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Da qui è nata la curiosità di andare a “spiare” un altro ordinamento,

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INTRODUZIONE

Il presente contributo configura un tentativo di comparazione tra due ordinamenti, quello italiano e quello tedesco, che apparentemente accolgono il medesimo principio di legalità (rectius di obbligatorietà) quale regola alla base dell’esercizio dell’azione penale.

Il lavoro prende spunto dai cospicui interventi che il legislatore italiano ha messo in atto, al fine di garantire una quanto più estesa osservanza del principio, a fronte delle numerose critiche avanzate in dottrina con riguardo all’obbligatorietà dell’azione penale. Infatti, stante la

“paralizzante rigidità” (Kostoris) del dettato costituzionale che impone al pubblico ministero l’obbligo di perseguire indiscriminatamente ogni singola fattispecie di reato, nella realtà processuale si è sviluppata un’intricata rete di “discrezionalità” di fatto, sostanzialmente del tutto incontrollata.

Da qui è nata la curiosità di andare a “spiare” un altro ordinamento,

costituente l’unico esempio - oltre all’Italia - in cui vige ancora la

legalità dell’azione penale, ancorché non prevista a livello

costituzionale, al fine di comprendere esattamente qual è la portata del

precetto, inquadrandone la sua effettiva funzionalità all’interno del

sistema tedesco. La finalità perseguita è, dunque, quella di verificare la

corrispondenza - o meno - del principio tedesco, rispetto al suo simile

italiano, non tralasciando comunque un altro aspetto fondamentale, vale

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a dire l’inquadramento storico-istituzionale dell’Ufficio della pubblica accusa, che necessariamente va ad incidere anche sulla modulazione effettiva del principio stesso.

L’indagine sul sistema tedesco si prospetta di offrire quanto meno degli

spunti a proposito dell’interrogativo - che da anni riecheggia nell’aria

italiana - sulla possibilità di conservare ancora quel principio, attraverso

opportuni correttivi per renderlo più credibile ed effettivo.

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CAPITOLO I

Il principio di obbligatorietà dell’azione penale nell’ordinamento italiano

1. Le origini. 2. Le effettive modalità di esercizio dell’azione penale nella prassi. 3. I vari tentativi del legislatore per una maggiore razionalizzazione dell’esercizio dell’azione penale. 3.1 La disciplina dell’archiviazione. 3.2 I criteri di priorità. 3.3 La sospensione del procedimento con messa alla prova. 3.4 L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. 3.5 L’estinzione del reato per condotte riparatorie.

3.6 La mediazione penale.

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1. Le origini

“Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: così recita il testo dell’articolo 112 della Costituzione della Repubblica Italiana, che lapidariamente sancisce il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Oltre a rappresentare un caso più unico che raro nel panorama giuridico mondiale e soprattutto europeo, esso è oggetto di uno dei più ampi dibattiti dottrinali della storia giuspenalistica italiana.

In effetti, del principio in questione si discuteva già sotto l’imperio del codice di procedura penale del 1865, che sull’argomento aveva lasciato un significativo vuoto normativo

1

.

Ciò nonostante, la sua prima apparizione all’interno dell’ordinamento italiano è avvenuta con la riforma del 1944 all’allora vigente codice Rocco, come reazione anti-fascista ad un assetto normativo che vedeva l’istituto del pubblico ministero alle dirette dipendenze del partito fascista in funzione di “occhio del governo” (Calamandrei)

2

. Alla luce di una tale disastrosa esperienza, è stato previsto in capo a quest’ultimo l’obbligo di procedere contro tutti i reati di cui avesse notizia, per salvaguardare l’azione penale da eventuali pressioni politiche.

1 M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, Padova, 1995, pag. 19.

2 A. GUSTAPANE, Il pubblico ministero nel regime fascista, in Filodiritto, pagg. 6 e 53. Qui, in particolare, si rileva come - soprattutto con il varo della legge sull’ordinamento giudiziario del 1941 - la magistratura fosse totalmente alla mercé del Ministro di Grazia e di Giustizia, tra i cui appellativi saltano all’occhio quelli di “Capo supremo dell’amministrazione giudiziaria e politicamente responsabile del buon ordine e del regolare funzionamento dell’amministrazione stessa” e “Capo del pubblico ministero”. Questa completa dipendenza della pubblica accusa dal Ministro, prima di essere eliminata del tutto, fu ampiamente ridimensionata già con il D.lgs. n.

511 del 31 maggio 1946, dove si parlava, piuttosto, di “poteri di sorveglianza” del Ministro “su tutti gli uffici giudiziari, su tutti i giudici e su tutti i magistrati del pubblico ministero”.

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Pochi anni dopo, i Padri costituenti, prendendo spunto dalla succitata riforma, hanno inteso costituzionalizzare il principio, al fine di metterlo al riparo dai mutamenti di umore del legislatore ordinario, scongiurando un eventuale ripristino del regime di archiviazione adottato dal legislatore fascista. Quanto, poi, al “controllo giurisdizionale sull’archiviazione”, espresso dal binomio “richiesta-decreto”

3

, si può soltanto dire che è stata data per scontata l’adeguatezza di un astratto

“standard minimo”

4

di garanzia rispetto allo scopo prefisso dall’obbligatorietà dell’azione penale. Ciò non esclude, tuttavia, che il

“minimo” possa essere portato ad un livello più elevato di controllo.

L’odierna configurazione costituzionale del principio affonda le proprie radici nell’art. 101 del Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana

5

, sul quale si aprì un acceso dibattito, che portò la Commissione incaricata di redigere la norma a riscriverla interamente, giungendo alla solenne formulazione dell’art. 112 della Costituzione, tuttora vigente.

In sede di lavori preparatori

6

, fu ripreso il tema della dipendenza, o meno, del pubblico ministero dall’Esecutivo. In particolare, l’art. 8 del progetto presentato dall’On. Calamandrei recitava: “Pubblicità e

3 M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, op. cit., pag. 59.

4 “Il controllo del giudice è tanto essenziale al concetto stesso di obbligo dell’azione penale, che proprio attraverso la mancanza di un tale controllo - pur in assenza del contrario principio della discrezionalità della azione penale - si otteneva, prima della riforma del 1944, che di fatto omissioni determinate da motivi politici non trovassero rimedio”. cfr. V. ZAGREBELSKY, Indipendenza del pubblico ministero e obbligatorietà dell’azione penale, in G. CONSO, Pubblico ministero e accusa penale.

Prospettive di riforma, Bologna, 1984, pag. 4.

5 S. PANIZZA, Fondamento e attualità del principio di obbligatorietà per il pubblico ministero di esercitare l’azione penale, in Rivista AIC, 2009, pag. 1.

6 G. D’ELIA, Commento all’art. 112, in R. BIFULCO - A. CELOTTI - M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, vol. III, Torino, 2006, pag. 2126.

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legalità dell’azione penale. L’azione penale è pubblica, e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere e ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza”.

L’On. Farini sosteneva che il pubblico ministero dovesse dipendere dal Ministro della Giustizio o dal Consiglio Superiore della Magistratura, mentre l’On. Calamandrei (e altri) vi si opposero, sulla base del fatto che il suddetto doveva essere collocato istituzionalmente come un magistrato, “che deve agire secondo legalità”, tale per cui “se sono in suo possesso elementi che possano condurre all’accertamento di un reato, deve procedere senza astenersene per qualsiasi ragione”. Lo stesso principio era ribadito dall’On. Uberti, il quale riteneva che il supporre che il pubblico ministero “possa esercitare una azione penale per ragioni di opportunità e di convenienza sia in contrasto con i principi della democrazia”

7

.

