hanno determinato la debolezza strutturale dei mercati, ad esempio il declino degli investimenti pubblici e privati e delle relative politiche pubbliche in conseguenza dell’affermarsi del paradigma neoliberista nello sviluppo; sia in fattori di carattere contingente, che hanno agito esacerbando la dinamica inflattiva, primi tra tutti la speculazione sui mercati delle commodity agricole e la domanda di biocarburanti.
Per le caratteristiche socio-economiche e la loro storia di sviluppo, i paesi poveri sono stati quelli che hanno maggiormente pagato il prezzo della crisi ma, allo stesso tempo, sono anche i principali destinatari della nuova ondata di investimenti in terra conseguenza di questa stessa crisi.
Inizialmente accolti positivamente dalla Comunità Internazionale in quanto forieri di un’inversione del trend storico decrescente di investimenti registrato nel settore agricolo negli ultimi anni, sono stati successivamente oggetto di crescenti critiche in quanto caratterizzati da dinamiche di appropriazione delle risorse a spese delle comunità locali. In ragione di queste criticità, i movimenti sociali e contadini, le ong e i media hanno cominciato a denunciare pubblicamente questi investimenti coniando il termine di “land grabbing”.
Il presente lavoro ha l’obiettivo di rispondere alla domanda se e in che modo questi investimenti rappresentino un’opportunità o una minaccia per lo sviluppo dei paesi poveri. A tal fine, oltre ad analizzare i driver e le dinamiche che sottendono agli investimenti di land grabbing, abbiamo scelto di utilizzare la prospettiva storica,
2 andando a studiare il complesso rapporto che sussiste tra la produzione di commodity e lo sviluppo nei suddetti paesi. Si è trattato di un passaggio necessario a comprendere le cause profonde dell’ultima crisi alimentare, che non solo ha prodotto conseguenze nel breve termine: instabilità politica, economica e sociale e aumento del numero degli affamati, ma sembra mostrare i segnali di una transizione verso una nuova geopolitica ed economia del cibo e dei sistemi agricoli della quale il land grabbing è espressione significativa.
Nel primo capitolo si è analizzato il “commodity problem”, ovvero le problematiche strutturali come la volatilità di breve periodo, il deterioramento delle ragioni di scambio e il declino dei prezzi assoluti, che hanno dovuto affrontare i paesi poveri nel loro fallimentare percorso di sviluppo attraverso la produzione di commodity alimentari per il mercato internazionale. La forte instabilità dei prezzi agricoli ha reso sempre necessarie l’adozione di politiche di stabilizzazione sia a livello nazionale sia, pur con scarso risultato, a livello internazionale. L’avvento delle politiche di aggiustamento strutturale degli anni ottanta ha eliminato qualsiasi misura di intervento pubblico regolativo dei mercati che, pur con diversi limiti, era riuscito comunque a garantire un minimo di stabilità in un contesto di progressivo declino dei prezzi. Contestualmente, il paradigma neoliberista relegava l’agricoltura al ruolo di cenerentola delle politiche di sviluppo, riducendo progressivamente gli investimenti pubblici e privati nel settore. In questo modo si spianava la strada alla più grave crisi dei mercati agricoli dagli inizi degli anni settanta.
I motivi dell’aumento dei prezzi delle più importanti commodity alimentari sui mercati nazionali e internazionali, che hanno raggiunto il loro picco nel 2008 per poi diminuire senza però ritornare al periodo pre-crisi, sono indagati nel secondo capitolo dove si avanzano tre diverse interpretazioni che pongono maggiore o minore enfasi rispetto a fattori specifici e fanno riferimento a orizzonti temporali differenti, di corto, medio e lungo periodo. La prima definisce il rialzo dei prezzi alimentari come un problema di volatilità dei prezzi agricoli, arrivando alla conclusione che tali rialzi continueranno a verificarsi. Questa prima spiegazione mette a fuoco i fattori che hanno determinato l’eccessiva volatilità, sottolineando in particolare il ruolo svolto dalla domanda di biocarburanti e dalla speculazione, quest’ultima cresciuta enormemente a causa della finanziarizzazione dei mercati che caratterizza l’attuale fase di globalizzazione.
3 La seconda spiegazione sostiene che le crisi sono fenomeni ricorrenti nei mercati agricoli, e infatti è possibile riscontrarli in diversi momenti della storia recente (primi anni cinquanta, anni settanta ed oggi) e sono spiegate dalla natura ciclica degli investimenti in agricoltura, in particolare dalla dinamica di crescita o riduzione di quelli pubblici che produce un impatto sui livelli di stock. In questo caso, l’enfasi è posta sul fallimento delle politiche pubbliche del periodo del Washington Consensus (declino degli investimenti, del livello di stock, commercio internazionale, etc.).
L’ultima spiegazione sostiene che l’attuale crisi dei prezzi rappresenta il segnale della crescente scarsità di offerta nei mercati agricoli. L’analisi in questo caso è mirata a comprendere l’andamento dei fondamentali, ovvero la natura degli shock che si sono verificati sul lato della domanda e dell’offerta, studiando le dinamiche socio-economiche e demografiche registrate negli ultimi anni, i cambiamenti climatici, le politiche energetiche e la disponibilità di terra.
L’ipotesi che l’attuale corsa alla terra rappresenti il segnale di un’inversione del trend decrescente degli investimenti in agricoltura è affrontata nel terzo capitolo nel quale per rispondere a questa domanda viene analizzata la loro dinamica storica a partire dagli anni sessanta, quando, per motivi politici (decolonizzazione) ed economici (distribuzione dei rischi e maggiori profitti) le imprese dell'agribusiness abbandonarono la produzione diretta per concentrarsi a monte e a valle della filiera agricola nelle fasi a più alto valore aggiunto. Rifornirsi di prodotti agricoli attraverso modalità di investimento non diretto, come il contract farming, ad esempio, garantiva maggiori flessibilità in risposta alla volatilità strutturale che caratterizzava i mercati agricoli. Pur non essendo ancora in grado di affermare se si tratta o meno di un cambiamento strutturale nella dinamica degli investimenti agricoli, è indubbio che la nuova corsa alla terra ne rappresenta una novità importante. Ciò per almeno due motivi: perché segna la comparsa sulla scena di nuovi attori come, ad esempio, le imprese energetiche ed il settore finanziario; e perché parte degli investimenti diretti avvengono attraverso l'acquisizione di ampie estensioni di terra (large-scale land aquisition): un fenomeno che presenta numerose analogie, pur con importanti differenze, rispetto al periodo coloniale. Tuttavia, gli investimenti in terra rappresentano una quota minimale del totale degli investimenti diretti esteri nel settore che, a loro volta, sono una minima parte del totale degli investimenti in agricoltura che sono realizzati per la stragrande maggioranza
4 dagli stessi agricoltori.
L’analisi della dimensione quantitativa, delle dinamiche geografiche e della natura pubblica e privata del land grabbing è affrontata nel quarto capitolo nel quale vengono fornite stime sul numero di ettari interessati da questo fenomeno. La loro geografia conferma la predominanza dei paesi poveri come target e di quelli sviluppati, con un ruolo sempre più importante delle economie emergenti, come origine degli investimenti. Rispetto agli attori, emerge un ruolo molto più forte di quelli privati rispetto a quelli pubblici ma, allo stesso tempo si sottolinea l’importanza delle élite nazionali a fianco agli investitori internazionali. Complessivamente emerge un ridimensionamento della dimensione quantitativa del fenomeno rispetto alla fotografia realizzata nella sua fase iniziale. Da un lato, perché si sono affinati i criteri utilizzati per la loro mappatura, anche se, è importante sottolineare, le stime al ribasso sono il risultato di una mancanza di trasparenza e informazione su questi accordi; dall’altro in quanto a partire dal 2009 la crisi economica ha sgonfiato la bolla speculativa degli investimenti in terra e l’implementazione di molti di essi è rimasta solo sulla carta.
