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Qualità della Relazione di Coppia e Percezione di Supporto Sociale in una popolazione di persone con Malattia di Parkinson

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Direttore Prof. Mario Petrini

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

Direttore Prof. Paolo Miccoli

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Direttore Prof. Giulio Guido

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN PSICOLOGIA

CLINICA E DELLA SALUTE

"Qualità della relazione di coppia e percezione di supporto sociale in una

popolazione di popolazione con persone con Malattia di Parkinson”

Relatore: Candidata:

Dott.ssa Irene Ghicopulos Laura Diari

Correlatore:

Dottor Francesco Tramonti

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INDICE

RIASSUNTO ... 4 INTRODUZIONE ... 5 1. LA MALATTIA DI PARKINSON ... 6 1.1 EPIDEMIOLOGIA ... 8

1.2 EZIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO ... 9

1.3 LE MANIFESTAZIONI CLINICHE ... 12

1.3.1 Sintomi Motori ... 12

1.3.2 Sintomi non Motori ... 14

1.3.2.1 Disturbi del Sonno ... 16

1.3.2.2 Disturbi della Sfera Sessuale... 17

1.3.2.3 Disturbi Cognitivi ... 21

1.3.2.4 Disturbi Psichiatrici ... 23

1.4. CENNI DI TRATTAMENTO ... 28

2. LA MALATTIA DI PARKINSON IN UN’OTTICA BIOPSICOSOCIALE ... 30

2.1 LA QUALITÀ DELLA VITA ... 32

2.2 IL SUPPORTO SOCIALE ... 39

2.3 LE RELAZIONI FAMILIARI E DI COPPIA ... 45

3. LA RICERCA ... 54

3.1 OBIETTIVO ... 54

2.2 METODI E STRUMENTI ... 55

2.3 RISULTATI ... 61

2.4 DISCUSSIONE... 72

2.5 LIMITI E PROSPETTIVE FUTURE ... 74

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4 RIASSUNTO

Nonostante le numerose difficoltà a cui può andare incontro un legame intimo di fronte ad una malattia cronica, come la Malattia di Parkinson, la famiglia e nello specifico, la relazione di coppia risultano per i soggetti parkinsoniani la principale fonte di supporto. Un buon matrimonio sembra essere connesso a maggiori livelli di indipendenza, di buon funzionamento e ad una migliore qualità della vita.

Il presente lavoro documenta la progettazione e lo svolgimento di uno studio volto allo scopo di valutare la percezione di supporto sociale in relazione alla qualità della

relazione di coppia e alla qualità della vita in pazienti con Malattia di Parkinson. Nella prima parte del lavoro è esposta una revisione della letteratura, mentre nella seconda parte è descritto lo studio. Sono stati reclutati 35 pazienti, 17 maschi e 18 donne con un range di età compreso tra i 44 e i 76 anni. Ai soggetti sono stati somministrati test per la valutazione della qualità della vita (SF-36), della percezione di supporto sociale

(MSPSS) e della soddisfazione della relazione di coppia (DAS). Per valutare la

condizione clinica del soggetto abbiamo utilizzato i punteggi ottenuti all’UPDRS (parte II e parte III) e il punteggio alla scala Hoehn & Yahr per lo stadio di malattia.

Da un’analisi dei risultati è emersa l’esistenza di una correlazione tra la percezione del supporto sociale in relazione alla qualità della relazione di coppia. Quest’ultima inoltre correla positivamente con importanti indici della qualità della vita, come la salute mentale. Si rendono comunque necessarie ulteriori e più approfondite indagini future, con la prospettiva di ridurre i limiti derivati dalla ristrettezza campionaria e gli altri limiti.

Parole Chiave: Malattia di Parkinson, Qualità della Vita, Supporto Sociale, Soddisfazione diadica.

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5 INTRODUZIONE

La Malattia di Parkinson è una malattia multisistemica che coinvolge l'intero sistema nervoso. Alle tipiche manifestazioni motorie, si accompagnano e talvolta precedono una serie di segni e sintomi non motori (SNM) che hanno un impatto rilevante sulla qualità della vita (Saracchi & Apollonio, 2011; Shulman et al., 2007).

Gli effetti invalidanti della malattia possono determinare una riduzione della

partecipazione del soggetto alle attività che facevano parte del suo contesto di vita: il soggetto si trova a dover cambiare abitudini, hobby e talvolta è costretto a lasciare il lavoro (Basagni, 2011).

L'impatto psicologico di questi cambiamenti si traduce spesso in stati depressivi che vanno ad esacerbare una sintomatologia dell'umore, spesso già causata da effetti psico-fisiologici diretti della malattia, sentimenti di imbarazzo e vissuti stressanti (Bitti et al., 2006).

Oltre alla risposta personale, i fattori ambientali, e in particolare le caratteristiche del contesto sociale, giocano un ruolo cruciale nella percezione della malattia e

nell’atteggiamento che si può sviluppare verso di essa. Il supporto sociale, sia esso emotivo o strumentale, può influire positivamente sul vissuto di malattia e sui relativi aspetti emotivi come ad esempio la sintomatologia depressiva (Thomas et al., 1990). Questo fenomeno prende il nome di ‘effetto tampone’ o ‘effetto cuscinetto’ del supporto sociale. L’effetto tampone risulta particolarmente importante in soggetti con limitazioni fisiche, che a causa della loro condizione possono avere una riduzione della possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale e di mantenere una buona rete di relazioni. A tal proposito dalla letteratura emerge come sia più importante avere un buon supporto sociale che un grande supporto sociale: non è il numero delle relazioni a determinare il benessere, bensì la qualità delle relazioni stesse.

La famiglia, ed in particolare il compagno o la compagna, risultano essere per i soggetti parkinsoniani la principale fonte di supporto e un buon matrimonio sembra essere correlato al raggiungimento di maggiori livelli di indipendenza, di buon funzionamento e ad una migliore qualità di vita.

Tuttavia, pochi studi sinora hanno indagato in profondità questi aspetti, e soprattutto i rapporti tra percezione di supporto sociale e qualità delle relazioni significative.

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1.LA MALATTIA DI PARKINSON

La Malattia di Parkinson (MP) è una patologia neurologica a decorso cronico e progressivo e ad eziologia multifattoriale.

Si configura come una delle patologie neurodegenerative più frequenti, seconda soltanto alla Malattia di Alzheimer (de Lau & Breteler, 2006) e con una prevalenza destinata ad aumentare nel prossimo ventennio a causa dell'allungamento della vita media della popolazione generale (Van Den Eeden et al., 2003; Vallar et al., 2012).

Fu descritta per la prima volta nel 1817 da James Parkinson, medico londinese che notò “un piccolo gruppo di soggetti che si muovevano piuttosto lentamente, mostravano tremori regolari delle mani e della faccia quando erano fermi e camminavano con un portamento rigido” (Parkinson, 2002).

Nonostante il termine ”paralisi agitante” adoperato da Parkinson non si utilizzi più, la descrizione fenomenologica risulta ancora molto attuale.

L'identificazione delle basi neuropatologiche della MP, viene ricondotta agli studi del neurologo tedesco Friedrich Lewy. Nel 1912, Lewy individuò degli anomali aggregati proteici all'interno di alcune popolazioni di neuroni, la depigmentazione e la perdita di neuroni a carico della substantia nigra, come la possibile causa della Malattia di Parkinson (Rodrigues e Silva et al., 2010).

Le basi anatomopatologiche individuate dal neurologo tedesco, a oggi, restano i marcatori essenziali per una diagnosi di MP idiopatico.

Dal punto di vista anatomopatologico, infatti, la MP si caratterizza per la degenerazione dei neuroni dopaminergici della sostanza nera pars compacta (SNpc), con conseguente deficit dopaminergico a carico di caudato, putamen, globus pallidus, nucleus accumbens e nucleo subtalamico e per lo sviluppo di inclusioni citoplasmatiche dette Corpi di Lewy nei neuroni dopaminergici residui (Hornykiewicz, 1998; Rajput et al., 2008; Olanow, Stern & Sethi, 2009).

Le alterazioni suddette possono precedere di due o più decadi la comparsa dei sintomi tipici della MP (Gazeewood, Richards & Clebak, 2013). Secondo Bernheimer, la sintomatologia si presenta quando vi è un danneggiamento di almeno il 60% delle cellule della substantia nigra e una riduzione di almeno l'80% della quantità di dopamina nello striato (Bernheimer et al., 1973).

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7 La durata della cosiddetta “fase preclinica”, non è nota, ma alcuni studi la stimano intorno ai 5 anni (Gonera et al., 1997; Morrish et al., 1998).