Il testo del 101 che fu, poi, approvato recitava: “L’azione penale è pubblica. Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare. […]”.

Tra i molti emendamenti proposti, merita menzione quello dell’On.

Bettiol, che suggeriva di sopprimere l’espressione “e non la può mai sospendere o ritardare”

8

, ritenendo che tali parole fossero già incluse nel

7 Resoconto sommario della seconda sottocommissione (II sezione) della seduta antimeridiana di venerdì 10 gennaio 1947, Presidenza del Presidente Conti.

8 La previsione della sospensione o dell’interruzione dell’azione penale è stata, poi, inserita all’art. 50, comma 3 del Codice Vassalli, acquisendo quindi rango di legge ordinaria e non più costituzionale. Peraltro, questa norma ammette la sospensione e l’interruzione, ma “soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge”. L’unica eccezione alla norma in questione è costituita dall’art. 71 c.p.p.

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generico obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale. A giustificazione di tale scelta addusse il fatto che il concetto di obbligatorietà dell’azione penale, di matrice democratica, non può permettere che il pubblico ministero archivi senza il benestare del giudice istruttore (com’era invece previsto nel codice penale Rocco).

Inoltre, l’On. Leone propose di sopprimere le parole “L’azione penale è pubblica”, rilevando che la questione della pubblicità dell’azione penale fosse ancora troppo discussa in dottrina per statuirla in maniera così perentoria in sede costituzionale. A parer suo, ciò che andava statuito in modo perentorio era piuttosto che il pubblico ministero non può esercitare un’attività discrezionale circa il proponimento dell’azione penale: “quando viene a cognizione della notitia criminis, non ha un potere discrezionale, ma deve investire l’organo della giurisdizione dell’esame del contenuto dell’azione penale”. Per di più, aggiungeva che l’affermazione della “pubblicità” dell’azione penale andava eliminata dal dettato della disposizione anche per una questione

“personale”: non bisognava riporre il monopolio dell’azione penale nelle mani del pubblico ministero, dato che vi era la necessità che il legislatore, accanto all’azione penale “pubblica”, introducesse anche la possibilità di un’azione penale “privata” sussidiaria

9

.

A seguito dei vari emendamenti, il 27 novembre 1947 fu discusso e approvato il testo dell’attuale 112.

9 Così come lo stesso Leone aveva poco prima sostenuto nel Congresso giuridico nazione forense di Firenze.

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Va indubbiamente sottolineato che, già in sede di stesura della Carta Costituzionale, era ritenuto doveroso non impedire al legislatore di domani di risolvere certi problemi che non potevano essere previsti in quel momento

10

. Altra questione palesemente significativa va, poi, ritrovata nelle parole dello stesso On. Leone, quando affermava che questo principio “corrisponde alle Costituzioni attuali” ed è un

“principio fondamentale dello Stato moderno”: i Costituenti non mettevano in dubbio la costituzionalizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale

11

.

Sin da pochi anni dopo l’effettivo inizio dello svolgimento delle sue funzioni, la Corte Costituzionale si è spesso occupata di questioni inerenti all’art. 112, e in molti casi si è espressa mediante affermazioni di principio di incontestabile importanza

12

.

Innanzitutto, secondo la Consulta, detta norma ha inteso escludere l’opposto principio di una discrezionale valutazione del pubblico

10 L’On. Paolo Rossi, infatti, a nome della Commissione, dichiarò di accettare entrambe le proposte di Leone e Bettiol. La ragione fondamentale e di estrema rilevanza fu esternata in una frase a dir poco lapidaria, che oggi riecheggia sicuramente più forte: “Adesso non possiamo tutto prevedere”.

11 Sulla rilevanza costituzionale della materia, si riportano le parole, espresse in sede di lavori preparatori, degli Onn. Bettiol e Paolo Rossi. Il primo affermava che “di carattere veramente costituzionale è l’affermazione esplicita del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, poiché è un principio che si adegua ad un ordine democratico nell’ambito di uno stato di diritto in contrasto a due principi: quello di discrezionalità […], e il principio di obbligatorietà o di legalità […]”. Il secondo aggiungeva che “se l’Assemblea crede di dover risolvere la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale superando l’antica tesi della discrezionalità e affermando il principio della legalità dell’azione penale, converrà introdurre un cenno nella Costituzione: perché, qui, lo riconosco, la materia è di rilevanza costituzionale”.

12 Per una ricostruzione più esaustiva, v. G. D’ELIA, Commento all’art. 112, in R.

BIFULCO - A. CELOTTI - M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, Torino, Utet giuridica, vol. III, 2006, pagg. 2126-2128.

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ministero circa l’opportunità o meno del promovimento dell’azione penale. Al contrario, non ha escluso che l’ordinamento possa stabilire che, indipendentemente dall’obbligo del pubblico ministero, vi siano determinate condizioni affinché l’azione possa essere promossa o proseguita, né ha voluto svincolare il predetto obbligo dalla necessità del verificarsi di determinate condizioni, nei casi stabiliti dalla legge

13

. Inoltre, la Corte ha affermato che - salvo tassative eccezioni - è al pubblico ministero e a nessun altro organo che spetta il compito di promuovere l’azione penale

14

; ma ciò non significa che si tratti di esclusiva spettanza di questi

15

.

La Corte ha statuito, poi, che “l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale […] è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio delle proprie funzioni e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Ma - come emerge anche dai lavori preparatori - questo non deve essere interpretato nel senso che debba escludersi la possibilità che ad altri sia conferito un tale potere. La ratio della norma intende piuttosto escludere che al pubblico ministero possa essere sottratta la titolarità dell’azione penale in ordine a determinati reati: è configurabile la previsione di azioni penali sussidiarie o

13 Corte Cost. sent. n. 22 del 1959.

14 Corte Cost. sent. n. 154 del 1963.

15 Corte Cost. sent. n. 123 del 1970.

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concorrenti, purché ciò non vanifichi l’obbligo di azione del pubblico ministero”

16

.

Lo stesso concetto sopra descritto, elaborato nel vigore del vecchio codice di procedura penale, è stato ribadito anche in seguito all’entrata in vigore del nuovo codice, in una sentenza a dir poco storica

17

, che ha affrontato la rispondenza dell’obbligatorietà dell’azione penale al più ampio principio di legalità ex art. 25 II Cost., nonché al canone dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge ex art. 3 Cost. In questa occasione, il principio di obbligatorietà viene dichiarato quale “punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venire meno ne altererebbe l’assetto complessivo”. Inoltre, si afferma che lo stesso principio “esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice: ed in esso è insito, perciò, quello che in dottrina viene definito favor actionis”.

Questo - continua la Corte - ha due conseguenze: da un lato, comporta il “rigetto del contrapposto principio di opportunità” e, dall’altro,

16 Corte Cost. sent. n. 84 del 1979. v. S. BARTOLE, Prospettive nuove in tema di pubblico ministero?, in Giur. Cost., I, 1979, pag. 871.

