• Non ci sono risultati.

piedi dei castagni e dei meli, l'erica profumata che cresceva tra le rose, i fiumi plumbei

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "piedi dei castagni e dei meli, l'erica profumata che cresceva tra le rose, i fiumi plumbei "

Copied!
95
0
0

Testo completo

(1)

Le tragedie vengono covate per molti anni prima che accadano. Il germe tragico risiede nel principio delle generazioni e queste, come i cavallini delle giostre, girano in tondo attorno al tempo, passano e ci indicano. Passa Caino che uccide Abele e la mascella d'asino resta al suo posto; passa il letto incestuoso di Edipo e i suoi orribili occhi cavati dalle orbite; passa Elena con il frutto d'oro, premio alla bellezza e origine della guerra e passa Giobbe, il castigato per la sua innocenza. Appare Nerone che fornica e respira il fumo dell'incendio che non accorderà mai la sua lira e passa anche Cuauhtemoc, in piedi e incatenato nella sua piroga, e tutti girano nell'infinita ronda che ci riflette e che genera la tragedia. E il tempo circolare e uguale a se stesso, come uno specchio che riflette un altro specchio, ci duplica.

A volte la bellezza di una nonna causa la morte dei suoi nipoti e la rovina dei suoi discendenti. Una bugia influisce su generazioni e le sue conseguenze sono impreviste e infinite. Affrontare il riflesso del passato produce lo stesso passato e cercare l'origine della sconfitta produce la antica sconfitta. Consuelo lo sapeva. Tuttavia non le restava altro che andare incontro al passato remoto conservato nella sua memoria. Se fosse riuscita a trovare i resti della casa sul fiume avrebbe trovato il suo presente, avrebbe smesso di essere un'ombra che fluttua in città senza memoria. Erano tutti morti! Restava solo lei, persa tra milioni di sconosciuti.

Consuelo era portatrice di un germe strano la cui origine doveva trovare nella casa sul fiume. Un germe che provocava la curiosità dei passanti, degli ospiti delle pensioni, dei passeggeri dei treni e, in quel momento, dei compagni di viaggio sull'autobus che la portava alla ricerca della casa sul fiume. Cercava di dimenticare il suo ingombrante bagaglio, tanto che diceva di viaggiare con la sua casa sulle spalle: «Otto scatole di libri, due bauli, tre valigie», si ripeteva mentre sopportava le occhiate avide dei passeggeri.

Guardò dal finestrino, era tutto uguale: le montagne profumate, le felci umide ai

piedi dei castagni e dei meli, l'erica profumata che cresceva tra le rose, i fiumi plumbei

(2)

come specchi liquidi su lastre bianche. Le file alte dei pioppi che giravano nel sole mutevole della surreale sera contadina. I paesi apparivano molto in basso, sul mare o molto in alto, sulle vette delle montagne. I tetti rossicci o di pietra grigia rivelavano l'età e il tipo di case, delle chiese, dei palazzi e dei monasteri.

L'autista la guardava dallo specchio retrovisore e lei non osava chiedere i nomi dimenticati dei paesi che attraversava. Nella sua memoria c'era solo la fotografia che sempre dominava la sua casa in Messico: alberi incantevoli avvolti nella nebbia, un ponte romano teso su un fiume invisibile e una casa tratteggiata tra i rami della foschia.

Temeva che quella casa immaginaria non fosse mai esistita.

Una volta, un tempo, una carrozza trainata da due cavalli funebri trottò tra le ombre e la pioggia portando due signori vestiti a lutto. Così glielo raccontarono quando era bambina e così lo ricordava lei stessa ora che viaggiava, anche lei, in quella carrozza.

Questi si fermò all'ingresso del Monastero de Valdediós e il Priore svegliò due bambini:

José Antonio e Martín, per spiegargli che erano appena diventati orfani. Con gli occhi fissi per l'orrore e le ginocchia indolenzite dal freddo, i bambini fecero la strada di ritorno in compagnia dei due vestiti a lutto e attraversarono raffiche di pioggia fino alla loro casa per poi portarli dallo zio e la zia, adesso morti anche loro. Il trotto notturno che avanzava insieme a lei determinò il suo destino. La morte improvvisa di suo nonno portò via suo padre e suo zio dal Monastero. «Se lui non fosse morto mio padre sarebbe stato un frate, io non sarei nata e non sarei su questo autobus», si disse, e ricordò il viaggio sulla carrozza notturna e ascoltò i cavalli e guardò i due vestiti a lutto dalle barbe curate. I rami profumati nascondevano i rami del funerale e gli altri, quelli della fuga, spezzati dalla mitraglia e minacciati dall'incendio e Consuelo seppe sempre che si trattava degli stessi rami.

La luce della sera nascondeva con semplicità quella notte lontana della sua infanzia.

Suo padre disse: «Dobbiamo portare via le bambine dalla Spagna». Sua madre rispose:

«Torneranno quando sarà tutto finito...» Sua sorella minore si coprì la faccia con le

mani. Le restavano solo immagini sparse, fisse come fotografie; e una dopo l'altra si

ripetevano senza darle la chiave di ciò che era successo. «Messico, Messico,

Messico...», ripeté più volte. Lì morirono i suoi genitori e sua sorella. Non aveva

nessuno al mondo e aveva bisogno di cercare le tracce della casa sul fiume. Era un

(3)

detective del passato che cercava ombre che le dessero la chiave della sua sconfitta.

Sarebbe tornata indietro nel tempo per parlare con i suoi nonni morti. Non aveva radici.

Da entrambe le parti dell'oceano era straniera e sospetta. Era fuggita in Messico e poi era fuggita dal Messico. Il suo passato era un succedersi di case altrui, volti sconosciuti e parole non dette. Non aveva assolutamente niente da dire ai vivi. Tutti gli esseri di questo mondo le incutevano terrore e per nascondersi da loro, cercava gli altri, i morti.

Smise di pensare ai morti del Messico, per concentrarsi sui morti della Spagna, loro le avrebbero dato la desiderata compagnia e la agognata risposta.

L'autobus fece una curva inaspettata e Consuelo si trovò di fronte al ponte romano.

Ansiosa, cercò la casa sul fiume e al suo posto vide dei pilastri di cemento armato.

«L'hanno demolita», pensò. «Nessuno l'ha demolita, non è mai esistita quella casa sul fiume...», si disse, cercando di uscire dall'inganno nel quale era sempre vissuta.

Attraversò un ponte moderno che era il prolungamento della strada e l'autobus entrò in un paese sconosciuto. «Forse è andata completamente a fuoco», pensò. I suoi genitori l'avevano liberata dalla morte quella notte, anche se la morte significa soltanto attraversare la meravigliosa frontiera occulta in una stanza, un sentiero, in mezzo al mare, in una chiesa o in una pasticceria, dal momento che ogni posto è giusto per morire. Ad ogni modo, quella notte infantile lei non attraversò la meravigliosa frontiera.

L'autobus si fermò davanti a un bar con le porte gialle. I passeggeri scesero spingendosi e si fermarono sul marciapiede per contemplare il suo bagaglio. Consuelo si sentì un'intrusa con tutti gli occhi addosso. – Un taxi...

– La pensione è a due passi – e un coro di risate accolse la sua richiesta.

Il paese si radunò attorno ai suoi vecchi bauli, le sue scatole di libri e le sue valigie.

Consuelo lasciò il suo bagaglio e andò verso la pensione che si trovava all'angolo della strada.