Questi dati mettono in risalto come la malattia insorga molto prima della comparsa della sintomatologia conclamata. In linea con queste evidenze, un numero sempre maggiore di ricerche è volto all'individuazione di tecniche che permettano una diagnosi precoce e un intervento tempestivo finalizzato a rallentare significativamente il decorso di malattia.

La diagnosi di Malattia di Parkinson è prevalentemente clinica e si fonda sulla ricerca di segni e sintomi caratteristici quali bradicinesia, rigidità, tremore ed instabilità posturale, in concomitanza ad una progressione graduale della sintomatologia e una risposta sostenuta alla terapia con levodopa.

Oltre a ciò, se l'esordio di malattia si caratterizza per un coinvolgimento degli arti asimmetrico, si può rilevare una maggiore sicurezza diagnostica (Gelb et al., 1999). La registrazione dei segni clinici avviene mediante l'uso di scale di valutazione internazionale, tra queste la più utilizzata è la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale (Ramarker et al., 2002).

La diagnosi clinica, talvolta, può essere supportata dai dati forniti da tecniche di neuroimaging morfologico e funzionale che forniscono un contributo alla comprensione degli aspetti fisiopatologici della malattia e alla diagnosi differenziale (Costa & Caltagirone, 2009).

A oggi le tecniche più utilizzate sono la tomografia a emissione di positroni (Pet) e la tomografia a emissione di fotone singolo (Spect).

Diversi studi sottolineano come le due tecniche permettano una misura delle modificazioni striatali, seppur non di quelle della substantia nigra compatta. Inoltre, ambedue sembrano fornire dati promettenti per la rilevazione dei disturbi presintomatici della malattia (Costa & Caltagirone, 2009).

Sebbene siano stati fatti molti progressi, a oggi la diagnosi definitiva di Parkinson idiopatico si ottiene solo dall'esame autoptico, con il rinvenimento di corpi di Lewy nelle cellule della substantia nigra (Costa & Caltagirone, 2009).

La diagnosi differenziale può risultare particolarmente difficoltosa, soprattutto all'esordio di malattia, in quanto altre sindromi ne condividono sintomi e segni motori. Al contempo, non tutti i pazienti, in fase iniziale, presentano tutti i sintomi caratteristici

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8 della malattia (Antonini & Colombo, 2002).

1.1 EPIDEMIOLOGIA

La Malattia di Parkinson risulta essere la quarta tra le patologie neurologiche più frequenti dopo ictus, epilessia e demenze neurologiche congenite (Antonini & Colombo, 2002).

Nei paesi industrializzati la prevalenza della MP è stimata intorno allo 0,3% ed aumenta progressivamente con l'avanzare dell'età: molto rara al di sotto dei 40/ 50 anni, colpisce circa l' 1% degli individui di età superiore ai 60 anni, e circa il 4 % dei soggetti di età superiore agli 85 anni (Nussbaum & Ellis, 2003; de Lau & Breteler, 2006).

In Italia la prevalenza è compresa tra 65 e 243 casi ogni 100.000 abitanti. Si stima che ogni anno vi sia un nuovo caso ogni 4000 abitanti, uno ogni 1000 al di sopra dei cinquanta anni di età (Antonini & Colombo, 2002; Sistema nazionale per le linee guida dell’Istituto superiore di sanità, 2015).

I tassi di incidenza, cosi come per la prevalenza, raggiungono valori più elevati con il progredire dell'età: 0,3/ 1.000 abitanti con età compresa tra 55 e 65 anni e 4,4/ 1.000 abitanti con età maggiore di 85 anni (De Lau, Giesbergen et al., 2004). Inoltre, si prevede che entro il 2030 il numero dei casi sarà raddoppiato a causa del crescente invecchiamento della popolazione generale (Dorsey et al., 2007).

Sebbene numerosi studi evidenzino che non vi sia una differenza statisticamente significativa nella prevalenza della patologia nei soggetti di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile (De Lau & Breteler, 2006), alcune ricerche riportano una prevalenza leggermente più accentuata negli uomini (De Rijk et al., 2000; Lai et al., 2003).

Un importante studio condotto nel 2003 dai ricercatori del Kaiser Permanente di Oakland, in California, mostra un tasso globale per i maschi del 91% superiore a quello femminile: 19 casi ogni 100.000 uomini, contro 9,9 casi ogni 100.000 donne (Lai et al., 2003).

Un dato interessante è che, seppur la malattia sembri avere una durata e un decorso simile nei due sessi, le donne riferiscono una maggiore disabilità e una peggiore qualità di vita (Van Den Eeden et al., 2003).

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9 severi, mentre le donne sperimentano un maggior numero di discinesie indotte dal trattamento con levodopa (Lyons et al., 1998; Picillo et., 2017).

La maggior diffusione nel sesso maschile sembra riconducibile a fattori di diversa natura. Un ruolo rilevante è attribuibile ai fattori genetici, in quanto è stato evidenziato un legame tra genesi della malattia e una mutazione di alcuni geni presenti sul cromosoma X, di cui gli uomini hanno una copia sola. Gli uomini, inoltre, sembrano maggiormente esposti all'azione di sostanze tossiche (fattori ambientali).

Il ruolo principale però è riferibile ai fattori ormonali, in particolare gli estrogeni, ossia gli ormoni sessuali femminili, sembrano svolgere un ruolo protettivo nella genesi della MP (Shulman et al.,2007). Gli estrogeni possiedono, infatti, una funzione rilevante nel modulare la trasmissione dopaminergica, promuovendo la presenza di dopamina tra i neuroni, riducendo così il danno indotto dalla patologia (Picillo et., 2017).

Gli studi di epidemiologia descrittiva (prevalenza e incidenza) inizialmente si rifacevano a metodologie indirette che prevedevano, ad esempio, la consultazione di archivi di ospedali, di neurologi o di farmacie (Kessler 1972).

Nei casi come la Malattia di Parkinson, in cui tra l'esordio della sintomatologia e la diagnosi possono passare anche 18 mesi, taluni metodi risultano inadeguati. Essi, infatti, seppur economici in termini di costi e tempi, possono provocare una sottostima dei risultati.

A tal proposito, in anni più recenti, si è prediletto una metodologia di indagine diretta di tipo porta a porta. Tale metodologia permette un approccio diretto con tutta la popolazione oggetto di indagine, favorendo così il completo accertamento dei casi, anche di quelli in fase iniziale, che non hanno ancora ricevuto una diagnosi (De Rijk et al., 1995; Vanacore & Morgante, 2001).

1.2 EZIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO

Dopo l'iniziale osservazione di James Parkinson (1817), molti autori cercarono, seppur con scarso successo, una singola causa della malattia.

Charcot nel 1878 attribuì la causa della MP allo stress e ad eventi psichici traumatici; negli anni successivi diverse ipotesi riconobbero una causa ereditaria, altre ricondussero la malattia ad anomalie nel sistema endocrino (de Lau & Breteler, 2006).

A oggi, seppur l'eziologia resti ancora poco conosciuta, si ritiene che la genesi della malattia sia multifattoriale, piuttosto che il risultato di un singolo fattore. In particolare

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10 la malattia risulterebbe dalla combinazione tra una predisposizione genetica e fattori ambientali variabili da individuo a individuo (Noyce et al., 2012).

Benché l'età rappresenti il principale fattore di rischio, anche l'esposizione protratta a sostanze tossiche e la familiarità hanno mostrato una correlazione con lo sviluppo della malattia (de Lau & Breteler, 2006; Sherer et al., 2012).

In riferimento all'ipotesi tossica, l'esposizione sperimentale dei modelli animali a differenti classi di pesticidi ha permesso di individuare due insetticidi, il rotenone e il paraquat, in grado di condurre a neurotossicità dopaminergica. In particolare il rotenone sembra indurre nei ratti delle caratteristiche cliniche e patologiche simil parkinson, comprese la degenerazione selettiva del sistema dopaminergico nigrostriatale e i disordini del movimento (Betarbet et al., 2000)

Numerosi studi, tra cui una metanalisi di studi epidemiologici dello scorso secolo (Priyadarshi et al., 2000), avvalorano la tesi che l'esposizione a pesticidi usati comunemente in agricoltura aumenti il rischio di contrarre la malattia di Parkinson (Gorell et al., 1998). Proprietà analoghe al rotenone sembrano essere state individuate in una sostanza definita tetraidropiridina (1-metil-4-phenil-1,2,3,6- tetraidro-piridina), conosciuta più semplicemente con il termine MPTP. L' MPTP è un sottoprodotto della sintesi di droghe d'abuso.