Successivamente la Corte ha afferma che quanto l’art. 112 non stabilisce sono tempi e modi di espletamento dell’azione penale; e non potrebbe essere altrimenti, dato che non è materia da disciplinarsi a livello costituzionale (sent. n. 284 del 1990). Allo stesso modo, la norma non attiene all’organizzazione e alla direzione degli uffici della magistratura inquirente (sent. n. 72 del 1991).

17 Corte Cost. sent. n. 88 del 1991. Detta sentenza ha rappresentato una pietra miliare anche nell’affermazione dell’esistenza nel sistema di un principio di “completezza”

delle indagini preliminari, che è finalizzato, da un lato, ad evitare il c.d. esercizio

“apparente” dell’azione penale e, dall’altro, ad impedire che il pubblico ministero opti per l’archiviazione in un momento in cui l’inchiesta si trova ancora ad uno stato embrionale. P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, XVII ed., 2016, pag.

605. M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, op. cit., pagg. 113 e 114.

E. MARZADURI, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, in Criminalia, 2010, pag. 339.

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implica che “in casi dubbi l’azione vada esercitata e non omessa”.

Infine, va rilevato che “azione penale non significa, però, consequenzialità automatica tra notizia di reato e processo, né dovere del p.m. di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis”. Infatti, l’obbligatorietà ha un suo limite implicito, che consiste nel fatto che il processo non deve essere iniziato, qualora sia “oggettivamente superfluo”: in qual caso, si rende doverosa l’archiviazione, che è quindi un “non-esercizio dell’azione” e il cui problema sta - effettivamente - nell’”evitare il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà ed anzi controllando caso per caso la legalità dell’inazione”.

Dalle parole della Corte Costituzionale è possibile ricavare che, nel concreto espletamento delle proprie funzioni, il pubblico ministero deve effettuare un contemperamento: da una parte, l’obbligo di esercitare l’azione penale in presenza di una notitia criminis, dall’altra, il fine di evitare l’instaurazione di un processo superfluo.

Merita considerazione l’assoluta costanza giurisprudenziale della Corte sull’argomento dell’azione penale. Anche più recentemente

18

, la Consulta ha ribadito l’esigenza di razionalità degli interventi legislativi in materia, asserendo che “il principio di obbligatorietà dell’azione penale, espresso dall’art. 112 Cost., non esclude che l’ordinamento possa subordinare l’esercizio dell’azione a specifiche condizioni (tra le

18 Corte Cost. sent. 121 del 2009.

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altre, sentenze n. 114 del 1982 e n. 104 del 1974; ordinanza n. 178 del 2003). Affinché l’art. 112 Cost. non sia compromesso, tuttavia, simili canoni debbono risultare intrinsecamente razionali e tali da non produrre disparità di trattamento fra situazioni analoghe”.

Tutte queste statuizioni da parte dell’organo garante dell’ordinamento costituzionale della Repubblica Italiana debbono essere valutate alla luce dei vari interventi legislativi in materia di azione penale, aventi come comun denominatore la duplice finalità di salvaguardare l’obbligatorietà e di risolvere alcune problematiche causate dalla

“rigida” formulazione del 112, in primis il “sovraffollamento giudiziario”

19

.

19 Espressione utilizzata da E. MARZADURI, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, op. cit., pag. 345.

(14)

2. Le effettive modalità di esercizio dell’azione penale nella prassi

Nell’ambito del dibattito sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, si registrano molteplici atteggiamenti che vanno dalla discreta

“presa di distanza” sino all’aperto rifiuto e che nel complesso rivelano una “crisi di sfiducia” dalle dimensioni non trascurabili

20

.

Il nodo centrale della questione attiene alla sua ineffettività concreta, in considerazione delle tante “discrezionalità occulte”

21

di cui si alimenta nella sua quotidiana applicazione, nonché al suo possibile futuro, individuabile nell’alternativa tra mantenere il principio, attenuandone la rigidità, ovvero abbandonarlo apertamente nella direzione di una discrezionalità, sia pur controllata

22

. Al contrario, mantenere la situazione inalterata significherebbe soltanto abbassare lo sguardo davanti a tre “paradossi”

23

, che appaiono incompatibili con la fisionomia di uno Stato a forte tradizione democratica quale l’Italia e che sono

20 M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, op. cit., pag. 2.

21 R. E. KOSTORIS, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, Torino, 2017, pag. 46.

22 Va, ad esempio in questa direzione, il recente disegno di legge costituzionale, d’iniziativa del senatore Barani, comunicato alla presidenza il 4 aprile 2013. In esso non sin intende mettere in discussione la condivisione del principio in sé, quanto piuttosto le sue “inevitabili e gravi conseguenze negative”. La proposta che si fa in questa occasione è quella di una responsabilizzazione del pubblico ministero in senso politico, in termini di dipendenza dello stesso dal Ministero della Giustizia. Secondo il progetto, spetterebbe a ciascun procuratore generale presso la corte d’appello stabilire le priorità nell’esercizio dell’azione penale a livello distrettuale, in attuazione delle linee guida dettate dal Ministro della Giustizia a livello nazionale, ed infine ciascun procuratore della Repubblica dovrebbe prevedere le proprie priorità a livello circondariale, seguendo le direttive degli altri due organi gerarchicamente sovraordinati.

23 A. PERI, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità. La modellistica delle fonti tra esperienze recenti e prospettive de iure condendo: un quadro ricognitivo, in Quaderni costituzionali, 2010, pag. 2.

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riassumibili in assoluta irrealizzabilità pratica, rischio di diseguaglianze di disciplina tra i cittadini e sottrazione delle scelte di politica criminale al controllo democratico.

In dottrina, vi è addirittura chi sostiene che discrezionalità e legalità dell’azione non sarebbero neppure antagonisti, ma si configurerebbero come gradini di diverso livello su di un’unica scala, certo non senza zone grigie

24

. Tuttavia, tale teoria non è condivisa dalla dottrina maggioritaria

25

, la quale ancora rigidamente distingue tra legalità e opportunità. Secondo questa impostazione, la legalità dell’azione penale è astrattamente suscettibile di incontrare spazi di discrezionalità di tipo tecnico, mentre l’opposto principio di opportunità apre decisamente le porte a scelte di politica criminale e, quindi, alla discrezionalità di tipo politico. A tal proposito, è legittimo chiedersi altresì se e quando tale principio può cedere il posto a ragionamenti che possono ricadere sotto la sfera della discrezionalità tecnica, pur comunque rimanendo nell’alveo della legalità dell’azione penale.

Difatti, l’attuale scenario penale italiano offre lo spunto per un’incontestabile, quanto amara, considerazione su come la realtà processuale si discosti radicalmente dalla previsione costituzionale.

24 A parere di queste dottrine, legalità e discrezionalità dell’azione penale dovrebbero intendersi come due diverse graduazioni del medesimo principio. Tra gli altri, va segnalato C. GUARNIERI, Pubblico ministero e sistema politico, Padova, 1984, pag.

145.

25 Primo tra tutti, va menzionato R. E. KOSTORIS, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, op. cit., pag. 47.

(16)

Sarebbe una menzogna

26

affermare che il principio di obbligatorietà dell’azione penale, così come graniticamente scolpito nell’art. 112, viene quotidianamente rispettato e applicato dagli operatori del diritto.

