Le tragedie vengono covate per molti anni prima che accadano. Il germe tragico risiede nel principio delle generazioni e queste, come i cavallini delle giostre, girano in tondo attorno al tempo, passano e ci indicano. Passa Caino che uccide Abele e la mascella d'asino resta al suo posto; passa il letto incestuoso di Edipo e i suoi orribili occhi cavati dalle orbite; passa Elena con il frutto d'oro, premio alla bellezza e origine della guerra e passa Giobbe, il castigato per la sua innocenza. Appare Nerone che fornica e respira il fumo dell'incendio che non accorderà mai la sua lira e passa anche Cuauhtemoc, in piedi e incatenato nella sua piroga, e tutti girano nell'infinita ronda che ci riflette e che genera la tragedia. E il tempo circolare e uguale a se stesso, come uno specchio che riflette un altro specchio, ci duplica.
A volte la bellezza di una nonna causa la morte dei suoi nipoti e la rovina dei suoi discendenti. Una bugia influisce su generazioni e le sue conseguenze sono impreviste e infinite. Affrontare il riflesso del passato produce lo stesso passato e cercare l'origine della sconfitta produce la antica sconfitta. Consuelo lo sapeva. Tuttavia non le restava altro che andare incontro al passato remoto conservato nella sua memoria. Se fosse riuscita a trovare i resti della casa sul fiume avrebbe trovato il suo presente, avrebbe smesso di essere un'ombra che fluttua in città senza memoria. Erano tutti morti! Restava solo lei, persa tra milioni di sconosciuti.
Consuelo era portatrice di un germe strano la cui origine doveva trovare nella casa sul fiume. Un germe che provocava la curiosità dei passanti, degli ospiti delle pensioni, dei passeggeri dei treni e, in quel momento, dei compagni di viaggio sull'autobus che la portava alla ricerca della casa sul fiume. Cercava di dimenticare il suo ingombrante bagaglio, tanto che diceva di viaggiare con la sua casa sulle spalle: «Otto scatole di libri, due bauli, tre valigie», si ripeteva mentre sopportava le occhiate avide dei passeggeri.
Guardò dal finestrino, era tutto uguale: le montagne profumate, le felci umide ai
piedi dei castagni e dei meli, l'erica profumata che cresceva tra le rose, i fiumi plumbei
come specchi liquidi su lastre bianche. Le file alte dei pioppi che giravano nel sole mutevole della surreale sera contadina. I paesi apparivano molto in basso, sul mare o molto in alto, sulle vette delle montagne. I tetti rossicci o di pietra grigia rivelavano l'età e il tipo di case, delle chiese, dei palazzi e dei monasteri.
L'autista la guardava dallo specchio retrovisore e lei non osava chiedere i nomi dimenticati dei paesi che attraversava. Nella sua memoria c'era solo la fotografia che sempre dominava la sua casa in Messico: alberi incantevoli avvolti nella nebbia, un ponte romano teso su un fiume invisibile e una casa tratteggiata tra i rami della foschia.
Temeva che quella casa immaginaria non fosse mai esistita.
Una volta, un tempo, una carrozza trainata da due cavalli funebri trottò tra le ombre e la pioggia portando due signori vestiti a lutto. Così glielo raccontarono quando era bambina e così lo ricordava lei stessa ora che viaggiava, anche lei, in quella carrozza.
Questi si fermò all'ingresso del Monastero de Valdediós e il Priore svegliò due bambini:
José Antonio e Martín, per spiegargli che erano appena diventati orfani. Con gli occhi fissi per l'orrore e le ginocchia indolenzite dal freddo, i bambini fecero la strada di ritorno in compagnia dei due vestiti a lutto e attraversarono raffiche di pioggia fino alla loro casa per poi portarli dallo zio e la zia, adesso morti anche loro. Il trotto notturno che avanzava insieme a lei determinò il suo destino. La morte improvvisa di suo nonno portò via suo padre e suo zio dal Monastero. «Se lui non fosse morto mio padre sarebbe stato un frate, io non sarei nata e non sarei su questo autobus», si disse, e ricordò il viaggio sulla carrozza notturna e ascoltò i cavalli e guardò i due vestiti a lutto dalle barbe curate. I rami profumati nascondevano i rami del funerale e gli altri, quelli della fuga, spezzati dalla mitraglia e minacciati dall'incendio e Consuelo seppe sempre che si trattava degli stessi rami.
La luce della sera nascondeva con semplicità quella notte lontana della sua infanzia.
Suo padre disse: «Dobbiamo portare via le bambine dalla Spagna». Sua madre rispose:
«Torneranno quando sarà tutto finito...» Sua sorella minore si coprì la faccia con le
mani. Le restavano solo immagini sparse, fisse come fotografie; e una dopo l'altra si
ripetevano senza darle la chiave di ciò che era successo. «Messico, Messico,
Messico...», ripeté più volte. Lì morirono i suoi genitori e sua sorella. Non aveva
nessuno al mondo e aveva bisogno di cercare le tracce della casa sul fiume. Era un
detective del passato che cercava ombre che le dessero la chiave della sua sconfitta.
