• Non ci sono risultati.

3. Attualità come tempo e come spazio.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "3. Attualità come tempo e come spazio."

Copied!
17
0
0

Testo completo

(1)

3. Attualità come tempo e come spazio.

Il punto di vista sotterraneo proietta luce sulla superficie.

István Rév, 2005

1.

Il silenzio dei documenti sulla fase iniziale della storia della collana rappresenta, tra i tanti svantaggi, almeno un vantaggio per la nostra conoscenza: esso ci costringe a vedere la collana per quello che è e non per quello che avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dei suoi ideatori. In questa prospettiva, la collana appare ai nostri occhi come uno spazio vuoto, una cornice dai contorni indefiniti e flessibili che si riempie negli anni di titoli, autori, testi, documenti, di linee di interpretazione del mondo che sono il frutto di scelte e di rifiuti che dovremo tentare di comprendere e di giustificare.

Il primo anno di pubblicazioni della collana si chiudeva con tre libri che parlavano, in modo molto diverso, del ’56 e dell’Ungheria: l’unità di fondo si declinava nella varietà dei punti di vista da cui l’argomento veniva guardato. Tuttavia, questa varietà si rivela non sufficiente a salvare l’attività della casa editrice da un sospetto di mancanza di inventiva e di coraggio: se nel ’57 due libri come quelli di Giolitti e di Longo avevano ottenuto una grande eco presso l’opinione pubblica e intellettuale del paese, diventando fonte di dibattito e confronto politico, perché nei mesi successivi anziché procedere nella direzione imboccata si tornava indietro proponendo testimonianze interessanti ma tutto sommato poco incisive, poco attuali? Il ritorno alla questione ungherese è la spia di una crisi del progetto della collana che Solmi da Francoforte coglie: «vedo (e non c’è da stupirsene) che la collana dei Corpuscoli, nata postuma come tutta la

(2)

revisione post staliniana, sta entrando in difficoltà.»1Ancora una volta la casa

editrice arretrava di fronte al confronto diretto con le questioni, non soltanto politiche, del presente italiano.

Il successo del libro di Fossati era stato decretato, oltre che dal valore dell’opera, dalla tempestività della sua pubblicazione: era la cronaca in presa diretta di ciò che era avvenuto a Budapest pochi mesi prima: un racconto asciutto ed efficace degli eventi che, pubblicato in volume, veniva arricchito da uno breve testo attraverso cui Fossati si riproponeva di chiarire « come si è giunti alla tragedia d’Ungheria»: la scelta di integrare materiale già pubblicato in quotidiani o riviste e parti inedite, che hanno la funzione non solo di arricchire l’argomentazione ma anche di raggiungere il numero di pagine minimo per confezionare un libro, verrà adottata, come vedremo, per diversi altri volumi della collana.

Fossati aveva compilato il breve resoconto degli ultimi dieci anni della storia ungherese per cercarvi le ragioni più lontane e profonde della sollevazione popolare del ’56:

Quando, a Budapest, ci trovammo in mezzo alla sollevazione popolare e intorno a noi c’erano studenti e operai con le armi in pugno, ci chiedemmo spesso il perché d’una così grande tragedia. Non il perché dei combattimenti che erano stati provocati da un’assurda catena di fatti, che erano ormai una conseguenza inevitabile d’una situazione esasperata dall’intervento straniero. Ma un perché più lontano, più profondo. Per quali motivi l’Ungheria ha potuto dar luogo a un così angoscioso scoppio d’ira popolare? Quali furono le ragioni che spinsero gli operai e gli studenti alla rivolta armata in un Paese che nella sua Costituzione e nelle sue manifestazioni era riconosciuto come «Stato socialista»? Perché gli operi e i contadini erano giunti a un punto tale di esasperazione da considerarsi danneggiati anziché favoriti per le riforme attuate nel corso di questi anni?2

Se l’analisi di Fossati si dimostrava troppo rapida e sommaria per il suo stesso autore3, essa indicava il senso di un percorso di conoscenza da percorre a ritroso

1 AE, incart. Solmi, 16 ottobre 1957.

2 Fossati, Qui Budapest, p. 117.

3 Fossati, restituendo ad Einaudi la copia firmata del suo contratto il primo marzo del ’57, lamenta le condizioni in cui questa seconda parte è stata composta: «certo, c’è stato un equivoco in partenza, per questo volume. Avessi potuto decidere fin dal principio di farlo apparire presso la sua Casa, secondo le proposte che Lei mi aveva fatto pervenire, avrei curato diversamente la seconda parte del volume, approfondendo maggiormente l’esame di talune questioni. Ma la “cessione” si è svolta praticamente a mia insaputa, mentre io ero di nuovo a Budapest» (AE, incart. Fossati 1marzo 1957)

(3)

nel tempo, nella storia ungherese precedente al 1956. Così, nell’estate del ’57 la Casa editrice preparava due libri di autori ungheresi, Il significato attuale del

realismo critico di György Lukács e La rivolta degli intellettuali in Ungheria di

István Mészáros, assistente di Lukács all’Università di Budapest fino a quando la repressione della rivoluzione di novembre lo aveva costretto all’esilio in Italia, in cui i recenti eventi che avevano investito l’Ungheria venivano analizzati dal punto di vista di due protagonisti della vita intellettuale del paese. Entrambe le analisi proposte restituivano al pubblico italiano un frammento della storia ungherese precedente ai fatti di ottobre e novembre, ma con una significativa differenza: se il testo di Mészáros veniva redatto alla luce di tali fatti, prefiggendosi come scopo la loro comprensione storica, lo scritto di Lukács era stato composto nel periodo immediatamente precedente al loro svolgimento. Esso era nato come studio per un ciclo di conferenze che Lukács aveva tenuto prima a Varsavia, poi in diverse università italiane e infine a Vienna. Calvino ricorda di aver assistito a una di quelle conferenze nell’estate del ’56, in un clima che si preannunciava carico di nuove aspettative politiche:

Quell’estate venne in Italia Lukács. In Ungheria era di nuovo una bandiera oltre che una gloria nazionale. Lo incontrai con Cesare Cases che l’accompagnava durante quel viaggio italiano. Lukács ci portò la conferma delle nostre speranze di un comunismo rigenerato. Quasi negli stessi giorni usciva un’altra conferma: l’intervista di Togliatti a «Nuovi Argomenti».4

Ad un anno di distanza, in un clima politico nazionale e internazionale che aveva visto infrante le speranze non solo di Calvino, la pubblicazione del testo delle conferenze di Lukacs veniva percepita come un’esigenza: «spero che lo pubblichiate presto, scrive Cases da Francoforte, perché ce n’è molto bisogno.»5 A

quali necessità poteva rispondere la pubblicazione tardiva dello scritto di Lukacs? Nell’impossibilità di ricostruire le circostanze in cui la decisione della pubblicazione venne presa dobbiamo usufruire ancora una volta della nota editoriale come unico documento in cui la Casa editrice registra le sue motivazioni. La nota era stata elaborata da Renato Solmi che all’epoca risiedeva a Francoforte e al quale era stata affidata anche la traduzione del testo (un compito delicato dal momento che al traduzione doveva essere effettuata direttamente sul

4 Italo Calvino, Quell’estate del ’56, cit., p. 2850

(4)

dattiloscritto poiché nei paesi del blocco socialista le opere di Lukács erano state messe al bando dopo il ‘56.6). Il significato attuale del realismo critico è

presentato da Solmi come l’opera in cui il pensiero di Lukács appare più strettamente connesso all’attualità ideologica e politica: infatti, dopo una prima parte dedicata alla concezione decadente della letteratura e dopo una seconda che esamina l’opposizione tra arte realistica e arte d’avanguardia, l’analisi di Lukács si concentra sul rapporto tra il realismo critico della società borghese e il realismo socialista:

Come la «distensione» –scrive Solmi nella nota editoriale– facendo apparire come superato o in corso di superamento un intero periodo storico (quello, per così dire, della nascita del socialismo) fornisce il punto di vista per la grandiosa panoramica della decadenza, così il XX Congresso (che è la prima presa di coscienza e il risultato immediato di questa svolta) permette di iniziare l’analisi concreta delle forme e delle contraddizioni della società socialista.

La pubblicazione di questo opuscolo diventa l’occasione per confrontarsi, ancora una volta, con i limiti e gli errori dello stalinismo: «partitarietà» e sue degenerazioni, ascetismo e romanticismo rivoluzionario, soggettivismo economico. Nelle considerazioni di Lukács su questi temi, scrive Solmi, «il lettore troverà, più o meno sviluppati, elementi e spunti preziosi per la comprensione teorica e storica del processo di formazione e sviluppo delle società socialiste.» Questa comprensione storica del passato, il suo ripensamento critico e intellettualmente libero, è una condizione necessaria a un dibattito ideologico e politico sulle prospettive del socialismo che sia serio e quindi fruttuoso. Per questa sua capacità di incidere sul presente, sottolineata da Solmi nella nota editoriale, il testo di Lukács viene pubblicato nella serie bianca e non nei Saggi che invece avevano accolto i primi 3 titoli dello studioso ungherese pubblicati dall’Einaudi: i Saggi sul realismo (1950), Il Marxismo e la critica letteraria (1953) e la Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi (1956). Lo stretto rapporto che intercorre tra le tesi di Lukács e gli avvenimenti del ’56 è argomento di riflessione anche per Cases che recensisce il Lb sul « Notiziario Einaudi »:

6 Consegnando alla casa editrice la prima parte della traduzione Solmi informa Ponchiroli che «ci sarebbe stata anche una serie di questioni da sottoporre a Lukàcs (l’originale era in condizioni deplorevoli, e molti passi incompleti e scorretti) ma penso che non si farebbe a tempo, e perciò ho adottato, sul manoscritto, la soluzione che mi pareva più plausibile.» (AE, incart. Somi, 13 luglio 1957)

(5)

Il nuovo libro di Lukacs è un rifacimento assai ampliato della conferenza tenuta presso le principali città italiane nel maggio dell’anno scorso. (…). Benché nella premessa Lukacs affermi che l’esposizione non contiene “nulla di sostanzialmente nuovo” rispetto ai suoi scritti precedenti (…) se non nella “forma espositiva dell’ultima parte” determinata dalle discussioni che hanno seguito il XX congresso, tuttavia è lecito affermare che lo spirito di tali discussioni informa tutto lo scritto. 7

Se Lukács rappresenta il modello dell’intellettuale socialista e marxista è pur vero che il suo pensiero filosofico e la sua azione politica si erano definiti nel contesto di un mondo di uomini di lettere e di scienza che in Ungheria aveva tentato di opporsi alle derive dello stalinismo coltivando il dialogo e il confronto. Alla ricostruzione della storia di questo movimento intellettuale che aveva preceduto e preparato la rivoluzione del ’56 è dedicata l’analisi di Mészáros. Così, mentre Solmi a Francoforte prepara l’edizione di Lukács, a Torino Mészáros ultima il suo saggio che verrà stampato e pubblicato solo nel luglio dell’anno successivo a causa dei dubbi espressi da Cases cui era stata affidata la revisione del testo.8

Nella nota editoriale a La rivolta degli intellettuali ungheresi Cases presenta Mészáros come rappresentante di «quell’opposizione socialista interna che ha dato al movimento degli intellettuali ungheresi le sue figure più combattive (valga

