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Una persona media

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Academic year: 2021

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Una persona media

Prima

Prima, ero molto complessata.

Non mi sono mai trovata particolarmente carina, a dire il vero nemmeno interessante, e mi ricordo del giorno preciso in cui, arrivando alla scuola media con i capelli legati per la prima volta, uno dei miei compagni mi disse che non mi stanno così bene come quando li porto sciolti. A partire da quel giorno inizio a piangere, e smetterò solo parecchi anni più tardi.

Prima, mi sentivo brutta.

Ricordo che i miei familiari tentano di spiegarmi che quando non ci si ama, si ama male e non si può essere amati, che si tratti d’amore o d’amicizia. Lo sento ma non ascolto.

Prima, ero molto complessata, mi sentivo brutta, ma in famiglia ero felice. Viviamo, mio padre, mia madre, mia sorella e io, in una casa graziosa a Saint-Mandé, proprio di fronte allo stabile in cui abitano mio zio, mia zia e i loro figli, da cui ci separiamo soltanto di rado. Ogni estate partiamo insieme, in barca a vela, per visitare un gran numero di paesi. Il ricordo di quei momenti privilegiati mi riempie ancora oggi e mi dà forza.

Prima di sempre.

Il mio mondo si riduce ai miei genitori e a mia sorella, trascorro il tempo nella speranza che non accada loro niente di grave. Ogni secondo della mia vita è dedicato a loro sotto forma di preghiere, perché la loro esistenza sia la più

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tranquilla possibile, la mia testa e il mio cuore sono colmi di auspici che li riguardano. Se loro stanno bene, io sto bene.

Sono educata da un padre e una madre che hanno deciso che il modo migliore di rievocare qualsiasi ricordo, anche i momenti tristi - che non sono poi così numerosi in quel periodo, devo dire - è l’humour. È dunque facendoci ridere che mio padre ci comunica la morte del nostro cane, o, qualche anno dopo, di quella del suo migliore amico. Ma, veloce, smetto di ridere per piangere, piangere e ancora piangere. Perdo qualcuno che amo. Ho una ragione concreta per esser triste per la prima volta in vita mia, ma ho già diciannove anni, sono fortunata. L’impronta è data, in questo modo cercheremo di approcciare tutti gli episodi più complicati della vita.

Prima ancora.

Non mi piaccio, ma, in modo inspiegabile, ho degli amici. L’amicizia è una cosa importantissima per me. Vedo tuttora la maggior parte di queste persone, le loro opinioni mi interessano, i nostri ricordi comuni mi aiutano.

Il mio modello di amicizia proviene dai miei genitori. Trascorrono le vacanze, i weekend e i momenti di svago con la solita cerchia di sei persone. Ciò ha inizio prima della mia nascita e continua ancora oggi. Alcuni di loro, e i loro figli, da molto tempo fanno «parte della famiglia».

Ho degli amici e mia sorella. È sempre stato speciale con lei, mai nessuna gelosia, mai grandi sfuriate, mai un vero contrasto, sempre un’enorme complicità, sempre attacchi di ridarella, sempre a raccontarsi tutto. Condividere i nostri amici, oppure no, in ogni caso non è un problema, mi piace quando a lei piacciono i miei amici e viceversa. E con gli anni, sempre più sintonia, risate, bisogno di avere la sua opinione, il suo parere su quello che faccio, quello che

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vivo. Senza di lei non sono io, non sono completa, se lei sta male, io non sto bene e se lei è felice, io lo sono ad ogni modo un po’. L’essenziale è che lei ce la faccia, che sia lei a esser bella, che sia lei a esser intelligente. Preferisco sia così.

Prima, ancora e sempre.

Questa mancanza di fiducia in me non mi ha mai impedito di provare sentimenti nei confronti dei miei ragazzi. E anche nei confronti degli altri, del resto.

Sono una specie di « farfallona », ho spesso qualcuno in testa mentre ho una storia seria, adoro che i ragazzi siano attratti da me, di sicuro come molte ragazze, ma ho l’impressione che ci siano persone più o meno innamorate. Io sono una di quelle innamorate.

Non capisco perché provoco questi pensieri in alcuni, mi domando se mia madre li paghi. È sempre stato paradossale: in che modo, sentendomi così a disagio, ho potuto essere anche così innamorata e stare così bene con i ragazzi? Non ricordo di aver passato anche solo una settimana senza provare sentimenti per loro. Non mi hanno mai liberata da nessun complesso. Non credo a tutte le cose carine che mi dicono, o meglio vorrei proprio che pensassero quello che dicono, ma questo non cambia ciò che io penso, nel profondo, di me.

Avrei dovuto vivere, dunque, un lungo periodo di serenità, se la mia mente non fosse stata abitata da quest’immagine di me, che rovinava tutto.

Eppure è durante questa fase di « felicità che dovrebbe essere immensa » che comincio a sentirmi angosciata. Ho paura. Paura di perdere tutto. Questa felicità dovrebbe servirmi da motore, ma in realtà credo che mi freni. Temo che tutto si fermi e io non ne approfitto. Temo la malattia, per le persone che amo, i miei genitori, mia sorella, e per me.

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In seguito, ciò diventa un’ossessione e fa nascere dei rituali, dei disturbi d’ansia, che mi fanno perdere tempo ed energia, e che mi fanno cadere in uno stato di profonda tristezza. Mi guardo bene da moltissime cose , non dire più certe parole, quelle che si usano di più, dalle formule di cortesia. Nello stesso periodo mi costringo a molto altro, pregare più volte al giorno, verificare la chiusura delle porte prima di lasciare un luogo, verificarla ancora, e ancora, stare su tale lato del marciapiede senza deviare, mai, che ci sia gente o meno, tutto questo dà un ritmo nuovo alla mia vita.

Verso i vent’anni le mie angosce giungono al loro apice. Smetto di vedere i miei amici, smetto di ascoltare musica, smetto di desiderare.

Ho solo paura.

La mia paura mi fa soffrire, mi devo fare male fisicamente per attenuare il dolore psichico. Somatizzo, il tutto avviene a livello del petto, penso solo a questo, tutta la giornata, in ufficio, a casa, il mio petto è nella mia testa. Per pensarci meno, mi pizzico le mani, mi mordo, devo sentire con più intensità un’altra parte del mio corpo affinché il primo dolore venga un po’ meno.

Ho anche la sensazione di essere all’interno di me stessa, di essere imprigionata nella mia bocca, soffoco. E di continuo ho l’impressione che le mie mani abbiano un odore che detesto, come se pian piano stessero marcendo.

Poi ho paura di star meglio: appena sto meglio mi sento male. Questo mi fa cadere di nuovo in uno stato negativo da cui mi voglio tirare fuori.

Questo malessere coesiste con lo spazio enorme che occupa l’amicizia nella mia vita. Eppure, per più di un anno, non riesco a vedere i miei amici, poiché può capitare che durante una conversazione, senza volerlo, mi dicano una parola, una

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frase, che mi faccia sprofondare in un’angoscia che niente può calmare, che non è ragionevole.

C’è questa impressione costante di disturbare. Mi sento di troppo, ho sempre voglia di scusarmi per esserci. Questo sentimento è profondo, è ovunque, per tutto il tempo, con chiunque; anche quando trascorro un momento piacevole, mi dico che le persone si sforzano, che dovrei andarmene. Ho l’impressione di essere troppo presente fisicamente, il mio corpo mi imbarazza, « c’è troppo », è troppo visibile, e anche la mia mente mi imbarazza, « non c’è abbastanza », non è abbastanza presente, è trasparente, vuota.

Mai mi sono sentita come un pesce nell’acqua.

A quel tempo non sono neanche una persona media, mi sento una nullità, ben al disotto della media.

Prima, infine.

A sedici anni mi innamoro follemente e resto per sette anni con lo stesso ragazzo. Mi picchia. Lo lascio l’indomani del giorno in cui, dal momento che mi ha spinto giù dalle scale per gelosia, mi rompe una gamba. Sembra che abbia molta voglia di farmi male, poiché mi dà anche un gran cazzotto in testa, deve pensare che meriti una bella punizione per aver invitato degli amici a bere un bicchiere. Mi sono ritrovata più volte ferite sul corpo, ma riesco a nasconderlo, a dire che sono cascata, oppure che ho urtato contro una porta. I miei genitori devono credermi molto sbadata, ho sempre lividi o graffi.

Il giorno della gamba rotta è la prima volta che mi portano all’ospedale a causa sua. Mi ingessano. È soprattutto la prima volta che mio padre è testimone di quello che succede, poiché le scale in cui si è svolta la scena sono quelle dello stabile nel quale trascorro le vacanze con i miei genitori.