Nel quinto capitolo si sottolinea l’importanza di non focalizzarsi eccessivamente sull’analisi del numero di ettari, come fossero la principale cifra distintiva dell’attuale corsa alla terra, correndo il rischio di non cogliere le trasformazioni profonde che si stanno determinando lungo l’intera filiera agricola. L’analisi dei driver della nuova, infatti, fa emergere una geografia politica ed economica degli investimenti in terra del tutto nuova rispetto al passato, determinata dai cambiamenti strutturali intercorsi in questo inizio di nuovo secolo (crisi ambientale, energetica, alimentare, finanziarizzazione dei mercati, domanda dei paesi emergenti, etc.). Se l’utilizzo della terra dei paesi poveri per l’esportazione di crops nei mercati del Nord globale non è una novità, tuttavia il boom dei biocarburanti ha portato sulla scena nuovi attori (imprese energetiche, agribusiness, biotech) e nuove crops, come ad esempio la jatropha, aumentando la domanda di quelle tradizionali come zucchero di canna, soia ed olio di palma. Inoltre, la crescente partecipazione degli attori finanziari a questa nuova “corsa alla terra” con motivazioni e modelli di investimento peculiari, rappresenta un’altra importante novità nelle dinamiche e nelle relazioni tra gli attori coinvolti.
Il sesto capitolo offre un’ampia rassegna degli impatti degli investimenti di land grabbing, presentando inoltre il dibattito teorico che si è sviluppato negli ultimi anni sul
5 fenomeno delle acquisizioni di terra, gli scenari futuri e i profili di governance internazionale. Riguardo al primo aspetto, gli impatti, emerge un bilancio negativo per le comunità locali. Molti dei progetti sono di natura speculativa, molti si sono arrestati. Gli effetti positivi sulle economie locali e nazionali sono incerti e limitati nella quantità e nel tempo. Complessivamente gli investimenti di land grabbing causano la perdita della terra da parte delle comunità locali, e a farne le spese maggiori sono le donne. I modelli socio-produttivi che caratterizzano la maggior parte delle aree rurali obiettivo degli investimenti – agricoltura su piccola scala, sistemi fondiari basati su pratiche consuetudinarie – hanno caratteristiche che non li rendono adatti alle trasformazioni che comporta questa tipologia di investimenti. Nell’ultimo capitolo, oltre all’analisi di breve periodo si sottolinea l’importanza di andare al cuore delle dinamiche di lungo periodo che questo fenomeno può determinare per il futuro dell’agricoltura e dello sviluppo rurale. Per questo motivo, l’analisi del dibattito teorico fa emergere l’importanza di porre l’attenzione anche sui regimi di proprietà e del lavoro, sulle relazioni sociali in ambito rurale – di classe, di genere, etniche, generazionali – determinate dai cambiamenti di utilizzo della terra e, infine, sulla ri-organizzazione della produzione e degli scambi ovvero i modelli di produzione attraverso i quali le comunità locali e le risorse sono incorporate nelle filiere globali.
Il tema della governance del land grabbing è ormai entrato a far parte dell’agenda di importanti consessi mondiali come, ad esempio, il G8 ed il G20. Il capitolo offre una disamina dei diversi strumenti adottati in ambito internazionale e della loro efficaci nell’orientare gli investimenti in terra verso obiettivi di sostenibilità.
A chiusura del lavoro vengono tratte alcune conclusioni rispetto alle domande che hanno guidato l’analisi, sottolineando come il tema delle acquisizioni su larga scala di terra porti con sé l’inevitabile riflessione su quali debbano essere i modelli di investimento agricolo e a quali obiettivi essi debbano rispondere. Nessuno, infatti, mette in questione la necessità di sostenere l’agricoltura nei paesi in via di sviluppo. Tuttavia, mentre gli investimenti sono necessari, gli impatti che essi determinano variano considerevolmente a seconda della tipologia.
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Capitolo 1
IL COMMODITY PROBLEM E LO SVILUPPO AGRICOLO: POLITICHE E IMPATTI DAL SECONDO DOPO GUERRA ALLA CRISI ALIMENTARE DEL
2007-2008
1.1 Il “commodity problem”: prospettiva storica
A partire dall'inizio di questo secolo ha ripreso vigore il dibattito attorno al tema conosciuto come “commodity problem” che, con l'avvento della recente crisi alimentare, si è arricchito di nuovi elementi, mantenendo però invariate alcune problematicità che potremmo definire strutturali e, soprattutto, la questione centrale che ruota attorno alla necessità di nuove politiche pubbliche nel settore agricolo a sostegno degli obiettivi di riduzione della povertà e di sostenibilità ambientale e sociale oltre, naturalmente, alla stabilità macroeconomica dei mercati di riferimento.
Riassumendo in modo schematico, il commodity problem si caratterizza principalmente per tre elementi strutturali: la forte fluttuazione di breve periodo dei prezzi delle commodity; il loro declino relativo rispetto ai prodotti manifatturieri; e la contestuale loro diminuzione in termini assoluti rispetto al valore degli anni precedenti. Inoltre, alla variabilità di breve e medio periodo e al declino sul lungo termine il commodity problem si caratterizza anche per un ulteriore fattore di natura più recente, ovvero l'alto livello di concentrazione del potere di mercatolungo le filiere delle diverse commodity1.
1 Con il termine potere di mercato, si indica la possibilità che ha un data impresa di condizionare il prezzo
di un prodotto controllando la domanda, l'offerta, o entrambe. In un mercato perfettamente concorrenziale il potere di mercato è pari a zero e nessuna impresa è in grado di condizionarne il prezzo, che può solo essere accettato. In realtà ogni mercato reale possiede un certo livello di concentrazione sul lato dell'offerta, che può condurre alla formazione di oligopoli o addirittura monopoli; mentre su quello della domanda determina gli oligopsoni e i monopsoni. Lungo le diverse fasi che caratterizzano le filiere agricole si incontrano sia i primi che i secondi. Per una disamina della questione all'interno dell'analisi sul “commodity problem” si veda: Peter Gibbon, The Commodity question: New Thinking on Old Problem, Occasional Paper, Human Development Report Office, 2005. UNCTAD, Escaping the poverty trap. The Least Developing Countries Report 2002, Ginevra 2002. Thomas Lines, Market Power, Price Formation and Primary Commodities, Reasearch Paper 10, South Centre, Novembre 2006. Per un'analisi specifica, da una prospettiva critica, dal punto di vista del commercio internazionale agricolo si veda: Sophia Murphy, Concentrated Market Power and Agricultural Trade, Eco-Fair Trade Dialogue Discussion Paper
7 I primi ad osservare questa tendenza ed teorizzarla furono i due famosi economisti dello sviluppo Raúl Prebisch e Hans Singer che sostennero l'ipotesi che le ragioni di scambio tra i prodotti primari (commodity) e quelli manifatturieri tendessero nel tempo a deteriorasi, vale a dire che il prezzo dei prodotti primari diminuisse in relazione a quello dei prodotti manifatturieri (Grafico 1). I due autori sostenevano che esistevano ragioni strutturali alla radice di questo fenomeno, dal momento che la domanda per i beni manifatturieri era più elastica e poteva espandersi in maniera più rapida e dinamica di quella dei prodotti agricoli2. Dall'altro lato, l'instabilità dei prezzi e il loro trend declinante sono stati il risultato dell'interazione tra una domanda inelastica ed un’ offerta potenzialmente molto variabile. Infatti, la produzione delle commodity avviene per certi versi in modo indipendente alla loro domanda, ed è fortemente condizionata, ad esempio, dai fattori climatici. Oppure dalla tendenza, nel caso di una dinamica crescente dei prezzi, a eccessivi investimenti da parte de paesi produttori per assecondare il trend positivo,che conducono inevitabilmente alla sovrapproduzione3. Pur mantenendo aperto il dibattito attorno alle differenze che caratterizzano i due mercati, quello primario e quello secondario, e ai fattori di lungo periodo che determinano il declino dei prezzi, le ipotesi di Prebish e Singer, alla luce dei dati raccolti nelle decadi successive, sono state ampiamente riconosciute dalla letteratura scientifica.
Il deterioramento delle ragioni di scambio rappresentava un problema enorme per quei paesi esportatori di materie prime ed importatori di prodotti industriali, ovvero la stragrande maggioranza dei paesi in via di sviluppo, e poneva la necessità di una diversificazione delle loro esportazioni. La Banca mondiale stima che tra il 1970 ed il 1997 questo fenomeno abbia privato i paesi africani - escluso per quelli esportatori di petrolio - di un gettito fiscale equivalente al 119% del loro prodotto interno lordo4. Per fare un altro esempio, secondo la FAO, tra il 1961 ed il 2001, il prezzo dei prodotti agricoli venduti dai paesi meno sviluppati (Least Developed Countries - LDCs) è sceso del 70% in relazione a quello dei prodotti manifatturieri provenienti dai paesi
N°1, Agosto 2006.