7 Cesare Cases, Il massimo teorico del “realismo” affronta Kafka, Joyce, Proust in “Notiario Einaudi”, 3, settembre 1957. La pubblicazione de Il significato attuale del realismo critico destò un certo interesse da parte di intellettuali di vario orientamento politico e formazione intellettuale La rivista diretta da Chiaromonte e Silone « Tempo presente » pubblica sul numero 3 del ’59 un saggio di Adorno intitolato « La conciliazione forzata » contro le tesi di Lukács sulla superiorità artistica del realismo socialista sull’avanguardia. Su « AUT AUT » (luglio 1959) il valore del saggio di Adorno è contrapposto da un recensore anonimo a quello del saggio di Lukács e anzi il primo « risulta veramente indispensabile per un ridimensionamento del libro di L., abbastanza diffuso fra noi, e in generale per una più equilibrata impostazione del problema del realismo ».« Il Ponte » pubblica una appassionata disamina delle teorie estetiche dell’ultimo Lukacs condotta da Roberto Vivarelli che subito si denuncia come « né filosofo né marxista » ma solo « un comune lettore che considera i libri qualcosa di più di un diversivo e che si interessa ai problemi del nostro tempo.»” La critica maggiore che Vivarelli muove alla teoria estetica di Lukács risiede nel far «di ogni erba un fascio, così da collocare, ad esempio, sotto la stessa generica etichetta di «avanguardia» scrittori tanto diversi tra loro […] Che questa operazione di «estrazione», dalle opere in realtà più diverse, di un connotato ideologico da far valere come denominatore comune, possa essere legittima ai fini di una determinata battaglia polemica, non si vuol qui contestare; ma essa non convince come generale «metodo di lettura». Robero Vivarelli, A proposito di alcuni

recenti scritti di György Lukács, «Il Ponte», giugno 1959 .

8 Alla fine Cases si convince che lo scritto di Mészáros possa apportare un contributo nuovo alla comprensione della rivolta ungherese ma avverte che la pubblicazione deve avvenire in tempi rapidi perché il saggio «benché sia meno effimero di altre pubblicazioni sull’Ungheria è pure assai legato all’attualità e fa spesso cenno degli sviluppi posteriori (condanne ecc.) e quindi tra tre o quattro mesi dovrebbe essere aggiornato da capo a fondo. Meglio quindi che lo corregga male ma presto». AE, incart. Cases, 7 novembre 57.

(6)

per tutti quella di Tibor Dery, cui il libro è significativamente dedicato), e in quanto discepolo del grande filosofo Gyorgy Lukács, è un fervente adepto del pensiero marxista»; questa condizione gli permette di giudicare le deformazioni dello stalinismo a partire dai principi stessi del comunismo: «ciò non attenua in alcun modo l’asprezza dei giudizi, ma toglie loro ogni sospetto di parzialità anticomunista e dà loro una fondazione teorica precisa che nulla ha in comune con l’astratta indignazione delle anime belle.»

La narrazione di Mészáros è organizzata in otto capitoli che ripercorrono alcuni episodi salienti della politica culturale di stampo stalinista imposta agli intellettuali ungheresi tra il ’48 e il ’56, «dal dibattito su Lukacs e su Tibor Déry al Circolo Petöfi», secondo le parole di presentazione stampate sulla copertina del libro. Una ricapitolazione del passato che è funzionale alla spiegazione del presente dell’Ungheria dopo la repressione sovietica: «nonostante le infinite promesse –scrive Mészáros – delle settimane che seguirono il secondo intervento russo, oggi siamo già giunti ad un punto in cui l’attuale politica culturale in Ungheria somiglia fantomaticamente a quella dei più cupi anni dello stalinismo: ed in realtà essa non è che una copia pedestre di quest’ultima».9 L’autore si avvale

dell’esperienza diretta dei fatti narrati: egli non è uno storico – nella sua ricostruzione non sono citate fonti o documenti un testimone – ma un protagonista che ha vissuto dall’interno la vita delle istituzioni culturali di cui ora traccia la storia.

Ed è ancora «la viva voce dei protagonisti» che viene interpellata nell’ultimo contributo sulla questione ungherese ospitato nella collana di attualità.10 Si tratta

di una testimonianza di tipo nuovo sulla questione ungherese di cui è autore un magistrato veneziano, Giorgio Chiesura, il quale, avendo saputo che in un piccolo paese vicino a Venezia c’era un campo di profughi fuggiti dall’Ungheria dopo l’arrivo dei russi, decide di incontrarli: da questi incontri nascono nove interviste che raccontano l’Ungheria di quegli anni attraverso il ricordo privato e intimo di chi ha vissuto personalmente prima le contraddizioni e i soprusi di un regime, poi la speranza di una rivoluzione popolare e democratica, e infine la delusione della

9 I. Meszaros, La rivolta degli intellettuali in Ungheria, pag. 9.

10 «Dalla viva voce dei protagonisti –recita la fascetta del libro – l’autore di questo libro ha raccolto nove storie vere: la vita di un medico, di uno scienziato, di un ingegnere, di una studentessa dfi musica, di un artigiano, di un impiegato di banca, di un contadino e di due operai, nell’Ungheria dal dopoguerra all’insurrezione.»

(7)

sconfitta, la paura e infine il dramma della fuga: «poco a poco –scrive Chiesura – procedendo in questo modo, ho visto che mi si formava intorno tutto un concreto mondo umano e sociale e cominciavo a vedere coi miei occhi l’Ungheria di quegli anni.»11

Tutta l’operazione editoriale che prepara l’uscita del libro di Chiesura viene seguita con cura e partecipazione da Calvino. Nel luglio del ’57 è lui a confermare all’autore l’interesse della casa alla pubblicazione : «il libro uscirà nella veste in cui sono usciti Fossati, Giolitti, Hikmet e ora usciranno Longo, Leonardi, Mao-Tse-Tung. Quelli erano corpuscoli e questo è un libro grosso, ma entra nello stesso criterio di attualità e di problematica. Lo faremo con estrema fretta: uscirà in settembre.»12 Il venir meno a uno dei criteri distintivi della collana bianca, la

brevità del testo, è dunque ricondotto da Calvino all’ attualità dell’argomento trattato. Ma anche, e forse soprattutto, alla qualità del documento proposto da Chiesura che Calvino considera «il libro più bello che ci sia sull’Ungheria. Finalmente fatto sugli uomini e non sulle carte.»13 Il libro usciva in 2000 copie in

ottobre chiudendo un anno di libri per l’attualità entro il cerchio tematico dell’Ungheria con i suoi contraccolpi a livello nazionale e internazionale; questa circolarità, certamente non casuale, avveniva nel segno conclusivo di «un’attenzione umana» che Calvino riconosceva a Chiesura come valore aggiunto.14 Di «interesse umano e politico» delle biografie raccontate da Chiesura

parla anche Franco Fortini in una recensione pubblicata sulle pagine dell’ «Avanti!»15. Fortini giudica positivamente il lavoro di Chiesura al quale però

imputa due errori: il primo di metodo, avendo scelto di non intervistare profughi comunisti, il secondo politico, sostenendo che l’intervento sovietico sia stato determinato dalla necessità di salvaguardare le realizzazioni socialiste attuate in ambito economico:

11 G. Chiesura, Non scrivete il mio nome, p. 12.

12 AE, incart. Chiesura, 11 luglio 1957.

13 Ibidem

14 Scrive Calvino: «apprezzo molto la Sua attenzione umana, in cui riconosco una spiccata affinità con quella dell’amico Guarnieri.» AE, incart. Chiesura, 11 luglio 1957. È attribuibile a Calvino la recensione al libro di Chiesura pubblicata anonima sul numero del «Notiziario Einaudi» del settembre 1957 in cui il libro di Chiesura viene recensito come «qualcosa di più d’un contributo di tipo giornalistico a un problema d’attualità; ne fanno l’opera di uno scrittore, esempio di indagine della realtà.»

(8)

porre in rapporto diretto l’intervento sovietico e il pericolo corso dalle realizzazioni socialiste – sostiene Fortini – […] vuol dire idealizzare ostinatamente una realtà politica che, se serve, come noi crediamo che serva, lo sviluppo del socialismo nel mondo, lo fa attraverso una serie complessa di mediazioni e non già come immediato motore sempre cosciente.16

La conclusione a cui giunge Chiesura è invece difesa con veemenza da un articolo pubblicato anonimo sull’ «Unità» del 16 novembre: l’occasione è un pretesto, in realtà, non tanto per lodare il libro di Chiesura, quanto per attaccare il quotidiano socialista sia per biasimare la scelta della Casa editrice di pubblicare l’opuscolo «drammaticamente urlato del redattore dell’ Avanti! (e forse proprio perché tanto gridato fu accolto con frenesia dagli antisocialisti nostrani).»17 Queste e altre

recensioni, per la verità quantitativamente poco rilevanti, dimostrano che la pubblicazione del libro di Chiesura è solo una facile occasione per polemiche di parte: evento troppo recente per analisi approfondite e documentate esso è già troppo lontano nel tempo per catturare l’attenzione del pubblico e della critica: l’argomento viene percepito come superato dalla stessa casa editrice18 e la

necessità di sperimentare nuove vie di approfondimento sul presente si impone come inevitabile. Tuttavia, come vedremo, benché ci sia un significativo arricchimento delle tematiche trattate permane a discapito della collana una certa tendenza a privilegiare il racconto cronachistico e la testimonianza memorialistica a discapito dell’analisi distaccata e approfondita degli eventi presi in considerazione.

2.

16 Ibidem.

17 Anonimo, I profughi, il giudice, il recensore, l’ «Unità», 16 aprile 1957.

18 Così, la segnalazione di Cases di un «libretto (Heinz Kersten, Aufstand der Intellektualen…) molto interessante perché è un panorama completo del disgelo degli intellettuali in tutte le democrazie popolari (salvo l’Albania, ma lì forse gli intellettuali non esistono)» cadeva nel vuoto. AE, incart. Cases, 12 aprile 1958.

(9)

L’editoria come professione intellettuale e come impresa commerciale è la scienza del tempo esatto: il successo di un libro (successo di critica, di pubblico, di vendite) è strettamente determinato dal momento in cui esso viene pubblicato. Molti sono i libri che per esser stati pubblicati in ritardo non sono stati sufficientemente venduti e letti; espunti dai cataloghi dell’editore deluso perché i gusti sono cambiati, le sensibilità sono altre, le tematiche non interessano più, questi libri rischiano, una volta esaurite le copie della prima edizione, di sparire per sempre dalla dimensione pubblica.

Se il ritardo sui tempi è la condanna dei libri, lo stesso si può dire dell’eccesso di anticipo. I libri nati precocemente non trovano un pubblico pronto alla lettura: essi parlano a chi non li sa (ancora) ascoltare. Sappiamo quanti dei libri che oggi leggiamo come Classici siano stati pubblicati nel momento sbagliato, accolti da lettori freddi e ostili che li hanno condannati ad attendere anni, in certi casi secoli, prima di essere recuperati, letti e finalmente apprezzati. Ma contro un numero alto di questi “libri ritrovati” possiamo immaginare un numero infinitamente più alto di libri che non avendo goduto della fortuna postuma, la fortuna della “riscoperta”, sono andati persi per sempre.19

Libri in ritardo, libri in anticipo: il rapporto tra fortuna editoriale e tempo è soggetto ad alcune variabili tra cui la natura del libro proposto al pubblico: un libro di attualità politica e una raccolta di poesie reagiscono a questo rapporto in modo, naturalmente, molto diverso. Attraverso il nostro studio possiamo indagare da vicino alcuni casi in cui questo rapporto prende forma.

3.

19 Per una rassegna di libri «destroyed» «misplaced» «interrupted» «or simply never begun» vedi ad esempio Stuart Kelly, The book of lost books. An incomplete history of all the great books

(10)

Nel 1962 uscì, in poche copie e senza grande eco sulla stampa20 nonostante la

prestigiosa prefazione di Sartre, la prima traduzione italiana de I dannati della

terra di Franz Fanon, nome allora sconosciuto ai più.21 Artefice dell’importante

traduzione era stato Giovanni Pirelli il quale ricorda che, tra la fine del ’60 e l’inizio del ’61 era riuscito a mettersi in contatto diretto con Fanon che si trovava all’epoca in Tunisia, malato a morte eppure ancora impegnatissimo sia nella sua professione di psichiatra che nell’organizzazione rivoluzionaria.