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In tutti quegli anni le ferite fisiche, però, non sono le peggiori. Il ragazzo che amo sa come farmi soffrire psicologicamente e per me non c’è niente di più duro da sopportare. Credo quasi di poter dire che, dovendo scegliere, preferisco che mi faccia del male fisico. Sciupa, per esempio, oggetti o vestiti che mi regalano i miei genitori, il che mi fa diventare pazza poiché sono del tutto feticista per quanto riguarda quel che è di loro provenienza.

Mi ricordo anche del giorno in cui abbiamo appuntamento con i nostri amici per cena. A lui non piace che io sia felice di vedere qualcuno, chiunque esso sia. Devo essere un po’ troppo contenta all’idea di quell’appuntamento, poiché mi porta sull’autostrada di Normandia, penso ai nostri amici che ci stanno aspettando, il cellulare non esiste ancora, non posso avvertire nessuno. Percorriamo l’andata e ritorno Parigi-Deauville per niente, o meglio, solo per non andare al ristorante. Quella serata finisce verso le due di notte. Di ritorno da Parigi, nel bel mezzo del bosco di Vincennes, ferma la macchina, scende, apre il mio sportello, mi acciuffa per i capelli e mi lascia lì, in piena notte. Ho tanta paura.

In quel periodo ci sono delle prostitute nel bosco, per fortuna una di loro ha assistito alla scena e mi riaccompagna fin davanti casa.

I miei genitori sono più volte messi in guardia dai miei amici, spesso quello di loro che mi sta più vicino li chiama per informarli che il ragazzo che amo è violento con me, io smentisco ogni volta, metto tutta l’energia che ho per spiegare che non è vero. Un giorno, una persona vicina a mio padre ci vede litigare in macchina, il ragazzo che amo rompe degli orecchini che mi hanno regalato i miei genitori e mi urla contro. Quella persona non si intromette. Quando mio padre mi parla della scena, io nego.

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Il giorno delle scale, per una volta, mio padre è dunque testimone di questa violenza e non mi crede più quando cerco di difendere il ragazzo che amo. Mi costringe a lasciarlo.

Lo lascio. Ritorno con lui un anno dopo, e ci separiamo per sempre due anni più tardi, tanto ci annoiamo insieme. In questi ultimi due anni non mi tocca più, non alza mai più la mano su di me.

Sono stata molto innamorata di lui, mi piaceva, lo trovavo bello, e i nostri momenti di riconciliazione sono stati così intensi che ho accettato tutto il resto. Mi sono spesso detta che quel periodo corrisponde alla mia « crisi adolescenziale ». È l’unica volta in cui sono in contrasto con i miei genitori, che vogliono che mi separi dal ragazzo che amo. È attraverso lui che li contraddico, restando con lui, nascondendo loro il modo in cui si comporta con me. Accettando questa violenza è forse contro di loro che mi batto.

Sono molto rispettosa nei loro confronti, sono ubbidiente, non bevo, mai, non ne ho voglia. Non fumo, mai, non ne ho voglia. Non mento loro, mai, mi strazierebbe il ventre, la testa, il cuore. Non voglio farli soffrire, non voglio contraddirli, non voglio non pensare come loro. Voglio che sappiano fino a che punto li amo. Non devono avere il minimo dubbio al riguardo, in quel periodo sono convinta che se non penso come loro vuol dire che non li amo.

Non ho ancora capito che contraddire, discutere, ascoltare ma non esser d’accordo, rispettare quello che pensa l’altro ma aver voglia di dare la propria opinione, non significa che non si ama.

Dico di rado quello che ho in testa poiché quello che penso è stupido. Non voglio conflitti. Ancora oggi, di fronte a persone che trovo colte, intelligenti, tutte le mie idee restano congelate in me, e gli attimi che impiegano per andare dal cervello

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alla bocca durano troppo, mi sembrano infiniti, e mi lasciano il tempo di concludere che quello che ho da dire è idiota. Dunque resto in silenzio.

Dai e ridai, anche in compagnia di persone che non mi affascinano, non spiego più la mia visione delle cose. Eppure, in questo, le mie idee sono chiare, non c’è nessuna « posta in gioco », nessuno mi intimorisce, ma malgrado tutto scelgo di non dire niente.

Il momento in cui rompo col ragazzo che amo corrisponde all’anno in cui cambio professione.

Entro in un’agenzia artistica in cui lavorerò con due persone. Con la prima mi occupo di attori affermati. Per questa parte del mio mestiere, i registi, direttori di casting o produttori mi fanno domande precise, il mio ruolo consiste nel leggere i copioni con l’attore interessato, negoziare il suo contratto, stipularlo, controllare che le riprese si svolgano come si deve e, in seguito, organizzare la promozione con gli addetti stampa.

La seconda persona diventa una grande amica, io e lei affrontiamo l’altra faccia del lavoro, andiamo incontro ad attori principianti, per i quali abbiamo o meno dei colpi di fulmine al momento dei laboratori di fine anno nei vari corsi di teatro. Decidiamo allora di occuparci di alcuni di loro, di aiutarli a cominciare una carriera. In questo, il mio ruolo è del tutto diverso, sono io che vado verso i produttori o i direttori di casting cercando di persuaderli che tale giovane sarebbe formidabile in tale ruolo. È appassionante.

In questo nuovo ambiente, incontro un uomo più vecchio di me di una ventina d’anni, più intelligente e anche più divertente. Mi giura che di qui a breve avremo una relazione, io sono sicura che non starò mai con lui, glielo dico. Ci metto le mani sul fuoco che si sbaglia, non m’immagino di innamorarmi di lui. In

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capo a sei mesi, non posso più farne a meno. Mai ho riso tanto con un fidanzato. Più mi fa ridere, più sono pazza di lui. Restiamo insieme un anno.

È perché non mi vuole accompagnare al matrimonio di un’amica che qui incontro il mio futuro marito, in una chiesa in Bretagna. Sono subito attratta da lui, rappresenta ciò che i miei amici ritengono non conoscerò mai.

Loro sono ad ogni modo certi che lascerò l’uomo più anziano di me e mi hanno già da molto tempo sposata con il ragazzo che ho amato per sette anni, sono convinti che non continuerò a fare l’agente di attori, ma che finirò per lavorare nel negozio di mia madre, che mi sistemerò vicino ai miei genitori, forse addirittura a casa loro, tanto ne sono dipendente, e che andrò in vacanza solo al Club Med o a Deauville.

Il mio futuro marito è diverso da quelli che mi circondano: non gli piace Deauville, nemmeno il Club Med, non lavorerà coi suoi genitori, del resto non gli piace vederli troppo spesso, né chiamarli tutti i giorni. Ci spostiamo solo in moto, un nuovo pensiero per la mia famiglia, io adoro tutto questo. Gli piace la musica, di ogni genere, ne ascolta dalla mattina alla sera, anch’io ne ascolto moltissima, ma sempre la stessa; con lui scopro un nuovo universo musicale. Mi allontana da coloro con i quali vivo da ventiquattro anni. Mi rende curiosa, mi fa interessare ad argomenti, a settori che non facevano parte delle mia vita fino a quel momento.

La moto non era una preoccupazione per i miei genitori, nemmeno un problema, non hanno dovuto proibirmela poiché non ho mai desiderato averne una. Molto presto, mio cugino ha avuto un incidente che mi ha raggelata. Col mio futuro marito scopro i piaceri dell’aria calda che ci avvolge, tutti i weekend partiamo per la campagna, è un pilota eccellente. Adora la velocità ma guida con prudenza, ho piena fiducia in lui.

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Qualche anno più tardi, un pomeriggio, sulla tangenziale, abbiamo un incidente, scivoliamo su una macchia d’olio. Non monterò mai più su una moto. Nonostante il divieto dei medici, mi reco al matrimonio di uno dei miei più vecchi amici. Resto in piedi tutto il tempo. Il che fa si che debba restare a riposo per più settimane a causa di un edema e che la mia gamba destra assomigli a un Moon Boot. Durante questa festa mi rendo conto di essermi allontanata da quegli amici che credevo essere quelli di tutta una vita. Realizzo che elaborare il lutto di un’amicizia è altrettanto difficile che elaborare il lutto di un amore. Non aver più voglia di condividere tante cose con loro, allontanarmi e confessarmelo, non vivere più quella preziosa complicità mi rende triste. Sto meglio con altri, ho l’impressione di ingannare i miei amici di sempre, di ingannare me, non so proprio più dove sono.

Il mio futuro marito mi propone subito di andare ad abitare da lui, lavora là dove vive, pratica il trompe-l’œil, della pittura decorativa di gruppo. Mi dice: « Sei a casa tua, cambia quello che vuoi ». Gli chiedo di mettere delle porte per separare la sala da pranzo dal salotto, il salotto dal bagno, il bagno dalla camera e la camera dal laboratorio. Laboratorio in cui ci sono sempre molte altre persone. Mi risponde che approva tutto ciò che voglio, eccetto mettere le porte. Viviamo in un solaio, senza porte dunque, mi nascondo perché gli amici con i quali lavora non mi sorprendano appena sveglia.