La pensione aveva l'aria modesta di un casermone della Colonia Industrial in

Messico: terrazza di cemento, finestroni di vetro opaco, un vestibolo dai colori violenti

e, in fondo, un bar economico dal gusto cinematografico. Lì un gruppo di donne vecchie

e truccate giocava a carte. Posarono i mazzi per osservarla dalla testa ai piedi. Nessuno

la salutò. Amparo, la padrona della pensione, si alzò faticosamente e affrontò Consuelo,

con i suoi occhi miopi dietro le grosse lenti dei suoi occhiali.

(4)

– Avete una stanza?... Con bagno, per favore.

Amparo restò in silenzio. Non le andava di dare una stanza alla sconosciuta. L'alta stagione era terminata e restavano solo gli ospiti “fissi” e i viaggiatori di passaggio. La sconosciuta sembrava intenzionata a restare lì per un bel po'.

– C'è una stanza senza bagno... A nome di chi? – chiese Amparo.

– Consuelo Veronda.

Amparo rimase tranquilla. «Non sarà una di loro», pensò, mentre le giocatrici ripeterono il nome di Consuelo a voce molto bassa. Dalla porta aperta che si trovava dietro il bar, apparve la testa calva di Perico, con gli stessi occhiali grossi che portava Amparo, e ordinò in fretta di ritirare i bagagli abbandonati sul marciapiede. Anche lui si avvicinò a Consuelo.

– Lei era a Covadonga tre anni fa – disse sorridendo.

Consuelo lo guardò sorpresa e fece di no con la testa. Amparo e Perico ripeterono:

– Sì, sì, l'ultima volta che lei è stata a Covadonga fu tre anni fa.

– Era mia sorella – disse Consuelo.

Estela, sua sorella, era stata a Covadonga varie volte. L'ultima visita era stata tre anni prima e quella gente pacifica non sapeva contare il tempo. Le giocatrici la guardarono con insolenza. Ci fu una pausa e Amparo la condusse in una stanza stretta, provvista di un lavabo e di un letto di ferro. Juanín, un ragazzo biondo, sistemò il suo bagaglio. Una volta sola, chiusa nella stanza, Consuelo si sentì inutile. La finestra dava su una strada stretta che non riconobbe. Di fronte c'era un edificio di mattoni e da tutte le finestre la spiavano uomini in maniche di camicia e donne dai volti severi. Abbassò la persiana. Chiusa nell'umidità della camera si chiese se avesse fatto bene a tornare al passato. Si chiese anche se quello fosse il passato.

La notizia del suo arrivo si sparse nel paese. Le donne uscirono di casa per recarsi alla pensione. I tavolini del bar-vestibolo, coperti con tovaglie a quadri arancioni e bianchi, furono occupati da compaesani che ordinarono caffè e sidro.

– Sono arrivati!... I messicani!

– Che sfortuna! – esclamò Rosa, la maestra di arte, che parlava con arroganza.

Era un problema da risolvere tutti insieme. Amparo si era dimenticata di chiedere

alla viaggiatrice per quanto tempo sarebbe rimasta in paese. La carta di identità di

(5)

Consuelo passò di mano in mano. Sembrava valida e, davanti all'ineccepibile, optarono per aspettare l'arrivo di Concha e Adelina. Le sorelle entrarono con passo grave ed esaminarono il documento.

– È la stessa che era a Covadonga – affermarono.

– Dobbiamo aspettare che torni Ramiro – suggerì Rosa.

Nel frattempo, la cosa più prudente da fare era sorridere e cercare di scoprire le intenzioni di Consuelo.

– Proprio ora doveva tornare qualcuno dal Messico! – esclamò Concha stizzita.

Davanti al silenzio dei suoi amici, Concha fissò gli occhi di un azzurro ghiaccio nel vuoto. Sua sorella Adelina voleva prolungare la discussione, ma l'intero gruppo ritenne pericoloso continuare la riunione. Consuelo avrebbe potuto sorprenderli. Il bar-vestibolo recuperò la sua aria innocente con le sue vecchie giocatrici di carte ai loro posti abituali e Juanín dietro il bar.

Una vicina bussò con le nocche sui vetri della finestra di Ramona, e la informò a gesti che Consuelo era ancora chiusa nella sua stanza. Ramona strinse il suo maglione nero, si torse le enormi mani e si girò verso Pablo, suo marito, che imprecò.

– Odio la parola Messico! – aggiunse l'anziano, guardando sua moglie con occhi pieni di rabbia.

Ramona sembrò costernata: lei, poverina, cosa poteva fare se non aspettare il ritorno di Ramirín? Eulogio, l'altro figlio, restò in silenzio, si guardò le mani inutili e chinò la testa. Il vecchio Pablo gli lanciò uno sguardo di disgusto: era buono solo a bere sidro e distribuire carbone. E con quel maledetto gas butano ne distribuiva sempre di meno!

– Com'è? – chiese il vecchio facendo uno sforzo.

– Concha e Amparo dicono che somiglia a donna Adelina – Rispose Ramona.

– Mah! Bisognerà interrogarla. Chi mi assicura che è davvero una Veronda?

La piccola cucina si trasformò in un campo di battaglia di pensieri contrapposti. Il

calore della stufa non era sufficiente a scacciare le ombre congelate che entrarono dalla

porta che comunicava con lo stretto corridoio. Bisognava scoprire il motivo del ritorno

di Consuelo. La vicina bussò di nuovo con le nocche sul vetro della finestra e avvertì

che la forestiera stava andando verso il ponte romano. Ramona si sistemò il maglione

nero e uscì di corsa. Era molto agile e correva senza fare rumore.

(6)

Consuelo camminava mentre guardava le facciate delle case, molte delle quali erano moderne. Ebbe l'impressione che il paese fosse diventato molto piccolo e che fosse abitato da strani esseri in camicia a quadri e pantaloni troppo stretti. In pochi minuti arrivò al ponte ampio e moderno. A sinistra c'era il ponte romano che si intravedeva appena tra le ombre e la nebbia. La sua sagoma familiare la accolse con un'allegria mista a tristezza. Osservò la sua curva ascendente di pietra antichissima, coperta di rampicanti ed erbe. La natura l'aveva decorato con ghirlande, e fino a lei arrivò il profumo dei caprifogli. Il ponte romano invitava ad attraversarlo, era un arco di trionfo, e iniziò a salirvi. Qualcuno la chiamò per nome: «Consuelo!... Consuelo!» Si fermò spaventata, si appoggiò al parapetto e ascoltò la notte scura cullata dai rami dei meli.

Dall'altra parte del ponte romano c'era il paese della bruma, i boschi di castagni, i sentieri di felci, i meli, i roseti e l'aria leggera e profumata. Dal punto in cui si trovava lo poteva scorgere appena. Il suo nome pronunciato misteriosamente la fermò, e allora contemplò quel luogo coperto dal silenzio e avvolto da profumi. Sotto scorreva il fiume, formando la spuma bianca; la sua umidità illuminava la notte piena di nebbia. La voce la richiamò: «Consuelo!.... Consuelo!» Decise di non andare avanti e scese per tornare al ponte nuovo. Ebbe la sensazione di essere minacciata da qualcosa di avverso.

All'improvviso, davanti a lei, apparve la casa sul fiume, brillando come una grande rosa appassita, imprigionata da inferriate sverniciate. Consuelo si aggrappò alle sue grosse sbarre.

– Che fa? – le chiese uno sconosciuto.

– I miei nonni e i miei genitori erano di qui e io...