2 Cfr. Thomas Lines, Making poverty: a history, Zed Books Editore, Londra, 2008, p. 72. 3
Cfr. P. Gibbon, The Commodity question: New Thinking on Old Problem op. cit., p. 2.
4 Cfr. South Centre, Problems and policy challenges faced by Commodity-Dependent Developing
Countries (CDDCs), Trade Related Agenda, Development and Equity (T.R.A.D.E.) Analysis Series, Ginevra, 2005, p. 6.
8 sviluppati5. Inoltre, è stato stimato che se le risorse perdute fossero rimaste disponibili per investimenti attraverso politiche nazionali, la crescita annua di questi paesi sarebbe stata del 1,4% superiore ai tassi registrati6.
Grafico 1
Fonte: FAO, State of Agricultural Commodity Market 2004, Roma, 2004, p. 13.
1.2 Instabilità e crollo dei prezzi delle commodity
Oltre alla perdita di valore rispetto ai prodotti manifatturieri, a partire dagli anni settanta, le commodity hanno registrato un crollo in termini assoluti del loro prezzo. Per tutte le commodityagricole è possibile infatti osservare, pur con accentuazioni differenti e rialzi dovuti alla variabilità di breve periodo, un trend decrescente (Grafico 2).
5 Cfr. FAO, The State of Agricultural Commodity Markets2004, Roma, 2004, p. 12. 6 Cfr. UNCTAD, Escaping the poverty trap, op. cit., p. 141.
9 Grafico 2
Fonte: FAO, State of Agricultural Commodity Market 2004, Roma, 2004, p.13.
A partire dalla fine degli anni settanta i prezzi reali delle commodity sono scesi ad una media del 3% annuo7 e complessivamente per il periodo 1977-2001, i dati del UNCTAD indicano un declino dei prezzi reali per 41 delle 46 principali commodity prese in esame. Per quanto riguarda quelle agricole, la Banca mondiale ha registrato nel periodo 1980-2002 una diminuzione in media del 47%8. Tra quelle a subire una riduzione più consistente sono state, tra il 1980 ed il 2000, il cotone (47%), il caffè (64%), il riso (60,8%), il cacao (71,1%) e lo zucchero (76,6%)9.
L'ultimo tratto distintivo che caratterizza il commodity problem è quella dell'alta volatilità nel breve e medio periodo. I prezzi delle commodity posso variare anche del 50% nello stesso anno, facendo registrare quindi numerosi picchi. Tra il 1983 ed il 1997, ad esempio, il prezzo sul mercato mondiale del grano di caffè Robusta è oscillato, in media, tra il 40 ed il 195%10. Dall'agosto del 2003 al marzo del 2004, il prezzo della soia sul mercato mondiale è passato da 237 a 413 dollari per tonnellata, facendo registrare un aumento del 70% per poi scendere a 256 dollari nei successivi due anni11. A partire dagli anni settanta si sono verificate molte più oscillazioni (Grafico 3), price
7
Cfr. South Centre, Problems and policy challenges faced by Commodity-Dependent Developing Countries (CDDCs),op. cit., p. 6.
8 Ibidem.
9 Cfr. World Commission on the Social Dimension of Globalization, A Fair Globalization: Creating
Opportunities for All, ILO, Febbraio 2004, p. 83.
10 Alec Crawford e Jason Gibson, Boom o Burst: How commodity price volatility impedes poverty
reduction, and what to do about it. IISD, Canada, 2008, p. 5.
10 shock, di questa portata che nei settantacinque anni precedenti. Come vedremo più avanti, il motivo è legato allo smantellamento di tutti i sistemi di stabilizzazione dei prezzi adottati in precedenza proprio in risposta al problema del declino delle ragioni di scambio ed alla loro forte variabilità sia di breve, nello stesso anno, che di medio periodo, ovvero nell'arco di alcuni anni.
Grafico 3
I picchi nei prezzi delle commodity agricole a partire dagli anni settanta
Fonte: Ronald Trostle, Global Agricultural Supply and Demand: Factors Contributing to the Recent Increase in Food Commodity Prices, Economic Research Service, USDA, 2008, p.3.
La gravità di questo fenomeno può essere rilevata attraverso l'analisi dell'indice di instabilità (Instability Index) che misura la percentuale di deviazione del prezzi rispetto a quelli previsti in differenti periodi derivanti da quella definita come la best-fit trend line12. Se i prezzi sono relativamente stabili, la dimensione della deviazione risulta proporzionalmente ridotta. La Tabella 1 mostra i dati relativi a diversi gruppi di commodity attraverso varie decadi. Essa evidenzia come a livello aggregato l'instabilità dei prezzi è diminuita negli anni; ad esempio, l’Instability Index è sceso dal 17.27 del 1970-1979 al 14.2 del 1980-1989 fino a raggiungere 9.32 nel periodo 1990-9913. Non solo, per tutti i food items, l'indice è sceso da 22.22 punti degli anni settanta a 10.65 punti degli anni novanta. In modo similare per le bevande tropicali, a livello aggregato
12 Jayant Parimal, Rethinking policy Option For Export Earnings, Reasearch Paper n°5, South Centre,
Ginevra, 2006, p. 3.
11 il loro prezzo è diventato meno volatile con un indice che è sceso da 22.97 punti degli anni settanta, a 15.64 punti degli anni ottanta per giungere ai 10.99 punti della decade dei novanta14. Tuttavia, se disaggreghiamo i dati rispetto alle singole commodity, per alcune di esse la loro volatilità è aumentata, in particolare per quelle di interesse per i paesi in via di sviluppo. Ad esempio, l'indice di instabilità del prezzo del caffè, del tabacco, del legno, del cotone, della gomma e del greggio è aumentato.
14 Ibidem.
12 Tabella 1
Fonte: Jayant Parimal, Rethinking policy Option For Export Earning, op. cit., p. 43.
Le ragioni di questi incrementi variano da commodity a commodity. Ad esempio, per quanto riguarda il petrolio gli alti indici degli anni settanta sono addebitabili alle crisi petrolifere; altre sono legate all'instabilità del dollaro, la moneta principale per gli scambi internazionali. Tuttavia, è evidente come l'instabilità dei prezzi dei prodotti
13 agricoli sia rimasta assai alta per quelle di maggiore interesse per i paesi in via di sviluppo15.
Come abbiamo visto, il livello di fluttuazione varia in modo considerevole da commodity a commodity ed ha prodotto ovviamente un impatto diverso a seconda del grado di sviluppo economico e di dipendenza dalle esportazioni di prodotti primari di ogni paese. Vi è da sottolineare però che molti paesi poveri, Least Developed Countries (LDCs), che sono la maggioranza dei CDDCs16, si caratterizzano proprio per questa doppia combinazione di forte dipendenza dalle esportazioni di prodotti ad alta volatilità dei relativi prezzi (Grafico 4). Rispetto ai prodotti agricoli, la maggiore volatilità ha caratterizzato i prodotti tropicali quali caffè, cacao, tè. Si tratta di commodity il cui commercio a livello internazionale è stato totalmente liberalizzato, non prevedendo né un sistema di quote e preferenze concesse dai paesi sviluppati, né sono in competizione con prodotti fortemente sussidiati, come ad esempio è stato lo zucchero per l’Unione europea17.
Grafico 4
Fonte: FAO, State of Agricultural Commodity Market 2004, Roma, 2004, p.13.
15 Ibidem.
16 Commodity Dependent Developing Countries. Si veda più avanti per maggiori dettagli. 17 Thomas Lines, Making poverty: a history, op. cit., p. 76.
14
1.3 Alcune cause della volatilità di breve e medio periodo
Sono diversi i fattori che determinano il fenomeno della volatilità dei prezzi. Il primo e più evidente, riguardo alle commodity agricole, è il fattore climatico. Eventi quali siccità, alluvioni o malattie sono infatti difficilmente prevedibili e possono determinare la riuscita o meno dei raccolti. Un altro elemento, già accennato in precedenza, riguarda la bassa elasticità della domanda e dell'offerta alle variazioni del prezzo. Infatti, la domanda i prodotti agricoli è anelastica e ciò determina l'impossibilità di adattarsi in modo rapido alle variazioni dell'offerta. Da un lato, ogni individuo non può alimentarsi oltre un certo livello, al più può migliorare la sua dieta, che, come vedremo, è un elemento che ha caratterizzato, pur non giungendo a conclusioni che riscuotono ampio consenso, il dibattito sulla recente crisi alimentare. Dall'altro lato, pur in presenza di forti incrementi di prezzo, il consumatore tende a destinare più reddito all'acquisto di cibo rivedendo la propria dieta ed orientandosi verso alimenti più economici.