L'identificazione della relazione tra questa sostanza e la MP è riconducibile ad uno studio effettuato da Langston e colleghi, nel 1984, nel Nord della California, su un gruppo di giovani parkinsoniani. Benché l'esordio acuto e l'andamento tumultuoso della malattia in questi soggetti differiva dalla forma classica di Malattia di Parkinson, la sintomatologia poteva essere ricondotta a questa forma di malattia neurodegenerativa. Caratteristica peculiare di questi soggetti era una spiccata tossicodipendenza e lo sviluppo dei sintomi in seguito all'iniezione endovenosa di una droga sintentica, denominata “nuova eroina” contenente Mtpt (Langston et al., 1984).

Di recente interesse sono gli studi volti ad indagare una possibile relazione tra tipo di occupazione e/o il luogo di residenza e la comparsa della Malattia di Parkinson. In tal senso, una questione controversa è quella relativa all'esposizione a metalli pesanti e rischio di sviluppare MP.

L'esposizione protratta e un'occupazione a stretto contatto con metalli pesanti, quali maganese, ferro, rame e alluminio sembrano aumentare il rischio di contrarre la patologia (Tan, 2013).

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11 Nel 2005, Racette e colleghi, hanno svolto un'indagine in Alabama per verificare se la frequenza di MP fosse più elevata tra chi svolgeva un'occupazione di saldatore. Dai loro dati emerge che i soggetti che svolgevano questo tipo di lavoro presentavano una frequenza di MP 10 volte maggiore rispetto alla popolazione generale di pari età e sesso (Racette et al., 2005).

Inoltre, da recenti studi epidemiologici emerge come l'esposizione ad aree urbane con alti livelli di manganese nell'atmosfera aumenti di circa 2 volte l'incidenza del Parkinson nella popolazione, rispetto agli abitanti di zone meno inquinate (Medici et al., 2011). Nonostante l'elevato interesse per questo tema, solo una piccola parte di studi sembrano confermare una possibile associazione tra l'esposizione a metalli pesanti e il rischio di sviluppare MP (Tan, 2013).

Da un'analisi della letteratura si evidenzia, inoltre, un numero ridotto di ipertesi tra i malati di Parkinson e un'alta frequenza di traumi cranici. Correlazioni queste che ancora attendono risposte precise (Peppe, 2009; Gao et al., 2016).

Molti altri fattori di rischio suggeriti, tra cui il consumo di latte, l'obesità e una dieta ad alto contenuto di ferro, non hanno avuto un riscontro statisticamente significativo negli studi epidemiologici effettuati (Tan, 2013).

Lo studio e l'analisi dello stile di vita e le abitudini alimentari dei soggetti ha permesso di identificare alcuni fattori che sembrano svolgere un ruolo protettivo nella genesi della Malattia di Parkinson. Svolgere abitualmente attività fisica, il consumo di caffè, il fumo di sigaretta (nicotina) e l'assunzione di ibuprofene presentano una correlazione inversa allo sviluppo della malattia (Samii et al., 2009; Gao et al., 2016).

Numerose ricerche epidemiologiche hanno riscontrato una relazione di dose-effetto tra il numero di sigarette fumate al giorno, il numero di anni dall'inizio dell'abitudine a fumare e la riduzione del rischio. Il rischio, in più, sembra ridotto per soggetti

ex-fumatori e per i consumatori di tabacco da masticare e tabacco da fiuto (Tan, 2013). Da un punto di vista biologico questi dati non trovano ancora una spiegazione univoca, sebbene sia accertato che la nicotina e la caffeina abbiamo un'azione importante sul sistema nervoso centrale.

Alcune ipotesi mettono in relazione una minor assunzione di caffè e nicotina ai disturbi olfattivi che rappresentano un importante sintomo prodromico di malattia. Altre, riconducono queste abitudini voluttuarie al sistema di reward, un circuito tipicamente dopaminergico. La diminuita funzionalità dopaminergica, caratteristica della MP,

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12 sembrerebbe causare una ridotta attività di questo sistema e quindi una minor propensione per tali comportamenti (Costa & Caltagirone, 2009).

Nella maggior parte dei casi la Malattia di Parkinson è idiopatica, ossia, non è riconducibile a cause conosciute. Una piccola percentuale, circa il 10%, invece, può essere ricondotta a fattori genetici.

L'importanza dei fattori causali genetici è stata enfatizzata da studi che evidenziano una più alta incidenza di Malattia di Parkinson nei parenti di primo grado dei pazienti (Lazzarini et al., 1994) e un tasso di concordanza più elevata nei gemelli omozigoti rispetto a quelli dizigoti (Girotti & Fetoni, 2009).

Gli studi sui gemelli suggeriscono come l'ereditarietà possa svolgere un ruolo importante, in particolare nei casi ad esordio con età inferiore ai 50 anni, mentre appare meno significativa per i casi ad esordio tardivo (Burn et al., 1992).

I progressi della genetica molecolare hanno permesso di individuare diversi geni associati alla MP: alcuni a modalità di trasmissione autosomica dominante, come, α-Synucleina (PARK 1 and PARK 4), UCHL 1 (PARK 5), LRRK2 (PARK 8), GIGYF2 (PARK 11); e altri a modalità di trasmissione autosomica recessiva, quali, Parkin (PARK 2), PINK 1 (PARK 6) e DJ-1 (PARK 7) (Lesage & Brice, 2009).

I fenotipi clinici dei pazienti con malattia di Parkinson familiare si discostano in parte da quelli della malattia sporadica: hanno esordio generalmente più precoce e soprattutto le forme PARK 2, PARK 6 e PARK 7 sembrano avere un'evoluzione più lenta e una buona risposta alla levodopa (Girotti & Fetoni, 2009).

1.3 LE MANIFESTAZIONI CLINICHE

1.3.1 Sintomi motori

La Malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa del sistema nervoso centrale caratterizzata da: tremore, rigidità e bradicinesia.

Accanto alla triade sintomatologica classica, l'instabilità posturale è un quarto sintomo considerato distintivo della patologia, sebbene si manifesti per lo più in fase avanzata della stessa (Gelb et al., 1999).

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13 Il tremore rappresenta la manifestazione neurologica iniziale nel 70-80% dei casi nella MP ed è comunemente un tremore a riposo (Hughes et al., 1993). In genere esordisce in maniera unilaterale o asimmetrica a livello di un arto superiore, per poi diffondersi in seguito a livello controlaterale (Scott et al., 1970). Può interessare anche gli arti inferiori, le labbra e la lingua, mentre raramente è coinvolto il capo (Hunker & Abbs, 1990).

L' intensità del tremore non è sempre uguale: aumenta in determinate posture e in situazioni emotive-affettive che il soggetto reputa stressanti; si riduce, talvolta, fino a scomparire completamente durante i movimenti volontari e il sonno (Costa & Caltagirone, 2009).

Alcuni pazienti con MP possono avere un tipo di tremore definito riemergente

(re-emergent tremor), ossia un tremore posturale che può manifestarsi dopo una certa latenza, durante un movimento volontario (Louis et al., 2001).

La rigidità o ipertonia plastica è definibile come un aumento della resistenza del muscolo allo stiramento. Si sviluppa nel 90% dei pazienti affetti da parkinson ed il suo esordio è generalmente monolaterale (Louis et al., 1997).

Essa risulta distribuita a tutti i gruppi muscolari ma tende a prevalere sui muscoli flessori e adduttori, conferendo al paziente il classico atteggiamento camptocormico. Durante la giornata può avere un andamento fluttuante a seconda del tono dell'umore e delle perturbazioni emotive .

Un altro sintomo cardine è la bradicinesia, ossia, la difficoltà nell’iniziare un movimento e il rallentamento nell'esecuzione del movimento stesso. Se coinvolge gli arti superiori si manifesta attraverso una diminuzione della destrezza digitale e manuale nei movimenti fini (ad esempio il paziente lamenta difficoltà nell'abbottonare la camicia, radersi e nel tagliare il cibo). Se ad essere compromessi sono, invece, gli arti inferiori è possibile rilevare alterazioni della deambulazione con una tipica andatura “strisciante a piccoli passi”.

Con il progredire della malattia è possibile notare anche altre manifestazioni della bradicinesia, quali, l'ipofonia (abbassamento del tono della voce) l'ipomimia e la difficoltà a deglutire.

La bradicinesia è tra i sintomi più rilevanti e si configura come il motivo principale di disabilità nei pazienti con MP, a causa del forte impatto che determina nelle cosiddette activity of daily living .

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14 Un sintomo che in qualche modo può essere correllato alla bradicinesia, seppur più tardivo, è il freezing definito anche fenomeno del ''congelamento''.