Sarebbe tornata indietro nel tempo per parlare con i suoi nonni morti. Non aveva radici.
Da entrambe le parti dell'oceano era straniera e sospetta. Era fuggita in Messico e poi era fuggita dal Messico. Il suo passato era un succedersi di case altrui, volti sconosciuti e parole non dette. Non aveva assolutamente niente da dire ai vivi. Tutti gli esseri di questo mondo le incutevano terrore e per nascondersi da loro, cercava gli altri, i morti.
Smise di pensare ai morti del Messico, per concentrarsi sui morti della Spagna, loro le avrebbero dato la desiderata compagnia e la agognata risposta.
L'autobus fece una curva inaspettata e Consuelo si trovò di fronte al ponte romano.
Ansiosa, cercò la casa sul fiume e al suo posto vide dei pilastri di cemento armato.
«L'hanno demolita», pensò. «Nessuno l'ha demolita, non è mai esistita quella casa sul fiume...», si disse, cercando di uscire dall'inganno nel quale era sempre vissuta.
Attraversò un ponte moderno che era il prolungamento della strada e l'autobus entrò in un paese sconosciuto. «Forse è andata completamente a fuoco», pensò. I suoi genitori l'avevano liberata dalla morte quella notte, anche se la morte significa soltanto attraversare la meravigliosa frontiera occulta in una stanza, un sentiero, in mezzo al mare, in una chiesa o in una pasticceria, dal momento che ogni posto è giusto per morire. Ad ogni modo, quella notte infantile lei non attraversò la meravigliosa frontiera.
L'autobus si fermò davanti a un bar con le porte gialle. I passeggeri scesero spingendosi e si fermarono sul marciapiede per contemplare il suo bagaglio. Consuelo si sentì un'intrusa con tutti gli occhi addosso. – Un taxi...
– La pensione è a due passi – e un coro di risate accolse la sua richiesta.
Il paese si radunò attorno ai suoi vecchi bauli, le sue scatole di libri e le sue valigie.
Consuelo lasciò il suo bagaglio e andò verso la pensione che si trovava all'angolo della strada.
La pensione aveva l'aria modesta di un casermone della Colonia Industrial in
Messico: terrazza di cemento, finestroni di vetro opaco, un vestibolo dai colori violenti
e, in fondo, un bar economico dal gusto cinematografico. Lì un gruppo di donne vecchie
e truccate giocava a carte. Posarono i mazzi per osservarla dalla testa ai piedi. Nessuno
la salutò. Amparo, la padrona della pensione, si alzò faticosamente e affrontò Consuelo,
con i suoi occhi miopi dietro le grosse lenti dei suoi occhiali.
– Avete una stanza?... Con bagno, per favore.
Amparo restò in silenzio. Non le andava di dare una stanza alla sconosciuta. L'alta stagione era terminata e restavano solo gli ospiti “fissi” e i viaggiatori di passaggio. La sconosciuta sembrava intenzionata a restare lì per un bel po'.
– C'è una stanza senza bagno... A nome di chi? – chiese Amparo.
– Consuelo Veronda.
Amparo rimase tranquilla. «Non sarà una di loro», pensò, mentre le giocatrici ripeterono il nome di Consuelo a voce molto bassa. Dalla porta aperta che si trovava dietro il bar, apparve la testa calva di Perico, con gli stessi occhiali grossi che portava Amparo, e ordinò in fretta di ritirare i bagagli abbandonati sul marciapiede. Anche lui si avvicinò a Consuelo.
– Lei era a Covadonga tre anni fa – disse sorridendo.
Consuelo lo guardò sorpresa e fece di no con la testa. Amparo e Perico ripeterono:
– Sì, sì, l'ultima volta che lei è stata a Covadonga fu tre anni fa.
– Era mia sorella – disse Consuelo.
Estela, sua sorella, era stata a Covadonga varie volte. L'ultima visita era stata tre anni prima e quella gente pacifica non sapeva contare il tempo. Le giocatrici la guardarono con insolenza. Ci fu una pausa e Amparo la condusse in una stanza stretta, provvista di un lavabo e di un letto di ferro. Juanín, un ragazzo biondo, sistemò il suo bagaglio. Una volta sola, chiusa nella stanza, Consuelo si sentì inutile. La finestra dava su una strada stretta che non riconobbe. Di fronte c'era un edificio di mattoni e da tutte le finestre la spiavano uomini in maniche di camicia e donne dai volti severi. Abbassò la persiana. Chiusa nell'umidità della camera si chiese se avesse fatto bene a tornare al passato. Si chiese anche se quello fosse il passato.
La notizia del suo arrivo si sparse nel paese. Le donne uscirono di casa per recarsi alla pensione. I tavolini del bar-vestibolo, coperti con tovaglie a quadri arancioni e bianchi, furono occupati da compaesani che ordinarono caffè e sidro.
– Sono arrivati!... I messicani!