Sul lato dell'offerta, invece, per prodotti come cacao, gomma o caffè, che dal momento in cui vengono messe a coltura le piante al primo raccolto impiegano diversi anni, gli investimenti necessari ed il tempo impiegato perché entrino a regime rendono l'offerta meno elastica rispetto, ad esempio, a un decremento della domanda18. Esistono poi fattori di natura macroeconomica come le politiche restrittive per ridurre l'inflazione o per la regolazione dei tassi di cambio. Rispetto a quest'ultimo aspetto è stato osservato che con l'introduzione di un regime di cambi flessibili è aumentata la volatilità dei prezzi19. Infine, un aspetto centrale, anche nell'analisi dell'attuale crisi alimentare, è quello della speculazione sia di natura commerciale che finanziaria20.
Va infine sottolineato come il ciclo di breve periodo che caratterizza la fluttuazione dei prezzi delle commodity possieda una natura asimmetrica: i periodi di rialzo dei prezzi tendono ad essere più corti di quelli di ribasso21.
18 Ivi, p. 67.
19 Jayant Parimal, Rethinking policy Option For Export Earnings, op. cit., p. 6. L'autore fa riferimento
allo studio di Jhon T. Cuddington e Liang Hong, Commoditiy Price Volatility Across Exchange Rate Regimes, Georgetown University 2003.
20 Thomas Lines, Making poverty: a history, op. cit., p. 67.
15
1.4 Le conseguenze economiche dell'instabilità dei prezzi
I price shock e le conseguenti variabilità dei redditi derivanti dall’esportazione di commodity agricole producono conseguenze sia sul livello micro che macro economico, sulla crescita e sullo sviluppo. La vulnerabilità di un paese agli shock e la conseguente instabilità dei prezzi delle esportazioni dipendono dalla portata degli shock stessi e dalla loro interazione con tre componenti: la dimensione di tale instabilità, il livello di esposizione ed i canali attraverso i quali gli shock si trasmettono al resto dell'economia22. La dimensione degli effetti causati dai commodity price shock è stata studiata da due economisti della Banca mondiale, Paul Collier e Jan Dehn23, che hanno evidenziato come uno dei più tipici casi era caratterizzato dalla caduta del prezzo di esportazione del 40% da un anno all'altro, che determinava una perdita per il paese coinvolto di circa il 7% del prodotto interno lordo24. I due ricercatori hanno studiato l'andamento della crescita economica nei tre anni successivi allo shock rilevando come in media la loro economia sia entrata in recessione con una contrazione complessiva degli output del 14%25. Ciò significa che per ogni dollaro perso a causa della diminuzione del prezzo delle esportazioni, questi paesi perdevano l’equivalente di due dollari sul resto degli output. Il tutto era aggravato dal fatto che i tassi di crescita pro-capite si riducevano in modo significativo a causa di una discreta diminuzione del prezzo delle esportazioni, mentre un trend positivo dei prezzi non esercitava alcun impatto sulla crescita economica26.
Il declino delle ragioni di scambio determinato da uno shock di breve-medio periodo porta ad una contrazione dei tassi di crescita del Pil e del livello degli investimenti per i CCDCs. Tale instabilità, infatti, manda segnali negativi sui trend di lungo periodo dei mercati e determina una riduzione dell'allocazione delle risorse e quindi un abbassamento della produttività27. Dal punto di vista macroeconomico, l'instabilità dei mercati fa sì che investitori avversi al rischio scelgano altri settori dove impiegare le
22
Ibidem.
23 Cfr. Paul Collier e Jan Dehn, Aid, shocks and Growth, World Bank Policy Research, Working Paper
2688, Ottobre 2001. Una sintesi delle loro conclusioni, ripresa per il presente lavoro, si trova in Jayant Parimal, Rethinking policy Option For Export Earnings, op. cit., p. 7.
24
Ibidem.
25 Ibidem. 26 Ibidem. 27 Ibidem.
16 proprie risorse. Inoltre, una volta che l'instabilità dei prezzi viene trasmessa sui produttori, essi non hanno le risorse per coprirsi dai rischi finendo per danneggiare complessivamente l'offerta agricola. Non solo, l'impatto negativo sui piccoli produttori è tale che un abbassamento dei prezzi e quindi del loro reddito, non solo produce conseguenze sui loro investimenti nella produzione, ma anche su altre spese quali istruzione e salute28.
L'instabilità dei prezzi, inoltre, esercita un forte impatto sugli investimenti nazionali, che privilegeranno un orizzonte di breve periodo piuttosto che imbarcarsi in avventure più rischiose, anche se queste ultime possono meglio riflettere il vantaggio comparato del paese29. Infine, l'instabilità dei prezzi da esportazione può generare un clima di incertezza sui mercati nazionali e far sì che i capitali escano dal paese in cerca di investimenti più sicuri30.
Passando dall'impatto sugli investimenti a quello sul gettito fiscale, uno studio condotto dall'UNCTAD31 indica che se il livello delle ragioni di scambio per i paesi dell'Africa Sub-Sahariana fosse rimasto quello degli anni ottanta, i produttori di caffè e di zucchero avrebbero guadagnato una cifra addizionale di, rispettivamente, 19 e 1,4 miliardi di dollari. I paesi dell'Africa occidentale, invece, avrebbero ricavato un miliardo di dollari in più dalla produzione di zucchero, caffè e cotone, se il loro prezzo, per il periodo 1999-2002, fosse rimasto ai livelli del 199832. Sempre, secondo l'UNCTAD la perdita di risorse dovuta al declino delle ragioni di scambio è stato uno dei principali fattori delle povere performance economiche registrate dai paesi africani nelle decadi degli ottanta e novanta33. Se tali risorse si fossero rese disponibili per investimenti produttivi domestici, i livelli di crescita e di reddito dei paesi africani sarebbero stati infatti più elevati. Una simulazione realizzata dalla Banca mondiale sulla base dei dati cumulativi delle perdite registrate, suggerisce che se tali risorse fossero state rese disponibili avrebbero permesso un aumento del 6% annuo degli investimenti nei paesi africani non 28 Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ibidem.
31 Cfr. UNCTAD, Economic development in Africa: Trade performance and Commodity Dependence,
Nazioni Unite, 2003.
32
Cfr. UNCTAD, Economic Development in Africa: Trade performance and Commodity Dependence, op. cit., p. 20.
33 Cfr. UNCTAD, Economic Development in Africa: Performance, Prospects and Policy issues, Nazioni
17 esportatori di petrolio ed un’addizionale crescita annua del 1,4%34
. Tutto ciò avrebbe permesso al livello pro-capite di PIL del continente di raggiungere i 478 dollari per il 1997 anziché di 323 dollari. “In altre parole – conclude l'UNCTAD – se i paesi africani non esportatori di petrolio non avessero continuamente sofferto delle perdite derivanti dal declino delle ragioni di scambio nelle passate due decadi [1980 e 1990 n.d.r.] il reddito pro-capite sarebbe stato del 50% più alto”35.
Un ultimo aspetto sul quale è necessario concentrarci è quello degli impatti della volatilità dei prezzi sulla finanza pubblica dei paesi esportatori. La volatilità, oltre ad esercitare un impatto negativo sui redditi, lo produce anche sul gettito fiscale degli stati. Infatti, molti paesi poveri dipendenti dalle esportazioni presentano un sistema fiscale inefficiente dipendente in maniera consistente dalle tasse su gli import, dal momento che risulta relativamente più semplice il commercio rispetto ai redditi degli individui. Durante le fasi di espansione dei prezzi associate agli shock di breve e medio periodo le entrate dei governi aumentano incrementando la spesa pubblica, che però si trasforma in deficit nelle fasi di declino dei prezzi, che, come abbiamo visto, tendono ad essere prevalenti sull'intero ciclo. Questi deficit sono molto difficili da assorbire, date la rigidità che caratterizza determinate spese, quella degli stipendi ad esempio36.
1.5 Le politiche di stabilizzazione dei prezzi
Dopo la crisi del '29, l'economista John Maynard Keynes scriveva: “I prezzi non dovrebbero essere fissati al livello più basso possibile, ma ad uno sufficiente a fornire ai produttori il necessario nutrimento ed adeguati standard di vita […]. E' nell'interesse di tutti i produttori che i prezzi delle commodity non scendano sotto un certo livello ed i consumatori non dovrebbero avere alcun diritto di aspettarsi il contrario”37. A seguito del periodo della Grande Depressione furono introdotte politiche innovative nel settore
34
Ibidem.