A ben vedere, la questione si pone come uno dei maggiori nodi irrisolti del nostro sistema, in particolar modo se si pensa all’effettiva presenza di alcuni spunti di discrezionalità

27

nell’azione dei pubblici ministeri, che talvolta risultano addirittura “obbligatorie”. Saranno brevemente ripercorsi alcuni momenti che vedono il pubblico ministero, sin dalla presentazione di una notitia criminis, come “obbligato” a prendere decisioni discrezionali - spesso spinto da esigenze funzionali - che incidono sulla conduzione delle singole indagini, sull’attività di repressione della criminalità, sull’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Innanzitutto, stante il fatto che gli uffici della procura sono inondati da un mare magnum di notizie di reati estremamente diversificate, spetta al pubblico ministero “scegliere” quelle che

26 Già i giuristi austriaci dell’800 avevano battezzato il principio come una “bugia convenzionale”, in quanto irrealizzabile nella pratica. R. E. KOSTORIS, Per un’obbligatorietà temperata dell’azione penale, op. cit., pag. 48. “Addirittura, due accreditati studiosi stranieri (Golden e Marcus) all’esito di una ricerca sulla realtà effettuale italiana, sono giunti alla conclusione che in pratica l’obbligatorietà dell’azione penale non esiste”. cfr. C. VITALONE, La funzione d’accusa tra obbligatorietà e discrezionalità, in A. GAITO, Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, Napoli, 1991, pag. 293.

27 Discrezionale, per definizione, è quell’attività nella quale un individuo è libero di scegliere tra possibili corsi di azione o inazione (Davis 1969). In particolare, la discrezionalità può presentarsi in due distinte dimensioni: una orizzontale/verticale, relativa alla coerenza delle scelte di azione o inazione tra gli attori e tra questi ed il loro superiore gerarchico; l’altra sincronica/diacronica, relativa alla coerenza delle scelte su fatti analoghi nel medesimo arco di tempo o in periodi differenti. M. FABBRI, Discrezionalità e modalità di azione del pubblico ministero nel procedimento penale, in IRSiG-CNR, 1997, pag. 171, nota n. 2.

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effettivamente non risultino assolutamente inutili

28

. Inoltre, una volta ricevute le notizie di reato, è l’ufficio della procura che deve “scegliere”

in quale dei registri iscriverla

29

: quello delle notizie di reato a carico di persone note; quello in cui sono iscritte le denunce contro autori ignoti del reato; quello delle notizie anonime di reato; quello in cui sono raccolti i fatti non costituenti reato; infine, quello delle notizie per reati attribuiti alla competenza del giudice di pace. Va sottolineato che la decisione sull’inserimento della notizia nel registro degli autori noti - solitamente presa da un sostituto procuratore - non è priva di effetti in riferimento alla durata delle indagini preliminari, anzi, assume una rilevanza cruciale, in quanto l’eventuale richiesta di rinvio a giudizio deve essere effettuata “entro sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato” (salvo termine più lungo in certe ipotesi)

30

. Questo peraltro ha portato alla prassi per cui, ai fini di dilatare “artificialmente” i tempi di indagine, si ritarda l’iscrizione nel registro degli autori noti

31

.

28 In considerazione del fatto che gli organi di polizia giudiziaria, timorosi di omettere la comunicazione di un reato, trasmettono indistintamente all’autorità giudiziaria tutte le carte, spesso senza neanche preoccuparsi che sia configurabile un’ipotesi di reato.

È il caso, ad esempio, dei referti relativi ad incidenti stradali in mancanza di querela di parte, delle lesioni colpose o degli infortuni sul lavoro, spesso inviati in maniera automatica.

29 Ai sensi del § 335 c.p.p.

30 cfr. art. 405, comma 2, c.p.p.

31 In realtà, gli escamotage procedurali per superare i limiti di durata delle indagini (in particolare, quelli previsti all’art. 407 c.p.p., così come modificato dalla Legge n. 103 del 2017) che sono impiegati quotidianamente nelle procure, si presentano sotto una molteplice varietà. Ad esempio, l’iscrizione del reato in un registro che non sia quello dei fatti noti, pur avendo già un indagato; ovvero la modifica della qualificazione giuridica del fatto contestato ai sensi dell’art. 335, comma 2, c.p.p., che giustifica una nuova durata temporale delle indagini; la c.d. “rateizzazione delle iscrizioni”, vale a dire la contestazione in tempo diversi di altri reati, che permette di rideterminate i termini; nel caso in cui si possa ipotizzare la partecipazione di più persone al reato,

(18)

Un’ulteriore problema connesso all’iscrizione della notizia di reato, consiste nel fatto che - contestualmente a questa decisione - il sostituto procuratore deve anche qualificare giuridicamente il fatto, vale a dire ipotizzare quale articolo del codice penale potrebbe essere stato violato sulla base degli eventi descritti nella denuncia. Ebbene, questa non può non essere considerata una decisione “discrezionale”. Ciò vale a maggior ragione, se si pensa ai crimini di criminalità organizzata, la cui qualificazione giuridica in tal senso determina la competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia quali magistrati procedenti, nonché l’espletamento di una serie di attività di indagine molto più incisive e peculiari. Inoltre, nello stesso impiego delle risorse investigative or ora accennate si ritrova l’esigenza di effettuare scelte discrezionali in termini di priorità e destinazione delle stesse, essendo le risorse limitate e non essendo “umanamente” possibile procedere con le stesse modalità investigative per tutti i reati. Infine, un ulteriore aspetto di

“discrezionalità” all’interno del procedimento penale può essere ritrovato nell’utilizzo dei procedimenti speciali, considerate le

ove stiano per scadere i termini per un indagato, è possibile effettuare la riunione del suo fascicolo con quello di un altro il cui reato sia stato individuato successivamente oppure esso sia ritenuto più grave - così che è soggetto ad una maggiore durata delle indagini - e in tal caso si applicano i nuovi termini a tutti gli indagati dello stesso procedimento; infine, la dichiarazione di incompetenza territoriale da parte di una procura ed il rinvio degli atti ad un’altra, per la quale i termini ripartono da zero. M.

FABBRI, Discrezionalità e modalità di azione del pubblico ministero nel procedimento penale, op. cit., pag. 181. C. SBAILO’, La circolare Pignatone e l’obbligatorietà dell’azione penale, in DPCE, 2017, pag 1.

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molteplici variabili che possono portare il pubblico ministero a propendere per l’uno o l’altro rito

32

.

Tuttavia, essendo un “obbligo” - formalmente vincolante - quello previsto dall’art. 112 Cost., questo implica che la pubblica accusa non detiene alcuna responsabilità per ogni e qualsiasi iniziativa investigativa e azione penale a cui dà inizio, anche se mesi o anni dopo tali iniziative risultino del tutto infondate e ingiustificate. In altre parole, va rilevato che l’obbligatorietà dell’azione penale trasforma ipso iure qualsiasi decisione discrezionale dei requirenti in materia di indagini ed azione penale in un “atto dovuto”, escludendolo da ogni forma di responsabilità

33

.

Posto, dunque, che l’applicazione in concreto del principio di cui all’art.

112 Cost. è fortemente messa in dubbio, risulta inevitabile constatare la presenza di una vasta discrepanza tra lo scenario in the book e quello in the action

34

, vale a dire tra il principio solennemente sancito dalla Costituzione repubblicana e la sua quotidiana applicazione nella pratica.

Il timore avvertito da molti è che questo baluardo di legalità sia rimasto

“sulla Carta”.