Ci sposiamo un anno e mezzo dopo, un matrimonio intimo, poiché suo padre è malato e non siamo dello spirito per festeggiare. Morirà due anni più tardi. Quell’anno comincio a consultare una psichiatra, la mia paura della malattia e della morte diventa ossessiva e mi fa cadere in depressione. In quel periodo non so ancora che proverò a cercarmi per più di vent’anni.

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All’inizio temo che il fatto di parlare a questa dottoressa cambi i miei rapporti con certe persone, ma finisco per capire che cerco di accettare chi sono, quello che penso. Non cambio. Nemmeno i miei sentimenti, ne prendo semplicemente atto.

E poi capisco che è tutto senza fine. Risolvo un problema, mi sento meglio e in un attimo solo qualcosa vacilla altrove. È come quando si aggiusta un vestito molto usato: si ricuce, si rinforza, e attorno questo si indebolisce, si consuma. Ho l’impressione che sia la stessa cosa per me, mi devo abituare all’idea che non andrà mai tutto alla perfezione, che ci saranno sempre dei momenti delicati, ma che è sicuramente questa, la vita, per tutti.

Intraprendo dunque questa psicoterapia per ragioni alla fin fine astratte. Non mi è mai successo niente. Ho soltanto paura di perdere quello che ho. Tutto si forma nella mia testa. Con gli anni sono sempre più angosciata, per niente tranquillizzata.

Tre anni dopo il nostro matrimonio in comune, ci sposiamo in sinagoga e questa volta facciamo una gran festa con tutti i nostri amici, le nostre famiglie. È un momento felice e partiamo in viaggio di nozze per l’Andalusia.

Durante i primi sette anni di matrimonio, la domanda che sento più spesso è: « Perché non fate un bambino? C’è qualcosa che non va? Uno di voi due ha un problema? ».

In quel momento né io né lui ne vogliamo. Non è proprio un problema, è piuttosto la gioia di godercela, di lavorare, di viaggiare.

Eppure, una mattina, mi risveglio con il desiderio di avere un bambino, subito, mi domando come possa aver vissuto finora senza provare questa voglia.

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Ci proveremo per circa tre anni.

La voglia si trasforma in ossessione, il piacere in costrizione.

Il cognato di mia zia, che è dunque mio zio acquisito, è specializzato in ginecologia e ostetricia. Lo consulterò perché mi consigli qualcuno che ci potrà aiutare. Decidiamo, di comune accordo, che questa persona sarà lui.

Cominciamo una serie di esami.

È così, è deciso, dobbiamo farci assistere, poiché da soli non ce la facciamo. Mi fanno delle iniezioni quotidiane, si tratta di stimolazioni ormonali. Procediamo a un’inseminazione artificiale, poi bisogna aspettare. Tra qualche settimana farò un test di gravidanza e sapremo come regolarci.

Sono incinta. Il che dimostra che ci serviva soltanto un aiutino.

Vomito, continuo a lavorare, ma più spesso dal bagno che dal mio ufficio. Non amo più il cibo né gli odori che mi piacciono di solito e comincio ad amare ciò che in genere non amo. Il che è normale.

Faccio una prima ecografia con mio zio acquisito per verificare che tutto proceda per il meglio e che il feto stia bene, mio padre mi accompagna la volta in cui lo zio mi comunica che ci sono due feti. Sono un po’ sotto choc. Quando gli do la notizia, mio marito, anche lui, è sbalordito. Il mio zio acquisito ci dice che abbiamo circa otto mesi per abituarci all’idea di avere dei gemelli e che sarà formidabile.

Devo confessare che in quel momento non realizzo bene il lato « formidabile » della cosa.

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Al momento dell’ecografia successiva, scopro che di fatto ci sono tre feti. L’aiuto che ci hanno apportato ha funzionato in maniera sorprendente.

Incinta di due mesi, nello studio di un’altra ecografista, vengo a sapere che aspetto cinque bambini.

Vivo allora la mia prima crisi di « tremori incontrollati »: tutto in me trema. Le mie gambe sono così scosse che perfino il medico non riesce a fermare i loro movimenti.

Molto velocemente, il mio zio acquisito mi spiega che bisognerà procedere a una riduzione embrionale. Cinque bambini è rischioso, il mio bacino è stretto ed era già un po’ preoccupato a tale proposito quando si trattava ancora di due embrioni. Questa riduzione embrionale deve esser praticata quando sarò incinta di poco più di tre mesi, poiché prima non si vedono molto bene i bambini e dopo è troppo rischioso per gli embrioni, indebolisce l’utero e può provocare un aborto spontaneo nelle settimane successive all’intervento.

« Ne lasciamo due, nel caso! ».

Fatto, ne hanno lasciati due, decido di non farmi troppe domande a proposito di quelli che « se ne vanno », di quelli che « restano». In che modo sono stati scelti? Perché quello piuttosto che un altro? Chi sarebbero diventati?

Tutto questo lo lascio da parte e mi concentro sui due bambini che verranno. Dobbiamo fare dei lavori a casa nostra, serve una camera in più per loro. Durante questo periodo mi sistemo a casa di mia suocera, che vive « con l’ora americana »: dorme di giorno e vive la notte.

Passo un mese da favola, il quarto della mia gravidanza. Non ho più la nausea, mi sento bene, non sono ingrassata troppo, aspetto i miei bambini con felicità, un

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po’ di preoccupazione, ma prima di tutto gioia. Ci siamo abituati all’idea di avere dei gemelli, penso perfino che sia straordinario, due alla volta, per noi e soprattutto per loro.

Ma la devo smettere di muovermi! Smetto di lavorare, come i medici me lo chiedono. Si presume che mia suocera mi assista, che non mi faccia portare troppe cose. Siccome dorme quando sono sveglia, alla fin fine me la devo cavare da sola.

Mi piace molto mia suocera, sembra che sia raro e che io sia fortunata, andiamo d’accordo, è molto buffa, anche molto triste da quando suo marito è morto. Non riesce più a vivere come noi, si ritrae poco a poco e resta reclusa nel suo appartamento.

Ritorno in ospedale a fare una cura di cortisone per i polmoni dei bambini. Rischiano di nascere un po’ prima, forse con un mese d’anticipo, bisogna dunque aiutare i loro polmoni a raggiungere una certa maturazione. Mi mettono in una camera con un’altra donna incinta di gemelli che è là per la stessa ragione. Mi accompagna mia madre, va tutto bene, i medici mi mettono la flebo per qualche ora, il giorno dopo ritorno a casa da mia suocera.

È due o tre ore più tardi che ho la spiacevole sensazione di far pipì senza potermi fermare, non capisco, e mia madre, assistendo alla scena, finisce col dirmi: « Credo che ti si stiano rompendo le acque», le rispondo che è impossibile, sono incinta di soli cinque mesi e una settimana. I dottori analizzano il liquido: « Le si stanno rompendo le acque ».

Mi sistemano in una camera da sola, e mio zio acquisito mi spiega che lo scopo è tenermi il più a lungo possibile senza farmi partorire, rischio un’infezione.

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Non mi muovo, ma non cambia niente. Finisco per prenderla, quest’infezione. Una sera, ho la febbre molto alta, chiamano il mio zio acquisito, è l’una di notte. Mi dice che mi devono fare una peridurale, perché partorisca subito, i bambini non devono esser toccati dall’infezione. Il tempo di scendere al blocco operatorio, è troppo tardi, devo partorire in modo naturale. Ho paura.

Mentre attraverso il lungo corridoio che mi conduce al blocco, ho il tempo di immaginare tre parti diversi, sono spaventata, ad ogni modo, in generale, ho paura un po’ di tutto.

Alla fine mi addormentano per praticare un taglio cesareo, poiché i bambini sono in pericolo, bisogna far presto. Ho sempre paura, ma la cosa positiva è che non chiedono più la mia opinione, non devo decidere il modo in cui partorirò, sono obbligata a fare quello che mi dicono.

Sin dall’inizio faccio fatica a immaginarmi diventare mamma, vivo questa gravidanza giorno per giorno, ed ecco, va tutto così veloce, sono molto passiva. Lascio fare, non riesco a pensare che tra poche ore avrò dei bambini.

Sono sopraffatta, è come se la gravidanza mi avesse raddoppiata, io sono dietro. Non partecipo più, sono una spettatrice.

La nascita

Mio marito non ha il diritto di esser presente durante l’intervento. Sono al blocco, sistemano tutto con molta rapidità. Mio zio acquisito mi dice che andrà tutto per il meglio. Mi sento rassicurata.