– Che sfortuna! – esclamò Rosa, la maestra di arte, che parlava con arroganza.
Era un problema da risolvere tutti insieme. Amparo si era dimenticata di chiedere
alla viaggiatrice per quanto tempo sarebbe rimasta in paese. La carta di identità di
Consuelo passò di mano in mano. Sembrava valida e, davanti all'ineccepibile, optarono per aspettare l'arrivo di Concha e Adelina. Le sorelle entrarono con passo grave ed esaminarono il documento.
– È la stessa che era a Covadonga – affermarono.
– Dobbiamo aspettare che torni Ramiro – suggerì Rosa.
Nel frattempo, la cosa più prudente da fare era sorridere e cercare di scoprire le intenzioni di Consuelo.
– Proprio ora doveva tornare qualcuno dal Messico! – esclamò Concha stizzita.
Davanti al silenzio dei suoi amici, Concha fissò gli occhi di un azzurro ghiaccio nel vuoto. Sua sorella Adelina voleva prolungare la discussione, ma l'intero gruppo ritenne pericoloso continuare la riunione. Consuelo avrebbe potuto sorprenderli. Il bar-vestibolo recuperò la sua aria innocente con le sue vecchie giocatrici di carte ai loro posti abituali e Juanín dietro il bar.
Una vicina bussò con le nocche sui vetri della finestra di Ramona, e la informò a gesti che Consuelo era ancora chiusa nella sua stanza. Ramona strinse il suo maglione nero, si torse le enormi mani e si girò verso Pablo, suo marito, che imprecò.
– Odio la parola Messico! – aggiunse l'anziano, guardando sua moglie con occhi pieni di rabbia.
Ramona sembrò costernata: lei, poverina, cosa poteva fare se non aspettare il ritorno di Ramirín? Eulogio, l'altro figlio, restò in silenzio, si guardò le mani inutili e chinò la testa. Il vecchio Pablo gli lanciò uno sguardo di disgusto: era buono solo a bere sidro e distribuire carbone. E con quel maledetto gas butano ne distribuiva sempre di meno!
– Com'è? – chiese il vecchio facendo uno sforzo.
– Concha e Amparo dicono che somiglia a donna Adelina – Rispose Ramona.
– Mah! Bisognerà interrogarla. Chi mi assicura che è davvero una Veronda?
La piccola cucina si trasformò in un campo di battaglia di pensieri contrapposti. Il
calore della stufa non era sufficiente a scacciare le ombre congelate che entrarono dalla
porta che comunicava con lo stretto corridoio. Bisognava scoprire il motivo del ritorno
di Consuelo. La vicina bussò di nuovo con le nocche sul vetro della finestra e avvertì
che la forestiera stava andando verso il ponte romano. Ramona si sistemò il maglione
nero e uscì di corsa. Era molto agile e correva senza fare rumore.
Consuelo camminava mentre guardava le facciate delle case, molte delle quali erano moderne. Ebbe l'impressione che il paese fosse diventato molto piccolo e che fosse abitato da strani esseri in camicia a quadri e pantaloni troppo stretti. In pochi minuti arrivò al ponte ampio e moderno. A sinistra c'era il ponte romano che si intravedeva appena tra le ombre e la nebbia. La sua sagoma familiare la accolse con un'allegria mista a tristezza. Osservò la sua curva ascendente di pietra antichissima, coperta di rampicanti ed erbe. La natura l'aveva decorato con ghirlande, e fino a lei arrivò il profumo dei caprifogli. Il ponte romano invitava ad attraversarlo, era un arco di trionfo, e iniziò a salirvi. Qualcuno la chiamò per nome: «Consuelo!... Consuelo!» Si fermò spaventata, si appoggiò al parapetto e ascoltò la notte scura cullata dai rami dei meli.
Dall'altra parte del ponte romano c'era il paese della bruma, i boschi di castagni, i sentieri di felci, i meli, i roseti e l'aria leggera e profumata. Dal punto in cui si trovava lo poteva scorgere appena. Il suo nome pronunciato misteriosamente la fermò, e allora contemplò quel luogo coperto dal silenzio e avvolto da profumi. Sotto scorreva il fiume, formando la spuma bianca; la sua umidità illuminava la notte piena di nebbia. La voce la richiamò: «Consuelo!.... Consuelo!» Decise di non andare avanti e scese per tornare al ponte nuovo. Ebbe la sensazione di essere minacciata da qualcosa di avverso.
All'improvviso, davanti a lei, apparve la casa sul fiume, brillando come una grande rosa appassita, imprigionata da inferriate sverniciate. Consuelo si aggrappò alle sue grosse sbarre.
– Che fa? – le chiese uno sconosciuto.
– I miei nonni e i miei genitori erano di qui e io...
– Sì, lei, che fa? Di dov'è? – le chiese l'uomo con brutalità.
– Io?... Di nessuna parte...
L'uomo, che indossava un giubbotto a quadri, aveva qualcosa di minaccioso, e Consuelo preferì tornare subito alla pensione. Riconobbe il suo albergo quando vide attraverso i vetri della terrazza le giocatrici che la guardavano con facce da malefiche farfalle notturne.