32 Su cui incidono certamente l’orientamento culturale dei singoli sostituti procuratori, l’organizzazione interna dell’ufficio della procura, nonché il comportamento degli avvocati difensori, tendenzialmente propensi ad un prolungamento del procedimento, primo per giungere ad una probabile prescrizione dei reati, secondo per ragioni di natura economica. M. FABBRI, Discrezionalità e modalità di azione del pubblico ministero nel procedimento penale, op. cit., pagg. 182 e 183.

33 G. DI FEDERICO, Obbligatorietà dell’azione penale e indipendenza del pubblico ministero, in IRSiG-CNR, 2009, pag. 2. Qui si afferma che in nessun altro Paese democratico “l’indipendenza del pubblico ministero è tanto ampia e la sua responsabilità è tanto limitata quanto in Italia”.

34 cfr. E. MARZADURI, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, op. cit., pag. 339.

(20)

3. I vari tentativi del legislatore per una maggiore razionalizzazione dell’esercizio dell’azione penale

3.1 La disciplina dell’archiviazione

L’art. 112 Cost., “pur facendo riferimento ad un obbligo sussistente in capo al pubblico ministero, nulla dice quanto ai presupposti di tale obbligo”

35

: a colmare la lacuna è intervenuta la disciplina dell’archiviazione

36

prevista dal codice di procedura penale. Infatti, il primo comma dell’art. 50 c.p.p.

37

- che del principio di obbligatorietà costituisce attuazione a livello di legge ordinaria

38

-, in ragione dell’evidente necessità di impedire un inutile quanto gravoso automatismo tra notitia criminis e procedimento penale, è intervenuto a fissare alcuni limiti all’applicazione del disposto costituzionale

39

, stabilendo che il dovere di agire compete al pubblico ministero soltanto quando “non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione”.

35 cfr. E. MARZADURI, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, op. cit., pag. 337.

36 v. G. GIOSTRA, L’archiviazione: lineamenti sistematici e questioni interpretative, Torino, II ed. 1994, pag 8. Qui si raffigura l’archiviazione come la “faccia oscura”

dell’obbligatorietà dell’azione penale.

37 Benchè, in sede di lavori preparatori del progetto di c.p.p. 1988, il Sen. Coco puntualizzò espressamente che l’azione penale “resta compiutamente pubblica ed obbligatoria”. Come si legge nelle “Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni” (GU Serie Generale n.250 del 24-10-1988 - Suppl. Ordinario n. 93).

38 G. ANGIOLINI, I limiti del controllo sull’adempimento dell’obbligo costituzionale di esercizio dell’azione penale, in DPC, 2014, pag. 5.

39 Voce “azione penale” in Enciclopedia Treccani.

(21)

Peraltro, considerando che normalmente si ritiene la richiesta di archiviazione come opzione alternativa ed asimmetrica

40

rispetto all’esercizio dell’azione penale, si ricava il logico corollario per cui i presupposti positivi dell’archiviazione coincidano, a contrario, con le condizioni negative dell’azione.

Le condizioni dell’archiviazione sono indicate agli articoli 408 e 411 c.p.p., che rispettivamente introducono un presupposto di fatto e altri di diritto. L’art. 408 prende in esame l’infondatezza della notizia di reato, che viene specificata all’art. 125 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, quale ipotesi in cui “gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. L’art. 411 prevede “altri casi di archiviazione”, considerati alternativamente: manca una condizione di procedibilità, la persona sottoposta alle indagini non è punibile ai sensi dell’art. 131-bis c.p. per particolare tenuità del fatto, il reato è estinto, ovvero il fatto non è previsto dalla legge come reato. Infine, l’art. 415 aggiunge un’ulteriore ipotesi: il è reato commesso da persone ignote. In questo caso, il pubblico ministero, entro sei mei dalla data della registrazione della notizia di reato, è tenuto a presentare al giudice delle indagini preliminari la richiesta di archiviazione o di autorizzazione a proseguire le indagini.

40 cfr. Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, serie generale, n. 250, Supplemento ordinario n. 2, 170.

(22)

La regola di giudizio che si desume dal combinato disposto degli artt.

408 c.p.p. e 125 disp. att. c.p.p. merita di essere precisata

41

. Infatti, prima di richiedere l’archiviazione o meno al giudice, il pubblico ministero è vincolato ad una valutazione prognostica di superfluità o non superfluità del dibattimento, in quanto la fase dibattimentale potrà

essere instaurata soltanto quando essa si profila ex ante utile, in modo da poter sostenere l’accusa. Tuttavia, questa valutazione non è ricostruibile strictu senso come una “discrezionalità” valutativa del pubblico ministero

42

.

La questione controversa riguarda quando la celebrazione del giudizio sia realmente superflua. Due orientamenti si sono susseguiti per comprendere la portata di questa valutazione che il pubblico ministero deve effettuare, fino a sfociare nella sentenza n.88 del 1991, con la quale la Corte Costituzionale ha tentato di mediare le due posizioni.

Secondo la prima opzione esegetica, sostenuta dalla dottrina maggioritaria, il pubblico ministero dovrebbe richiedere l’archiviazione nelle ipotesi di evidente innocenza o in carenza assoluta di prove, ma anche nel caso in cui la prova sia insufficiente o contraddittoria (“inidoneità probatoria”

43

). Questo orientamento, che si basa sulla necessità di una valutazione prognostica sui possibili esiti del dibattimento, esclude l’esercizio dell’azione penale in tutti i casi in cui

41 E. AVELLA, Giurisprudenza sotto obiettivo, in Archivio Penale, n. 1, 2015, pag. 4.

42 V. GREVI, Archiviazione per inidoneità probatoria ed obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. it. dir. pen. proc., 1990, pag. 1276.

43 L’espressione è di V. GREVI, ibidem, pag. 1274.

(23)

la condanna dell’imputato risulti un’ipotesi remota o semplicemente improbabile.

In termini antitetici, dottrina minoritaria postula la necessità che, affinché il pubblico ministero richieda l’archiviazione, emerga l’evidente innocenza del potenziale imputato, già ex ante - vale a dire dagli atti - e soltanto in tal caso il procedimento si può considerare superfluo. In questi termini, il dibattimento è considerato come il luogo nel quale risolvere qualunque situazione, anche dubbia, purché di una benchè minima rilevanza penalistica.

La Corte Costituzionale

44

- fugando ogni dubbio circa la legittimità costituzionale dell’art. 125 disp. att. c.p.p. - ha cercato di porre fine ai dubbi sull’interpretazione della nozione di “superfluità” del dibattimento, identificandovi il discrimen tra esercizio obbligatorio dell’azione penale e legittima inazione del pubblico ministero e facendo perno sull’esistenza di un principio di “completezza” delle indagini preliminari. Quest’ultimo comporta che la scelta sull’esercizio dell’azione penale, effettuata dal pubblico ministero all’esito della fase investigativa, conduca alla completa individuazione dei mezzi di prova, al fine di permettergli di giungere alla formulazione di un giudizio non equivoco sulla doverosità dell’esercizio dell’azione stessa. Dunque, il

44 Con la già citata Sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 1991. A detta della Consulta, il principio di “completezza” delle indagini preliminari è la “traduzione in chiave accusatoria […] del principio di “non superfluità del processo”, in quanto il dire che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa equivale al dire che, sulla base di essi, l’accusa è insostenibile e che, quindi, la notizia di reato è, sul piano processuale, infondata. P. TONINI, Manuale di procedura penale, op. cit., pag. 605.