Quando mi risveglio, ho l’orribile impressione di soffocare, questa sensazione dura parecchio. Mio marito e mio zio acquisito mi parlano, cercano di calmarmi, ma io, io soffoco, e mio zio mi dice: « Avete un maschietto e una femminuccia »,

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il sogno, la fortuna, se avessimo sognato una nascita perfetta non avremmo nemmeno osato pensare a quella.

Respiro.

Mi sento vuota, ancora un’ora fa ero incinta, aspettavo i miei bambini, e poi all’improvviso non ho più visto niente, sentito niente, e tutto a un tratto sono vuota.

Risalgo in camera mia, dove mi aspettano i miei genitori. Mia sorella è al telefono, sarà fuori città per qualche settimana ancora. Le mie cugine lavorano in quest’ospedale e vengono a farmi visita. Ho un forte mal di pancia. La cicatrice del parto cesareo mi fa soffrire, ho a portata di mano una pompa a morfina che posso azionare quando non sopporto più il dolore.

Mio marito è rimasto coi bambini, mi porta delle foto sulle quali c’è stampato « maschio » e « femmina ». È vero che avevamo ancora più di tre mesi per trovare i nomi, non siamo pronti, e soprattutto, non siamo d’accordo. Lui vuole Marie, io vorrei con tutto il cuore Talhula. Mi piacerebbe Zacharie, lui non ha idee.

Vedo i bambini soltanto due giorni dopo, finalmente hanno i loro nomi, mio marito ha scelto quello di nostra figlia e io quello di nostro figlio, siamo d’accordo.

Ci vado in sedia a rotelle, il giorno prima le infermiere hanno pensato che mi sbagliassi quando dicevo loro di provare « una strana sensazione » a livello della cicatrice quando mi alzavo, come se si aprisse daccapo, mi hanno risposto che le giovani madri avevano spesso questa impressione, ma che era importante che non restassi a riposo. Mi sono alzata, mi sono sentita male, mi hanno chiesto di rimettermi a sedere. Hanno guardato sotto la medicazione: la cicatrice era riaperta, del tutto.

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Bisognerà ripulire, curare, controllare la cicatrizzazione. Il che comporterà un mese di ospedale.

Quando vedo i miei bambini per la prima volta, sono sconcertata. Mi hanno avvertito: « Non si vede bene dalle istantanee. ». Un dottore mi ha spiegato che finché non li vedo, non posso immaginare le loro dimensioni. Anche mio marito mi dice che sono davvero molto piccoli, ma per me è una cosa astratta, è un po’ complicato da immaginare. Forse non ne ho voglia.

Scopro dei bimbi piccolissimi, sono esattamente come dei bambini nati a termine, almeno visti dall’esterno. Due mini-braccia, due mini-gambe, due mani così minuscole che faccio fatica a crederci, la falange di una delle mie dita è più grande della loro mano! Mi dicono che posso aprire le incubatrici e accarezzar loro il braccio o la mano. Ho molta paura, resto là, davanti, per ore prima di osare toccarli. Ho paura di sciuparli, di trasmetter loro microbi, sembrano così fragili. All’inizio osservo le infermiere che si occupano di loro, guardo, ascolto, non riesco a rendermi conto che questo mi riguarda. Non riesco a capire che sto diventando mamma. In realtà, non è ancora veramente la mia vita, mi devo abituare, registrare.

Pesano ciascuno settecentosessanta grammi, farò fatica a comprare dei polli o del roast beef per qualche tempo; quando mi comunicano il peso di quello che compro, è sempre più elevato del peso dei miei bambini.

Non arrivano a trenta centimetri, la loro pelle è trasparente, sono rossissimi. Hanno dei berretti in miniatura, dei tubi, uno in bocca, uno nel naso, uno agganciato attorno al piede, pieni di fili che partono dal loro torace. Ognuno è in un’incubatrice. Sono in rianimazione, ci sono dei rumori, per tutto il tempo dei piccoli bip-bip-bip.

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In questa stanza ci sono circa sei bambini, tutti più o meno delle stesse dimensioni, tutti più o meno in salute. Ci sono anche i genitori, tutti in blu – un camice, un berretto, delle scarpe -, tutti con delle mascherine bianche. Anche noi, è la nostra nuova uniforme. I miei genitori sono dietro a un vetro che fa tutto il giro del reparto, possono restare tutto il tempo che vogliono, è una fortuna che ci siano.

Le infermiere ci spiegano quello che fanno, l’utilità di ciascun tubo, perché i bip, il genere di problemi che possono incontrare i bambini. Allo stesso tempo è molto semplice capire, senza tutte quelle macchine non possono vivere.

Mio marito nota che il tubo che hanno nel naso è grosso rispetto alle dimensioni delle loro narici e che le fa ammaccare, essendo diretto verso la parte posteriore dell’incubatrice per essere collegato all’ossigeno. Tutti i giorni esige che i medici raddrizzino i tubi affinché i loro nasi non si sciupino. Io, la prima volta che lo sento fare una tale richiesta, lo prendo per pazzo, trovo che sia un dettaglio rispetto all’importanza del ruolo di quei tubi. Non capisco nemmeno come possa pensare a questo, ma molto presto vedo gli altri bambini, le loro narici che si necrotizzano. Nelle foto che i genitori mandano al reparto dopo esser rientrati a casa, la maggior parte dei bambini ha nasi che avranno bisogno di chirurgia plastica, a tal punto son stati deformati dal tubo di ossigeno. Penso che sia straordinario aver visto questo dettaglio, che in realtà tale non è.

I medici non sanno quanto tempo resteremo, dipende da ogni bambino, senza la macchina collegata al tubo che hanno nel naso non hanno modo di sopravvivere. Hanno cambiato posizione nel corso della giornata per evitare le piaghe, hanno crisi vagali, le infermiere corrono verso di loro, aprono le incubatrici e li toccano per « risvegliarli ». Non si può dire nient’altro, si vive giorno per giorno. In quel momento non ce ne rendiamo conto, la felicità di avere dei bambini prevale. Solo

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man mano, giorno dopo giorno, ci accorgiamo che la cosa durerà, che non rientreremo subito.

Già così piccoli subiscono tutti i giorni delle sedute di fisioterapia respiratoria. Vediamo arrivare un gigante. Ha delle mani che sono due volte più grandi delle dimensioni dei neonati di cui si occupa. Le fa scivolare nelle incubatrici, preme sul loro torace. All’inizio ho paura che li spezzi in due, o che soffochino sotto il peso e la forza delle sue mani.

I miei amici e i miei colleghi vengono a sapere che ho partorito. Non sanno se devono esser contenti per me, non so nemmeno io quello che provo. Più passano i giorni, più ho paura. Non smettono di dirmi che sono fragili, e che bisogna aspettare. Un giorno, poi un altro, una settimana, poi due. Dunque niente regali di nascita, niente fiori, niente visite, ad ogni modo siamo alla fine del mese di luglio, sono tutti in vacanza. Noi dovremmo essere in vacanza.

Poiché sono sempre all’ospedale per questa storia del taglio cesareo, vengo a vederli tutti i pomeriggi, in quanto le mattine sono riservate alle cure. Talvolta mi chiamano nella mia camera per dirmi che uno dei bambini ha un problema, che ha la febbre, che non mangia bene, che ha avuto dei malori, che ha bisogno di più ossigeno del giorno prima, che questo non è normale, mi tengono al corrente di tutto ciò che va, di tutto ciò che non va. Ogni volta ho paura della notizia che mi daranno.

Arrivo verso le quattordici, ritorno in camera mia verso le venti. Finisco per conoscere tutti, sono del resto tutti molto gentili, molto premurosi. La sola cosa un po’ strana è che il reparto di gravidanze ad alto rischio è situato sullo stesso piano del reparto maternità. Ragion per cui, tutti i giorni, vedo arrivare madri che vengono a partorire e a occuparsi del loro neonato, sono felici, i bambini sono

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belli, sono grandi, sono grossi, piangono. Per quanto mi riguarda, i miei non piangono mai, non possono, il tubo che hanno in bocca glielo impedisce.

Mio marito si è rimesso a lavorare, perciò vengo da sola. Allo stesso tempo non mi sento sola, le infermiere sono molto premurose, simpatiche, ci sostengono moltissimo, ci parlano, ci ascoltano. Vado da un’incubatrice all’altra, parlo all’una, attraverso la finestrella, faccio delle carezze alla mano dell’altro. Non smetto di parlar loro, appena c’è un bip ho paura, ma le infermiere mi rassicurano.