Aveva dato piglio – ricorda Pirelli –ai nuovi saggi che sarebbero apparsi, in concomitanza con la sua morte, nel volume intitolato Les damnès de la terre. Dai colloqui che ebbi con lui nacque allora il disegno di un unico volume che raccogliesse i saggi della prima e della seconda fase sotto il titolo Saggi sulla rivoluzione algerina e sulla decolonizzazione.22

Ma la morte di Fanon, avvenuta nel dicembre del 61, determina un ripensamento di questo progetto editoriale. I saggi vengono presentati separatamente e in ordine cronologico inverso: prima i saggi più recenti raccolti sotto il titolo I Dannati

della terra, poi quelli redatti in precedenza e intitolati in volume Sociologia della rivoluzione algerina. In tal modo, secondo Pirelli, il lettore italiano poteva subito

giovarsi della lettura di «quello che viene giustamente chiamato il massimo documento teorico della rivoluzione dei popoli coloniali.»23

20 Nel generale silenzio della stampa risaltano due analisi accurate e attente del libro di Fanon: la prima è firmata da Alberto Aquarone sulle pagine di Nord e Sud dell’agosto 1962. Aquarone, pur riconoscendo all’analisi di Fanon serietà, competenza, e sforzo di comprensione, vi riscontra come limite «una certa astrattezza che affiora non di rado nelle sue pagine, astrattezza che si riflette in alcune oscurità di linguaggio». Aquarone non risparmia critiche anche alla prefazione di Sartre «pomposa ed esagitata al tempo stesso, secondo lo stile consueto del filosofo francese, grossolana fino quasi alla scurrilità e totalmente inutile alla migliore intelligenza dello studio di Fanon. […] È un peccato che l’editore italiano si sia sentito in dovere di pubblicarla». Un recensore più generoso di Aquarone analizza su «Rinascita» (luglio 1962) il libro di Fanon «un nome poco conosciuto in Italia. Eppure questo negro delle Antille, uomo di vasta cultura, amico di Sartre, brillante psichiatra (morto il 6 novembre 1961 a soli 37 anni) è stato uno degli intellettuali più significativi del “terzo mondo” e uno degli animatori –come combattente in armi, dirigente politico e ideologo –della Rivoluzione Algerina cui ha dedicato volontariamente la sua esistenza». I dannati della

terra vince la quarta edizione del premio Omegna, assegnato da una giuria, presieduta da Guido

Piovene, in cui figuravano Carlo Bo, Calvino, Fortini, Rossana Rossanda, Salinari, Soldati e Zavattini.

21 Nella prefazione a Franz Fanon, Sociologia della rivoluzione algerina uscito nei Lb nel ’63, Pirelli scriveva: «chi era [nel ‘60] Franz Fanon? Non ne sapevamo quasi nulla. I più attenti o impegnati rispetto ai problemi africani s’erano accorti di questo antillese algerinizzato in talune assise internazionali; al congresso degli scrittori negri, ad esempio, tenuto a Roma nel marzo 1959.»

22 La vicenda editoriale è ricostruita nella citata prefazione a Sociologia della rivoluzione algerina.

(11)

Nella cornice dei Lb I dannati della terra non supera la prima edizione. Nel ’66, quando la nostra collana è definitivamente finita, il libro viene spostato nella Nuova Universale Einaudi (NUE): in tredici anni raggiunge l’ottava edizione finché, nel ’77 esce dal catalogo Einaudi per tornarvi in una nuova edizione nel 2007. Per quattro anni il libro di Fanon aspetta di imporsi all’attenzione del vasto pubblico; solo quando esplode la contestazione studentesca diventa, prima in Francia e di conseguenza in Italia uno dei titoli chiave della «bibliografia politica del ’68».24 Era un libro in anticipo sui tempi o il pubblico italiano era in ritardo

rispetto ad una tematica già importante? Sicuramente la pubblicazione dei saggi di Fanon aveva un’eco immensa nella Francia impegnata contro l’esercito di liberazione nazionale in Algeria, mentre in Italia rimandava a questioni lontane dall’immediata sensibilità del pubblico: il senso della pubblicazione proposta da Einaudi andava appunto nella direzione dell’approfondimento di tali e più ampie questioni ancora marginali nel panorama culturale italiano. I dannati della terra era un libro che, seguendo le già citate parole dell’editoriale di Calvino, non seguiva l’attualità ma la precedeva con coraggio e lungimiranza. Questa importante pubblicazione, forse la più importante che la collana dei Lb ospitò negli anni della sua attività, era stata preparata, in un certo senso, da anni: essa infatti rappresentava l’ultima tappa di un percorso culturale che si era sviluppato nell’ambito della collana a partire dal ’57. In quell’anno, ma non sappiamo precisamente quando, viene messo in cantiere un libro che inaugura un nuovo ambito di interesse per la casa editrice: il movimento anticoloniale. Come già per l’insurrezione ungherese il punto di vista scelto dalla Casa editrice per raccontare la guerra di liberazione algerina è quello della testimonianza diretta del giornalista inviato speciale; di nuovo, è dalle pagine de «L’Avanti!» che il reportage viene estratto per essere pubblicato in volume. L’autore è Raffaello Uboldi25, il primo

24 Cfr I libri del 1988, una bibliografia politica, Manifestolibri, Roma, 1998 il cui nucleo centrale è costituito dai libri esposti nella mostra “I libri del ’68” Roma 11 maggio-17 giugno 1998 presso la libreria internazionale “Il Manifesto”. Sui libri del ’68 italiano e di quello francese si veda anche Stefano Petrucciani, Cosa leggeva il ’68? in Sessantotto: mito e realtà, numero monografico di «Micromega», novembre 2008.

25 Uboldi manda alla casa editrice questa nota autobiografica: «nato a Milano il 16/11/1926. Studi presso l’università statale di Milano, facoltà di lettere. Dico “studi” perché da anni ho nel cassetto una tesi che, appena il giornale mi lascerà un poco libero, vedrò di finire e di discutere. Quindi credo sia meglio non parlarne. Sono giornalista professionista da otto anni e lavoro all’Avanti! da dieci anni. (…) Da sei anni sono capo-servizio agli esteri e inviato sovente all’estero: Cina, Vietnam del nord, Siria, Polonia, nord Agrica, le tre conferenze di Ginevra.» (AE, incart. Uboldi, 14 febbraio 1958).