(24)

criterio innovativo che la Corte introduce è in un certo senso intermedio tra il primo, quello della “evidente innocenza” ed il secondo, quello della “condanna improbabile”. Il fulcro dell’orientamento consolidatosi è che l’archiviazione può essere richiesta non solo quando risulta evidente l’innocenza della persona sottoposta alle indagini, ma anche in alcune ipotesi di insufficienza o contraddittorietà della prova, rispetto alle quali il dibattimento non offrirebbe alcun reale contributo conoscitivo.

La lettura della norma in tal senso, pur senza legittimare ipotesi di inerzie arbitrarie da parte dell’organo dell’accusa (il principio di obbligatorietà trova la propria ratio, infatti, non solo nella esigenza di scongiurare ipotesi di ingiustificate inerzie procedimentali, ma anche di escludere possibili pressioni esterne), se da un lato garantisce i connessi principi di eguaglianza e di legalità affermati in Costituzione, dall’altro, si impone a tutela del corretto funzionamento del sistema Giustizia nel rispetto dei relativi criteri guida di economia e speditezza, sul presupposto per cui un processo infondato rappresenta un’inutile spesa per lo Stato oltre che un ingiustificato appesantimento per gli Uffici giudiziari già in affanno.

Ciò nonostante, non si può non ammettere quanto labile sia il confine tra superfluità e inopportunità del processo

45

: da qui, nasce la preoccupazione di inserire tra i presupposti dell’archiviazione elementi

45 E. MARZADURI, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, op. cit., pag. 338.

(25)

che tendano ad “oggettivare” il più possibile le valutazioni demandate all’organo della pubblica accusa

46

.

Non essendo questa sede indicata ad un’analisi più approfondita della materia, ci si limiterà ad accennare brevemente all’altro tema strettamente correlato a quello di cui sopra, vale a dire il sistema dei controlli esperibili in sede di archiviazione. Esso si concretizza, da un lato, nel potere di avocazione devoluto al Procuratore generale presso la Corte d’Appello ai sensi degli artt. 412 e 413 c.p.p. e, dall’altro, nelle facoltà spendibili dal giudice per le indagini preliminari ai sensi dell’art.

409 c.p.p. (c.d. “imputazione coatta”), nonché in caso di opposizione della persona offesa ex art. 410 c.p.p. Peraltro, a seguito della nota

“riforma Orlando” del 2017, la disciplina sull’archiviazione ha visto l’introduzione dell’art. 410-bis c.p.p., rubricato “nullità del provvedimento di archiviazione”.

3.2 I criteri di priorità

Il legislatore italiano, a fronte delle già citate difficoltà di applicare - in concreto - il principio di obbligatorietà dell’azione penale nella sua formulazione così “rigida”, ha tentato varie volte di dare una risposta al problema mediante l’impiego di un pur limitato controllo sugli affari

46 M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, op. cit., pag. 55. Qui, tuttavia, si avverte che “non si potrà mai essere completamente sicuri che un giudizio di superfluità del processo […] resti immune da condizionamenti soggettivi - spontanei od indotti - in termini, più o meno palesi, di opinione di inopportunità del processo medesimo”.

(26)

penali “in entrata”, vale a dire sulla formazione del carico di lavoro che grava sugli uffici inquirenti

47

. In particolare, per tentare di ovviare al sovraccarico delle Procure

48

, anche in Italia (sull’esempio di altri Paesi europei) è stata varata una disciplina legislativa volta ad introdurre meccanismi in tema di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella formazione dei ruoli d’udienza, vale a dire parametri che individuano i processi che devono avere la precedenza rispetto ad altri meno urgenti

49

.

Le origini del dibattito sui criteri di priorità possono essere fatte risalire tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90

50

, mentre il legislatore è intervenuto soltanto alcuni anni più tardi. Due sono le norme di riferimento: l’art. 227 del D.lgs. n. 51 del 1998 (c.d. riforma sul giudice unico) e l’art. 132-bis disp. att. c.p.p. (così come aggiunto dal D.L. n.

341 del 2000 conv. In L. n. 4 del 2001 e modificato dal D.L. n. 92 del 2008 conv. in L. n. 125 del 2008).

47 In una logica di “razionalizzazione dei tempi della giustizia penale”, come afferma E. MARZADURI, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive, op. cit., pag. 345.

48 G. D’ELIA, Commento all’art. 112, op. cit., 2127-2128. Qui si afferma che “il carico di lavoro e le strutture insufficienti o, comunque, inadeguate impongono al Pubblico Ministero di selezionare, secondo criteri inevitabilmente personali e, dunque, arbitrari, le notitie criminis da trattare e quelle da regolare nel limbo della prescrizione ovvero dell’archiviazione per pseudo-infondatezza della notizia di reato”.

49 L’indicazione dei reati da perseguire da parte del Parlamento è presente, seppure in forme diverse, in Inghilterra e Galles, negli Stati Uniti a livello federale e nei Paesi Bassi.

50 L. VERZELLONI, Il lungo dibattito sui criteri di priorità negli uffici giudicanti e requirenti, in Archivio Penale, n.3, 2014, pag. 1. L. RUSSO, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi ed esercizio dei poteri di vigilanza, in DPC, 2016, pag. 2.

(27)

Ai sensi dell’art. 227 del succitato decreto legislativo, ai fini della formazione dei ruoli d’udienza, il giudice deve tenere “conto della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa”

51

. Inoltre, ai sensi del comma 1 dell’art. 132-bis disp. Att. c.p.p. (così come modificato dall’art. 2-bis della Legge n. 125 del 2008), vengono individuate tre grandi categorie di reati a cui occorre dare “precedenza assoluta”. La prima concerne reati individuati in base al titulus, e cioè i delitti di associazione per delinquere o associazione mafiosa, i delitti in tema di prevenzione degli infortuni in ambito di igiene e infortuni sul lavoro, nonché i reati in materia di circolazione stradale e di immigrazione. La seconda riguarda ai reati individuati in base al quantum di pena, ove essa non sia edittalmente inferiore nel massimo a quattro anni. La terza si basa su criteri eminentemente processuali: hanno priorità i processi a carico di imputati detenuti o sottoposti ad arresto o fermo di indiziato di delitto, ovvero a misura cautelare personale. Inoltre, al comma 2 della medesima disposizione si aggiunge che “i dirigenti degli uffici giudicanti adottano provvedimenti organizzativi necessari per

51 R. E. KOSTORIS, Criteri di selezione e moduli deflativi nelle prospettive di riforma, in AA.VV., Il giudice unico nel processo penale, Milano, 2001, pag. 44. Qui si afferma che “per la prima volta il legislatore […] ha dato così riconoscimento formale ad aspirazioni risalenti, motivate dalla presa d’atto che la prescrizione dei reati è divenuta ormai la forma ordinaria di definizione dei procedimenti penali; che essa alleggerisce il carico giudiziario, ma nega in radice la domanda di giustizia; e che una trattazione delle pendenze secondo criteri di priorità avrebbe potuto evitare l’esito abortivo almeno per i reati più significativi”.

(28)

assicurare la rapida definizione dei processi per i quali è prevista la trattazione prioritaria”.