35 Ibidem.
36 Cfr. Jayant Parimal, Rethinking policy Option For Export Earning, op. cit., p. 9. si veda anche
UNCTAD Economic development in Africa: Trade performance and Commodity Dependence, op. cit., p. 13.
37 J.M. Keynes, The International Control Of Raw Materials Price, 1942, contenuta in E.A.G. Robinson e
D. Moggridge, The Collected Writings of John Maynard Keynes, Macmillan, 1980, citato in Thomas Lines, Making poverty: a history, op. cit., p. 71.
18 delle commodity. Il governo del Brasile, ad esempio, allora come oggi uno dei maggiori produttori di caffè, cominciò a comprarne grosse quantità per la sua lavorazione con l'obiettivo di mantenerne più elevato il prezzo internazionale. Fu proprio a partire dagli anni trenta che vennero adottate politiche di gestione dell'offerta nel settore delle commodity agricole, sia a livello nazionale che internazionale. Su quest'ultimo fronte, il più antico accordo risaliva al 1933, con la firma dell'International Tea Agreement che restò in vigore fino al 1955, operando attraverso la definizione di quote di esportazione permettendo tra il 1932 ed il 1937 un aumento del 50% del prezzo internazionale del tè38. Dopo il fallito tentativo di istituire un'organizzazione internazionale del commercio (OIT), a causa della mancata ratifica del Congresso statunitense dell'accordo istitutivo firmato a L’Avana, nel 1948 - che avrebbe dovuto supervisionare le politiche di stabilizzazione dei prezzi delle commodity - a partire dagli anni sessanta le Nazioni Unite cominciarono a sostenere l'adozione di accordi internazionali di stabilizzazione dei prezzi e gestione dell'offerta39. Nel 1963 fu istituito l’International Coffee Agreement a cui seguirono negli anni altri accordi internazionali sulle commodity (International CommodityAgreement- ICA).
La firma dell'accordo internazionale sul caffè avvenne appena un anno prima dell'istituzione della Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo (UNCTAD), alla cui guida fu posto proprio Raúl Prebisch. Gli anni settanta videro il lancio del New International Economic Order, promosso nell'ambito delle Nazioni Unite, il cui obiettivo era migliorare il commercio dei paesi in via di sviluppo. Al cuore di questo nuovo programma figurava l’Integrated Programme for Commodity (IPC), lanciato nell'agosto del 1974. Dopo un intenso dibattito durato più di un anno, il IPC fu adottato durante la quarta conferenza del UNCTAD nel 1976 alla quale seguì il lancio di numerosi accordi internazionali sulle commodity fino a coprire ben diciotto mercati40. L'obiettivo era di stabilizzare il prezzo sui mercati internazionali e renderli più remunerativi per i produttori. Infine, il programma sarebbe stato finanziato attraverso l'istituzione di un Common Fund for Commodity (CFS)41 che in realtà l’IPC non attivò
38 Ivi, p. 84.
39 Cfr. Thomas Lines, CommodityTrade, Poverty Alleviation and Sustainable Development. The
Re-emerging Debate, Common Fund For Commodities, Giugno 2004, p. 8.
40 Cfr. UNCTAD, Economic development in Africa: Trade performance and Commodity Dependence, op.
cit., p. 32.
19 mai a pieno regime. Furono pochi infatti gli accordi nei quali si resero operative le clausole economiche, mentre per altri – ad esempio quelli relativi allo stagno e allo zucchero - la loro applicazione fu discontinua. Non solo: l'accordo che istituì il CFC fu adottato nel 1981 ed entrò in vigore solo nel 1989 finanziando soltanto il primo Buffer Stock per la stabilizzazione dei prezzi42. Come sottolinea la stessa UNCTAD, “La base finanziaria del CFC, come eventualmente negoziata, era in ogni caso troppo piccola rispetto alle previsioni originarie e [comunque] troppo ridotta per permettere un intervento significativo nel mercato delle commodity”43.
Gli ICAs istituiti tra gli anni trenta e novanta del secolo scorso videro protagonisti i principali paesi produttori e consumatori. Non tutte coinvolsero i paesi in via di sviluppo – ad esempio il International Wheat Agreement -, tuttavia, erano in generale maggiormente associati alle esportazioni di prodotti. Come abbiamo visto, si trattava di politiche di gestione dell'offerta, non le sole possibili, che avevano l'obiettivo di mantenere prezzi remunerativi e stabili. In un’interessante e breve disamina delle loro caratteristiche, Thomas Lines44 sottolinea alcuni aspetti positivi e negativi delle “vecchie” ICAs. Innanzitutto, basandosi su meccanismi cooperativi, l'accordo tra paesi consumatori e produttori – con ovvi interessi diversi dal momento che essi sussistono anche tra gli stessi produttori – risultava più efficace una volta raggiunto, ma rendeva l'accordo stesso molto più difficile da concludere45. Inoltre, i meccanismi di funzionamento previsti poco si differenziavano tra un accordo e l'altro, eccetto per l'OPEC; infine non seppero affrontare le sfide degli anni ottanta, la recessione economica e le politiche di aggiustamento strutturale oltre al fatto che evadere le quote era più facile rispetto ad adottare meccanismi efficaci di controllo46.
Secondo l'UNCTAD, invece, esistono due scuole di pensiero costruite attorno alle ragioni del fallimento di questi meccanismi internazionali di stabilizzazione dei prezzi47. La prima afferma che le cause principali furono dovute alla difficoltà di gestire il prezzo con politiche di output management in un contesto di espansione della produzione
42
Ivi, p. 33.
43 Ibidem.
44 Cfr. Thomas Lines, Making poverty: a history, op. cit., pp. 87-91. 45 Ivi, p. 88.
46
Ivi, p. 91.
47 Cfr. UNCTAD, Economic development in Africa: Trade performance and Commodity Dependence, op.
cit., p. 34. un bilancio interessante sul funzionamento delle ICAs è contenuto anche in South Centre, International Problems and Policy: The Key Issues for Developing Countries, Ginevra, Febbraio 1996.
20 attraverso gli incrementi di produttività. Una seconda scuola sottolinea la difficoltà a stabilire quali prezzi fossero equi per i produttori ed a determinare in modo accurato i trend di lungo periodo necessari per la loro stabilizzazione48. Ma la stessa UNCTAD sembra convergere nella sua valutazione con quella di Thomas Lines quando afferma che “[…]i problemi di coordinamento degli interessi dei differenti parti, così come debolezza e mancanza di meccanismi di enforcement e problemi di free riding sono da considerare come parte del problema. […]. In altre parole, è stato argomentato, che queste sfide non erano insormontabili se ci fosse stata sufficiente volontà politica ed adeguate risorse finanziarie [...]”49.
Dal punto di vista politico emergono due principali ragioni a spiegazione del fallimento delle ICAs. La prima addebita la responsabilità all'Amministrazione Reagan, che tolse il proprio appoggio a questi accordi e, come vedremo, contestualmente sostenne le politiche di aggiustamento strutturale; la seconda afferma che furono gli stessi paesi produttori e le grandi Corporation ad abbandonare tale sistema di autoregolamentazione50.
Va sottolineato come, a seguito dal collasso delle ICAs, non siano scomparse del tutto strategie e programmi di stabilizzazione dei prezzi. Il problema, che esula in parte dal presente lavoro, sta nella loro efficacia limitata copertura di poche commodity di interesse dei paesi che le sponsorizzavano, ad esempio l'Unione europea. Meccanismi finanziari compensatori in risposta agli short-term price shock non hanno saputo arrestare il declino dei prezzi dei prodotti agricoli perché erano lenti, pro-ciclici e troppo costosi51. Gli esempi più conosciuti sono il Contingency and Compensatory Financing Facility del Fondo Monetario Internazionale (1988) e lo Stabilization of Export Earnings (STABEX) dell'Unione europea, introdotto nel 1975 nel quadro degli accordi di Lomé con i paesi dell'Africa dei Caraibi e del Pacifico (ACP)52.
48 Ibidem.
49 ibidem 50
Cfr. Thomas Lines, Making poverty: a history, op. cit., p. 89.
51 Cfr. UNCTAD, Economic development in Africa: Trade performance and Commodity Dependence, op.
cit., p. 35.