– Sì, lei, che fa? Di dov'è? – le chiese l'uomo con brutalità.

– Io?... Di nessuna parte...

L'uomo, che indossava un giubbotto a quadri, aveva qualcosa di minaccioso, e Consuelo preferì tornare subito alla pensione. Riconobbe il suo albergo quando vide attraverso i vetri della terrazza le giocatrici che la guardavano con facce da malefiche farfalle notturne.

Nel ristorante, deserto come quello di una stazione ferroviaria di terza classe, Perico

le indicò un piccolo tavolo, vicino a quello che occupavano lui e Amparo. Gli ospiti,

distribuiti nei vari tavoli, non le toglievano gli occhi di dosso, mentre lei mangiò la

(7)

zuppa, i fagioli bianchi, la carne e il budino, senza alzare lo sguardo dal piatto. Nella stanza in cui c'era la televisione si sentiva a disagio; in un angolo, dietro una cassa, una ragazza dai capelli tinti di biondo la guardava con insolenza, quindi preferì l'umidità della sua camera.

Si svegliò diverse volte con la sensazione di essere in pericolo. Quando la mattina scese a fare colazione, ai piedi della scala la aspettava Amparo.

– Non ha chiesto della sua famiglia – disse la donna con un sorriso ambiguo.

Sorpresa, Consuelo guardò gli occhi da anfibio nascosti dietro gli occhiali e la bocca larga simile a quella di una rana. Amparo si lasciò guardare, prese il telefono che stava su un tavolino e compose un numero.

– Veronda?... Sì, c'è Consuelo qui, la tua parente... sì, viene dal Messico...

Consuelo la ascoltò stupita. La donna chiuse il telefono e annunciò:

– Arriva subito. Ieri non gli ho detto niente, pensavo che avrebbe chiesto di loro. La sua famiglia è molto conosciuta... Che c'è?! È rimasta di sasso...

Consuelo si ritrovò seduta nel vestibolo, in compagnia di Pablo e Ramona. Si sentiva a disagio davanti a quel vecchio avvolto in un cappotto sudicio e dagli occhi avidi. Sua moglie aveva occhi febbricitanti e mani enormi e ossute e Consuelo non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle dita paurose.

– Non mi ricordo di voi – disse.

– Vediamo un po', perché lei sarebbe una Veronda? – chiese l'anziano, con voce stizzita.

–Perché sono figlia di Martín Veronda e nipote di José Antonio e di Adelina Veronda. Ieri notte sono passata vicino alla casa sul fiume... la casa di mia zia. È così sola, così abbandonata!

– Quella casa è del Comune. Stasera le mostreremo tutto quello che era nostro.

– Mia zia lasciò tutto alla chiesa. Non sapevo che il Comune avesse comprato la casa... – disse lei.

– È del comune! Tutto è del Comune! – ripeté Pablo, con durezza.

– Che grande giornata per Pablo! Aspettava da tanti anni il ritorno della sua famiglia dal Messico... – sospirò Ramona, fissando i suoi occhi neri e febbricitanti su Consuelo.

– Conosco molto bene il Messico! – affermò Pablo, con voce minacciosa.

(8)

Alcuni ospiti osservavano il gruppo con avidità. Fu Pablo ad alzarsi. Si appoggiava a un bastone, indossava delle pantofole e sembrava che riuscisse a malapena a camminare.

– Andiamo a casa. Voi venite con noi! – ordinò a Consuelo.

Girarono all'angolo della pensione e presero per la stradina sulla quale dava la finestra della stanza di Consuelo. La casa di Pablo era proprio lì, in un vicolo nascosto.

Era molto antica, con un'entrata stretta, dalla quale partiva una scalinata ripida che portava al secondo piano. Si misero nella minuscola sala da pranzo, vicino alla cucina, intorno a un tavolo coperto da un arazzo realizzato in serie. I due la osservarono in silenzio, come se confrontassero le forze con l'intrusa. Lei, invece, preferì osservare l'accumulo di oggetti diversi che c'era in quella sala da pranzo dalla luce scarsa e dal soffitto basso. A una parete era appeso un ritratto di donna dipinto a olio, e alla parete opposta, un altro quadro uguale con un uomo dalla barba corta.

– Zia Adelina e il nonno! – esclamò Consuelo.

– Sì, questi sono mio nonno e mia zia – affermò il vecchio.

Consuelo ascoltò le sue parole e stava per contraddirlo: suo nonno non poteva essere anche il nonno di quel vecchio irascibile e ostile. Le età non coincidevano. Pablo le tolse la parola:

– Io e lei siamo cugini di primo grado. Lei sa che mio nonno ha avuto molti figli:

Ramiro, Eulogio, Alfonso, Antonina, Lolina e... suo padre.

Il vecchio si fermò per osservare l'effetto delle sue parole, e Consuelo restò in silenzio davanti a quel fiume di nomi sconosciuti. Ci doveva essere un errore. Ramona rovistò in un cassetto, tirò fuori delle fotografie, e, con un gesto estremamente umile le diede alla sua ospite: erano suo zio José Antonio e sua zia Adelina. Le fotografie erano macchiate di umidità. Sembrava che l'acqua ne avesse sbiadito gli angoli. Non seppe cosa dire; si sentiva inibita in mezzo a quei due personaggi... «Chi sono?», si chiese inquieta. Le offrirono qualche bicchiere di anice e alcune fette di prosciutto.

– Questa brocca d'argento era di donna Adelina – disse Ramona.

– Di zia Adelina – la corresse Pablo.

– Non capisco la nostra parentela. Siamo cugini? – chiese Consuelo.

– Esatto! Lei è la figlia di zio Martín – rispose il vecchio.

(9)

Non era possibile! Pablo era più vecchio di suo padre; ma Consuelo restò in silenzio. L'aria fredda della strada non alleviò la nausea causata dall'anice e dal prosciutto ghiacciato. Non aveva mai sentito nominare quei parenti e le sembrò impossibile che quel vecchio fosse nipote di suo padre. Era così confusa. Le rose autunnali le ricordarono la sua infanzia con una precisione agghiacciante; seppe allora che il vecchio Pablo mentiva. Gli abitanti la spiarono al suo passaggio dai balconi di legno chiusi da vetri e adornati di vasi di gerani. Era stato un errore tornare al paese!

Di sera Ramona si presentò accompagnata da un omone di più di quarant'anni.

L'omone la chiamò “zia” e Consuelo non poté fare a meno di sorridere davanti a quell'individuo chiamato Eulogio, che indossava un maglione di colore rosa. La ragazza dai capelli tinti di biondo la guardava con aria di sfida dal bancone e la sua sagoma grassa si rifletteva nello specchio del bar.

Accompagnata da Eulogio e da Ramona, fece un giro per il paese. Mentre passavano vicino alla Banca, Ramona spiegò con orgoglio:

– Qui, nella Banca, lavora Ramirín...

Eulogio le spiegò che Ramirín era suo fratello. Si accorse che la stavano portando verso la casa sul fiume e lei a malapena osò contemplare il suo giardino abbandonato e l'enorme orto che dava sul fiume nella parte posteriore della casa, esattamente dove il fiume faceva una curva pronunciata. Diede uno sguardo alla galleria di vetro che univa la casa alla cappella e si guardò dal dire una sola parola. Ramona seguì il suo sguardo.

– La cappella è chiusa. Si perse tutto con la guerra – disse la donna, sospirando.

– E la zia Adelina quando è morta? – chiese Consuelo.