Nel ristorante, deserto come quello di una stazione ferroviaria di terza classe, Perico
le indicò un piccolo tavolo, vicino a quello che occupavano lui e Amparo. Gli ospiti,
distribuiti nei vari tavoli, non le toglievano gli occhi di dosso, mentre lei mangiò la
zuppa, i fagioli bianchi, la carne e il budino, senza alzare lo sguardo dal piatto. Nella stanza in cui c'era la televisione si sentiva a disagio; in un angolo, dietro una cassa, una ragazza dai capelli tinti di biondo la guardava con insolenza, quindi preferì l'umidità della sua camera.
Si svegliò diverse volte con la sensazione di essere in pericolo. Quando la mattina scese a fare colazione, ai piedi della scala la aspettava Amparo.
– Non ha chiesto della sua famiglia – disse la donna con un sorriso ambiguo.
Sorpresa, Consuelo guardò gli occhi da anfibio nascosti dietro gli occhiali e la bocca larga simile a quella di una rana. Amparo si lasciò guardare, prese il telefono che stava su un tavolino e compose un numero.
– Veronda?... Sì, c'è Consuelo qui, la tua parente... sì, viene dal Messico...
Consuelo la ascoltò stupita. La donna chiuse il telefono e annunciò:
– Arriva subito. Ieri non gli ho detto niente, pensavo che avrebbe chiesto di loro. La sua famiglia è molto conosciuta... Che c'è?! È rimasta di sasso...
Consuelo si ritrovò seduta nel vestibolo, in compagnia di Pablo e Ramona. Si sentiva a disagio davanti a quel vecchio avvolto in un cappotto sudicio e dagli occhi avidi. Sua moglie aveva occhi febbricitanti e mani enormi e ossute e Consuelo non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle dita paurose.
– Non mi ricordo di voi – disse.
– Vediamo un po', perché lei sarebbe una Veronda? – chiese l'anziano, con voce stizzita.
–Perché sono figlia di Martín Veronda e nipote di José Antonio e di Adelina Veronda. Ieri notte sono passata vicino alla casa sul fiume... la casa di mia zia. È così sola, così abbandonata!
– Quella casa è del Comune. Stasera le mostreremo tutto quello che era nostro.
– Mia zia lasciò tutto alla chiesa. Non sapevo che il Comune avesse comprato la casa... – disse lei.
– È del comune! Tutto è del Comune! – ripeté Pablo, con durezza.
– Che grande giornata per Pablo! Aspettava da tanti anni il ritorno della sua famiglia dal Messico... – sospirò Ramona, fissando i suoi occhi neri e febbricitanti su Consuelo.
– Conosco molto bene il Messico! – affermò Pablo, con voce minacciosa.
Alcuni ospiti osservavano il gruppo con avidità. Fu Pablo ad alzarsi. Si appoggiava a un bastone, indossava delle pantofole e sembrava che riuscisse a malapena a camminare.
– Andiamo a casa. Voi venite con noi! – ordinò a Consuelo.
Girarono all'angolo della pensione e presero per la stradina sulla quale dava la finestra della stanza di Consuelo. La casa di Pablo era proprio lì, in un vicolo nascosto.
Era molto antica, con un'entrata stretta, dalla quale partiva una scalinata ripida che portava al secondo piano. Si misero nella minuscola sala da pranzo, vicino alla cucina, intorno a un tavolo coperto da un arazzo realizzato in serie. I due la osservarono in silenzio, come se confrontassero le forze con l'intrusa. Lei, invece, preferì osservare l'accumulo di oggetti diversi che c'era in quella sala da pranzo dalla luce scarsa e dal soffitto basso. A una parete era appeso un ritratto di donna dipinto a olio, e alla parete opposta, un altro quadro uguale con un uomo dalla barba corta.
– Zia Adelina e il nonno! – esclamò Consuelo.
– Sì, questi sono mio nonno e mia zia – affermò il vecchio.
Consuelo ascoltò le sue parole e stava per contraddirlo: suo nonno non poteva essere anche il nonno di quel vecchio irascibile e ostile. Le età non coincidevano. Pablo le tolse la parola:
– Io e lei siamo cugini di primo grado. Lei sa che mio nonno ha avuto molti figli:
Ramiro, Eulogio, Alfonso, Antonina, Lolina e... suo padre.
Il vecchio si fermò per osservare l'effetto delle sue parole, e Consuelo restò in silenzio davanti a quel fiume di nomi sconosciuti. Ci doveva essere un errore. Ramona rovistò in un cassetto, tirò fuori delle fotografie, e, con un gesto estremamente umile le diede alla sua ospite: erano suo zio José Antonio e sua zia Adelina. Le fotografie erano macchiate di umidità. Sembrava che l'acqua ne avesse sbiadito gli angoli. Non seppe cosa dire; si sentiva inibita in mezzo a quei due personaggi... «Chi sono?», si chiese inquieta. Le offrirono qualche bicchiere di anice e alcune fette di prosciutto.