(12)

giornalista italiano ad andare in Algeria tra le fila dell’esercito di Liberazione nazionale; rimanendo in Algeria un mese, Uboldi ha cercato di capire la realtà algerina attraverso la voce di coloro che hanno aderito alla lotta armata in nome dell’indipendenza nazionale: una moltitudine di uomini semplici spinti dalla stessa disperazione a cui si rivolge lo sguardo indagatore del giornalista italiano: « questa è l’Algeria e questi sono gli uomini che stanno “dall’altra parte”, i combattenti dell’ALN, i fellagha, la semplice materia prima della guerra. Chi sono? Come vivono? Perché combattono? Quali sono le loro idee, i loro sentimenti, i loro affetti? Sono tutte domande, queste, alle quali cercherò di trovare una risposta.»26 Il 10 gennaio ’58, informando Foà che il volume

sull’Algeria, «ossia gli articoli pubblicati sull’Avanti! ampliati e rimaneggiati un poco» sarà pronto entro una decina di giorni, Uboldi domanda se la casa editrice approverebbe l’idea di chiedere a Sartre una presentazione del reportage.27 Gli

articoli di Uboldi avevano infatti suscitato grande interesse in Francia, dove erano stati tradotti e pubblicati dalla rivista di Sartre «Les Temps Modernes» con il titolo Le reportage interdit. Naturalmente Foà approva l’idea di Uboldi ma inutilmente perché Sartre si vede costretto a non accettare:

La risposta di Sartre –scrive Uboldi a Foà –è purtroppo negativa. Credo tuttavia di condividerne i motivi che Sartre stesso mi ha elencato in una gentilissima lettera, e che le riassumo brevemente. Ieri l’altro Sartre e il redattore-capo di France-Observateur, Gilles Martinet, sono stati ufficialmente “incolpati” dal giudice istruttore per “attentato alla sicurezza interna dello stato” a seguito della pubblicazione su Temps Modernes e F.O. del mio reportage. Molto probabilmente non si arriverà ad un processo (che alle stesse autorità francesi non conviene fare perché si tradurrebbe in una grossa campagna contro la guerra di Algeria) ma se ci si arrivasse, Sartre potrebbe venire accusato anche di “propaganda anti-nazionale all’estero” qualora mi desse la citata prefazione.28

.

In mancanza dello scritto di Sartre, Uboldi propone una prefazione in cui si esponga come e in quali circostanze politiche il reportage è stato realizzato («si potrebbe mettere che il libro è frutto di un viaggio tra i combattenti dell’Armata di Liberazione Nazionale e forse anche che ha fatto sequestrare la rivista di Sartre»)

26 Uboldi, Servizio proibito, p. 25.

27 AE, incart. Uboldi.

28 AE, incart. Uboldi, 8 febbraio 1958.

(13)

e propone come alternativa al titolo proposto in sede editoriale Gli uomini della

guerra di Algeria (mi sembra un po’ pallido»), il più efficace Con i “fellaghas” in Algeria o Algeria proibita.29 Alla fine il libro esce nel marzo del ‘57 con il

titolo scelto da «Les Temps modernes» tradotto in italiano: Servizio proibito.30

L’accoglienza della stampa è molto positiva e si sofferma, oltre che sulle capacità narrative di Uboldi, sulla novità del tipo di testimonianza proposto: Luciano Della Mea rende conto del libro su «Mondo operaio» indicando in Uboldi un esempio di giornalista critico, colui che trovandosi di fronte ai fatti li giudica e li riferisce senza occultare il proprio pensiero politico e la propria ideologia: « la prima parte dell’inchiesta –scrive Della Mea – è narrativa. Senza nulla concedere alla letteratura U. narra con semplicità ciò che ha visto, descrive le persone che ha incontrato, cerca di delinearne la personalità, illustra gli ambienti.» 31 Aldo

Garosci considera il libro «doppiamente di attualità. […] Di attualità per sé, perché la censura e la proibizione costituiscono la miglior pubblicità per una testimonianza politica; di attualità perché i numerosi «piani» messi innanzi per la soluzione algerina, quand’anche inconsistenti in sé, rappresentano sempre un importante argomento della complessità del problema e a favore di un effettivo compromesso.»32 Anche Alberto Jacoviello considera il libro proposto

dall’Einaudi « una testimonianza di grande interesse » perché attraverso la penna di Uboldi gli algerini che combattono per l’indipendenza escono dalla rappresentazione anonima acquistando una fisionomia e una concretezza umana.33

Nel pubblicare il primo di una serie di Lb sulla questione coloniale, la casa editrice intendeva porre rimedio a un ritardo rispetto alle edizioni Feltrinelli, che già nel luglio del ’56 aveva mandato in libreria il pamphlet Algeria Fuorilegge di Colette e Francis Jeanson, ma anche rispetto a se stessi: infatti, già nel novembre del 1955 Giulio Einaudi scriveva allo storico Francesco Gabrieli, curatore della

29AE, incart. Uboldi, 6 febbraio 1958. L’11 febbraio la casa editrice lo informa che «dopo la risposta negativa di Sartre abbiamo ripiegato su una presentazione redazionale. Domani, nella nostra riunione, decidiamo il titolo e il testo della fascetta.» Tre giorni dopo Uboldi scrive a Ponchiroli: «per il titolo e la fascetta e infine per tutto il resto avete carta bianca.»

30 Così scrive Ponchiroli a Uboldi il 5 marzo 58 (AE, incart. Uboldi). Il libro di Uboldi viene recensito in un articolo non firmato del numero di Giugno del 1958 del «Notiziario Einaudi». 31 Luciano Della Mea, Recensione a Servizio Proibito, « Mondo Operaio », settembre 1958.