I suoi genitori erano morti senza ricevere nessuna lettera o notizia dei familiari che erano rimasti in Spagna. Ricordò che tempo dopo ricevettero due o tre lettere in cui li avvertivano che era meglio non ritornare al paese. Per questo, Estela, quando andava a Covadonga, evitava di fermarsi lì.

– Quando è morta?... E io che ne so! È successo molto prima che io e Pablo ci

sposassimo... – Con il sole serale, Ramona sembrava un albero vecchio e nodoso. Un

albero nero piantato in mezzo alla luce. Ramona aveva qualcosa di minaccioso. Suo

figlio Eulogio chinò la testa. Consuelo indicò la gradinata di pietra che portava alla

veranda di entrata della casa situata molto più indietro delle inferriate stinte che

(10)

custodivano il giardino.

– Io ero seduta lì prima dell'incendio... – disse.

– La Cappella è deposito di grano – rispose Eulogio.

Si allontanarono e lei notò che madre e figlio evitarono di prendere la strada perpendicolare che portava alla casa di suo zio José Antonio. Vide solo il retro di quella casa: il giardino era distrutto e i vetri dei balconi rotti. Salirono per una strada minuscola fiancheggiata da edifici moderni e chiusa in fondo dalla scalinata di un palazzo in rovina. Sul portone c'era uno scudo lavorato in pietra. “I suoi parenti” scoppiarono a ridere al vederla perplessa davanti al palazzo che annunciava splendori passati. Salirono la scalinata e entrarono in un atrio dai muri dipinti di blu cobalto. Dal lato destro partiva una scala enorme di legno scheggiato. Le pareti altissime mostravano crepe e grandi macchie di umidità. Salirono in silenzio la gradinata che scricchiolava sotto i loro piedi.

Era sorprendente il silenzio e l'abbandono del palazzo. Non c'era nessuno, eccetto loro, che salivano le scale. Nel primo pianerottolo si trovarono tra due porte, ognuna aperta nei muri opposti. Alla porta sulla sinistra era appeso un cartello quasi cancellato:

“Gioventù”. Eulogio aprì la porta e la fece entrare in un salone che comprendeva tutta la facciata del palazzo. Le doghe erano rotte e le finestre, un tempo fastose, erano prive di vetri. Buttati per terra c'erano alcuni cartelloni e alcune vecchie sedie. In un angolo spuntava una branda. Eulogio scoppiò a ridere e all'improvviso quell'omone, con le spalle cadenti infilate nel maglione rosa, le fece paura. Niente la legava a lui! Ramona non entrò nel salone abbandonato, fin lì arrivò la sua voce che chiamava:

– Severina!... Severina!

Ramona entrò nel salone accompagnata da una donna grossa, di bassa statura, vestita di nero, che avanzò sorridendo verso di lei. La donna aveva le braccia rossastre e rugose, uguali al suo viso enorme, coronato da capelli biondi.

– Tesoro!... Quanto tempo ci hai messo a tornare! – esclamò la vecchia.

Consuelo fece uno sforzo per riconoscerla, mentre si lasciava abbracciare e baciare da Severina, che si asciugò alcune lacrime. Ramona la prese per il braccio.

– Dai, andiamo!...

Uscirono nel pianerottolo scala e Severina scelse una chiave enorme tra quelle che

pendevano dalla sua cintura, e si diresse verso la porta opposta a quella di “Gioventù”.

(11)

Questa porta era di ferro nero e la donna la aprì con uno cigolare di chiavistelli arrugginiti. Davanti a loro si aprì un'enorme bocca nera attraversata da corridoi sospesi e stretti, anche loro di ferro nero. L'aria del posto era calma e sotto i ponticelli, un mondo nero e profondo mostrava porte di ferro chiuse ermeticamente, come casseforti.

Severina avanzò lungo uno dei corridoi sospesi e i tre la seguirono. Arrivarono all'altro lato ed Eulogio le si avvicinò all'orecchio e le chiese:

– Ti piace? È il carcere.

Consuelo non capì niente ma si lasciò pervadere dalla paura e dal freddo che regnavano in quel posto. Si lasciò guidare alle celle dai muri di pietra di colore viola scuro, prive di porta. Prigionieri sconosciuti avevano lasciato messaggi sentimentali o osceni sui muri. Le celle erano gelide e grandi. Ramona le si appese al braccio e la guardò con occhi febbrili.

– Vedi? È il carcere e Severina è la carceriera – disse.

– Quanti prigionieri ci sono? – chiese spaventata.

– Nessuno! Sono già tanti anni che il carcere è vuoto – rispose Severina.

Severina sembrava un folletto vecchio e benevolo nonostante il suo lavoro. Ramona brillava come carbone in quell'inferno nero ed Eulogio aveva un'aria felice. Dai suoi occhi nascosti tra le sopracciglia e le folte ciglia zampillavano scintille di malizia.

Tornarono ai corridoi sospesi. Severina era in testa e avanzò con decisione sul ponticello che pendeva sul pozzo nero. All'improvviso si fermò.

– Questo che vedi quaggiù, tesoro, è “Siberia”. In quelle celle rinchiudevano i prigionieri e di notte aprivano le porte e li facevano uscire per ucciderli. Li portavano via dal quel portone grande – disse indicando una porta di uscita del palazzo.

Consuelo si sporse per vedere la fila di porte di ferro che formavano una parete intera di “casseforti” ed ebbe paura.

– Andiamo via!... Andiamo via!... – gridò Ramona alle sue spalle.

– È “Siberia”. La costruirono i rossi. Il primo a occupare una cella fu il Padre Fana.

Te lo ricordi? Era il canonico che celebrava la messa nella cappella di tua zia Adelina.

Lo portarono via da lì! Fu il primo morto.

– Mi fa paura questo posto – gemette Ramona.

Severina non cedette il passo, tranquilla sul ponticello appeso indicava “Siberia”,

(12)

con la sua mano rossastra.

– Lo uccisero? – chiese Consuelo, atterrita.

– Non lo sapevi, tesoro? – chiese Severina.

– Poi uccisero i blu – corresse Ramona.

– Chi uccise di più? – chiese Consuelo.

– Cristo!... Porca puttana! – gridò Eulogio.

– Entrambe le fazioni, i rossi e i blu – disse Ramona.

– No, Ramona, no! Uccisero di più i rossi. Tu lo sai. “Siberia” si riempiva tutte le notti e tutte le notti si svuotava...

– Largo!... Largo! – gridò Ramona, torcendosi le mani ossute.

Da “Siberia” usciva un freddo gelido che congelava le ringhiere di ferro del ponticello appeso. Consuelo si sentì sospesa su un inferno imprevisto, e cercò di non vedere i suoi familiari.

– Da lì, da lì portarono via il poverino! – insistette Severina.

Il chiarore della strada li colse senza allegria. I balconi di vetri, legno e gerani osservavano il loro passaggio e il vento arrivava dalle montagne, profumato di erica.

«Fu il primo...», si ripeté Consuelo e si chiese perché quei due personaggi l'avessero portata a visitare “Siberia” e perché non le avessero detto niente prima sulla morte del Padre Fana.

Ti è piaciuto il carcere? – le chiese Eulogio.

Si trovavano di fonte a una chiesa di pietra rosa, che le ricordò le chiese moderne del Messico. Ramona si fermò e le mostrò sotto il portico, e collocato in una nicchia, il busto di pietra di un uomo dal volto vile. Consuelo lo guardò con tristezza.