21
1.6 Il periodo di aggiustamento strutturale
Il breve e sicuramente non esaustivo bilancio dell'esperienza delle ICAs ci permette di avviare l'analisi di quello che è stato definito il “decennio perduto dello sviluppo”, ovvero gli anni ottanta del secolo scorso. In quel decennio l'economia mondiale affrontò una profonda recessione che alimentò il declino dei prezzi delle commodity, l'arretramento del multilateralismo nelle relazioni economiche internazionali e l'avvento di un'ondata di riforme macroeconomiche di stampo neoliberista. In quegli anni le strategia di intervento sui mercati per la stabilizzazione dei prezzi delle commodity erano reputate non accettabili ed inefficaci53. Ad esse di sostituì un modello che privilegiava la libera espressione delle forze di mercato, attraverso la liberalizzazione dei prezzi e la deregolamentazione dei mercati: politiche considerate più efficienti in termini di allocazione delle risorse e di generazione di reddito e ricchezza. Il concetto di stabilizzazione dei prezzi delle commodity fu una “vittima naturale”, soprattutto perché, alla luce della crisi del debito sofferta da molti paesi in via di sviluppo, questi ultimi non erano nella posizione di negoziare alcunché, date le forti difficoltà che affrontavano nella gestione della loro bilancia dei pagamenti54. Come sostenuto dalla stessa UNCTAD, “[…] le precedenti preoccupazioni rispetto alla disponibilità di offerta per i paesi consumatori degli anni settanta, lasciarono il posto ad una riluttanza ad intervenire nei mercati che rifletteva il dominio degli interessi del settore privato. I paesi produttori possedevano limitate capacità di adottare azioni alternative a causa della mancanza di risorse necessarie e, in alcuni casi, perché non in grado di riconciliare i propri interessi con quelli di altri che emergevano in quegli anni”55.
Se a livello internazionale il dogma neoliberista portò al sostanziale abbandono di meccanismi di stabilizzazione dei prezzi, lo stesso avvenne anche per quelle politiche adottate a livello nazionale. Lo strumento principe utilizzato furono i programmi di aggiustamento strutturale (PAS), espressione di quel “Washington Consensus” che vide le istituzioni di Bretton Woods - Banca mondiale e Fondo Monetario Internazionale - gestire la crisi del debito dei paesi in via di sviluppo attraverso prestiti condizionati a riforme macroeconomiche di stampo neoliberista. Lo slogan lanciato dalla Banca
53 Ivi, p. 33. 54 Ivi, p. 34. 55 Ibidem.
22 mondiale, che con il World Development Report del 198656 aveva elaborato il manifesto programmatico proprio in relazione a commercio e agricoltura, era “getting prices right”, ovvero i prezzi nei mercati nazionali per i beni e i servizi dovevano essere in linea con i prezzi internazionali ed il più possibile vicini a quelli ottenibili in un contesto di libera concorrenza57. Nel rapporto sopra menzionato era possibile leggere: “alcune tassazioni sui prodotti agricoli da esportazione coinvolgono le tradizionali tasse di frontiera o quote, ma frequentemente la tassazione è il risultato di una politica dei prezzi perseguita attraverso agenzie di marketing del settore pubblico”58. La Banca si riferiva alle Marketing State Board, agenzie statali o parastatali che svolgevano un ruolo di regolamentazione dei prodotti agricoli organizzando i flussi di input ed output, il credito per la ricerca, le informazioni di mercato ed il training59. Le politiche di aggiustamento strutturale avevano, ovviamente, una portata più ampia rispetto al solo mercato primario e si indirizzarono in generale verso una complessiva riduzione del ruolo dello stato in economia attraverso la chiusura o il ridimensionamento delle agenzie pubbliche per la regolamentazione dei diversi settori, la privatizzazione dei mercati, la riduzione dei sussidi, l'eliminazione dei controlli sulle importazioni, come le restrizioni quantitative, la riduzione di dazi e tariffe, la liberalizzazione e deregolamentazione degli investimenti e l’apertura alle imprese straniere60
. Si chiudeva l'era delle esperienze di sviluppo basate, ad esempio, sulla sostituzione delle importazioni, per lasciare spazio ad un modello orientato quasi esclusivamente all'export, attraverso la specializzazione produttiva in determinati settori dove esisteva, da parte dei paesi, un vantaggio comparato. La vendita sui mercati internazionali era importante per incamerare riserve di dollari necessarie a pagare gli oneri legati ai debiti internazionali. L'apertura alla concorrenza internazionale, insieme all'eliminazione di tutti quei meccanismi di regolazione dei mercati che aiutavano i produttori sia ad avere livelli di prezzi remunerativi, sia ad accedere al credito fondamentale per gli input produttivi, eserciterà un impatto devastante sul settore agricolo. Inoltre, l'assenza di meccanismi pubblici di
56
World Bank, World Development Report 1986, Washington, Luglio 1986.
57
Cfr. Thomas Lines, CommodityTrade, Poverty Alleviation and Sustainable Development. The Re-emerging Debate, op. cit., p. 9.
58 Cfr. World Bank, World Development Report 1986, op. cit., p. 64.
59 Cfr. South Centre, Problems and policy challenges faced by Commodity-Dependent Developing
Countries(CDDCs),op. cit., p. 15.
60 Cfr. Martin Khor, Globalisation, Liberalisation, and Protectionism: The Global Framework Affecting
Rural Producers in Developing Countries, Trade & Development Series 34, Third World Network, Malesia, 2007, p. 13.
23 controllo sui prezzi favorì l'emergere di un forte potere di mercato detenuto dai corporate buyer, un problema presente ancora oggi ed ulteriormente aggravatosi61. Dopo vent’anni di politiche di aggiustamento strutturale, un dibattito in seno alle Istituzioni finanziarie internazionali ed alle Agenzie di sviluppo delle Nazioni Unite portò alla elaborazione di diversi studi che facevano bilancio dell'impatto di quelle politiche sulla riduzione della povertà. Anche durante il periodo del Washington Consensus, molte erano tuttavia le critiche dirette al export-led growth model, soprattutto da parte della società civile;, timori confermati, si vedrà, dall'analisi empirica sugli impatti nei paesi in via di sviluppo.
La teoria su cui si fonda il libero commercio è quella del vantaggio comparato di David Ricardo, secondo la quale, semplificando, ogni paese dovrebbe specializzarsi in ciò che riesce a produrre più efficiente. Tuttavia, come viene spesso sottolineato dai critici del libero commercio62, le politiche della Banca, e successivamente dell'Organizzazione mondiale del commercio, si basavano su una visione statica del vantaggio comparato: ovvero i paesi dovrebbero concentrarsi su ciò su cui nell’immediato sono più efficienti dal punto di vista produttivo e non orientarsi verso nuove capacità produttive, ad esempio risalendo la catena del valore nella produzione primaria e sviluppando un settore manifatturiero e dei servizi, come mostrava la storia dello sviluppo di tutte le principali economie del tempo come stati Uniti, Giappone e paesi europei63. Secondo lo schema della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, i paesi con un vantaggio comparato su determinate commodity agricole si sarebbero dovuti specializzare nello sfruttamento di tali risorse, importando il resto del cibo di cui avevano bisogno. Come si mostrerà, tale schema ha trasformato molti paesi poveri da esportatori ad importatori netti di alimenti creando problemi strutturali sulla loro bilancia commerciale Come sottolinea Thomas Lines, “Lo sviluppo è un processo dinamico che richiede la formazione di nuovi settori dell'economia. [La teoria del
61 Cfr. South Centre, Problems and policy challenges faced by Commodity-Dependent Developing
Countries (CDDCs),op. cit., p. 15.
62
Per un’interessante analisi degli argomenti addotti dai critici del libero commercio si veda Clive George, The Truth about Trade. The real Impact of Liberalization, Zed Books Editore, Londra, 2010. Ha-Joon Chang, Bad Samaritans. The myth of free trade and the secret history of capitalism, Bloomsbury Press, 2008. Per un tentativo di conciliare libero commercio e sviluppo invece Joseph E. Stiglitz e Andrew Charlton, Commercio equo per tutti. Come gli scambi possono promuovere lo sviluppo, Garzanti, Marzo 2007. Infine un interessante lavoro è quello di Martin Khor, The Multilateral Trading System: A Development Perspective, Third World Network, 2001.