Il freezing è un disturbo della deambulazione che si caratterizza per la presenza di un blocco motorio all’inizio della marcia (“come se i piedi fossero ancorati al terreno” o “congelati”). Esso si manifesta talora anche nei cambi di direzione e nel passaggio in spazi angusti e ristretti, oppure, qualora il soggetto si trovi a dover compiere due o più attività contemporaneamente, come ad esempio camminare e parlare allo stesso momento (Heremans et al., 2013).

Il freezing sembra associarsi ad un peggioramento della mobilità, un aumento del rischio di cadute e ad un peggioramento della qualità della vita (Perez Lloret et al., 2014).

L'instabilità posturale è un sintomo tardivo della MP ed è causata dalla perdita di riflessi posturali di raddrizzamento unita alla bradicinesia e la rigidità. È responsabile di una sensazione di disequilibrio ed un aumento del rischio di cadute. A livello semeiologico la sua presenza si evidenzia con la “prova della spinta” .

Durante il decorso di malattia, oltre alle manifestazioni cliniche appena descritte, è possibile apprezzare altri segni “motori”, tra cui disfagia e scialorrea .

La diagnosi non è sempre tempestiva, spesso i sintomi non vengono riconosciuti immediatamente, perché si manifestano in modo subdolo e incostante e il tremore non è sempre presente. I pazienti, nelle fasi iniziali, riferiscono una sensazione di debolezza e un impaccio nell’esecuzione di movimenti consueti. Talvolta, sono i familiari o i conoscenti che si accorgono per primi che "qualcosa non va" ed incoraggiano l'interessato a rivolgersi al medico.

1.3.2.I sintomi non motori

Nonostante la sintomatologia motoria rivesta un ruolo fondamentale nella definizione della sindrome clinica, a oggi, la Malattia di Parkinson è considerata come una malattia multisistemica che coinvolge l'intero sistema nervoso. Alle tipiche manifestazioni motorie, si accompagnano e talvolta precedono una serie di segni e sintomi non motori (SNM) che hanno un impatto rilevante sulla qualità della vita (Saracchi & Apollonio, 2011; Shulman et al., 2007).

I disturbi non-motori sono molteplici e comprendono disordini del comportamento e della sfera affettiva, demenza, disturbi disautonomici, alterazioni del sonno e della sensibilità .

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15 Figura 2: Complesso dei sintomi non motori della Malattia di Parkinson (Chauduri et al, 2005)

Disturbi del sonno

 Sindrome della gambe senza riposo e movimenti periodici delle braccia

 Disturbi del sonno REM e Disturbi Comportamentali della fase REM (REM Behavioural Disorder (RB)

 Disturbi del movimento connessi al sonno Non-REM  Eccessiva sonnolenza diurna (ESD)

 Sogni vividi  Insonnia

 Alterazioni del respiro durante il sonno Sintomi autonomici

 Disturbi della vescica (Urgenza, Nicturia, Frequenza)  Sudorazione

 Ipotensione ortostatica (Cadute connesse all’ipotensione ortostatica , Dolore)  Disfunzioni sessuali:

- Ipersessualità (che può essere indotta dall’assunzione di farmaci) - Impotenza erettile

 Secchezza degli occhi Sintomi cognitivi

 Disturbi Cognitivi

 Mild Cognitive Impairment  Demenza

Sintomi affettivi e comportamentali (D.Psichiatrici)  Depressione,apatia, ansia

 Anedonia

 Allucinazioni, illusioni, deliri

 Comportamenti ossessivi (di solito indotti dai farmaci), comportamenti ripetitivi  Confusione

 Delirio (che potrebbe essere indotto dai farmaci)  Attacchi di panico

Sintomi gastrointestinali (si sovrappongono ai sintomi autonomici)  Aumento eccessivo della salivazione

 Ageusia

 Disfagia e soffocamento  Reflusso, vomito

 Nausea  Costipazione

 Evacuazione incompleta dell’intestino  Incontinenza fecale

Sintomi sensoriali  Dolore  Parestesia

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16 Altri sintomi  Stanchezza  Diplopia  Visione offuscata  Seborrea  Perdita del peso

Già nelle prime descrizioni della malattia, James Parkinson notò come accanto alla sintomatologia motoria, di frequente erano presenti stipsi, disturbi del sonno, incontinenza urinaria e confusione .

Tuttavia, è solo negli ultimi anni che si è cominciato a mostrare interesse per tali aspetti della malattia, visto il loro considerevole impatto sulla routine quotidiana e la loro prevalenza. Si stima, infatti, che circa il 95% di pazienti presentino manifestazioni non motorie nelle diverse fasi della malattia (Saracchi & Appollonio, 2011).

In uno studio prospettico condotto su pazienti parkinsoniani seguiti per 15-18 anni, Hely e colleghi (2005) hanno indagato il ruolo e l’effetto complesso dei sintomi non motori della MP. Da questo studio è emerso che i sintomi non motori risultano gli aspetti più disabilitanti della malattia e tra questi sintomi quelli che i pazienti percepiscono come maggiormente disabilitanti sono i disturbi del sonno, le difficoltà mnestiche e gli episodi confusionali (Chaudhuri, Healy & Schapira, 2006).

L'eziologia della sintomatologia non motoria è complessa e include alterazioni neurofisiopatologiche, l'esposizione al trattamento e alcuni fattori psicosociali.

Sebbene la sintomatologia non motoria risulti molto ampia, descriveremo di seguito solo i disturbi più inerenti allo scopo di questa tesi.

1.3.2.2 Disturbi del sonno

Il dominio non motorio più frequentemente coinvolto nella MP è rappresentato dai disturbi del sonno. Nel complesso, si stima che circa il 90% dei soggetti presentino insonnia, ipersonnia, frammentazione del sonno, incubi, movimenti notturni anomali o un disturbo comportamentale della fase REM (REM Behavioural Disorder o RBD) (Arnulf, Bonnet et al., 2000). Sebbene i disturbi del sonno siano assai frequenti, le donne e/o coloro che presentano una MP di tipo idiopatico riportano livelli maggiori di tale sintomatologia (Chahine, Amara & Videnovic, 2016).

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17 I disturbi del sonno hanno un forte impatto “ecologico” sulla persona e contribuiscono ad un peggioramento della qualità della vita del paziente e del cosiddetto “bed partner”

(Chahine, Amara & Videnovic, 2016).

Molti pazienti lamentano una certa frammentazione del sonno, caratterizzato da numerosi risvegli e una conseguente difficoltà a ritrovare la giusta posizione nel letto e riuscire a riprendere sonno (Pacchetti, 2008).

La frammentazione del sonno sembra conseguire a diverse cause, prima fra tutte è la presenza di acinesia notturna che impedisce al paziente di muoversi e girarsi nel letto con agilità. Le distonie, spesso accompagnate da crampi dolorosi agli arti inferiori sono un’altra frequente causa (Videnovic et al., 2014), insieme all’eventuale presenza di discinesie, dovute a terapia antiparkinsoniana.

La nicturia, tipica delle fasi più avanzate della malattia, inoltre, costringe il paziente a svegliarsi più volte durante la notte e talvolta a richiedere l'aiuto del partner per raggiungere il bagno a causa del blocco motorio che gli impedisce di alzarsi o muoversi in breve tempo (Chahine, Amara & Videnovic, 2016).

Un altro disturbo del sonno frequente nei soggetti con parkinson è la Sindrome delle Gambe senza Riposo che si caratterizza per un'urgenza di muovere gli arti inferiori al fine di placare fastidiose ed anomale sensazioni (Sateia, 2014).

Inoltre, una percentuale che va dal 20 al 60% dei soggetti riporta un'Eccessiva sonnolenza Diurna (ESD) (Videnovic et al., 2014).

L’eziologia dell’ESD nella MP risulta controversa: alcuni studi vedono l’eccessiva sonnolenza diurna come indipendente dalla presenza di altri disturbi del sonno, altri la identificano come naturale conseguenza della frammentazione del sonno, tipica di questi pazienti(Chahine, Amara & Videnovic, 2016).

Indipendentemente dall’eziologia, l’ESD costituisce un rischio per la sicurezza dei soggetti e influisce negativamente sulla loro qualità della vita. I soggetti si trovano, talvolta, a ridurre le attività sociali e a interrompere le attività lavorative a causa dell’eccessiva sonnolenza (Chahine, Amara & Videnovic, 2016).

La presenza di ESD, inoltre, correla positivamente con alcune manifestazioni cliniche, quali, il grado avanzato di malattia, la sintomatologia depressiva e deficit cognitivi anche di lieve entità (Karlsen et al., 1999; Gjerstad et al., 2006).