– Era buono come il pane. Prima qui c'erano solo casupole. Ti ricordi? Costruì lui la chiesa, con i suoi soldi. – La voce di Ramona rivelava venerazione per quel busto di pietra.

Durante il percorso verso la pasticceria, Consuelo seppe che la apparente innocenza dei balconi, dei vasi e delle nuvole alte, racchiudeva un mistero tenebroso. La cioccolata che le servirono nella pasticceria era densa e la conversazione languiva. Ci fu un leggero turbamento quando entrarono Concha e Adelina vestite per andare in chiesa.

– Sono Concha e Adelina, le tue nipoti – disse Ramona a Consuelo.

(13)

Le due donne si sedettero al loro tavolo e immediatamente parlarono del loro bisnonno, che era il nonno di Consuelo. «È incredibile che sia il loro bisnonno, hanno la mia età...», pensò lei.

– Sono le figlie di Alfonso, il fratello di Pablo – spiegò Ramona.

– Fratelli di mio padre? – chiese Consuelo arrossendo.

La invitarono nell'appartamento di Concha, che si trovava in un edificio attaccato alla pensione. I mobili foderati di velluto blu pavone con disegni pesanti, le gazzelle di porcellana fabbricate in serie, i fiori di carta, i quadri presi dai calendari e le piccole mensole, coperte di giocattoli economici, ricordarono a Consuelo le case delle sarte in Messico. I volti di Concha, Adelina ed Eulogio restavano estranei a quelli di suo padre e dei suoi zii, Adelina e José Antonio.

La lasciarono andare molto tardi. Il paese era solo e spento. La porta della pensione era aperta. Consuelo non trovò l'interruttore della luce, salì le scale a tentoni e si confuse nell'oscurità dei corridoi. Quando riuscì a trovare la porta della sua stanza, la chiave non girò nella serratura. Era evidente che la pensione era vuota. Cercò l'uscita in quel labirinto, scese le scale e si ritrovò di nuovo sulla porta di uscita. Dormivano tutti. La strada era silenziosa. All'angolo opposto vide un'insegna spenta: “Saltillo”. Era il nome di un caffè già chiuso. Un nome messicano! Ricordò il nord di quel Paese dal quale era andata via. Vide deserti e montagne giganti, e si sentì distrutta. Devo dimenticare tutto!

E ora perché “Saltillo”?

– Non dorme? – chiese una voce grossa.

La voce apparteneva alla ragazza dai capelli tinti che giaceva nascosta tra le ombre della terrazza.

– Mi segua! – ordinò con la sua voce da vecchia.

Attraversarono i corridoi bui e alla fine di uno di questi la ragazza si fermò, aprì l'ultima porta, accese la luce e disse con cinismo.

– Questa è la sua nuova stanza. Ecco la chiave.

– Grazie! Come ti chiami?

– Consuelo – rispose mentre apriva la porta vicina alla sua e si infilava nella sua

stanza sbattendo la porta. Chi era quella ragazza che aveva il suo stesso nome e viveva

nella stanza vicina?

(14)

La nuova camera aveva il bagno ma dai rubinetti non usciva acqua. Il suo bagaglio era in ordine. Si mise a dormire per dimenticare la strana giornata. Le lenzuola umide e il ricordo di “Siberia” le arrivò come un vento gelido. Ricordò Severina ed ebbe l'impressione di trovarsi in quell'inferno nero.

La sera, le sue nipoti Concha e Adelina, la aspettarono ai piedi delle scale. Adelina la prese per il braccio e la portò in un angolo.

– Non hai paura che i rossi ti uccidano in quella stanza così isolata? Tu sei blu! – le disse.

– No, non ho alcuna paura – affermò spaventata, davanti al gesto inaspettato della nipote.

Concha sorrise. I suoi occhi azzurri non ridevano. Indossava un vestito nero e si copriva le spalle con uno scialle nero anch'esso.

– In questo paese ci sono molti rossi – affermò.

Per strada decisero di dirigersi a Peña. Erano gli ultimi giorni d'autunno e presto la pioggia avrebbe impedito le passeggiate. Imboccarono la strada stretta e solitaria. I prati verdi, seminati di meli, e le sere, erano pacifici. Il fiume scorreva tra la verdura profumata e dalle sue acque si sprigionava una leggera nebbiolina. Erano circondate da montagne, il cielo era un cono azzurro che assorbiva i vapori verdi della terra. Adelina mangiava “semi di girasole”. Di tanto in tanto passavano automobili a tutta velocità, quasi rotolanti. Consuelo considerò curioso che sia le auto che andavano che quelle che venivano avessero lo stesso colore marrone e avessero a bordo un solo passeggero:

l'autista.

– È la stessa automobile! – esclamò.

– Ma dai! Sono macchine che vanno a Peña e ritornano – le rispose Adelina.

Consuelo non le credette. Aveva visto che era sempre la stessa automobile, di andata e di ritorno. Le case sparse lungo la strada la guardavano passare con indifferenza.

Erano case contadine e ordinate. Alcuni paesani le davano la “buonasera”. Prima di arrivare a Peña, Concha si fermò di fronte a una casa molto isolata.

– Questa è la casa dei genitori di Ramona – guardò pensierosa e si girò verso Consuelo.

La casa era molto grande e sporca.; gli alberi mutilati e sulla porta una donna

(15)

vecchia e dal volto ostile la guardò irritata. Sulla sua fronte scura se ne stava tranquilla una mosca. Attraverso la porta aperta si vedeva l'interno sporco e disordinato. Un'aria inquietante la avvolgeva. Si poteva dire che la casa si trovasse separata dalle altre case come segno di infamia. L'aria quieta e il silenzio che la avvolgevano odoravano di parole terribili. Concha sembrava affascinata. Adelina continuò a mangiare “semi di girasole” e Consuelo si rifiutò di affrontare con il suo sguardo quello di quella donna scura che si copriva la testa con un panno nero e sulla cui fronte restava tranquilla la mosca. Volle andarsene. Si misero a camminare seguite dagli occhi della vecchia dal volto da uccello del malaugurio.

Un po' più lontano, Concha uscì dalla strada e prese un sentiero quasi coperto da erbe profumate. Consuelo la seguì. Si avvicinavano al fragore di una rapida. Si trovarono davanti a una cascata e un lago azzurro dalle acque tumultuose. Al centro dei mulinelli si ergeva un'isoletta di rocce bianche. Un piccolo passaggio fatto di rocce disuguali serviva per arrivarci. L'acqua si faceva strada tra correnti violente, per poi scorrere per un ampio fiume le cui sponde erano fiancheggiate da alberi frondosi.

Lontano scoprì un enorme edificio di pietra grigia.

– La Centrale Elettrica – disse Concha, indicando verso l'edificio.

Le due erano sole. Il rumore dell'acqua produceva una musica piacevole e umida.

Consuelo si sedette su una roccia della sponda per ascoltare lo strepitio della cascata.

– Andiamo all'isoletta, lì dove pescava Franco – propose Concha, tendendole la mano.

Consuelo vide le unghie curate e gli occhi azzurri che la invitavano, ma non si mosse. No, non sarebbe andata nel luogo in cui pescava Franco. Concha si avventurò da sola sul piccolo passaggio di rocce disuguali e da lontano tese di nuovo la mano.

– Vieni!...