63 Ha-Joon Chang, Kicking Away the Ladder - Development Strategy in Historical Perspective, Anthem
24 vantaggio comparato] andrebbe perciò interpretata in modo dinamico, incoraggiando i paesi a sviluppare settori più avanzati che possono aiutarli a risalire la scala dello sviluppo”64. Questo implica tuttavia un approccio opposto che moduli il processo di liberalizzazione collocandolo a valle e non a monte del processo dell'intero sviluppo. Un altro problema posto dagli economisti nella loro critica all’ export-led growth model riguardava ciò che è stato definito come “fallacy of composition” o “adding-up problem”, ovvero, nel caso in cui un paese di fosse ritrovato ad affrontare problemi sulla propria bilancia dei pagamenti avrebbe dovuto esportare maggiori quantità del prodotto che già commercializzava. Tuttavia, se anche altri paesi avessero fatto lo stesso, il mercato internazionale sarebbe stato invaso dall’offerta e il prezzo relativo sarebbe collassato65. La portata e la velocità di tale declino sarebbe dipesa dalla capacità della domanda di quel determinato prodotto di reagire ai cambiamenti di prezzo, ovvero dalla sua elasticità. Se la domanda fosse stata anelastica, o altri fattori negativi fossero intervenuti lungo la catena dell'offerta, allora il tasso guadagno dei produttori sul mercato sarebbe sceso mentre i volumi esportati sarebbero aumentati. Ciò è precisamente quanto avvenne sui mercati delle commodity per molti paesi in via di sviluppo. Per fare un esempio, le esportazioni di caffè passarono da 3,7 milioni di tonnellate del 1980 a 5,9 del 2000, ma il valore complessivo scese nello stesso periodo da 12,5 a 10,2 miliardi di dollari. Nello stesso arco temporale, raddoppiarono le esportazioni di cacao, passando da 1,1 milioni a 2,5 milioni di tonnellate, con una produzione che costantemente eccedeva la domanda mondiale, ma il valore scese da 2,8 a 2,5 miliardi di dollari. Tra il 1997 ed il 2001 il prezzo reale del cacao scese ad un tasso del 6,9% annuo66. Tra il 1981-82 e il 2001-03 la media del valore delle esportazioni dei LDCs scese complessivamente del 35,3% rispetto al valore delle loro importazioni. Ciò ha significato che alla fine di quelle due decadi le esportazioni erano in grado di coprire due terzi in meno del costo delle importazioni rispetto all'inizio, registrando un deterioramento delle ragioni di scambio del 20%67.
La sovrapproduzione, determinata non solo dalle politiche commerciali, ma anche da un aumento della produttività senza precedenti grazie all'introduzione di nuovi metodi
64
Cfr. Thomas Lines, Making poverty: a history, op. cit., p. 39.
65 Ivi, p. 41. 66 Ibidem. 67 Ivi, p. 43.
25 produttivi, come la Rivoluzione Verde, è una delle cause che ha contribuito all'aumento del declino delle ragioni di scambio e dei prezzi assoluti delle commodity sui mercati mondiali. Se a ciò aggiungiamo lo smantellamento di quei meccanismi di stabilizzazione, sia a livello nazionale che internazionale, le politiche dei sussidi alla produzione68, sia interni che all'export, adottate da grandi paesi come l'Unione europea e gli stati Uniti, risultano evidenti i motivi per i quali i prezzi delle commodity scesero in maniera inesorabile fino agli inizi del nuovo millennio, esponendo i paesi in via di sviluppo a frequenti shock dei prezzi.
Possiamo perciò concludere che come risultato delle politiche che imponevano la specializzazione produttiva verso specifiche commodity da esportazione, i paesi in via di sviluppo hanno visto indebolirsi la loro posizione commerciale sul mercato mondiale69. L’evoluzione delle politiche, da quelle che privilegiavano l'intervento sui mercati delle commoditya quelle che non volevano interferire nella libera interazione tra domanda ed offerta, ha accentuato il problema della crisi dei prodotti agricoli per i paesi in via di sviluppo. In particolare, l'eliminazione degli State Marketing Board e lo smantellamento delle ICAs ha esposto questi paesi ad una varietà di forze di mercato che hanno determinato l'aumento dell'instabilità dei prezzi, creando un vuoto all'interno dei mercati nazionali che ha eliminato la possibilità dei governi di intervenire in risposta agli shock dei prezzi e quindi riducendo in modo significativo la possibilità del loro controllo70.
Come abbiamo mostrato, le politiche di liberalizzazione commerciale, promosse prima attraverso i PAS , e successivamente con l'accordo sull'agricoltura dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) del 1994, hanno svolto un ruolo chiave nel determinare la continua dinamica decrescente dei prezzi delle commodity agricole e, più complessivamente, nel peggiorare i termini di scambio proprio a discapito dei paesi in via di sviluppo. In una studio condotto dalla FAO nel 200371 sulla relazione tra liberalizzazioni commerciali e sicurezza alimentare, gli autori giungono ad affermare che le politiche di apertura commerciale non hanno in nessun modo migliorato la posizione dei paesi esportatori di commodity agricole sul mercato mondiale, che hanno
68 Ivi, p. 72. 69
Ivi, p. 43.
70 Cfr. South Centre, Problems and policy challenges faced by Commodity-Dependent Developing
Countries(CDDCs),op. cit., p. 15.
26 registrato invece un aumentare la volatilità dei prezzi ed il deterioramento delle ragioni di scambio. Non solo: l'impatto delle liberalizzazioni ha sostanzialmente modificato la geografia sociale ed economica dell'agricoltura nei paesi in via di sviluppo, facendo emergere una contraddizione strutturale nel modello neoliberale che ha visto il procedere parallelo di una sostanziale e progressiva liberalizzazione e deregolamentazione nei paesi in via di sviluppo e di una continua protezione e sostegno ai mercati agricoli nei paesi sviluppati72.
Gli autori del rapporto FAO sono chiari in proposito: “L'aggiustamento strutturale implementato nelle decadi passate ha determinato una riforma radicale del settore agricolo in molti paesi in via di sviluppo [proprio] nel periodo durante il quale molti paesi OCSE hanno continuato a proteggere fortemente i loro mercati. Sebbene sia generalmente riconosciuto che tali riforme fossero necessarie, bisogna però aggiungere come i processi adottati abbiano, in molti casi, severamente danneggiato le capacità dei paesi in via di sviluppo di aumentare la produzione agricola e/o la loro produttività. Queste riforme multilaterali sono state rafforzate da quelle multilaterali (OMC n.d.r)”73
. Gli autori poi proseguono affermando che “l'apertura dei mercati nei paesi in via di sviluppo, in un contesto di un'agricoltura globale ancora fortemente caratterizzata da un alto livello di protezionismo nei paesi sviluppati, ha reso i paesi in via di sviluppo meno capaci di prevenire (a) l'invasione nei loro mercati (import surges) di prodotti venduti sul mercato mondiale ad un prezzo al di sotto dei loro costi di produzione [a causa dei sussidi – n.d.r] (b) la perdita di capacità commerciali a livello nazionale che doveva nelle intenzioni originarie, ed in alcune circostanze inizialmente lo fece, colmare il vuoto lasciato dalla deregolamentazione dei mercati locali e dallo smantellamento delle [agenzie] parastatali”74
. Infine il rapporto conclude affermando che “rispetto al punto (a), promuovendo l'aggiustamento strutturale, le istituzioni di Washington non tennero in considerazione gli squilibri esistenti non essendo in grado di prevedere gli effetti disincentivanti subiti dalla produzione locale. Sul punto (b), [invece], piuttosto che l'emergere di un crescente coinvolgimento del settore privato locale, i mercati interni
72 Thomas Lines, A cura di, Agricultural Commodities, Trade and Sustainable Development, IISD,
ICTSD, 2005. Si vedano in particolare i capitoli relativo agli aspetti commerciali. Per una prospettiva dal punto di vista dei diritti umani, si veda il paper curato dal Relatore Speciale per il Diritto al Cibo delle Nazioni Unite: Olivier De Schutter International Trade in Agriculture and the Right to Food, Occasional Paper 46, Friedrich-Ebert-Stiftung, Ginevra, Novembre 2009.