E poi i miei genitori sono presenti, comunichiamo attraverso dei vetri, imparo a leggere il labiale. Le mie cugine e mio cugino più stretto vengono appena possono, i miei amici mi chiamano, mio marito mi raggiunge tutte le sere. No, non sono affatto sola.

La psicologa del reparto mi vuole vedere, ha l’aria più triste della mia, mi dico che sta a me tirarle su il morale. Mi spiega che non devo colpevolizzare, che non è colpa mia. Ma io non colpevolizzo affatto, non mi sento per niente colpevole del modo in cui sono andate le cose, mi dico che è così, del resto prima che mi parli di questa colpevolezza, per me, non era proprio un problema. Mai nemmeno mi chiedo: « Perché io? ». È la vita. Perché altri? Perché non noi?

Ho fiducia nei medici, nelle tecniche che utilizzano. Vedo un sacco di bambini uscire dalla rianimazione, li vedo nelle altre stanze, stanno meglio, sono più grandi, i loro genitori hanno il diritto di toccarli, hanno persino la possibilità di partecipare alle varie cure.

L’assenza

Loro, i miei bambini, sono sempre in rianimazione, li operano, mettono loro un « clip » vicino al cuore, partono in ambulanza per Kremlin-Bicêtre, poiché solo lì ci

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sono i chirurghi in grado di operare bambini così piccoli. Temo il peggio, aspetto il loro ritorno con mio marito, tardano a rientrare, le infermiere non sanno niente. Quando finalmente ritornano, è andato tutto bene, li sistemano di nuovo nel solito posto in rianimazione, hanno delle grosse medicazioni che vanno dal centro della schiena fino al centro del torace. Quello che sopporto meno è quando levano loro il tubo che li aiuta a respirare il tempo di rimetterli nelle incubatrici, temo che soffochino.

Tutto riprende il suo corso normale. Se mi avessero detto che un giorno avrei trovato « normale » e « rassicurante » il fatto di avere i miei figli in rianimazione neonatale!

Sono sempre in ospedale. Vengo in rianimazione verso le quattordici, resto fino alle venti, ventuno, ventidue, faccio sempre più fatica ad andarmene la sera. Una mattina, quando arrivo al reparto, vedo soltanto mia figlia. Mio figlio ha cambiato stanza. Non so perché, ma va bene così, il luogo in cui l’hanno sistemato è più piccolo, con meno neonati, le infermiere non mi spiegano questo cambiamento, ma io so che è buon segno. Passo da una stanza all’altra, da un bambino all’altro, racconto loro di continuo delle cose e loro mi ascoltano.

La settimana successiva, quando vado a trovare mio figlio, trovo che ha uno strano colorito, chiedo spiegazioni ma non mi dicono niente. Chiamo mio marito per renderlo partecipe della mia preoccupazione, mi dice di parlarne ai medici, ci ritorno, chiedo di nuovo spiegazioni, di nuovo mi rispondono che va tutto bene, senza nemmeno guardarmi negli occhi, penso di essere paranoica, cerco di calmarmi e di ragionare.

La sera, quando mio marito mi raggiunge, i medici ci spiegano « finalmente » che nostro figlio non sta bene, ha un’emorragia cerebrale. Possono dircelo soltanto quando siamo tutti e due. Rischia di rimanere gravemente paralizzato.

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Rientriamo nella mia camera in maternità. Due ore dopo ci fanno ritornare in neonatalità.

Quando arriviamo, ci comunicano che il nostro bambino è morto.

Mai ho provato un dolore come quello. Credo di aver pianto per tre settimane consecutive. Sono così triste che non posso più fare niente, né mangiare, né parlare. Faccio fatica a occuparmi della mia bambina, mio marito e io siamo distrutti. Ci propongono di vederlo, mio marito rifiuta, ma io voglio. Ci portano in una stanza e un’infermiera entra col nostro bambino tra le braccia, è già tutto bianco, non ha più colori, e non me lo aspettavo, pensavo sarebbe stato come la mattina stessa. Propone di lasciarcelo un momento, ma non ce la facciamo. Ce l’ho con me stessa per aver quasi costretto mio marito a vedere il nostro bambino, ma non avrei potuto fare in altro modo, altrimenti l’avrei rimpianto per tutta la vita.

Con molta rapidità mi obbligo a pensare alle persone che perdono un bambino con il quale sono rientrate a casa, con il quale hanno vissuto qualche mese o qualche anno.

Quello che ci succede è triste, ma è pensando al peggio che mi sforzo di tirarmi fuori da questo profondo stato di disperazione. Funziona, provo un dolore, un dispiacere immensi, ma mi posso concentrare sulla mia bambina. Purtroppo di decessi ce ne sono in questo reparto, talvolta si tratta di un bambino che non ha fratello o sorella, i genitori hanno solo quel figlio, oppure vediamo entrare un « un bambinone » di pochi mesi o anche di un anno che ha dei problemi improvvisi e che muore nel reparto. Non ho il diritto lamentarmi.

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È per telefono che comunico a mia sorella la morte del mio bambino. È sempre fuori città per lavoro, non può rientrare, non può più nemmeno lavorare, è abbattuta, e dal momento che è lontana, è peggio. Sono impaziente che rientri. Sarà mio padre a occuparsi di tutta l’organizzazione del funerale del nostro piccolissimo bambino.

Di fatto, gli altri non conoscono i nostri figli, sono in vacanza, è normale, rientreranno solo qualche settimana dopo. Per loro, i nostri figli non esistono, non li hanno visti, non si rendono nemmeno conto della loro nascita, anche questo è normale, finché non si è visto un neonato, questa resta una cosa del tutto astratta, soprattutto quando nasce tre mesi e mezzo prima del tempo. Subito dopo la morte del nostro bambino, farò fatica a restare a lungo con mia figlia, me ne scuso con lei, le spiego che sono triste. Man mano ricomincio a venire di più, poi come prima. La paura che provo per lei mi cura della tristezza che sento per lui. Lei è fragile, non sta bene, non penso a nient’altro che a questo.

Una cosa è evidente: non sono mai stata così esile, tutti mi trovano magra, è la primissima volta in vita mia!

In capo a un mese ritorno a casa mia, ossia a casa dei miei genitori, che mi accolgono finché i lavori della camera dei bambini non siano terminati. È meglio così, quando rientro la sera sto con loro, parliamo, ridiamo, mi tirano su di morale. Mio marito lavora all’estero, la mattina me vado da sola o altrimenti mio cugino, che è in vacanza in campagna, viene a Parigi per accompagnarmi all’ospedale. È generoso da parte sua, non me ne capacito ancora quattordici anni dopo.

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Mia figlia resta tre mesi in cure intensive nel reparto di rianimazione. Vedo sfilare decine di bambini, subisce parecchie operazioni, i suoi problemi respiratori si aggravano, ha una discesa di organi ( pensavo che questo potesse succedere soltanto alle donne anziane ). Fa molte radiografie, risonanze magnetiche. Tutte le macchine vengono da lei in rianimazione, tavole per radiografie ambulatorie, per ecografie. Quante cose girano su rotelle, è pazzesco!

Parto da casa ogni mattina verso le undici e rientro verso le ventitre. Sono « fuori dal mondo ». Vivo in questo universo ospedaliero; anche i medici, quando parlano di medicinali che si possono trovare in una farmacia a Parigi, precisano « in città »: « Quando sarà in città, porterà questo o quest’altro prodotto », vivo fuori città, vivo in un altro paese.

È un paese in cui gli odori non sono gli stessi, nemmeno le luci, le persone sono diverse, nel loro modo di parlare, di guardarvi, il cibo qui è diverso, la nozione del tempo ci è sconosciuta. Laggiù, quando vi dicono: « Vi veniamo a trovare tra un’ora per parlare del vostro bambino », sapete benissimo che aspetterete tutto il giorno, forse anche di più.

Quando sono a casa la mattina, penso solo a una cosa, essere all’ospedale, non riesco a godermi la mia casa, la felicità di essere a casa mia, veloce, bisogna che vada, la strada che mi separa dall’ospedale mi sembra essere la più lunga che abbia mai preso, solo quando sono all’ospedale sto bene, perché sono con la mia bambina. Assisto a tutto quello che fanno i medici. Alcune infermiere sono diventate mie amiche, mi raccontano la loro vita, io racconto loro la mia, ci aiutiamo, ci scambiamo consigli, cominciamo perfino a ridere talvolta. Quando mia figlia non sta bene, loro mi rassicurano, loro sanno parlarmi.

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Il telefono diventa fonte d’angoscia, per mesi, quando suona, mi prende lo stomaco, la maggior parte del tempo è per annunciarci una brutta notizia: « È appena partita in ambulanza, non si poteva aspettare che foste presenti, era troppo urgente, ha avuto una complicazione durante la notte, dobbiamo operarla subito, vi teniamo al corrente … », e a partire da questo momento, bisogna avere pazienza, restare calmi. Andare all’ospedale non serve a niente, ce l’hanno detto. Speriamo nell’altra telefonata, quella che ci dirà che è andato tutto bene, che lei sta bene.