C'era qualcosa di malefico nella sua chiamata. La solitudine era perfetta e la figura

piccola e nera di Concha si delineava strana sulle rocce e la spuma bianca. Il cielo era

azzurrissimo. «Vieni!», ripeté nuovamente la donna in nero. Consuelo contemplò la sua

figura. Aveva la testa troppo grande e le gambe eccessivamente corte. Le sproporzioni

fisiche la inquietavano. Inoltre quella sagoma vestita a lutto non era sua nipote, non era

neanche sua cugina e il suo invito in quelle solitudini era sgradevole. Bastava un passo

(16)

falso, una leggera spinta per cadere nei mulinelli di acque gelide... Un attimo dopo Concha tornò al suo fianco.

– L'anno scorso Franco non è venuto... – disse, pensierosa.

Sulla strada le aspettava Adelina e le tre entrarono in un'osteria a bere sidro. L'odore agrodolce restituì a Consuelo immagini perdute della sua infanzia.

– Una parrucchiera andò in Messico e ti conobbe. Te la ricordi? Suo padre era zoccolaio – disse Adelina.

– Remedios? – chiese Consuelo.

– Guarda come si è ricordata in fretta! Ora è ricoverata nel manicomio municipale di Irún. È impazzita – spiegò Concha, con freddezza.

– Era una rossa fatta e finita. Si sposò con un messicano. Tornò in paese, si vestiva in modo molto strano, si sedeva in un caffè e non le parlava nessuno. Finché imparò a non tornare più!

Consuelo capì che non avrebbe dovuto tornare. Mai! Accese una sigaretta.

Trascorreva giorni incolori nell'attesa dell'ultima pagina del suo calendario privato. La Consuelo del Messico non esisteva più e la Consuelo del paese morì la notte dell'incendio, quando i suoi genitori, fuggendo, cercarono di salvarla. Nell'osteria un uomo leggeva un quotidiano nel quale appariva un titolo a lettere cubitali: “L'Autunno Caldo”. Si ricordò che esisteva la politica e si seppe straniera tra quella gente.

La notte andò al caffè “Saltillo”. Pioveva a dirotto e arrivò fradicia al rumoroso luogo. Cercò l'ultimo tavolo e si sedette desiderando che nessuno notasse la sua presenza. Due uomini le lanciarono occhiate dall'alto in basso e dissero a voce molto alta: «L'inglese», «La messicana!» Ed entrambi le dettero le spalle. In Messico la chiamavano “gachupina”

1

quando si arrabbiavano. Osservò i due sconosciuti: uno era grosso, dalle spalle molli, maglia color mattone e occhiali verdognoli. L'altro era magro, con pantaloni verdi e giubbotto usurato. Fuori la pioggia lavava i tetti e Consuelo preferì la strada allo stare sotto gli occhi di quei due clienti ostili.

Mentre faceva colazione, Amparo la invitò ad andare al Comune per vedere i quadri di un pittore che era diventato famoso. Consuelo si sentì pervasa da un sentimento di

1 N.d.T. “Gachupina” è un termine dispregiativo messicano attribuito agli immigrati spagnoli in America Latina.

(17)

dolcezza e accettò volentieri. La mattinata era luminosa. Salirono le scale del Comune, che era rimasto intatto, e un usciere in uniforme le condusse alla Sala della Giunta. La sala era ampia, con tendaggi rossi, tavolo enorme e poltrone con lo schienale alto. Alle pareti immacolate erano appesi numerosi quadri che Consuelo aveva già visto. Erano stati dipinti dallo stesso artista che ritrasse suo nonno e sua zia Adelina. Perché erano lì?

– Ricordate mia zia Adelina?

Amparo e l'usciere restarono in silenzio e lei notò un gioco di sguardi tra i due.

Ripeté la domanda.

– Ah! La zia quella che portava la parrucca, si metteva la cipria bianca e le sopracciglia posticce – rispose l'usciere, scoppiando a ridere.

– Sì, è vero... quando attraversava la galleria per andare alla cappella faceva paura.

La ricordo appena – commentò Amparo.

Consuelo diventò rossa di rabbia. Non capì perché volessero offenderla calunniando sua zia. L'uomo doveva essere sulla sessantina, mentre Amparo er già più anziana.

Entrambi si rifiutavano di darle notizie di sua zia. Cambiò discorso.

– Ricordate una ragazza molto bella? Si chiamava Marta. Una volta la vidi in Messico...

– Rossa fatta e finita! Quella era una precoce, si troverebbe bene adesso – rispose l'usciere, animatamente.

– Molto bella!... Molto intelligente! Era dei miei tempi – rispose Amparo.

La invase un rancore sconosciuto. I due personaggi volevano confonderla o insultarla. Ricordavano Marta e ignoravano e insultavano sua zia. Non capì perché le mostrassero i quadri di Zamora e volle tornare in strada. Aveva commesso un errore a cercare il passato, e ora non aveva il denaro sufficiente per abbandonare il paese. Aveva tutta la giornata davanti e nessun posto dove andare. Amparo tornò alla pensione e lei si mise a camminare verso la casa sul fiume. La fermò Ramona, aveva un aspetto scomposto, la prese per il braccio e la porto a casa sua. In cucina aspettava Pablo, infilato nel suo cappotto sporco. L'uomo la guardò con severità.

– Non parli di politica, mai, mai! – ordinò il vecchio.

Consuelo non aveva mai parlato di politica, neanche quando venne condotta a

visitare “Siberia”. Fece per protestare quando vide che Pablo si piegava

(18)

pericolosamente.

– Aiutatemi!... mi sento male, molto male – gemette l'anziano.

Le donne lo aiutarono a salire le scale strette e ripide, poi lo portarono in una camera dal tetto basso, provvista di una finestra che permetteva appena alla luce di entrare.

L'aria era viziata. Pablo si stese in uno dei due letti e fece un gesto a Consuelo perché avvicinasse una sedia alla sua testiera. Ramona si sedette ai piedi del letto. Sembrava molto abbattuta.

– Ascolta Pablo. Vivi in una pensione di rossi. Non parlare con Rosa, è comunista, suo fratello non può entrare in Spagna – gemette Ramona.

– Non ho mai visto Rosa...

Pablo si tirò su sul letto e le lanciò un'occhiata scintillante di collera.

– Mai? Mai? È la maestra di arte. Ha i capelli rossastri. Lei non sa niente!

Assolutamente niente! La madre di Amparo se ne andò in Russia con le figlie. Poi tornò con Amparo, l'altra figlia se ne andò in Argentina. Mi sorprende che non si sia rifugiata in Messico, dove vivono tutti i rossi. Ora raccontano la storia dell'amnistia, torneranno gli assassini! Lei perché è tornata adesso?

Consuelo non seppe cosa dire al vecchio, che la guardava con occhi da inquisitore.

Non avrebbe mai capito le ragioni del suo ritorno. Il paese intero le aveva detto senza dirglielo che la consideravano una nemica. Entrò Eulogio con alcuni bicchieri di anice.

Pablo rifiutò il suo con energia e si stese nuovamente nel letto, con lo sguardo fisso al tetto e le braccia incrociate sul cappotto. Aveva i bianchi capelli in subbuglio, gli occhi vitrei.

– E voi dove la passaste la guerra? –chiese Consuelo.

Non si aspettavano la domanda e incrociarono tra di loro sguardi rapidi. Sembrava che Consuelo non dovesse chiedere niente; lei era lì perché la interrogassero. Vide Eulogio abbassare lo sguardo e Ramona chiudersi la bocca. Pablo si sedette sul letto e la guardò fisso.

– Signora, lei deve sapere che mi misero in carcere. I blu! I franchisti! – affermò solennemente.