32 Aldo Garosci, Algeria, « L’Espresso », 23 marzo 1958.

(14)

prima edizione italiana delle Mille e una notte, per invitarlo a scrivere qualcosa sui movimenti anticoloniali:

Leggendo la bella relazione da lei preparata per il Congresso storico internazionale, ci è venuta l’idea che lei potrebbe scriverci un ottimo libro per i nostri “Saggi” su un tema, come quello della storia del risveglio politico e culturale dei popoli arabi, cui gli avvenimenti vanno di giorno in giorno conferendo un più vivo interesse.34

Gabrieli si dimostra interessato («in circa 250 pagine si potrebbe effettivamente dare un quadro del fenomeno, che andrebbe trattato sotto entrambi i punti di vista, politico e culturale»35) ma chiede di rimandare il progetto all’anno successivo per

impegni accademici. Il 10 febbraio del 56 si arriva alla stesura del contratto per

Risorgimento arabo ma la situazione si arena per un anno per il malcontento di

Gabrieli che vorrebbe veder pubblicato il volume da lui curato Storici delle

crociate prima di mettersi a lavorare al nuovo libro: la risposta di Einaudi, stretto

nella morsa della crisi economica, è il silenzio assoluto36.

A marzo la situazione si sblocca e Gabrieli, pur mantenendo un atteggiamento di sfiducia nella serietà del lavoro della casa editrice, invia un primo gruppo di bozze. Il 26 ottobre Einaudi gli assicura che il libro potrà uscire “al più tardi, entro quattro mesi dalla consegna del manoscritto.”37 Alla fine del luglio 58 il saggio è

pronto, con tre anni di ritardo. Questo ritardo comporta un ripensamento della collana in cui collocare il libro: non più nei Saggi ma nella collana di attualità che per la prima volta vediamo chiamare Libri Bianchi: «in considerazione della scottante attualità del tema trattato –scrive Giulio Einaudi a Gabrieli – il volume uscirà nei nostri “Libri Bianchi”, cioè in una collana che, per il suo carattere, può assicurare la massima diffusione a un’opera quale la sua.»38

34 AE, incart. Gabrieli, 2 novembre 1955.

35 AE, incart. Gabrieli, 9 novembre 1955.

36Ancora nel febbraio del ’57 Gabrieli invia a Einaudi una lettera per esprimergli la sua delusione:

«due mie lettere, in questi ultimi mesi, sono rimaste senza risposta. Così al metodo delle buone parole non confermate dai fatti si è sostituito quello, più spiccio ma non certo più amichevole e riguardoso, del silenzio, come con gli importuni seccatori. Io non credo di meritare da lei questo trattamento: ho collaborato spero utilmente alle sue iniziative, ho risposto anche con mio sacrificio (e praticamente a fondo perduto) quando la sua casa ha fatto appello alla fiducia e solidarietà degli amici. Non voglio ignorare né aumentare le sue difficoltà ma mi permetta di dirle che il trattare così gli amici è il peggior sistema.» (AE, incart. Gabrieli, 5 febbraio 1957).

37 AE, incart. Gabrieli, 26 ottobre 1957.

(15)

La lettura del saggio di Gabrieli non può non destare il sospetto che la scelta di cambiare la collana derivi più da ragioni di opportunità editoriale che da un’oggettiva valutazione dell’opera: la «scottante attualità del tema», cui Einaudi fa riferimento nella sua lettera, è in realtà rintracciabile solo nella parte conclusiva del saggio che rimane, a tutti gli effetti, un saggio storico.39 È probabile che sulla

scelta della Casa editrice abbiano inciso la brevità del testo (150 pagine), l’esigenza di pubblicarlo in fretta dopo tre anni di ritardo, e soprattutto il calcolo commerciale: il saggio di Gabrieli, (che esce in novembre suscitando interesse anche all’estero con proposte di traduzione dall’Inghilterra40, dalla Germania41 e

anche, nel ’66, da Israele42) usciva a ruota dopo il libro di maggior successo

commerciale pubblicato dalla collana: La Tortura di Henri Alleg, una testimonianza cruda e toccante delle sofferenze del popolo algerino nella lotta per l’indipendenza nazionale.

Il giornalista francese Henri Alleg aveva raccontato le torture subite nelle carceri francesi in Algeria nel volume uscito nel ’58 La question, pubblicato dalla casa editrice Editions de Minuits di Jerôme Lindon. Il libro, introdotto da uno scritto di Jean-Paul Sartre, era stato venduto in 70 000 copie suscitando un moto di polemiche nell’opinione pubblica a cui le autorità francesi avevano reagito con il sequestro del libro.43 In Italia «l’Unità» ne aveva pubblicato alcuni estratti tradotti

39 La nota editoriale definiva il saggio «un’opera di storia contemporanea».

40 «Siamo lieti d’informarla che il nostro agente londinese è riuscito ad ottenere un’offerta dall’editore Thames & Hudson per i diritti anglo-americani del suo Risorgimento arabo.» (AE, incart. Gabrieli, 13 aprile 1959).

41 «L’editore Domont Schauberg di Colonia vorrebbe pubblicare il Risorgimento arabo in una nuova collana, molto illustrata ma con il prezzo di copertina relativamente basso, dedicata ai grandi movimenti rivoluzionari» (AE, incart. Gabrieli, 15 luglio 1960).

42 Per la pubblicazione in Israele del saggio, Paolo Fossati mette in guardia Gabrieli: «l’opera

comparirebbe in Israele e questo, secondo l’agente, potrebbe porla in difficoltà nei confronti dei paesi arabi con i quali lei intrattiene rapporti e che intende continuare a visitare.» (AE, incart. Gabrieli, 13 giungo 1966). Gabrieli esprime la preoccupazione di offendere il mondo arabo e opta per « lasciar cadere la cosa. Tale è almeno il mio parere personale da voi domandatomi. » (ibidem, 15 luglio 1956) Tuttavia il traduttore che si era proposto per Risorgimento Arabo dichiara a Gabrieli la sua intenzione a procedere con o senza l’autorizzazione dell’autore e dell’editore. (AE, incart. Gabrieli 6 luglio 1966).