Il telefono.

I nostri amici non pensano per forza a tutti questi dettagli, talvolta vogliono solo sapere come stiamo, chiamano verso le nove del mattino o verso mezzanotte perché sanno che rientriamo tardi, e questo, prima di sapere che è qualcuno con cui abbiamo voglia di parlare, ci fa pensare al peggio.

La mattina, quando ci svegliamo, siamo felici di non aver ricevuto chiamate durante la notte, è buon segno. Il telefono rimarrà a lungo una cicatrice di questo periodo. Quando suonerà, sarò preoccupata. Avrò sempre paura che mi diano la notizia di un fatto orribile, anche se è la voce di qualcuno che conosco molto bene resto spaventata all’idea che gli sia successo qualcosa di atroce.

Nostra figlia va di stanza in stanza. Prima, dunque, le cure intensive, è in quel momento che abbiamo il diritto di prenderla in braccio per la primissima volta. Ha già qualche settimana quando me lo propongono, ma non accetterò. La seconda volta, sono d’accordo, ma ho l’ossessione che le levino l’ossigeno il tempo di farla uscire dall’incubatrice, per poco svengo. Mi siedo, me la mettono tra le braccia, è così piccola. Le sistemano di nuovo i tubi e può restare con me per un po’.

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Tutte le prime volte saranno difficili, ma dopo, quando la paura dell’ignoto è passata, diventa un piacere.

In seguito, andrà in una stanza più tranquilla per un mese, è là che una mattina passo davanti alla sua incubatrice. Siccome non la riconosco, proseguo. Non posso nemmeno immaginare che si tratta di mia figlia nella sua camera quando la oltrepasso. Siccome non la trovo da nessuna parte, ritorno verso la sala nella quale è di solito. Non l’avevano ancora mai vestita. Piango di gioia, è in rosso dalla testa ai piedi, una camicetta, una salopette piccolissima, dei calzini, è vestita con i vestiti della bambola Corolle, non esiste nient’altro di abbastanza piccolo. L’indomani vado in un grande magazzino, al reparto bambole le compro il suo primo completino! In seguito spenderò molti soldi per vestitini. Quando finalmente posso portarli a casa per lavarli, li trasformo in cartone sbagliando programma di lavaggio, piango come se avessi rovinato mia figlia.

Poi un’altra stanza in cui mi ricordo della luminosità, del calore del sole; siamo sole, nessun’altro bambino, nessun’altro genitore, le persone ci vengono a vedere dietro il « nostro » vetro, è più intimo.

Alla fine, l’ultimo mese, nella stanza su cui tutti noi fantastichiamo, poiché quando ci entrano i nostri bambini è perché escano al più presto. I medici la chiamano « la casa », si potrebbe quasi cominciare a dimenticare che nostra figlia è in rianimazione. È « peace and love » rispetto al resto, portiamo persino della musica, è tutto più tranquillo qui, nostra figlia sta molto meglio, è tratta d’impiccio, possiamo farle il bagno. Per questo bisogna toglierle l’ossigeno un attimo, è angosciante perché adesso siamo noi a farlo.

Il primo bagno che le faccio è agitato tanto tremo, per fortuna le mie amiche infermiere mi aiutano.

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Una volta alla « casa », i miei genitori sono autorizzati a vederla « per davvero », si vestono di blu, entrano in una stanza speciale in cui gliela portano, con la sua bottiglietta d’ossigeno. Non smettono di sorridere, la prendono in braccio a turno, sono cinque mesi che la vedono tutti i giorni attraverso un vetro, finalmente la toccano, mio padre dice solo cose che ci fanno ridere. Sono dei veri momenti di felicità.

Poco a poco, mi sento meglio. Ho voglia di aiutare gli altri genitori, quelli che arrivano. Parliamo molto. La sera posso uscire, andare a cena con amici, sono sempre più di ritorno nella vita reale.

Il ritorno

Presto la possiamo prendere per un weekend, è straordinario ma spaventoso. Ci preparano, ci spiegano come occuparci di lei, come darle le medicine, come controllare l’ossigeno. Più precisano le cose, più il tutto diventa concreto, più sono preoccupata. Questo mi toglie quasi la felicità di avere mia figlia a casa per la prima volta. Ha presto sei mesi e io sono così abituata a essere aiutata che vorrei che le infermiere ci accompagnassero.

Soltanto l’idea di uscire dall’ospedale in pieno mese di gennaio mi stressa, fa un freddo cane.

Mi angoscia la temperatura, la macchina, le scale, che l’ossigeno non funzioni, che lei soffochi a casa, che io non sappia darle le medicine che non esistono per lattanti, che sono in compresse e che devono esser ridotte in polvere prima di metterle nel latte.

La sera, i miei genitori e mia sorella la prendono in braccio, la coccolano, le parlano.

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L’indomani, quando è andato tutto bene e bisogna riaccompagnarla all’ospedale, ho anche paura, paura che non ce la ridiano il weekend successivo, non ho voglia di ritornarci e allo stesso tempo sono super rassicurata che mi dicano che sta bene, che non abbiamo fatto sciocchezze, che abbiamo fatto tutto come si deve. Abbiamo fatto tutto come si deve, lei sta bene. Noi non abbiamo dormito, abbiamo ascoltato per tutta la notte se piangeva, ma lei ha dormito senza svegliarsi, allora io ho creduto che fosse soffocata, perciò non ho dormito, e non ho osato andarla a vedere per paura di svegliarla, casomai non fosse soffocata ma stesse solo dormendo … Ecco, ora è l’inizio delle mie nuove angosce, quelle che non conoscevo, quelle che non riguardano la « mia piccola persona », potrei prendermi una pausa, ma no, è peggio, angosciarsi per la propria bambina è molto peggio che angosciarsi per sé, e questo, se me l’avessero detto non c’avrei creduto. In più, quello che ancora non so, è che quell’angoscia è esponenziale. Possiamo prenderla tutti i weekend, dura poche settimane, e per i suoi sei mesi, quando invece ha le dimensioni e il peso di un bambino di tre mesi che sarebbe un po’ piccolo e un po’ leggero, fine febbraio, abbiamo il permesso di tornare. Sono molto triste, davvero molto triste di lasciare tutta l’équipe che si è occupata di nostra figlia. Aver vissuto sei mesi con queste persone non è cosa da poco! Son lunghi sei mesi, nel momento in cui si vivono. Ci siamo attaccati gli uni agli altri, in circostanze particolari, ma che hanno forse reso forti questi legami.

Sono triste anche di lasciare l’unico luogo in cui abbiamo vissuto alcuni momenti con il nostro bambino; lasciare questo posto significa lasciarlo per sempre.

Qui ci sono le persone che lo conoscono, che l’hanno curato, che hanno cercato di salvarlo. Le persone con le quali posso parlare di lui. All’ospedale, anche se per poco tempo, lui ha vissuto. Fuori, a parte i miei genitori, mia sorella e i pochi amici che sono venuti, il mio bambino è solo un’astrazione. Forse è meglio, forse

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questo renderà le cose più facili per elaborare il lutto. Forse non mi faranno troppe domande. Non ne dovrò parlare troppo spesso.

In questi sei mesi, le persone che mi fanno visita non sono necessariamente quelle che mi aspetto, e quelle che non vedo mi sorprendono per la loro assenza. Mi ricordo di un’amica che mi disse: « Verrei volentieri, ma detesto l’odore dell’ospedale ». Una persona che vedo pochissimo a quel tempo viene in compenso tutte le settimane, e mia figlia inizia a esistere agli occhi degli altri attraverso quello che questa donna racconta loro. Da allora è la mia migliore amica, sono quindici anni che non ci lasciamo più, è la « quasi madrina » di mia figlia.

Non chiedo a nessuno di venire, quelli che vogliono, vengono, agli altri, non serbo rancore. Non so che cosa avrei fatto al posto loro. E a partire dal momento in cui bisogna chiedere a qualcuno di venire, il suo arrivo non provoca affatto lo stesso piacere.

Quando ero molto giovane pensavo che gli incontri fatti durante l’infanzia sarebbero stati gli unici di tutta una vita. Da molto tempo, ormai, ho capito che è tutt’altro che così e che l’affetto che nasce quando si invecchia è veramente scelto, si decide o meno di continuare una relazione, il che la rende forte, profonda. Queste amicizie che nascono più tardi sono magnifiche, mi appagano. Si torna, dunque, i medici ci rispiegano tutto, insistono sul modo di dare a nostra figlia le medicine, di controllarle ossigeno, e puntualizzano quello che possiamo fare con lei.