– Questa brocca d'argento era di donna Adelina – disse Ramona.
– Di zia Adelina – la corresse Pablo.
– Non capisco la nostra parentela. Siamo cugini? – chiese Consuelo.
– Esatto! Lei è la figlia di zio Martín – rispose il vecchio.
Non era possibile! Pablo era più vecchio di suo padre; ma Consuelo restò in silenzio. L'aria fredda della strada non alleviò la nausea causata dall'anice e dal prosciutto ghiacciato. Non aveva mai sentito nominare quei parenti e le sembrò impossibile che quel vecchio fosse nipote di suo padre. Era così confusa. Le rose autunnali le ricordarono la sua infanzia con una precisione agghiacciante; seppe allora che il vecchio Pablo mentiva. Gli abitanti la spiarono al suo passaggio dai balconi di legno chiusi da vetri e adornati di vasi di gerani. Era stato un errore tornare al paese!
Di sera Ramona si presentò accompagnata da un omone di più di quarant'anni.
L'omone la chiamò “zia” e Consuelo non poté fare a meno di sorridere davanti a quell'individuo chiamato Eulogio, che indossava un maglione di colore rosa. La ragazza dai capelli tinti di biondo la guardava con aria di sfida dal bancone e la sua sagoma grassa si rifletteva nello specchio del bar.
Accompagnata da Eulogio e da Ramona, fece un giro per il paese. Mentre passavano vicino alla Banca, Ramona spiegò con orgoglio:
– Qui, nella Banca, lavora Ramirín...
Eulogio le spiegò che Ramirín era suo fratello. Si accorse che la stavano portando verso la casa sul fiume e lei a malapena osò contemplare il suo giardino abbandonato e l'enorme orto che dava sul fiume nella parte posteriore della casa, esattamente dove il fiume faceva una curva pronunciata. Diede uno sguardo alla galleria di vetro che univa la casa alla cappella e si guardò dal dire una sola parola. Ramona seguì il suo sguardo.
– La cappella è chiusa. Si perse tutto con la guerra – disse la donna, sospirando.
– E la zia Adelina quando è morta? – chiese Consuelo.
I suoi genitori erano morti senza ricevere nessuna lettera o notizia dei familiari che erano rimasti in Spagna. Ricordò che tempo dopo ricevettero due o tre lettere in cui li avvertivano che era meglio non ritornare al paese. Per questo, Estela, quando andava a Covadonga, evitava di fermarsi lì.
– Quando è morta?... E io che ne so! È successo molto prima che io e Pablo ci
sposassimo... – Con il sole serale, Ramona sembrava un albero vecchio e nodoso. Un
albero nero piantato in mezzo alla luce. Ramona aveva qualcosa di minaccioso. Suo
figlio Eulogio chinò la testa. Consuelo indicò la gradinata di pietra che portava alla
veranda di entrata della casa situata molto più indietro delle inferriate stinte che
custodivano il giardino.
– Io ero seduta lì prima dell'incendio... – disse.
– La Cappella è deposito di grano – rispose Eulogio.
Si allontanarono e lei notò che madre e figlio evitarono di prendere la strada perpendicolare che portava alla casa di suo zio José Antonio. Vide solo il retro di quella casa: il giardino era distrutto e i vetri dei balconi rotti. Salirono per una strada minuscola fiancheggiata da edifici moderni e chiusa in fondo dalla scalinata di un palazzo in rovina. Sul portone c'era uno scudo lavorato in pietra. “I suoi parenti” scoppiarono a ridere al vederla perplessa davanti al palazzo che annunciava splendori passati. Salirono la scalinata e entrarono in un atrio dai muri dipinti di blu cobalto. Dal lato destro partiva una scala enorme di legno scheggiato. Le pareti altissime mostravano crepe e grandi macchie di umidità. Salirono in silenzio la gradinata che scricchiolava sotto i loro piedi.
Era sorprendente il silenzio e l'abbandono del palazzo. Non c'era nessuno, eccetto loro, che salivano le scale. Nel primo pianerottolo si trovarono tra due porte, ognuna aperta nei muri opposti. Alla porta sulla sinistra era appeso un cartello quasi cancellato:
“Gioventù”. Eulogio aprì la porta e la fece entrare in un salone che comprendeva tutta la facciata del palazzo. Le doghe erano rotte e le finestre, un tempo fastose, erano prive di vetri. Buttati per terra c'erano alcuni cartelloni e alcune vecchie sedie. In un angolo spuntava una branda. Eulogio scoppiò a ridere e all'improvviso quell'omone, con le spalle cadenti infilate nel maglione rosa, le fece paura. Niente la legava a lui! Ramona non entrò nel salone abbandonato, fin lì arrivò la sua voce che chiamava:
– Severina!... Severina!
Ramona entrò nel salone accompagnata da una donna grossa, di bassa statura, vestita di nero, che avanzò sorridendo verso di lei. La donna aveva le braccia rossastre e rugose, uguali al suo viso enorme, coronato da capelli biondi.