Ramona scosse la testa con un gesto disperato per dimostrare la sua infinita

vergogna ed Eulogio sprofondò nel silenzio e nella penombra della stanza. Solo Pablo

(19)

rimase sollevato e provocatorio sul suo letto.

– Eri rosso? -chiese Consuelo.

Pablo si sollevò ancora di più. Alzò la testa arruffata, in realtà era indignato.

– Signora, come tutti i Veronda, sono blu! – dichiarò con voce solenne.

– I rossi lo obbligarono a lavorare nella Cooperativa, lo obbligarono! – gemette Ramona.

– Signora, io e mio fratello Alfonso nascondemmo il denaro della Banca. I rossi ci sequestrarono, ci torturarono! Ma non consegnammo il denaro. Allora, per punizione mi obbligarono a lavorare nella Cooperativa. Quando finalmente entrarono i blu, io mi trovavo a pattugliare il carcere nel quale avevamo rinchiuso tutti i rossi. In quel momento arrivò uno dei blu e ordinò: «Veronda, dentro!» Stetti dentro tre anni. Tre anni!

Dopo queste parole, Pablo si lasciò cadere esausto sul suo letto, con lo sguardo piantato in l'alto. Dalla finestra entrava il freddo. «Tre anni», si ripeté Consuelo, senza capire i suoi “parenti”. Era meglio non chiedere niente, né guardare l'uomo immobile come un cadavere. Era sconcertata. Non le piacevano quei personaggi equivoci.

Mentivano! Nel profondo della bugia c'è sempre qualcosa di perverso. Eulogio uscì dalle ombre e andò a cercare altro anice. Bisognava berlo, anche se le provocava la nausea.

– Verrai al Novenario per mio fratello? – le chiese Ramona, con umiltà e come se si rendesse conto della ripugnanza che suscitava nella sua parente e desiderasse cancellare l'effetto prodotto dalle parole di Pablo.

Pablo si sollevò nuovamente sul suo letto, guardò fisso Consuelo, alzò un braccio e indicò sua moglie.

Questa è una martire! E non le lascerò niente. Sapete quanto prendo di pensione?

Settemilacinquecento pesetas! – e sprofondò di nuovo nel letto.

– Mi hanno detto che mia zia Adelina diventò pazza, che portava la parrucca... – disse Consuelo, approfittando del momento delle confidenze.

Al sentire le parole di Consuelo, il vecchio si tirò su sul letto come spinto da una molla potentissima. La sua rabbia non aveva limite.

– Chi? Chi ha detto questo di mia zia Adelina? La zia era una gran signora!

(20)

– E quando morì?... Come morì lo zio José Antonio? – chiese Consuelo.

Il vecchio socchiuse gli occhi, si portò un dito alle labbra, esitò alcuni secondi e si lasciò cadere, abbattuto, sul suo letto.

– Signora, lasci in pace i morti – sussurrò.

Il silenzio cadde nella stanza. La luce andò svanendo e le ombre aumentarono, gli odori si fecero intensi e l'aria diventò irrespirabile. Consuelo volle andare via e Ramona la trattenne con forza. I suoi parenti desideravano sapere cose del Messico, di sua sorella, dei suoi genitori, e la interrogarono con brutalità, mentre le davano anice ghiacciato e fette di prosciutto. Nella stanza ombrosa esistevano poteri strani che la immobilizzarono. Era già molto tardi quando Ramona e Eulogio la accompagnarono alla porta. Le dita della vecchia si conficcarono nel suo braccio con una forza sconosciuta.

– Non ripetere niente di quello che ti confidiamo. Quel poveretto di Pablo soffrì molto in carcere. Lo stavano per uccidere! Gli stavano per dare trent'anni di prigione!

Un sacerdote amico di donna Adelina garantì per la sua innocenza...

Ramona aveva l'aria di una cospiratrice che dava consegne nell'oscurità della porta di casa sua.

– Non dirò niente – promise Consuelo, ansiosa di liberarsi dalle tenaglie delle dita di Ramona. Fuori la notte era fresca, non aveva l'odore della stanza di Pablo. Eulogio la accompagnò alla pensione. Camminava di fianco a lei a testa bassa, come se un'insopportabile tristezza fosse caduta sulle sue spalle spioventi. Sul marciapiede stretto avanzò la figura pesante dell'uomo dalla maglia color mattone e dagli occhiali verdognoli, che la chiamò “l'inglese” nel caffè “Saltillo”. Si incrociò con loro senza dargli la “buonanotte”.

– Chi è? – chiese Consuelo.

– Credo che sia l'orologiaio... Credo che sia rosso fatto e finito.

La parola orologiaio risuonò minacciosa. Il lavoro dell'uomo le parve malefico.

Sembrava che quell'uomo possedesse il segreto dell'ora della morte di tutti gli abitanti e

anche della sua. Eulogio le spiegò che era arrivato in paese molto dopo la guerra. Lei

detestava gli orologi, ne trovò solo un che non la inquietasse: quello di Berna, che

mostrava personaggi stupidi che giravano in alto su una torre.

(21)

Nella sala da pranzo della pensione trovò un nuovo ospite, vecchio, magro, con un abito molto usurato. Il suo tavolo era collocato accanto a quello della maestra di arte, ed entrambi chiacchieravano animatamente. Di tanto in tanto, l'ospite indicava con il coltello verso il posto che occupava Consuelo; sembrava che parlassero di lei. Si ricordò che Rosa era «rossa fatta e finita» e si disse: «Due cospiratori». Amparo e Perico cenavano alle sue spalle ed entrambi la fissavano. Di fronte a lei un uomo calvo mangiava avidamente con il coltello, e il cameriere usava attenzioni particolari nel servirlo. Lo aveva visto da qualche parte. Era imbarazzante essere osservati. Si girò verso Rosa solo per rendersi conto che il suo amico la controllava, e controllava tutti i commensali. Non avrebbe chiesto chi era, perché nessuno le avrebbe detto la verità.

Preferì salire nella sua stanza.

Cercò di dormire, la novità di avere una famiglia sconosciuta le tolse il sonno. Forse si sbagliava sul suo passato. Molto tardi sentì colpi e voci soffocate; qualcuno cercava di entrare in una stanza. Senza sapere perché, decise di non frequentare più Pablo e Ramona, erano loro a spaventarla dato che erano più sconosciuti degli sconosciuti.

Per alcuni giorni si rifiutò di frequentare i suoi “familiari” e la vecchia del chiosco non volle venderle il giornale, unica distrazione che aveva nel paese.

– Glielo venda! – ordinò una voce alle sue spalle.

Si girò per trovare un uomo alto e biondo, che dopo averla salutata si allontanò. La vecchia del chiosco portava una parrucca rossiccia e aveva la pelle porosa. Se ne andò arrabbiata e senza sapere dove dirigersi.

Sul marciapiede di fronte vide un caffè moderno, chiuso con tendaggi rossi, ed entrò lì a leggere il giornale. La chiamò la voce di Concha. Si spostò al suo tavolo, lì c'era il signore biondo che ordinò all'edicolante di venderle il quotidiano. C'era anche una donna mora, dal seno grande e dal sorriso facile.

– Joaquín e Josefina. Lui combatté nella Divisione Blu e suo fratello morì in Russia – disse Concha. Joaquín arrossì e sua moglie si mise a ridere. Sembrava essere l'unico uomo ricco del paese, con il suo abito blu marino e la sua camicia bianca impeccabile. I suoi modi erano timidi; al contrario, sua moglie era chiacchierona e amava il cinema.