Oltre alle alterazioni quantitative appena descritte, il sonno nella Malattia di Parkinson presenta alterazioni anche su un piano più qualitativo.

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18 Il disturbo del sonno maggiormente riscontrato e caratteristico della malattia risulta, infatti, il REM Behavioural Disorder (RDB).

Esso fa parte della categoria delle parasonnie associate al sonno REM ed è caratterizzato da movimenti improvvisi ed energici di tutto il corpo o dei soli arti e da vocalizzazioni. L'intensità delle suddette manifestazioni è tale che può causare danni fisici al paziente stesso o al suo partner di letto (Comella et al., 1998; Scaglione et al., 2005).

Le attività motorie e i vocalizzi sono in stretto rapporto con il contenuto onirico del soggetto, spesso descritto come un incubo in cui il paziente viene rincorso ed attaccato da animali e persone (Saracchi & Appollonio, 2011).

Il REM Behavioural Disorder nei pazienti con MP ha una prevalenza piuttosto variabile che va dal 30 al 41% e si riscontra negli uomini e nelle donne con la stessa percentuale (Sixel-Döring et al., 2011).

E' bene tener presente che alcuni soggetti, soprattutto quelli che dormono da soli, potrebbero non essere consapevoli delle proprie parasonnie e quindi non menzionarle durante l’anamnesi clinica, seppur presenti (Gagnon et al., 2002).

L'RDB viene considerato come una manifestazione prodromica: individui con RDB hanno un rischio maggiore di sviluppare la MP nei successivi 10 anni (Ross, et al., 2008; Bradley & Boeve, 2010). Inoltre, la sua presenza sembra associarsi ad un aumento del rischio di sviluppo di disturbi cognitivi, quali Mild Cognitive Impairment e demenza (Gong et al., 2014).

1.3.2.2.Disturbi della sfera sessuale

Una parte rilevante della salute fisica e mentale e del benessere dell’individuo è riconducibile alla salute sessuale. Essa è descritta come “lo stato di benessere fisico, mentale e sociale correlato alle funzioni del sistema riproduttivo” (Priori, 2008). La sessualità è particolarmente rilevante per la qualità della vita nelle patologie croniche come la Malattia di Parkinson, non solo per disturbi del paziente, ma anche per l’instaurarsi di alterate dinamiche relazionali con il partner che, spesso, è anche il

caregiver (Fasolo et al., 2008).

In una percentuale che varia tra il 60 e l'80% dei soggetti parkinsoniani è possibile individuare disfunzioni sessuali: negli uomini, i disturbi maggiormente riscontrati sono problemi di erezione e di eiaculazione; nelle donne abbiamo una difficoltà a raggiungere

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19 l'orgasmo e scarsa lubrificazione (Brown et al., 1990). Conseguentemente a ciò, non stupisce che una buona percentuale di soggetti riporti una certa insoddisfazione per la propria vita sessuale (Bronner et al., 2004). È bene sottolineare, inoltre, che le disfunzioni sessuali rappresentano per questi pazienti una delle caratteristiche maggiormente demoralizzanti e disabilitanti del quadro patologico (Fasolo et al., 2008). La funzione sessuale e la normale attività erettile sono legate al funzionamento di diversi neurotrasmettitori: la dopamina e la norepinefrina provocano lo stimolo sessuale, la serotonina, viceversa, sembra inibirlo (Giuliano & Allard, 200).

Oltre a ciò, a livello neuroendocrino, la dopamina va ad aumentare i livelli di ossitocina, la quale risulta coinvolta nell'erezione, nell'arousal e nel raggiungimento dell'orgasmo; al contempo, la dopamina va anche ad inibire la prolattina che interferisce con la libido (Meco, 2005).

Il sistema dopaminergico risulta, quindi, avere un ruolo importante nella funzione sessuale sia dell'uomo che degli animali (Giuliano & Allard, 2001). Dal momento che nella MP è presente una degenerazione dei neuroni contenenti e rilascianti dopamina è evidente che i sistemi responsabili della funzione sessuale possano venir seriamente compromessi (Fasolo et al., 2008).

Sebbene la causa principale sia riconducibile ad un coinvolgimento del sistema nervoso Autonomo, numerosi fattori contribuiscono alla salute sessuale dei soggetti parkinsoniani (Brown et al., 1990; Paredes & Agmo, 2004).

La sintomatologia motoria, quale, la presenza di rigidità, tremore, immobilità nel letto e difficoltà nei movimenti delle mani possono ostacolare il contatto fisico tra i due partner e rendere difficile l’eccitamento sessuale. Ciò porta il paziente ad avere un ruolo sessuale più passivo, imponendo al partner un ruolo più attivo (Bronner et al., 2004). Oltre a ciò, alcuni cambiamenti fisici come la sudorazione eccessiva, la scialorrea, i disturbi della postura, le discinesie e i movimenti goffi possono rendere i pazienti meno attraenti (Basson, 2001). La presenza d’ipomimia, inoltre, può essere erroneamente interpretata dal partner come mancanza di emozioni o desiderio (Brown et al., 1990). I disturbi del sonno, poi, possono portare a separazione di letto dal partner e ciò diminuisce ulteriormente le opportunità di contatto intimo (Basson, 2001).

La presenza di sintomatologia apatica, depressiva e ansiosa, frequente nei soggetti parkinsoniani, può determinare una ridotta funzione e soddisfazione sessuale (Brown et al., 1990; Ferguson, 2001). L'ansia da prestazione e la paura di fallire, ad esempio,

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20 possono andare a peggiorare la performance sessuale anche quando la causa organica primaria si è risolta (Brown et al., 1990).

Anormalità nella corteccia pre-frontale (la cui funzionalità è regolata dalla dopamina) e nelle sue connessioni subcorticali prodotte dalla MP, sono frequentemente associate ad una sindrome abulica, caratterizzata da una mancanza di motivazione e auto iniziativa che sembra coinvolgere anche il desiderio sessuale (Macht, Schwarz & Ellgring, 2005; Fasolo et al., 2008).

Infine, vari farmaci antiparkinsoniani e antidepressivi utilizzati per ridurre la sintomatologia possono contribuire all'alterazione della salute sessuale. La terapia dopaminergica, ad esempio, determina un incremento della libido e sebbene permetta di ripristinare l'attività sessuale nel 8% dei pazienti, grazie anche al miglioramento della sintomatologia motoria, nell'1% induce ipersessualità (Yahr & Duvoisin, 1972; Weintraub et al., 2006; Vilas et al., 2012).

L’ipersessualità patologica può essere definita come “il bisogno di comportamento sessuale che consuma così tanto denaro, tempo, concentrazione ed energia da lasciare il paziente fuori controllo; pensieri parafiliaci intrusivi e involontari impediscono una concentrazione in altri ambiti di vita e costituiscono fonte d’ansia; l’orgasmo non appaga nel modo in cui avviene per altre persone della stessa età” (Kaplan, Sadock & Grebb, 1994).

Benché la prevalenza dei disturbi della sfera sessuale e il loro impatto sulla qualità della vita siano piuttosto significativi, pochi studi affrontano l'argomento e la maggior parte di essi si limitano a riportare un legame tra trattamento con levodopa e ipersessualità (Brown et al., 1990).

Il relativo poco interesse per questa parte della sintomatologia non motoria è dovuta ad un'idea generale che essendo una malattia prevalentemente dell'età avanzata, la sessualità non rivesta un ruolo cosi preponderante nella vita di questi soggetti.

In realtà sebbene la frequenza dei rapporti sessuali possa diminuire con l'età, l'interesse per il sesso non risulta necessariamente diminuito (Brown et al., 1990).

L'indagine della salute sessuale di questi soggetti, quindi, è fondamentale benché risulti tutt'altro che semplice. La tematica è piuttosto delicata e per molti soggetti affrontare l’argomento rappresenta fonte di vergogna. Inoltre, se sottoposti a questionari relativi a questa dimensione, i soggetti spesso cercano di dare risposte in linea con la desiderabilità sociale e non con la loro reale situazione.

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21 1.3.2.3 Disturbi cognitivi

Numerosi studi riportano che al momento della diagnosi di MP, si riscontrano problematiche cognitive in circa il 40% dei soggetti (Palmeri et al., 2017) e l'area principalmente coinvolta è quella del funzionamento esecutivo (McKinlay et al., 2010). Nei soggetti parkinsoniani, non è raro, riscontrare deficit di pianificazione,

problem-solving e set-shifting (Mc Namara, 2003).