Tuttavia, gli strumenti principali in materia di criteri di priorità sono costituiti - da sempre - dalle circolari emesse dai capi dei singoli uffici giudiziari territoriali. Certamente da segnalare, a tal fine, è la “circolare Zagrebelsky”, emessa dalla Pretura circondariale di Torino nel 1990, che è considerata il “modello” di quella che è divenuta un’intensa attività “paralegislativa”

52

messa in atto da diversi dirigenti di uffici giudiziari ed avallata dal Consiglio Superiore della Magistratura

53

. Sempre a Torino, più recentemente ne è stata adottata un’altra estremamente significativa, nota come “circolare Maddalena” e risalente al 2007. Occorre, tuttavia, sottolineare che, tra le due citate circolari in materia di criteri di priorità, intercorre una netta e profonda

52 A. PERI, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità. La modellistica delle fonti tra esperienze recenti e prospettive de iure condendo: un quadro ricognitivo, op. cit., pag. 5.

53 Con una decisione della sezione disciplinare, il CSM ha stabilito che, nell’impossibilità oggettiva di esaurire tempestivamente la trattazione di tutte le notizie di reato, è compito della Procura della Repubblica - o del sostituto - elaborare criteri di priorità. Questo indirizzo del CSM si è consolidato in particolar modo a seguito della “Riforma del giudice unico” del 1998. Successivamente, tale impostazione è stata confermata con una risoluzione del 2006, in cui il Consiglio afferma che “i dirigenti degli uffici (inquirenti e giudicanti) possono e devono, nell’ambito delle loro competenze in tema di amministrazione della giurisdizione, adottare iniziative e provvedimenti idonei a razionalizzare la trattazione degli affari e l’impiego, a tal fine, delle (scarse) risorse disponibili. [...]”. Inoltre, va segnalato che l’indirizzo è stato ribadito anche in occasione della famosa pronuncia sulla circolare Maddalena, nel 2007, sempre in nome di un criterio di “economicità giudiziaria”. Da ultimo, l’organo di autogoverno è nuovamente intervenuto in materia nel 2014, in relazione a provvedimenti (dei Tribunali del distretto di Corte d’Appello di Bologna) organizzativi aventi connotazioni peculiari, non risultando incentrati (solo) su previsioni positive di

“priorità”, bensì, al contrario, su indicazioni di “non priorità”. Nello stesso anno, si è pronunciato su un provvedimento organizzativo del Procuratore della Repubblica di Roma, afferente all’individuazione delle priorità in relazione alle richieste di fissazione di udienza per i reati a citazione diretta. Nel 2016, il Consiglio ha deliberato alcune “Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti tra uffici requirenti e uffici giudicanti”.

(29)

differenza: mentre la prima è impostata secondo una selezione in positivo, rivolta al futuro, la seconda contiene una selezione rivolta in passato e in negativo, cioè all’accantonamento dei fascicoli relativi a processi già pendenti. Proprio perché assume il massimo grado di espansione, la circolare Zagrebelsky è considerata il vero prototipo dei criteri di priorità, sulla scorta della quale molti uffici giudiziari italiani hanno lasciato ai loro dirigenti la completa “discrezionalità” in ordine al

“se” e al “come” stabilire i criteri di priorità.

Il problema sotteso a tali criteri sta nel rispetto (o meno) della ratio dell’art. 112. Cost. A tal proposito, la stessa circolare Zagrebelsky stabilisce che “l’individuazione di criteri di priorità non contrasta con l’obbligo di cui all’art. 112 Cost., dal momento che il possibile mancato esercizio di un’azione penale tempestiva e adeguatamente preparata per tutte le notizie di reato non infondate, non deriva da considerazioni di opportunità relative alla singola notizia di reato, ma trova una ragione nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso e di questo ufficio in particolare”

54

.

Invero, questa prassi ha generato accese discussioni, anche nell’opinione pubblica, perché svela in tutta la sua evidenza, da un lato,

54 V. ZAGREBELSKY, Direttiva concernente criteri di priorità nella conduzione delle indagini preliminari, pubblicata, in Cass. pen., 1991, pagg. 362 e ss. Sul tema, si veda: V. ZAGREBELSKY, Flusso delle notizie di reato, organizzazione delle risorse, obbligatorietà dell’azione penale, in Procure circondariali. Organizzazione del lavoro dei magistrati e rapporto con la polizia giudiziaria, in Quad. CSM, 1991, pag.

163, e ID, Stabilire le priorità nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, in Il pubblico ministero oggi, 1994, pagg. 105.


(30)

l’incapacità del sistema di assicurare effettivamente l’obbligatorietà dell’azione penale e, dall’latro, il potere attribuito ai dirigenti degli uffici di definire le notizie di reato da perseguire in via prioritaria (attraverso specifiche “corsie preferenziali”)

55

.

3.3 La sospensione del procedimento con messa alla prova Il legislatore ha introdotto varie tipologie di strumenti nel sistema penale al fine di ottenere una quanto più possibile deflazione

56

del carico giudiziario, in nome di una maggior efficienza e dell’economia processuale. Tali istituti, quasi sempre creati a livello di diritto penale sostanziale, hanno nella pratica inevitabili risvolti anche a livello processuale, quasi che fossero una sorta di “depenalizzazione in via processuale”.

Il primo di quelli che saranno esaminati, è stato introdotto per effetto della Legge n. 67 del 2014

57

, quale modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari: la sospensione con messa alla prova, mediante cui è possibile pervenire ad

55 L. VERZELLONI, Il lungo dibattito sui criteri di priorità negli uffici giudicanti e requirenti, op. cit., pag. 2.

56 Seguendo una tendenza non ignota ad altri ordinamenti penali stranieri, come rileva C. E. PALIERO, “Minima non curat praetor” - Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, pag.3. Ciò nonostante, va riconosciuto che il fenomeno ha assunto in Italia “più che altrove caratteri di macroscopicità”, come rilevato da A. BERNARDI, Brevi note sulle linee evolutive della depenalizzazione in Italia, in Ind. Pen., 2001, pag. 729.

57 In particolare, la legge ha introdotto gli artt. da 168-bis a 168-quater c.p., gli artt. da 474-bis a 464-novies e 657-bis c.p.p. e 151-bis e 141-ter disp. att. c.p.p.

(31)

una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, ove il periodo di “prova” si concluda con esito positivo.

L’istituto della probation (di origine anglosassone) ha natura consensuale e finalità di riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato. In realtà, esso non è del tutto nuovo nel panorama penale italiano: era già attivo in ambito minorile, nonché in fase di esecuzione nel procedimento per adulti; ma con la suindicata legge è stato esteso il suo ambito applicativo al rito ordinario per adulti, per scopi di deflazione e contrasto del fenomeno di sovraffollamento carcerario

58

.

Ai sensi degli artt. 28 e 29 c.p.p.m., il giudice, sentite le parti, può sospendere il processo con ordinanza “quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova,” configurandosi quale vicenda processuale prima della decisione e non una misura alternativa alla detenzione. In tal caso, il minore è affidato ai servizi sociali minorili, in collaborazione con i servizi locali per l’osservazione, il trattamento e il sostegno. Il giudice può impartire prescrizioni ai fini della riparazione delle conseguenze del reato e della conciliazione con la persona offesa. La sospensione ha durata massima di tre anni per i reati più gravi, punibili con l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; un anno negli altri casi. Essa è applicabile a tutti

58 Soprattutto a seguito della condanna della Corte di Strasburgo all’Italia nella nota

“sentenza Torreggiani” dell’8 gennaio 2013.