Ci proibiscono di fare spese o di andare a casa di amici con lei, di ricevere bambini a casa nostra, niente bambini, niente persone con il minimo lieve raffreddore, nessuno deve fumare. È molto simpatico come modo di presentare la propria bambina ad amici e famiglia per la prima volta. Nessuno può di

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toccarla, tutti sono angosciati di avere il naso che cola, o di tossire. E poi soprattutto, nessun luogo pubblico, si può solo portarla a passeggiare fuori, se non è umido.

Ci forniscono tutto il materiale per poter andare in giro con l’ossigeno, e a casa ci attende un’enorme bottiglia, abbastanza ossigeno per un mese, ci danno anche un tubo che va dalla bottiglia al suo nasino, lungo quanto basta per deambulare in tutto l’appartamento.

Tutte queste spiegazioni mi danno sicurezza, ma come è ovvio mi fanno paura, mi dico che non ce la farò mai, ed è escluso di riportarla l’indomani, i medici non ci saranno per controllare, per aiutarmi. Devo essere all’altezza. Mio marito deve essere all’altezza, mi rassicura.

Ci comunicano i risultati degli ultimi esami: avrà bisogno di ossigeno per parecchio, le conseguenze più grandi riguardano i problemi respiratori, solo grazie alle risonanze magnetiche si distinguono due piccole cicatrici a livello del cervello, che mostrano che camminerà forse un po’ sulla punta dei piedi, ma davvero, sono contenti, va tutto bene, bisognerà vederli una volta al mese, fino al suo primo anno di vita.

I medici ci consigliano lo stesso di parlare il prima possibile a nostra figlia del suo fratellino. Ci dicono che dobbiamo mettere delle parole sulla sua assenza, spiegarle come è successo che sia morto.

Glielo spiego come posso.

Le dico: « Il tuo fratellino è morto » e appendo sopra il suo letto un quadro che rappresenta un angelo che veglia su di lei. Riesco a riparlarne con mia figlia solo quando ha tre anni e, seduta sul sedile posteriore della macchina, mi domanda se vedo il suo fratellino accanto a lei! Freno, mollo il volante sentendo quella

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domanda. Le rispondo di no, non lo vedo, ma se vuole che lui sia con lei, io capisco. A partire da quel giorno e per parecchi mesi, devo abituarmi all’idea che mia figlia condivide tutto col suo fratellino. Lui è con lei ogni istante, a letto, a tavola, ovunque.

È straordinario essere a casa, è spaventoso ma rilassante. Resto con mia figlia i primi sei mesi, poiché finché è sotto ossigeno non vogliamo affidarla a nessuno. Durante quei sei mesi, mio marito, lui, lavora di nuovo. Noi organizziamo la nostra piccola vita, la maggior parte del tempo siamo tranquille, talvolta usciamo a passeggiare. I nostri amici ci vengono a trovare, non sono raffreddati, non fumano e non hanno bambini, o in ogni caso, non li portano.

Un’assistente sociale viene una volta al mese per controllare lo sviluppo di nostra figlia e assicurarsi che non abbiamo bisogno né d’aiuto, né di consigli, ma va bene, ce la caviamo.

Quando ha un anno, organizzo una grande festa, ci sono tutte le persone che ci hanno aiutato in quell’anno, tutti quelli con cui abbiamo condiviso quei mesi particolari. Festeggiamo il suo primo compleanno, ma anche la sua nascita e il fatto che stia bene, e anche Natale, quello precedente, che non avranno osato festeggiare.

Decido anche di tornare al lavoro, anche se mio marito non è d’accordo. Una ragazza viene a prendersi cura di nostra figlia, ed eccomi in ufficio. Ci ritrovo la mia amica e un sacco di persone a cui voglio molto bene, e fa bene questo ritorno alla vita reale. Occuparmi degli altri, riparlare finalmente a tutti quegli attori che hanno richieste continue, i loro desideri di evocare copioni che leggono, i lungometraggi che hanno accettato, le trasmissioni che non vogliono fare, le interviste che desidererebbero rilasciare, ritornare a teatro di tanto in

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tanto, prima di rientrare, o alle prime dei film che hanno girato. Organizzo di nuovo la giornata degli altri, non penso più alle mie.

Quando mia figlia ha poco più di un anno, l’assistente sociale ci chiede di sistemarla sul suo tappeto dei giochi. Resta qualche ora con noi, osserva nostra figlia e, a fine pomeriggio, ci dice di trovare un po’ strano il fatto che non si arrampichi, che non riesca a sedersi, che non controlli la testa, che non possa passare dalla pancia alla schiena e viceversa, e che non sempre afferri gli oggetti che le tendiamo. Questo non è il suo ruolo, ma sarà la prima persona a osare confessarci il proprio stupore.

Quando ci parla della sua preoccupazione, penso di sapere già tutto quello che ci spiega, non me lo sono mai veramente confessato, anche mio marito lo sa, ma non ne parliamo. Ripensiamo alle preoccupazioni dei nostri genitori, e in particolare dei miei quando si occupano di nostra figlia, le allusioni qua e là: « Credi che sia normale? Quando la metto a sedere, la testa le pende dallo stesso lato ». L’assistente sociale ci prende un appuntamento in un posto che si chiama Camsp, Centro d’azione medico-sociale precoce. Ci andiamo la settimana seguente per incontrare una donna che si occupa di bambini nati molto prematuri.

Arriviamo al boulevard Brune, nell’ufficio della dottoressa del Camps; ho subito una gran fiducia in lei. Parla a nostra figlia guardandola dritta negli occhi e ci dice che la trova viva, sorridente e molto attenta. Le farà fare un sacco di esercizi, le chiede di muovere questa o quest’altra parte del corpo, la mette in diverse posizioni e pretende da lei certi movimenti. Mio marito e io siamo spettatori, non cogliamo tutto, e soprattutto non quello che lei sta per capire. Sono in molte attorno a nostra figlia, ci sono dei fisioterapisti e una segretaria che trascrive tutto quello che nota la dottoressa. Alla fine della seduta sistema nostra figlia in

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un angolo della stanza, su un tappeto, circondata da giochi. Si siede davanti a noi e ci spiega che dopo tutti questi esami può comunicarci che nostra figlia soffre di un grave ritardo motorio. Non ha nemmeno le capacità di un bambino di sei mesi. Non sa ancora se potrà recuperare questo ritardo. Adesso bisognerà venire tre volte a settimana perché faccia delle sedute con dei fisioterapisti, ergoterapeuti, psicomotricisti.

OK, verremo. Insomma, verrò.

Mio marito lavora. Io chiedo sempre più spesso giorni liberi, sono in ufficio solo quattro giorni a settimana. Il mio capo è molto comprensivo, mi concede tutte le assenze di cui ho bisogno. Organizzo la maggior parte degli appuntamenti il giorno in cui non lavoro, ma ogni mese faccio sempre più fatica a gestire le mie due attività. Mio padre porta alle sedute mia figlia una volta a settimana, queste si svolgono al meglio, sono molto ludiche. La fisioterapista è la persona che mia figlia vede più spesso, le piace molto e ha sempre l’aria felice di rivederla. Si applica per fare al meglio i movimenti richiesti.

È anche in quel periodo che nostra figlia comincia a mangiare meno bene. Non capiamo perché, ha fame, ma in pratica non mangia più e quando finisce un pasto, vomita.

Raddoppiamo d’ingegnosità per interessarla al cibo. Per esempio, mentre le allungo la forchetta, mio marito fa della musica oppure straccia dei fogli di carta perché il rumore la diverte e, in quel momento, non pensa a quello che ingoia. Questo non le impedisce di vomitare dopo il pasto.

Al Camsp, la sua fisioterapista ci consiglia un reparto all’ospedale Saint-Vincent-de-Paul. Ci passiamo una giornata intera, mio marito ci lascia qui una mattina molto presto. Mia figlia è sottoposta ad alcuni test per sapere se ha qualche allergia. All’inizio della serata veniamo a sapere che ne ha. Ha un’allergia al

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lattosio rarissima a quell’età. È complicato trovare alimenti senza lattosio, poiché ce n’è in pratica ovunque, ma passerà, non sembra grave.