– Tesoro!... Quanto tempo ci hai messo a tornare! – esclamò la vecchia.
Consuelo fece uno sforzo per riconoscerla, mentre si lasciava abbracciare e baciare da Severina, che si asciugò alcune lacrime. Ramona la prese per il braccio.
– Dai, andiamo!...
Uscirono nel pianerottolo scala e Severina scelse una chiave enorme tra quelle che
pendevano dalla sua cintura, e si diresse verso la porta opposta a quella di “Gioventù”.
Questa porta era di ferro nero e la donna la aprì con uno cigolare di chiavistelli arrugginiti. Davanti a loro si aprì un'enorme bocca nera attraversata da corridoi sospesi e stretti, anche loro di ferro nero. L'aria del posto era calma e sotto i ponticelli, un mondo nero e profondo mostrava porte di ferro chiuse ermeticamente, come casseforti.
Severina avanzò lungo uno dei corridoi sospesi e i tre la seguirono. Arrivarono all'altro lato ed Eulogio le si avvicinò all'orecchio e le chiese:
– Ti piace? È il carcere.
Consuelo non capì niente ma si lasciò pervadere dalla paura e dal freddo che regnavano in quel posto. Si lasciò guidare alle celle dai muri di pietra di colore viola scuro, prive di porta. Prigionieri sconosciuti avevano lasciato messaggi sentimentali o osceni sui muri. Le celle erano gelide e grandi. Ramona le si appese al braccio e la guardò con occhi febbrili.
– Vedi? È il carcere e Severina è la carceriera – disse.
– Quanti prigionieri ci sono? – chiese spaventata.
– Nessuno! Sono già tanti anni che il carcere è vuoto – rispose Severina.
Severina sembrava un folletto vecchio e benevolo nonostante il suo lavoro. Ramona brillava come carbone in quell'inferno nero ed Eulogio aveva un'aria felice. Dai suoi occhi nascosti tra le sopracciglia e le folte ciglia zampillavano scintille di malizia.
Tornarono ai corridoi sospesi. Severina era in testa e avanzò con decisione sul ponticello che pendeva sul pozzo nero. All'improvviso si fermò.
– Questo che vedi quaggiù, tesoro, è “Siberia”. In quelle celle rinchiudevano i prigionieri e di notte aprivano le porte e li facevano uscire per ucciderli. Li portavano via dal quel portone grande – disse indicando una porta di uscita del palazzo.
Consuelo si sporse per vedere la fila di porte di ferro che formavano una parete intera di “casseforti” ed ebbe paura.
– Andiamo via!... Andiamo via!... – gridò Ramona alle sue spalle.
– È “Siberia”. La costruirono i rossi. Il primo a occupare una cella fu il Padre Fana.
Te lo ricordi? Era il canonico che celebrava la messa nella cappella di tua zia Adelina.
Lo portarono via da lì! Fu il primo morto.
– Mi fa paura questo posto – gemette Ramona.
Severina non cedette il passo, tranquilla sul ponticello appeso indicava “Siberia”,
con la sua mano rossastra.
– Lo uccisero? – chiese Consuelo, atterrita.
– Non lo sapevi, tesoro? – chiese Severina.
– Poi uccisero i blu – corresse Ramona.
– Chi uccise di più? – chiese Consuelo.
– Cristo!... Porca puttana! – gridò Eulogio.
– Entrambe le fazioni, i rossi e i blu – disse Ramona.
– No, Ramona, no! Uccisero di più i rossi. Tu lo sai. “Siberia” si riempiva tutte le notti e tutte le notti si svuotava...
– Largo!... Largo! – gridò Ramona, torcendosi le mani ossute.
Da “Siberia” usciva un freddo gelido che congelava le ringhiere di ferro del ponticello appeso. Consuelo si sentì sospesa su un inferno imprevisto, e cercò di non vedere i suoi familiari.
– Da lì, da lì portarono via il poverino! – insistette Severina.
Il chiarore della strada li colse senza allegria. I balconi di vetri, legno e gerani osservavano il loro passaggio e il vento arrivava dalle montagne, profumato di erica.
«Fu il primo...», si ripeté Consuelo e si chiese perché quei due personaggi l'avessero portata a visitare “Siberia” e perché non le avessero detto niente prima sulla morte del Padre Fana.
Ti è piaciuto il carcere? – le chiese Eulogio.
Si trovavano di fonte a una chiesa di pietra rosa, che le ricordò le chiese moderne del Messico. Ramona si fermò e le mostrò sotto il portico, e collocato in una nicchia, il busto di pietra di un uomo dal volto vile. Consuelo lo guardò con tristezza.
– Era buono come il pane. Prima qui c'erano solo casupole. Ti ricordi? Costruì lui la chiesa, con i suoi soldi. – La voce di Ramona rivelava venerazione per quel busto di pietra.
Durante il percorso verso la pasticceria, Consuelo seppe che la apparente innocenza dei balconi, dei vasi e delle nuvole alte, racchiudeva un mistero tenebroso. La cioccolata che le servirono nella pasticceria era densa e la conversazione languiva. Ci fu un leggero turbamento quando entrarono Concha e Adelina vestite per andare in chiesa.