43 La pubblicazione del libro di Alleg e lo shock che provocò sull’opinione pubblica francese è ricordata nell’articolo di Jean Daniel, Cosa ci ha insegnato la guerra d’Algeria, «La repubblica», 19 maggio 2004.

(16)

da Paolo Spriano: a lui la Casa editrice chiede di tradurre il testo integrale per la collana bianca.44

Il libro ha un successo di pubblico eccezionale per la collana dei Lb: nel giro di tre anni, dal ’58 al ’61 se ne pubblicano cinque edizioni.

4.

I Lb si proponevano di essere lo specchio di ciò che stava accadendo allora nel mondo, o più realisticamente, di ciò che era appena accaduto.

A questo punto della nostra analisi è forse possibile elaborare qualche riflessione sul concetto di attualità alla luce dei casi editoriali fino ad ora studiati. Esso ha come coordinata temporale il presente in una doppia accezione: il presente del presente «ciò che è in atto» , e il presente del passato, «ciò che è percepito come se fosse ancora in atto» e dunque ancora vivo nel presente, ancora valido per il presente: sotto la prima accezione rientrano ad esempio la cronaca di Fossati sulla rivoluzione ungherese e gli scritti di Giolitti, Longo e Leonardi come contributi al dibattito sulle «questioni della sinistra italiana»45; sotto la seconda accezione si

collocano invece l’analisi di Gabrieli o la pubblicazione dello scritto di Lukács. L’idea di attualità si muove sull’orizzonte del presente, metodicamente inseguito e inevitabilmente mai del tutto raggiunto.

Una volta definita la coordinata temporale del concetto di attualità non possiamo non chiederci se esso sia dotato anche di una coordinata spaziale, di un limite che separa nello spazio ciò che è attuale da ciò che non lo è: quanto conta, nella percezione dell’attualità, la distanza fisica che separa gli eventi da chi li

44 Spriano ha ricordato la vicenda legata al libro di Alleg nel suo Le passioni di un decennio, Garzanti, Milano, 1996, p. 182: «La question: un resoconto veritiero e raccapricciante delle torture inflitte ai patrioti algerini. Lo traducemmo subito, a braccio, sull’ Unità. Ci fu poi la pubblicazione nei LB di quella traduzione: mi torna a mente per un particolare particolarmente buffo, un po’ macabro: mi telefonò Carlo Fruttero e mi disse che la traduzione, da lui controllata per conto dell’editore, poteva passare. Era davvero estremamente deplorevole che i torturatori applicassero gli elettrodi alle parti intime del corpo dei prigionieri. Tuttavia, per mia scienza, l’aine era l’inguine, non l’ano.»

45 Comunicato stampa del 20 luglio 1957 in AE, Recensioni, incart. Sulle contraddizioni tra il

(17)

recepisce? La natura umana tende a far coincidere vicinanza fisica e vicinanza emotiva. Ma la definizione di vicino e lontano, o meglio, di ciò che è percepito come vicino e ciò che è percepito come lontano è una variabile storica che dipende da molti fattori: Stephen Kern ne Il tempo e lo spazio si è soffermato sul rapporto tra tecnologia e mutamenti culturali nella percezione del mondo tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale46. Nel capitolo dedicato alla

distanza Kern analizza gli intrecci causali tra mezzi di comunicazione, rappresentazione artistica dello spazio, letteratura e scienze sociali nella ridefinizione moderna del senso della distanza: il telefono, la bicicletta, il cinema, la sociologia, la letteratura di Proust sono alcuni dei fattori che ridisegnano le proporzioni del mondo intorno all’opposizione vicino/lontano.

L’editoria come istituzione culturale partecipa alla ridefinzione continuamente in gioco dei concetti di vicinanza e lontananza. Questa partecipazione avviene su due livelli: come soggetto e come oggetto. Come soggetto, l’editoria partecipa al processo culturale apportando nuovi contributi di conoscenza: nel caso della nostra collana, essa propone libri che affrontano tematiche ancora marginali con la speranza di imporle all’attenzione di un pubblico il più vasto possibile. Come oggetto, però, il lavoro editoriale è subordinato alla limitatezza del patrimonio conoscitivo a cui può accedere: se è vero che l’editoria è tra le forze che partecipano al cambiamento culturale di una società, e anche vero che la portata della sua azione è estremamente dipendente dal grado di sviluppo raggiunto dalla società in seno a cui opera: la dipendenza dei Lb dai giornali e dalle riviste, ad esempio, con la soluzione spesso adottata di riproporre in volume scritti già pubblicati, rende evidente il vincolo che intercorre tra editoria e contesto storico politico e culturale nel quale la sua attività si muove.

Riferimenti

Documenti correlati

• la molla (il dinamometro) può essere usata per misurare le forze previa calibrazione ed entro il limite di elasticità (limite dato dalla validità della legge di Hooke): una

• la molla (il dinamometro) può essere usata per misurare le forze previa calibrazione ed entro il limite di elasticità (limite dato dalla validità della legge di Hooke): una

una risultante non nulla è causa di una variazione nel moto di traslazione; un momento risultante non nullo causa le rotazioni.. Centro di gravità

• la molla (il dinamometro) può essere usata per misurare le forze previa calibrazione ed entro il limite di elasticità (limite dato dalla validità della legge di Hooke): una

Lo sviluppo della "memoria muscolare", come ha fatto la Thailandia in seguito a epidemie precedenti, è la chiave per la risposta alle pandemie e ora abbiamo bisogno del mondo

La sirena suona sempre più forte e incessantemente, da- gli altoparlanti arrivano nuovi ordini di ripararsi nella safe zone, sono tutti spaventati dalla paura di morire.. Forse

Infine, 30 milioni nel triennio sono destinati a incentivare le fusioni dei piccoli comuni: si tratta di un tema caldo, insieme a quello delle unioni di comuni, ma il legislatore

È una vera e propria rivoluzione se si pensa che fino ad un recente passato la concentrazione delle attività nei grandi poli territoriali, la crescita