I compiti in cui risultano maggiormente deficitari sono quelli in cui è necessario produrre una risposta comportamentale basandosi su stimoli auto-generati, ossia, laddove è richiesta al soggetto la messa in atto di strategie spontanee (Brown, Soliveri & Jahanshahi, 1998).

Il sistema dell'attenzione è strettamente connesso al funzionamento esecutivo e quindi non stupisce che in soggetti con MP si riscontrino anomalie anche a questo livello. I soggetti possono mostrare una certa difficoltà o una vera e propria incapacità a focalizzare e mantenere l'attenzione volontaria su un certo stimolo con una tendenza ad essere facilmente attratti da aspetti irrilevanti dell'ambiente (Zgaljardic et al., 2003). Un fenomeno caratteristico di questi soggetti è la bradifrenia (o acinesia psichica), ossia, un certo rallentamento nei processi mentali con perdita di concentrazione, incapacità a creare nessi logici, tendenza alla perseverazione e rallentamento generalizzato dei processi di pensiero (Boller, 1996). Il suddetto rallentamento psicomotorio risulta indipendente rispetto alle richieste motorie.

La memoria, non risulta compressa come nella Malattia di Alzheimer (Stocchi, 2005) e più precisamente i deficit riguardano non tanto la capacità di memorizzare quanto la possibilità di accedere ai dati memorizzati.

Saint e Cyr evidenziano la presenza negli stadi iniziali della malattia di deficit nell'apprendimento procedurale in presenza di memoria dichiarativa conservata, quest'ultima sembra andare in contro a compromissione solo negli stati più avanzati. Nelle fasi avanzate di malattia sono tipici disturbi visuo-spaziali riscontrabili sia nei compiti di memoria di lavoro che di problem-solving (McNamara, 2003).

Sebbene le abilità elementari di linguaggio e calcolo restino invariate (Costa & Caltagirone, 2009), l'eloquio spontaneo può risultare poco informativo, con difficoltà nella comprensione e nella produzione di strutture sintattiche complesse (Palmeri et al., 2017). Inoltre molti soggetti riferiscono una certa difficoltà nel reperire la parola giusta al momento giusto.

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22 La presenza di sintomatologia cognitiva, seppur lieve, può danneggiare il funzionamento sociale e lavorativo del soggetto, entrambi fattori protettivi per mantenere una buona qualità di vita (Palmeri et al., 2017). Oltre a ciò, la presenza di sintomatologia cognitiva può determinare un peggioramento della qualità della vita e un aumento dei livelli di stress del caregiver (Schrag et al., 2000; Duncan et al., 2014). Numerosi studi, a oggi, sono volti all'identificazione di quei fattori che sembrano esporre ad un maggior rischio di sviluppare declino cognitivo. Oltre all'età elevata (William-Gray et al., 2007; McColgan et al., 2012) e la severità del disturbo motorio (Muslimovic et al., 2005) anche la bassa scolarità (Foltynie et al, 2004; Kim et al., 2009) e il sesso maschile sembrano avere un ruolo nella genesi di questi disturbi (Aarsland et al., 2010).

Inoltre, la presenza di depressione si configura come un fattore di rischio importante nello sviluppo di un disturbo cognitivo lieve (Aarsland et al., 2010).

Recentemente si è associato il concetto di Mild Cognitive Impairment (MCI) alla Malattia di Parkinson. Per Mild Cognitive Impairment si intende una condizione di transizione, intermedia tra un invecchiamento fisiologico e le franca demenza.

Sebbene vi siano dati controversi, una revisione della letteratura, permette di stimare la prevalenza media di PD-MCI intorno al 28%, con un range che varia dal 19% al 38% e la frequenza sembra aumentare con l'età e la durata di malattia (Litvan et al., 2011) La presenza di MCI viene considerata uno stato prodromico di un declino cognitivo più grave che può portare fino allo sviluppo di demenza (PDD). In uno studio longitudinale di Janvin e colleghi (2006), è emerso che il 62 % dei pazienti con PD-MCI, ad un follow-up di 4 anni avevano sviluppato demenza.

La demenza si presenta prevalentemente nelle fasi avanzate di malattia con una prevalenza che può variare tra il 24 e il 31% dei casi in base alla popolazione studiata ed ai criteri utilizzati per la diagnosi e si configura come la causa del 3-4% dei casi di demenza nella popolazione generale (Aarsland et al., 2005).

Il tipico profilo clinico della PDD è quello di una sindrome disesecutiva con compromissione dell’attenzione, modificazioni della personalità e disturbi del comportamento (Stocchi, 2005).

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23 1.3.2.3 Disturbi Psichiatrici

I disturbi psichiatrici più frequenti nella Malattia di Parkinson sono la depressione, l’ansia, l’apatia e l’anedonia. Oltre a ciò è possibile riscontrare anche la presenza di allucinazioni, deliri e disturbi del controllo degli impulsi come conseguenza

dell’interazione tra le caratteristiche cliniche della malattia e la terapia con farmaci dopaminergici (Aarsland et al., 1999; Thanvi et al., 2003; Poletti & Bonuccelli, 2011).

Depressione

La sintomatologia depressiva rappresenta il fenomeno neuropsichiatrico più frequente nella MP. Si stima una prevalenza intorno al 17% per aspetti inquadrabili in un disturbo depressivo maggiore, un 22% per la depressione minore e un 13% per la distimia (Rocha et al., 2013). La prevalenza tende a variare in base agli strumenti utilizzati per la misurazione e ai criteri diagnostici utilizzati (Marsh et al., 2013; Oguru et al., 2010). La diagnosi di disturbo dell'umore nella MP non è semplice perché alcuni sintomi tipici della depressione possono sovrapporsi o essere confusi con quelli classici della malattia. Ad esempio, l'appiattimento emotivo, la preoccupazione per la salute, la perdita del desiderio e la riduzione della libido possono non essere di facile interpretazione (Marsh et al., 2013). Al contempo, la bradicinesia e l'acinesia, associate all'ipomimia possono essere interpretate erroneamente come una perdita dell'iniziativa e non come un aspetto motorio della patologia.

Tuttavia, i sintomi depressivi nei pazienti con MP risultano qualitativamente differenti da quelli della depressione maggiore: pessimismo, sensi di colpa e pensieri suicidiari, tipici del disturbo depressivo maggiore, risultano meno frequenti rispetto a disforia e irritabilità (Taylor et al., 1986).

Sebbene l'eziologia della depressione nella Malattia di Parkinson resti ancora controversa, principalmente si possono riconoscere due ipotesi: la prima, secondo la quale la depressione rappresenta un disturbo neuropsichiatrico conseguente a cambiamenti neurochimici tipici della malattia (Mayeux et al., 1986; Ring et al., 1994; Cheng et al., 2008); la seconda, invece, riconosce nella depressione una reazione alle difficoltà che la malattia porta con sé (Marsh et al.,, 2013).

Diverse ricerche sottolineano che i soggetti affetti da Malattia di Parkinson presentano livelli maggiori di depressione rispetto a soggetti con altre patologie croniche disabilitanti (Ehmann et al., 1990). Inoltre, è possibile rilevare una maggiore

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24 prevalenza life-time di disturbi depressivi nei soggetti con MP, rispetto ai controlli non parkinsoniani (Shiba et al., 2000).

Le suddette evidenze indicano una forte relazione tra depressione e MP e indeboliscono l'ipotesi che la sintomatologia depressiva sia reattiva all'insorgenza della sintomatologia disabilitante.

Tuttavia, un numero crescente di studi, evidenziano che i fattori psicologici, quali la stima di sé, le strategie di coping e il supporto sociale, ricoprono un ruolo fondamentale nella presenza e nella progressione della sintomatologia dell'umore (Brown & Jahanshai, 1995; Simpson, MacMillan & Reeve, 2013).

E' importante sottolineare che anche bassi o moderati livelli di depressione hanno effetti importanti sulla salute, sulle attività giornaliere e sulle relazioni interpersonali nei soggetti non disabili. Pertanto è ragionevole pensare che abbiano un effetto simile o maggiore nelle persone con difficoltà motorie come nella MP.

La risposta del soggetto alla sofferenza è legata alla sua capacità di razionalizzare la nuova situazione che si trova a vivere e di trovare risposte ad essa. In questa risposta sta la capacità o meno di relazionarsi con il mondo circostante e di conseguenza l'importanza delle implicazioni psicosociali capaci di determinare o meno l'insorgenza di disturbi depressivi. Una buona risposta, infatti, permetterà al soggetto di trovare un suo equilibrio e affrontare le problematiche presenti. Se, al contrario, ciò non avverrà, lo sconforto per ciò che si è perduto o si perderà prenderà il sopravvento, si manifesteranno tutte quelle reazioni di negatività e una sintomatologia depressiva (Marano et al., 2008).