– Sono Concha e Adelina, le tue nipoti – disse Ramona a Consuelo.
Le due donne si sedettero al loro tavolo e immediatamente parlarono del loro bisnonno, che era il nonno di Consuelo. «È incredibile che sia il loro bisnonno, hanno la mia età...», pensò lei.
– Sono le figlie di Alfonso, il fratello di Pablo – spiegò Ramona.
– Fratelli di mio padre? – chiese Consuelo arrossendo.
La invitarono nell'appartamento di Concha, che si trovava in un edificio attaccato alla pensione. I mobili foderati di velluto blu pavone con disegni pesanti, le gazzelle di porcellana fabbricate in serie, i fiori di carta, i quadri presi dai calendari e le piccole mensole, coperte di giocattoli economici, ricordarono a Consuelo le case delle sarte in Messico. I volti di Concha, Adelina ed Eulogio restavano estranei a quelli di suo padre e dei suoi zii, Adelina e José Antonio.
La lasciarono andare molto tardi. Il paese era solo e spento. La porta della pensione era aperta. Consuelo non trovò l'interruttore della luce, salì le scale a tentoni e si confuse nell'oscurità dei corridoi. Quando riuscì a trovare la porta della sua stanza, la chiave non girò nella serratura. Era evidente che la pensione era vuota. Cercò l'uscita in quel labirinto, scese le scale e si ritrovò di nuovo sulla porta di uscita. Dormivano tutti. La strada era silenziosa. All'angolo opposto vide un'insegna spenta: “Saltillo”. Era il nome di un caffè già chiuso. Un nome messicano! Ricordò il nord di quel Paese dal quale era andata via. Vide deserti e montagne giganti, e si sentì distrutta. Devo dimenticare tutto!
E ora perché “Saltillo”?
– Non dorme? – chiese una voce grossa.
La voce apparteneva alla ragazza dai capelli tinti che giaceva nascosta tra le ombre della terrazza.
– Mi segua! – ordinò con la sua voce da vecchia.
Attraversarono i corridoi bui e alla fine di uno di questi la ragazza si fermò, aprì l'ultima porta, accese la luce e disse con cinismo.
– Questa è la sua nuova stanza. Ecco la chiave.
– Grazie! Come ti chiami?
– Consuelo – rispose mentre apriva la porta vicina alla sua e si infilava nella sua
stanza sbattendo la porta. Chi era quella ragazza che aveva il suo stesso nome e viveva
nella stanza vicina?
La nuova camera aveva il bagno ma dai rubinetti non usciva acqua. Il suo bagaglio era in ordine. Si mise a dormire per dimenticare la strana giornata. Le lenzuola umide e il ricordo di “Siberia” le arrivò come un vento gelido. Ricordò Severina ed ebbe l'impressione di trovarsi in quell'inferno nero.
La sera, le sue nipoti Concha e Adelina, la aspettarono ai piedi delle scale. Adelina la prese per il braccio e la portò in un angolo.
– Non hai paura che i rossi ti uccidano in quella stanza così isolata? Tu sei blu! – le disse.
– No, non ho alcuna paura – affermò spaventata, davanti al gesto inaspettato della nipote.
Concha sorrise. I suoi occhi azzurri non ridevano. Indossava un vestito nero e si copriva le spalle con uno scialle nero anch'esso.
– In questo paese ci sono molti rossi – affermò.
Per strada decisero di dirigersi a Peña. Erano gli ultimi giorni d'autunno e presto la pioggia avrebbe impedito le passeggiate. Imboccarono la strada stretta e solitaria. I prati verdi, seminati di meli, e le sere, erano pacifici. Il fiume scorreva tra la verdura profumata e dalle sue acque si sprigionava una leggera nebbiolina. Erano circondate da montagne, il cielo era un cono azzurro che assorbiva i vapori verdi della terra. Adelina mangiava “semi di girasole”. Di tanto in tanto passavano automobili a tutta velocità, quasi rotolanti. Consuelo considerò curioso che sia le auto che andavano che quelle che venivano avessero lo stesso colore marrone e avessero a bordo un solo passeggero:
l'autista.
– È la stessa automobile! – esclamò.
– Ma dai! Sono macchine che vanno a Peña e ritornano – le rispose Adelina.
Consuelo non le credette. Aveva visto che era sempre la stessa automobile, di andata e di ritorno. Le case sparse lungo la strada la guardavano passare con indifferenza.
Erano case contadine e ordinate. Alcuni paesani le davano la “buonasera”. Prima di arrivare a Peña, Concha si fermò di fronte a una casa molto isolata.
– Questa è la casa dei genitori di Ramona – guardò pensierosa e si girò verso Consuelo.