In compenso, faccio molta fatica a sopportare questo momento all’ospedale, è la giornata di troppo. Sono pochi mesi che siamo usciti dalla rianimazione neonatale e credo di non esser programmata per sopportare questo piccolo evento in più. Quelle poche ore mi fanno cadere in una profonda angoscia. Sono da sola con mia figlia che non smette di vomitare. Siamo nella stessa camera di un bambino gravemente disabile, non riesce a parlare, lui e i suoi genitori non possono comunicare, il che mi rende triste. La mattina, mentre arrivo, mi accorgo che non ho pensato ai documenti importanti. Devo lasciare mia figlia e tornare a cercarli. Davanti alla porta di casa mi rendo conto di non avere le chiavi, sono rimaste nella mia borsa in ospedale. La tata di mia figlia non risponde quando suono. Sono in lacrime. Non sopporto l’idea che mia figlia sia sola. Suono di nuovo. Nessuno sente. Telefono a mia madre perché raggiunga mia figlia in attesa del mio ritorno, ed è quello che fa. La cosa mi rassicura. So che non sono ragionevole, che va tutto bene, che mia figlia sta bene, ma non so perché sono angosciata, ho l’impressione che tutto sia grave, che non vada più niente.

Finiscono per aprirmi. Prendo i documenti e torno subito in ospedale. Ho caldo. Ho gli occhi gonfi e rossi, genere mixomatosi, ho pianto troppo. Pago le cure. Raggiungo mia figlia, che è tranquillissima con mia madre. Ridono, si raccontano storie, passano un momento piacevole. Lasciamo alla fine questo posto per andare a casa. È assurdo ma farò molta più fatica a riprendermi da questa giornata rispetto ai precedenti sei mesi di ospedale!

Possiamo smettere con l’ossigeno, il medico che segue nostra figlia all’ospedale trova che ce la faccia perfettamente da sola, smettiamo anche con la fisioterapia

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respiratoria che facciamo una volta a settimana. Da questo punto di vista, c’è senza dubbio un miglioramento.

Quando nostra figlia ha circa due anni, rivediamo la dottoressa del Camsp. Grazie a tutti i dati di cui dispone, adesso può dirci che nostra figlia soffre di complicazioni motorie. Abbiamo anche noi qualche elemento per intuire che qualcosa non va. Alla sua età sta ancora nel passeggino perché non cammina, non sta seduta, la testa le pende sempre. In compenso afferra sempre meglio, parla molto bene, davvero molto bene per la sua età.

Ha delle gravi complicazioni, non di quelle che miglioreranno. Eppure fa progressi, potrà di sicuro camminare con l’aiuto di stampelle, o di un deambulatore, alla fine è un po’ presto per dire le cose con precisione, si possono avere belle sorprese. Questa donna in cui ho totale fiducia aggiunge: « Vostra figlia ha un handicap motorio. »

Credo, in quel preciso momento, di non rendermi conto di quello che mi dicono, non capisco tutto. Non faccio domande. Sono triste per mia figlia, che è così gioiosa. Non ci credo, mi dico che non si può sapere ancora, che si vedrà in seguito.

È così che penserò per parecchi anni. Mio marito, lui, sta male. Sta male durante l’appuntamento. Sta male dopo, pensa al futuro, a quando lei sarà grande. Non reagiamo per niente allo stesso modo, meglio così, saremo complementari, ci aiuteremo, ci sosterremo, alla fine questo è quello che vorrei, perché in realtà ce l’ha con me per non essere come lui, per non pensarla allo stesso modo, mi trova irragionevole, incosciente. Pensa che non capisca. Ha ragione. Non ne ho voglia. Mia figlia mi rende felice, è allegra, ride, è buffa e a me, questo mi basta. È coraggiosa, sempre d’accordo quando le chiedono di fare degli sforzi, degli

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esercizi. Come mi dà forza, ne ho a mia volta da darne a lei … È un vero scambio. Vivo giorno per giorno.

Mio marito è triste. Per prima cosa è triste che il suo bambino sia morto, ne abbiamo parlato pochissimo io e lui. Eravamo così addolorati, e poi dopo ci sono stati i problemi di nostra figlia. Siamo stati molto coinvolti moralmente, ognuno occupato per conto proprio a cercare di star meglio, a tentare di vivere questo periodo nel miglior modo possibile.

Poi è triste che sua figlia sia disabile, non capisce come sia potuto accadere, come questa gravidanza si sia potuta trasformare in un incubo. Io mi dico: « È la vita, bisogna solo accontentarsi e fare al meglio », mi dice: « Avresti dovuto riposare di più, non ti saresti dovuta muovere così tanto.» Non capisce nemmeno come possa aver voglia di uscire, di vedere amici, come possa vivere dei momenti di felicità. Ce l’ha con me. Io sto bene, non ci penso più di tanto, ed è vero che in quel momento non comprendo il suo malessere.

Non colpevolizzo. Mai! Non so perché ma non mi sento responsabile di quello che è accaduto. So, per aver parlato con molte mamme all’ospedale, che la maggior parte colpevolizza. Talvolta penso che non sono normale, che non ho cuore, che qualcosa in me non va.

Mio marito comincia a spiegarmi che è tutta colpa mia, io so che non è così, mi piacerebbe proprio essere responsabile se questo potesse sollevarlo, ma dentro di me, so che non lo sono. Mi dice: « Avere un bambino handicappato non è un problema per te, tu sei sempre stata attratta dalle persone diverse, ti hanno sempre interessata, per me, non era così prima della nascita di nostra figlia. » Non ha tutti i torti, ma da lì ad avere una figlia disabile, non è mai stato il mio sogno.

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I primi tre anni di mia figlia saranno paradossali, comincio a dubitare di me come madre, ma allo stesso tempo viviamo, tutto sommato, normalmente. Finché nostra figlia è piccola, non possiamo immaginare che sia disabile, è minuscola, ha tutte le ragioni per stare nel passeggino, nessuno sguardo esterno ci rimanda al fatto che non è come gli altri. Sorride sempre, ci dà molta gioia. In quel periodo, soltanto noi o la nostra cerchia ristretta sappiamo che non cammina. Usciamo, vediamo i nostri amici, siamo tutti i weekend in famiglia con mia madre, mio padre, con mia sorella e suo marito, che ci comunicano che aspettano un bambino.

Ciò che accentuerà la percezione dell’handicap di nostra figlia rispetto agli altri sono i giardinetti pubblici, odio i giardinetti pubblici molto presto, ci vado perché mia figlia possa giocare con altri bambini, ma capisco in fretta che sarà complicato. I genitori che sento parlare tra loro trovano che non la mollo, che non la faccio sbocciare, che sono una chioccia, mi esasperano! Non sanno che se la mollo lei cade, che se non ha la schiena appoggiata alle mie gambe quando è a sedere sulla sabbia, anche lì, cade. Allo stesso tempo non ho affatto voglia di spiegare una cosa qualsiasi, non voglio parlare con loro.

Quello che succede tra me e mio marito non è bello, ma quello che succede tra noi e gli altri è tutto sommato piacevole. È come se avessimo resistito insieme tutto il tempo che nostra figlia ha trascorso in ospedale e che, quando alla fine avremmo potuto essere tranquillizzati, malgrado certe notizie che la riguardavano, ci siamo lasciati andare, senza pensare all’altro, diventando egoisti, per esser forti dobbiamo essere soli, ciascuno dalla propria parte.

Non siamo più una coppia che affronta una difficoltà, siamo due personalità del tutto differenti che non hanno più la pazienza di sopportare il punto di vista dell’altro. Pensa solo al modo in cui faccio male questa o quell’altra cosa, e io

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penso a quello che non fa e che sono obbligata a fare. Il suo unico scopo è che sua figlia un giorno cammini. Il mio che sia felice anche seduta. Non dico che il mio modo di pensare sia migliore, né che il suo vada meglio del mio, mi arrendo solo all’evidenza, ci allontaniamo.

Mio padre mi aiuta sempre di più, solo con la sua presenza, il suo carattere, il suo humour.

I miei genitori prendono spesso mia figlia, questo ci permette di ritrovarci un po’, di sentirci sollevati il tempo di un weekend. Sono gli unici da cui va a dormire durante i suoi primi tre anni.

Nell’estate del 1999 la portano con loro una settimana, alla fine abbiamo l’impressione di vivere come i nostri amici, possiamo raccontare che nostra figlia è in vacanza dai nonni, una cosa normale.

Quando ritornano i miei genitori sono molto stanchi, soprattutto mio padre a dire il vero, mia madre non capisce perché lo sia fino a quel punto, fa delle analisi perché la stanchezza persiste e lo abbatte.

Il giorno in cui riceve i risultati lo chiamo, gli chiedo: « Allora?», mi risponde: « Non è niente! » Il naso mi inizia a sanguinare in modo brutale, senza fermarsi. Ha la leucemia.

Va in ospedale, in un reparto di ematologia. Lo sistemano in una camera sterile per un lungo mese. Mia madre viene tutti i giorni e siccome mio padre ha diritto solo a due visite al giorno, mia sorella e io ci andiamo solo due volte alla settimana. Mio marito, quello di mia sorella e il cognato di mia madre sono le uniche persone che vuole vedere a parte noi.

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