Di fronte a un evento stressante, quale la diagnosi di Malattia di Parkinson, se la persona valuta la situazione come minacciosa e ingestibile, tenderà a sottostimare le risorse di cui dispone e attuerà delle strategie di coping basate sull'evitamento e la passività. Un approccio di questo tipo determina un incremento della dipendenza sociale e una minore indipendenza funzionale, entrambe connesse con l'insorgenza di un disturbo depressivo (Garlovsky, Overton & Simpson, 2016). Utilizzare invece un coping attivo come la ricerca di informazioni e uno spirito combattivo determinano un miglior adattamento alla malattia e una minor possibilità di sviluppare depressione (Ehmann et al., 1990).

Inoltre, la percezione di supporto sociale ricevuto dalla famiglia correla positivamente con la diminuzione di distress psicologico e con un miglioramento della sintomatologia

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25 depressiva (Ehmann et al., 1990).

Le variabili demografiche come il sesso, l'età e lo stato civile sono stati inizialmente considerati indipendenti dallo sviluppo o meno di un disturbo dell'umore ma contrariamente alle aspettative sembrano avere un'influenza sulla comparsa e l'andamento della depressione.

Le donne presentano una maggiore probabilità di sviluppare depressione (Schoevers et al, 2003; Leung et al., 2007); questo dato riflette l'andamento del disturbo nella popolazione generale.

Sebbene l'età non sembri correlare direttamente con lo sviluppo di sintomatologia depressiva, si pensa che la depressione sia un disturbo più frequente in soggetti più anziani. Ciò sembra da ricondurre al maggior numero di eventi spiacevoli come la perdita di una persona cara, piuttosto che all'età in senso stretto (Leung et al., 2007). Secondo alcuni contributi della letteratura, le persone single hanno minor possibilità di sviluppare depressione rispetto a soggetti sposati, divorziati, vedovi o separati. Il divorzio e la separazione sono considerati fattori di rischio di sviluppo di disturbi depressivi in soggetti che presentano già disturbi psichiatrici primari (Fava & Kendler, 2004). Una bassa soddisfazione di coppia sembra talora determinare una maggiore predisposizione allo sviluppo di depressione, ansia e abuso di sostanze (Whisman, Weiston & Uebelacker, 2004). Un buon matrimonio, altresì, si configura come un fattore promuovente di benessere psicologico e porta a bassi livelli di depressione. Talvolta, la presenza di una pregressa depressione nella storia clinica del paziente può rappresentare un fattore di rischio per la comparsa di una sindrome depressiva, dopo l’esordio dei sintomi parkinsoniani (Gori et al., 2004).

La gravità della sintomatologia depressiva non sembra associata alla severità dei sintomi motori (Allain, Schuck & Mauduit, 2000), mentre la presenza di sintomatologia cognitiva aumenta il rischio di sviluppare depressione (Wan Mohamed, Che Din & Ibrahim, 2015). Al contempo, la gravità della depressione contribuisce allo sviluppo di disturbi cognitivi e ad aumenta il rischio di sviluppare demenza (Marder et al., 1995).

Ciò detto, sebbene l'eziologia della depressione nella Malattia di Parkinson risulti ancora poco chiara, tuttavia sembrano implicati cambiamenti biochimici, fattori psicosociali e situazioni stressanti (Mauduit, Schück & Allain, 1999).

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26 scatenata, la presenza di sintomatologia depressiva determina un peggioramento sulla qualità della vita (Mauduit, Schück, & Allain, 1999).

Pur essendo tra gli aspetti psicologici e psicopatologici più studiati, l'indagine della depressione nei soggetti con Malattia di Parkinson, presenta ancora diversi limiti concettuali e metodologici. Ad esempio, numerosi strumenti utilizzati, per lo studio della depressione generale, contengono elementi somatici non congruenti con la condizione di questi soggetti.

Ansia

La presenza di sintomatologia ansiosa è piuttosto frequente nella MP e può rappresentare un fattore di rischio preclinico della malattia (Weisskopf et al., 2003). La sintomatologia può manifestarsi come attacchi di panico, fobie o come un disturbo d’ansia generalizzato e può essere connessa alle fluttuazioni motorie indotte dai farmaci con una particolare accentuazione della sintomatologia durante le fasi di “off” (Bayulkem & Lopez, 2010).

Occorre sottolineare che nella maggior parte dei casi, seppur debilitante, la sintomatologia non raggiunge un’intensità tale da poter porre diagnosi di disturbo d’ansia specifico in accordo con il DSM (Poletti & Bonuccelli, 2011).

In questa popolazione, inoltre, non è infrequente, nella fasi avanzate della malattia, la comparsa di sintomi ossessivi-compulsivi (Poletti & Bonuccelli, 2011).

Apatia

Negli ultimi anni, è aumentato l’interesse per un’altra caratteristica psicopatologica riscontrata nella MP, l’apatia. Questa viene definita come “una perdita di interesse e motivazione all’azione, non attribuibile a ridotti livelli di consapevolezza, deficit cognitivi o stress emotivo” (Marin, 1991)

Il grado di apatia sembra principalmente correlato alla gravità del disturbo esecutivo, rispetto alla severità dei sintomi motori (Dujardin et al., 2007), tanto da essere considerato un predittore dello sviluppo di demenza. Pazienti parkinsoniani apatici, sembrano infatti, riportare una maggiore probabilità di sviluppare demenza rispetto a pazienti che non presentano apatia (Dujardin et al., 2009).

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27 Psicosi

Durante la progressione della malattia, è possibile che il paziente sviluppi una sintomatologia psicotica, infatti, circa il 30% dei soggetti riportano allucinazioni e deliri (Rabey, 2009). La psicosi può essere secondaria a un marcato declino cognitivo come la demenza, oppure indotta da farmaci quindi iatrogena.

Le allucinazioni sono prevalentemente visive e riguardano principalmente insetti o piccoli animali. Altre volte sono fugaci visioni di persone, adulti o bambini e immagini colorate; raramente, si riscontrano allucinazioni complesse o strutturate (Poletti & Bonuccelli, 2011).

Il paziente spesso presenta allucinosi, ossia, disturbi della percezione con un mantenimento di lucidità e critica nei confronti del percetto. Con la progressione della malattia si può verificare in parallelo anche una riduzione dell’insight, determinando una possibile interazione del paziente con il percetto, ansia e attacchi di panico (Verbaan et al., 2009). Con meno frequenza è possibile riscontrare deliri che possono essere di tipo paranoide o di gelosia (Verbaan et al., 2009; Cannas et al., 2009).

Il delirio di gelosia, da alcuni definito anche Sindrome di Otello, è caratterizzato dalla convinzione del soggetto che il proprio partner sia infedele senza avere dati di realtà che sostengano la sua credenza. Questa convinzione porta il soggetto ad attuare comportamenti disfunzionali per sé e la coppia volti a confermare la sua idea (es. appostamenti, pedinamenti, aggressività fisica) (Georgiev et al., 2010).

Berti e colleghi (2009) in un’indagine sulla Malattia di Parkinson, concludono che sebbene non di non frequente riscontro, il delirio di gelosia (DG) rappresenta una complicanza del trattamento antiparkinsoniano e presenta alcune specificità: compare in pazienti con esordio precoce, cognitivamente integri, spesso in assenza di altre manifestazioni psicotiche. Talvolta, il DG può assumere un andamento cronico e raggiungere una gravità tale da interferire significativamente e negativamente con il decorso di malattia.

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1.4 CENNI DI TRATTAMENTO DELLA MALATTIA DI PARKINSON

Il trattamento della Malattia di Parkinson è multidisciplinare e deve tener conto di diversi aspetti tra cui la sintomatologia motoria e non motoria, l’età del paziente e le eventuali comorbidità.

È bene sottolineare che le strategie terapeutiche adottate, farmacologiche, o chirurgiche, hanno solamente una efficacia sintomatica, mirata al controllo dei sintomi senza capacità di interferire e modificare il decorso di malattia.

A oggi, infatti, non è ancora stato individuato un trattamento risolutivo in grado di migliorare la degenerazione e arrestare la progressione di malattia.

Per il trattamento dei sintomi motori oltre alla levodopa che rappresenta il farmaco più efficace, vengono utilizzati una serie di farmaci: dopamino agonisti, inibitori periferici della dopa-decarbossilasi, inibitori delle monoammino-ossidasi di tipo B, inibitori delle catecolo-O-metiltransferasi, farmaci ad azione anticolinergica, amantidina e altri.