La casa era molto grande e sporca.; gli alberi mutilati e sulla porta una donna
vecchia e dal volto ostile la guardò irritata. Sulla sua fronte scura se ne stava tranquilla una mosca. Attraverso la porta aperta si vedeva l'interno sporco e disordinato. Un'aria inquietante la avvolgeva. Si poteva dire che la casa si trovasse separata dalle altre case come segno di infamia. L'aria quieta e il silenzio che la avvolgevano odoravano di parole terribili. Concha sembrava affascinata. Adelina continuò a mangiare “semi di girasole” e Consuelo si rifiutò di affrontare con il suo sguardo quello di quella donna scura che si copriva la testa con un panno nero e sulla cui fronte restava tranquilla la mosca. Volle andarsene. Si misero a camminare seguite dagli occhi della vecchia dal volto da uccello del malaugurio.
Un po' più lontano, Concha uscì dalla strada e prese un sentiero quasi coperto da erbe profumate. Consuelo la seguì. Si avvicinavano al fragore di una rapida. Si trovarono davanti a una cascata e un lago azzurro dalle acque tumultuose. Al centro dei mulinelli si ergeva un'isoletta di rocce bianche. Un piccolo passaggio fatto di rocce disuguali serviva per arrivarci. L'acqua si faceva strada tra correnti violente, per poi scorrere per un ampio fiume le cui sponde erano fiancheggiate da alberi frondosi.
Lontano scoprì un enorme edificio di pietra grigia.
– La Centrale Elettrica – disse Concha, indicando verso l'edificio.
Le due erano sole. Il rumore dell'acqua produceva una musica piacevole e umida.
Consuelo si sedette su una roccia della sponda per ascoltare lo strepitio della cascata.
– Andiamo all'isoletta, lì dove pescava Franco – propose Concha, tendendole la mano.
Consuelo vide le unghie curate e gli occhi azzurri che la invitavano, ma non si mosse. No, non sarebbe andata nel luogo in cui pescava Franco. Concha si avventurò da sola sul piccolo passaggio di rocce disuguali e da lontano tese di nuovo la mano.
– Vieni!...
C'era qualcosa di malefico nella sua chiamata. La solitudine era perfetta e la figura
piccola e nera di Concha si delineava strana sulle rocce e la spuma bianca. Il cielo era
azzurrissimo. «Vieni!», ripeté nuovamente la donna in nero. Consuelo contemplò la sua
figura. Aveva la testa troppo grande e le gambe eccessivamente corte. Le sproporzioni
fisiche la inquietavano. Inoltre quella sagoma vestita a lutto non era sua nipote, non era
neanche sua cugina e il suo invito in quelle solitudini era sgradevole. Bastava un passo
falso, una leggera spinta per cadere nei mulinelli di acque gelide... Un attimo dopo Concha tornò al suo fianco.
– L'anno scorso Franco non è venuto... – disse, pensierosa.
Sulla strada le aspettava Adelina e le tre entrarono in un'osteria a bere sidro. L'odore agrodolce restituì a Consuelo immagini perdute della sua infanzia.
– Una parrucchiera andò in Messico e ti conobbe. Te la ricordi? Suo padre era zoccolaio – disse Adelina.
– Remedios? – chiese Consuelo.
– Guarda come si è ricordata in fretta! Ora è ricoverata nel manicomio municipale di Irún. È impazzita – spiegò Concha, con freddezza.
– Era una rossa fatta e finita. Si sposò con un messicano. Tornò in paese, si vestiva in modo molto strano, si sedeva in un caffè e non le parlava nessuno. Finché imparò a non tornare più!
Consuelo capì che non avrebbe dovuto tornare. Mai! Accese una sigaretta.
Trascorreva giorni incolori nell'attesa dell'ultima pagina del suo calendario privato. La Consuelo del Messico non esisteva più e la Consuelo del paese morì la notte dell'incendio, quando i suoi genitori, fuggendo, cercarono di salvarla. Nell'osteria un uomo leggeva un quotidiano nel quale appariva un titolo a lettere cubitali: “L'Autunno Caldo”. Si ricordò che esisteva la politica e si seppe straniera tra quella gente.
La notte andò al caffè “Saltillo”. Pioveva a dirotto e arrivò fradicia al rumoroso luogo. Cercò l'ultimo tavolo e si sedette desiderando che nessuno notasse la sua presenza. Due uomini le lanciarono occhiate dall'alto in basso e dissero a voce molto alta: «L'inglese», «La messicana!» Ed entrambi le dettero le spalle. In Messico la chiamavano “gachupina”
1quando si arrabbiavano. Osservò i due sconosciuti: uno era grosso, dalle spalle molli, maglia color mattone e occhiali verdognoli. L'altro era magro, con pantaloni verdi e giubbotto usurato. Fuori la pioggia lavava i tetti e Consuelo preferì la strada allo stare sotto gli occhi di quei due clienti ostili.
Mentre faceva colazione, Amparo la invitò ad andare al Comune per vedere i quadri di un pittore che era diventato famoso. Consuelo si sentì pervasa da un sentimento di
1 N.d.T. “Gachupina” è un termine dispregiativo messicano attribuito agli immigrati spagnoli in America Latina.