(32)

i reati

59

e il giudice nel concederla gode di un’ampia discrezionalità, essendo vincolato soltanto dall’obbligo di sentire le parti. Durante la sospensione del procedimento - e, quindi, della prescrizione - la minaccia della pena deve funzionare da incentivo alla risocializzazione di un minore, al quale il giudice non ha concesso il perdono giudiziale permanendogli dei dubbi sulle prospettive di reiterazione del reato.

Tuttavia, il beneficio può essere revocato qualora il soggetto ponga in essere ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni impostegli. In esito alla prova, si configurano due possibili epiloghi: quando il comportamento e l’evoluzione della personalità del minore dimostrino l’avvenuta risocializzazione, il giudice dichiara estinto il reato con sentenza; altrimenti, ove ciò non avvenga, il processo va avanti

60

. Dall’analisi della disciplina appiccabile al rito per minori, sul cui modello è stata formulata la corrispondente per adulti, si capisce che la finalità dell’istituto - oltre alla deflazione del carico giudiziario - è quella di perseguire il reinserimento sociale “anticipato” degli imputati dei reati di minore gravità.

Ciò nonostante, la probation applicabile agli adulti, ai sensi degli artt.

464-bis e ss., non può essere assimilabile in toto a quella già sperimentata in relazione al procedimento minorile. La prima notevole differenza è rilevabile nel fatto che la messa alla prova nei confronti

59 Anche ove l’imputato abbia chiesto il giudizio abbreviato o immediato, in conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 125 del 14 aprile 1995, che ha riconosciuto alla sospensione con messa alla prova una significativa importanza sotto l’aspetto rieducativo del minore.

60 P. TONINI, Manuale di procedura penale, op. cit., pag. 898.

(33)

degli adulti comporta necessariamente la gratuita prestazione di lavoro di pubblica utilità di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi. Avendo questa una natura sanzionatoria, il legislatore ha dovuto fare i conti con il principio nulla poena sine iudicio (artt. 13, 27 e 111 Cost.) e ha strutturato l’istituto come un rito speciale imperniato sulla volontà dell’imputato, analogamente all’applicazione della pena su richiesta delle parti

61

.

Ulteriore vistosa differenza sta nei limiti oggettivi dell’istituto, che non è applicabile a tutti i reati, bensì soltanto a quelli puniti con la sola pena edittale pecuniaria, ovvero con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni (sola o congiunta o alternativa alla pena pecuniaria), nonché ai reati in relazione ai quali l’art. 550, comma 2, c.p.p. prevede espressamente la citazione diretta a giudizio nel rito monocratico

62

. In aggiunta, la sospensione con messa alla prova

61 Così, P. TONINI, Manuale di procedura penale, op. cit., pag. 840.

62 Nella prassi si è subito posto il problema di individuare i criteri per definire il perimetro della sanzione penale che rende ammissibile la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato: in particolare, ci si è chiesti se si dovesse o meno far ricorso ai criteri di determinazione della pena specificati all’art.

4 c.p.p. in materia di individuazione della competenza, che prevedono debba tenersi conto della pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato e non tenersi conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze, fatta eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale. Ed è chiaro che l'accesso all'una o all'altra soluzione è stato idoneo a restringere e, rispettivamente, ad ampliare l'ambito di operatività dell'istituto.

L'incidenza pratica della soluzione adottata ha reso urgente un intervento nomofilattico determinando la remissione della questione alla alle Sezioni Unite. Il Supremo Consesso (Cass. SS.UU., sent. n. 32672 del 31 marzo 2016), aderendo all'orientamento che ha optato per l'estensione dell'ambito applicativo della messa alla prova, ha statuito che, anche in ragione del mancato riferimento da parte della lettera della legge agli accidentalia delicti, ai fini della individuazione dei reati per i quali è ammessa la probation, occorre avere riguardo esclusivamente alla pena edittale massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione delle circostanze aggravanti, ivi comprese quelle per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

(34)

incontra anche limiti soggettivi, in quanto non si applica ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Infine, essa può essere concessa una volta sola e per un periodo non superiore ad un anno, quando si procede per i reati punibili con sola pena pecuniaria, o a due anni, negli altri casi.

Inoltre, al di là della prestazione di lavoro di pubblica utilità, si rinvengono anche altre attività aventi natura sanzionatoria che l’imputato in prova è tenuto ad eseguire l’imputato in prova. Rientrano tra queste le prestazioni di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato o al risarcimento del danno cagionato dallo stesso (ove possibile). Per di più, l’imputato è affidato ai servizi sociali ai fini dello svolgimento del c.d. “programma di trattamento”, il quale può implicare attività di volontariato di rilevo sociale o l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sociale, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare certi locali, ecc.

63

.

La richiesta di ammissione alla sospensione con messa alla prova trova la sua sede “naturale”

64

in una fase successiva all’esercizio dell’azione penale, ma - in deroga a tale regola - è prevista (art. 464-ter c.p.p.) una

63 G. TARTAGLIONE, La sospensione condizionale con probation, in Riv. Pen., pt.

I, 1971, pag. 324. Qui si specifica la differenza tra la probation e la sospensione condizionale della pena pura e semplice: “il condannato non è chiamato a dar conto solo della propria forza d’animo, non deve soltanto guardarsi dall’incorrere in reati […], ma viene seguito in maniera più intensa da persone responsabili, le quali hanno il compito di distoglierlo dalle occasioni criminose e di aiutarlo a superare momenti difficili che potrebbero farlo scivolare verso scelte delittuose”.

64 P. TONINI, Manuale di procedura penale, op. cit., pag. 847.

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procedura di interpello modulata su quella stabilita per il patteggiamento, secondo la quale l’imputato può richiedere la sospensione già nel corso delle indagini preliminari. In quest’ultima fase, il negozio giuridico da “unilaterale” diviene “bilaterale”, venendo a richiedere anche il consenso del pubblico ministero - risultante da “atto scritto e sinteticamente motivato -, il quale deve essere accompagnato dalla formulazione dell’imputazione. Ancorché, in caso di dissenso (motivato) di quest’ultimo, l’imputato possa rinnovare la richiesta prima dell’apertura del dibattimento di primo grado ed il giudice - ove la ritenga fondata - possa comunque concedere la messa alla prova, la necessità del previo consenso dell’organo inquirente si giustifica in ragione del fatto che questi, nel corso delle indagini preliminari, potrebbe ritenere indispensabili ulteriori investigazioni per giungere ad una decisione. La ratio della previsione risiede nell’evitare eventuali strumentalizzazioni da parte dell’indagato, allo scopo di impedire al pubblico ministero lo svolgimento di indagini complete

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.

La sospensione è disposta dal giudice con ordinanza - ricorribile per Cassazione -, ove questi reputi “idoneo il programma di trattamento presentato” e ritenga “che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati” (art. 464-quater, comma 3, c.p.p.).

L’esito della prova può condurre alla dichiarazione con sentenza dell’estinzione del reato, ove il giudice lo ritenga positivo, “tenuto conto

65P. TONINI, Manuale di procedura penale, op. cit., pag. 848.

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