Nonostante la levodopa sia il gold standard nel trattamento dei sintomi motori (Bonuccelli & Logi, 2006), l’utilizzo nella pratica viene, quando possibile, ritardato al fine di modificare i tempi di comparsa degli effetti indesiderati da trattamento a lungo termine e il deterioramento della risposta.

Ad una prima fase della malattia, in cui i sintomi parkinsoniani sono ben controllati dalla terapia, in particolare con levodopa (“fase compensata di malattia” o “luna di miele con levodopa”), infatti, fa seguito la cosiddetta “fase scompensata della malattia”.

Nella fase scompensata, definita anche “sindrome da trattamento cronico con levodopa”, compaiono due fenomeni piuttosto disabilitanti, ossia, le fluttuazioni motorie giornaliere e le discinesie (Bonuccelli & Frosini, 2009).

Le fluttuazioni motorie consistono in variazioni dello stato di performance motoria andando a minare l’autonomia del paziente durante l’arco della giornata, mentre le discinesie sono dei veri e propri movimenti involontari.

Le discinesie più frequenti nei soggetti con MP sono quelle di picco-dose (ossia per concentrazione massima della levodopa, legate quindi ad un aumento della dopamina presente a livello sinaptico) di tipo prevalentemente coreico caratterizzate da movimenti rapidi e continuativi.

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29 superiore a quella causata dalla comune sintomatologia parkinsoniana (Ruggieri et al., 1993).

Oltre a ciò, la terapia con dopamino-agonisti ad alte dosi può causare la presenza di una serie di disturbi del controllo degli impulsi (ICD). I disturbi del controllo degli impulsi sono caratterizzati dall’incapacità del soggetto a resistere ad un impulso o ad una tentazione impellente. Tale spinta induce il soggetto alla realizzazione di un’azione pericolosa per sé stesso e/o per gli altri ed è preceduta da una sensazione di crescente tensione ed eccitazione a cui fa seguito, piacere, gratificazione e sollievo (Mamikonyan et al., 2008).

Gli ICD più frequentemente osservati nei soggetti parkinsoniani sono il gambling (gioco patologico), il punding (comportamenti complessi stereotipati e scarsamente finalizzati, ad es assemblaggio e disasemblaggio di oggetti), shopping ed alimentazione compulsivi e ipersessualità (Avanzi et al., 2012; Usher & Perlmutter, 2013). Data la loro natura, talvolta, la presenza di ICD può determinare conseguenze psicologiche, sociali e legali.

Un’altra condizione che può insorgere in corso di terapia con farmaci dopaminergici è la sindrome da disregolazione dopaminergica, caratterizzata da un’auto-somministrazione sregolata dei farmaci dopaminergici e dipendenza psichica da essi (Ceravolo et al., 2009; Weintraub at al., 2010; )

In casi selezionati è possibile attuare metodiche neurochirurgiche quali la stimolazione cerebrale profonda del nucleo subtalamico e del globo pallido interno con una

dimostrata efficacia sul controllo dei sintomi motori, in associazione o no alla terapia farmacologica (Massano & Bhatia, 201).

Attualmente l’indicazione ai trattamenti dei diversi sintomi non motori, resta ancora controversa, considerando anche la scarsa efficacia di alcuni di essi o la non tollerabilità di altri.

Infine, è importante sottolineare che un numero sempre maggiore di ricerche è volto all’individuazione di sostanze in grado di svolgere un’ azione protettiva nei confronti della Malattia di Parkinson. Per terapia neuroprotettiva si intende un “trattamento in grado di influenzare la patogenesi di una malattia così da prevenirne o ritardarne l’esordio clinico o rallentarne la progressione” (Bonuccelli & Frosini, 2009).

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30 2. LA MALATTIA DI PARKINSON IN UN'OTTICA BIOPSICOSOCIALE

La malattia di Parkinson è una malattia multisistemica che comporta sintomi motori e non motori. Seppur il medico di primo riferimento resti il neurologo, a oggi, si

predilige, un approccio alla malattia di tipo multidisciplinare che coinvolge diverse figure professionali quali, fisioterapisti, infermieri specializzati, dietisti e psicologici. L'obiettivo degli operatori delle diverse discipline è quello di permettere al soggetto e alla sua famiglia di affrontare al meglio il decorso della malattia oltre che da un punto di vista sintomatico, soprattutto da un punto di vista funzionale nella vita di tutti i giorni. Parte di questo approccio è l'intervento psicoeducativo, ossia un approccio sistematico professionale, complementare al trattamento medico, adottato in diversi Paesi Europei, tra cui l'Italia stessa.

In questo intervento il paziente e la sua famiglia, in particolare il caregiver, ricevono informazioni rilevanti sulla malattia e collaborano attivamente per individuare e promuovere le risorse del soggetto per far fronte alle difficoltà determinate dalla malattia medesima.

Affinché quest'alleanza sia funzionale è fondamentale che i pazienti e le loro figure di riferimento siano 'educate', ossia, acquisiscano abilità di tipo teorico/pratico sulle caratteristiche del disturbo, le conseguenze che la malattia comporta e le modalità più efficaci per farvi fronte (Bitti et al., 2006).

Alla base, dell'intervento psicoeducativo e dell'approccio multidisciplinare in generale abbiamo l'adozione del modello biopsicosociale.

Nel 1977, Engel definisce il modello medico dominante in quel periodo, ossia quello biomedico, non più adeguato alle nuove scoperte scientifiche e agli sviluppi culturali, e propone un nuovo modello definito per l'appunto biopsicosociale. Assunto

fondamentale del modello è che ogni condizione di salute o di malattia sia la

conseguenza dell’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali (Mathew et al., 2001).

Dal modello di Engel, deriva la seconda Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) dell’OMS del 2001.

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31 Figura numero 3: Modello bio-psico-sociale dell’ICF e la sua applicazione alla Malattia di Parkinson (Bitti et al., 2006)

Da un punto di vista clinico la Malattia di Parkinson è, in primo luogo, caratterizzata da progressive modificazioni di alcune strutture cerebrali, ossia la degenerazione dei neuroni dopaminergici della sostanza nera pars compacta (Snpc) con una serie di concomitanti cambiamenti a carico di diversi sistemi neurotrasmettitoriali (Rajput et al., 2008).

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32 Come già visto nel primo capitolo, il processo neurodegenerativo determina una

sintomatologia motoria (ad es. tremore, bradicinesia e rigidità) e non-motoria (ad es. disturbi cognitivi, alterazioni dell'umore e disturbi urologici).

Sul piano funzionale la sintomatologia comporta una riduzione delle attività volontarie siano esse motorie (mantenere una postura, camminare) o della comunicazione

(difficoltà nell'esprimere le emozioni e le intenzioni attraverso il linguaggio

non-verbale). Inoltre, su un piano relazionale e psico-sociale, risultano spesso inficiate anche le attività connesse alle relazioni interpersonali, in particolare quelle riferite ai rapporti all'interno della famiglia e nel contesto sociale di riferimento (Bitti et al., 2006). Gli effetti invalidanti della malattia possono determinare una riduzione della

partecipazione del soggetto alle attività che facevano parte del suo contesto di vita: il soggetto si trova a dover cambiare abitudini, hobby e talvolta è costretto a lasciare il lavoro (Basagni, 2011).

L'impatto psicologico di questi cambiamenti si traduce spesso in stati depressivi che vanno ad esacerbare una sintomatologia dell'umore, spesso già causata da effetti psico-fisiologici diretti della malattia, sentimenti di imbarazzo e vissuti stressanti (Bitti et al., 2006).

I fattori ambientali, e in particolare le caratteristiche del contesto sociale, giocano un ruolo cruciale nella percezione della malattia e nell’atteggiamento che si può sviluppare verso di essa. Il supporto sociale, sia esso emotivo o strumentale, può influire

positivamente sul vissuto di malattia e sui relativi aspetti emotivi come ad esempio la sintomatologia depressiva (Thomas et al., 1990) A tal proposito, la famiglia e in

particolare il partner spesso rappresentano la principale fonte di supporto e permettono un miglior adattamento alla malattia.

L'adattamento alla malattia è sicuramente legato anche a fattori personali, come l'età, il sesso e lo stile di vita: in particolare i soggetti più giovani, a fronte di un inevitabile cambiamento nello stile di vita e ad una revisione dei loro progetti, sembrano accettare più difficilmente a malattia e le sue conseguenze (Behari, Srivastava & Pandey, 2005).

2.1 LA QUALITà DELLA VITA

Le malattie croniche progressive, come la Malattia di Parkinson, hanno un impatto considerevole sulla salute fisica, mentale e sociale del paziente.

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