73 FAO, Trade Reforms and Food Security. Conceptualizing the linkages, op. cit., p. 75. 74 Ivi, p. 73.
27 sono spesso stati sopraffatti da imprese straniere che dominavano le catene globali”75. Come conseguenza della liberalizzazione dei mercati e della riduzione del sostegno alla propria agricoltura questi stati hanno registrato un incremento delle importazioni che non è stato seguito da un parallelo aumento delle esportazioni. Infatti, il valore medio annuo delle importazioni di cibo nel periodo 1995-98 eccedeva quello del 1990-94 in tutti e 14 i paesi presi in esame dallo studio della FAO, variando da un aumento del 30% per il Senegal a uno del 168% dell'India. La “bolletta alimentare” del Brasile e dell'India è raddoppiata mentre per paesi come il Bangladesh, il Pakistan, il Marocco, il Perù e la Thailandia si sono verificati incrementi tra il 50 e il 100%76. Sul lato delle esportazioni, in Uganda la quantità di terra destinata alla produzione di caffè è passata da 250.000 ettari del 1992/93 a 300.000 del 1999/00 e la produzione è salita nello stesso periodo da 2,8 a 3,2 milioni di sacchi77. Ma a causa del declino del prezzo del caffè sul mercato mondiale, il valore delle esportazioni del paese africano è passato tuttavia dal picco dei 432 milioni di dollari del 1994 ai 165 milioni di fine decade78.
La coesistenza tra mercati liberalizzati e protetti non dovrebbe sorprendere ed è una delle caratteristiche del processo di globalizzazione economica. La stranezza, o se vogliamo l'incoerenza, è che, per quanto riguarda il settore agricolo, erano proprio i paesi più protezionisti a chiedere la liberalizzazione dei mercati a quelli in via di sviluppo. Strano in quanto sembrerebbe logico pensare che ai paesi più poveri e deboli economicamente fosse dato maggior tempo e flessibilità nel liberalizzare i loro mercati proprio perché necessitavano di tempo per essere pronti ad affrontare la competizione internazionale79.
75
Ibidem.
76 FAO, Agriculture, Trade and Food Security and option in the WTO negotiations - Vol. II, Roma, 2001.
Testo disponibile su html all'indirizzohttp://www.fao.org/docrep/003/x8731e/x8731e01a.htm#TopOfPage.
77 Il peso standard di questi sacchi è di 60 chilogrammi. 78
SAPRIN, The Policy Roots of Economic Crisis and Poverty. A Multi-Country Participatory Assessment of Structural Adjustment, Washington, SAPRIN, Aprile 2002, p. 115.
79 Cfr. Martin Khor, Globalisation, Liberalisation, and Protectionism: The Global Framework Affecting
28
1.7 Commodity, sviluppo e povertà
Il problema delle commodity è essenzialmente un problema dei paesi in via di sviluppo80. Il rapporto tra commodity è sviluppo è molto complesso e non può essere ridotto esclusivamente alla crescita economica. Nonostante ciò, è evidente come il declino delle ragioni di scambio e l'alta volatilità dei prezzi abbiano in generale esercitato un impatto negativo sia sulla povertà che sulla crescita economica. Possiamo inoltre affermare che esiste una stretta correlazione tra i livelli di povertà e di sviluppo economico di un paese e la sua dipendenza dalle esportazioni di questi beni, in maniera particolare per i prodotti agricoli81. Nel 2001, dei trenta paesi con il più basso Indice di Sviluppo Umano (ISU), 26 appartenevano alla lista di 54 paesi CDDCs (Commodity-dependent Developing Countries) dipendenti dalle esportazioni agricole82. Più in generale, sul totale 141 paesi in via di sviluppo, il reddito di 95 dipende per almeno il 50% dall'esportazione di commodity. Approssimativamente, per la metà dei paesi africani le commodity rappresentano l'80% del reddito, mentre per il gruppo dei paesi meno sviluppati (LDCs) il 70% della merce esportata83. Non dimentichiamo che dei 2,5 miliardi di persone che dipendono in maniera diretta ed indiretta dall'agricoltura, un miliardo trae il proprio sostentamento dall'esportazione di questi prodotti84. Un alto livello di dipendenza dalle commodity sembra costituire un segnale di basso sviluppo economico ed in generale indicare sia la mancanza di una diversificazione economica che di più complesse e articolate attività produttive85.
Come abbiamo visto, gli impatti di vent’anni di politiche di liberalizzazione e
80 Cfr. Irfan ul Haque, Commodityas a Development Issue, Marzo 2004. Discussion Paper preparato in
occasione del Informal hearings of civil society on financing for development svoltosi presso la FAO il 22 marzo 2004.
81 Cfr. Thomas Lines, CommodityTrade, Poverty Alleviation and Sustainable Development. The
Re-emerging Debate, op. cit., p. 5.
82
Ibidem. La categoria dei CDDCs è stata introdotta per la prima volta dall'Unione europea in una comunicazione della Commissione europea nel 2004. Alla categoria dei CDDCs si riferiscono quei paesi in cui almeno il 20% del totale delle loro esportazioni dipende da non più di tre prodotti. COMMUNICATION FROM THE COMMISSION TO THE COUNCIL AND THE EUROPEAN PARLIAMENT, Agricultural Commodity Chains, Dependence and Poverty - A proposal for an EU Action Plan, COM(2004)89 final, Bruxelles, 12 Febbraio 2004.
83 Cfr. South Centre, Problems and policy challenges faced by Commodity-Dependent Developing
Countries(CDDCs),op. cit., p. 11.
84
Common Fund for Commodities, Overview of the Situation of Commodityin Developing Countries, Group of 77 (G-77), New York, Marzo 2005, p. 1.
85 Cfr. Thomas Lines, CommodityTrade, Poverty Alleviation and Sustainable Development. The
29 deregolamentazione dei mercati delle commodity non hanno risolto i problemi strutturali legati alla volatilità ed al declino delle ragioni di scambio, bensì li hanno aggravati. Non solo, la maggior parte dei paesi poveri, a parte che in rare eccezioni, non sono riusciti ad innescare processi virtuosi di sviluppo economico attraverso una progressiva riduzione della dipendenza dalle materie prime verso altre attività a più alto valore aggiunto. I dati esposti in precedenza fanno emergere una condizione peggiore di questi paesi alla fine degli anni novanta rispetto al periodo precedente agli aggiustamenti strutturali.
A cavallo tra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo millennio, si verificò la ripresa del dibattito politico e accademico attorno al “commodity problem”. La questione veniva affrontata in diversi rapporti di organizzazioni ed agenzie di sviluppo ed anche il mondo politico86 tornava a menzionare il problema in chiave di impegni e proposte politiche in materia di sviluppo e di riduzione della povertà. Non a caso, proprio in quegli stessi anni cominciavano ad emergere le prime valutazioni sulle politiche di aggiustamento strutturale, in particolare in relazione al loro impatto sulla povertà. Nel 2000 vennero inoltre assunti dalla comunità internazionale gli Obiettivi del Millennio (Millennium Development Goals – MDGs) 87, secondo i quali la riduzione della fame e della povertà dovevano diventare priorità di tutti i governi e delle istituzioni internazionali deputate alla governance dello sviluppo. Nel 2002 si svolse la conferenza internazionale sulla finanza per lo sviluppo che dette vita al “Monterrey Consensus”, all'interno del quale si sottolineava la necessità di mitigare le conseguenze dell'alta volatilità e del declino dei prezzi delle commodityalla luce del fatto che 38 paesi in via di sviluppo erano dipendenti da una sola commodity per almeno il 50% del loro reddito da esportazione, e per due in altri 48 paesi88. Infine nel 2003, in un rapporto redatto a seguito di un incontro di eminenti studiosi promosso in sede UNCTAD si poteva leggere: “Notiamo con profondo sgomento [le condizioni] di estrema povertà nelle quali
86 Nel 2003, l'allora presidente francese Jaques Chirac affermava: “Sulla questione delle commodity esiste
una sorta di cospirazione del silenzio. Non ci sono soluzioni semplici. Molti dei rimedi introdotti nel passato – specialmente i principali accordi sulle commodity– hanno fallito e non vogliamo ripetere queste esperienze. Ma non si può giustificare il silenzio attuale”. Martin Khor, The Commodity Crisis and the Global Trade on Agriculture. Problems and Proposals, Third World Network, Maggio 2005, 2.
87 Durante il Vertice del Millennio convocato dalle Nazioni Unite nel settembre del 2000, i 189 capi di
stato e di Governo presenti hanno sottoscritto la Dichiarazione del Millennio. Tale documento contiene impegni precisi per la lotta alla povertà, sulla base dei quali sono stati definiti otto obiettivi di sviluppo, da realizzarsi entro il 2015.