– Quando ero presidentessa del Circolo delle Donne Cattoliche ero arrabbiata, quasi

(22)

tutti i film erano censurati e non potevo vederne nessuno. Lei ha visto Gilda? – chiese Josefina a Consuelo.

Sì, l'aveva visto. Josefina sembrò desolata e parlò del cinema del passato. I film moderni erano tutti pornografici e se se ne vedeva uno, si erano già visti tutti. Il suo sogno era stato vistare Hollywood. All'improvviso tacque e Consuelo prese il respiro per chiederle di sua zia Adelina, quella chiacchierona le avrebbe detto qualcosa. Josefina la guardò con malizia. – Era orribile! Mi faceva tanta paura. A noi giovani regalava dolci se andavamo a messa nella sua cappella. Io le facevo i dispetti. Povera pazza! Guardi, parlava con una voce dolce come la vostra. Portava una parrucca... Ah! Ma mi dica:

quale delle due? – Consuelo allora non seppe cosa dire. Aveva due zie Adeline?

– Quale delle due era tua zia? – chiese con innocenza.

– Perché erano due. Due zie! – assicurò Josefina.

Joaquín guardò sua moglie con recriminazione . Avrebbe desiderato che tacesse, ma lei insistette a ridere e parlare della parrucca.

– La mente infantile deforma tutto. Non ci faccia caso... – disse Joaquín, in tono di scuse. Anche Concha rideva e Joaquín, nervoso, tirò fuori un fazzoletto bianco candido e se lo passò sulla fronte coperta da un sudore immaginario. Era arrossito fino alla punta dei capelli e non vedeva Consuelo. Per lei diventò tutto confuso: «Due Adeline!», si ripeté. L'euforia delle donne la distolse dalla sua distrazione.

– Ramirín!... Ramirín! – gridarono.

Un uomo alto, con gli occhiali, le si avvicinò. Era Ramiro, l'altro figlio di Pablo, il prediletto, quello che lavorava in Banca. Il nuovo arrivato salutò solennemente e poggiò le mani sulle spalle di Consuelo.

– Ho bisogno di parlare con te da soli – disse.

Con aria grave la portò in strada e si mise a camminare a passi lunghi e distesi.

Portava un gilet di maglia color grigio e aveva l'aria preoccupata di un burocrate.

Camminarono andata e ritorno per la strada oscura, all'improvviso Ramiro si fermò

davanti al caffè. Sul marciapiede e a due passi da loro c'erano l'orologiaio e il suo

amico, l'uomo magro con il giubbotto verde, che l'aveva chiamata “la messicana” nel

caffè “Saltillo”. Volle sapere chi erano quei due uomini, ma Ramiro fece un gesto di

impazienza.

(23)

– Ta, ta, ta! In paese tutti sappiamo che sei comunista. Non parlare di politica. Qui il potere è della Destra – usava una voce impersonale.

Consuelo volle dire qualcosa, ma Ramiro non le permise di dire una parola. – Ta, ta, ta! Ho le prove.

– Quali prove? – chiese terrorizzata.

Ramiro si dondolò indietro e avanti, avanti e indietro. La guardò attraverso i suoi occhiali a forma di anelli nichelati, con condiscendenza, e si girò, perché dal caffè uscivano Joaquín, Josefina e Concha, che si fermarono a parlare con loro. Fu allora che si avvicinò l'uomo con il giubbotto verde.

– Comunista! – le gridò con voce stentorea.

– Basta! – esclamò Joaquín.

– Gil è una grande persona e un nostro grande amico – protestò Concha, e salutò affettuosa Gil.

– Perdoni Gil. È un uomo buono, ma incolto – spiegò Joaquín.

L'orologiaio osservava la scena e lei si allontanò in fretta per nascondere la sua sconfitta. L'unica cosa che la consolava era non aver dato la mano a Ramirín, che le aveva teso la trappola.

Si rifugiò nella pensione. Gil, l'uomo con il giubbotto verde, l'aveva segnata con un'etichetta che la convertiva in persona pericolosa e al centro dell'attenzione. Mangiò a testa bassa i fagioli bianchi e si unì agli ospiti che guardavano la televisione. Non si sarebbe demoralizzata. Vicino a lei si sedette l'uomo calvo che mangiava nel tavolo di fronte al suo. All'improvviso l'omino si chinò:

– Desidero che tutti i messicani affoghino nella merda – le disse a bassa voce.

– Sono spagnola...

– Molto elegante essere spagnolo quando conviene! – rispose il calvo, alzando la voce.

Amparo e Perico sorrisero. Nessuno disse niente e Consuelo ebbe la sicurezza che

gli insulti e il silenzio erano stati accordati prima. Si ritirò nella sua stanza. «Devo

andare via di qui». Contò i soldi e avvertì che non erano abbastanza per trasportare il

suo bagaglio. Affondò la testa nelle lenzuola e pianse. Non voleva più vedere nessuno

del paese.

(24)

Piovve tutto il giorno. Consuelo vide cadere la pioggia attraverso le fessure della sua persiana abbassata. Uscì dalla pensione e, per non vedere nessuno, andò al caffè degli autisti, spazioso e umido. Si sentiva umiliata, temeva che la sua famiglia scoprisse il suo nascondiglio. «Quel Ramiro!» Al bancone alcuni giovani parlavano di calcio e di qualcuno che era stato assassinato nei Paesi Baschi. Non volle ascoltare, non le interessava. Un giovanotto con un giubbotto blu marino, viso aperto e risata facile, le si mise davanti.

– Camerata, mi siederò qui, so quello che ti succede con i paesanini – disse con voce decisa.

– Il ragazzo spinse con il piede uno sgabello e si sedette al suo fianco.

– Cosa mi succede?

– Dai! Sono tutti dei fascisti – rispose, chinandosi per dire l'ultima parola a voce molto bassa.

Il ragazzo lanciò un'occhiata soddisfatta, accese una sigaretta e sorrise. Poi guardò da tutte le parti con rapidità e le passò una rivista che portava nascosta sotto il giubbotto.

– El viejo Topo! – disse con voce da cospiratore.

Consuelo cercò di nascondere la rivista, che doveva essere molto sovversiva, e guardò il ragazzo, spaventata.

– Questi paesanini sono tremendi. Guarda, dipingono i loro zoccoli di nero per essere più eleganti! Io li uso bianchi – e sollevò un piede per mostrare i suoi zoccoli di legno chiaro. Consuelo scoppiò a ridere e il ragazzo diede vari colpi con la mano e ordinò un cognac.

– Ho persone nella pensione. Tu non preoccuparti, abbiamo fatto le liste e daremo filo da torcere a tutti – e il ragazzo fece un lungo tiro di sigaretta.

– Senti, mi chiamo Manolo! Il paesanino, quello che ti disse di affogare nella merda non è di questo paese. Lo portò un moro otto anni fa. Si chiama Marcelo ed è finocchio!

Fi-noc-chio. Proprio così.

Consuelo stava per ridere, ma vide entrare Gil, che si piazzò al bancone e li osservò

con ira mal dissimulata. Manolo sostenne lo sguardo; poi, inquieto, si chinò verso la sua

amica.

(25)

– Guardalo! Si chiama Gil. È quello che ti chiamò comunista. Non ti preoccupare, io vigilo. Questi paesanini sono tremendi, dicono che non sei una Veronda. E invece lo sei, vero?

– Certo! – assicurò lei, sorpresa.

Gil gli si avvicinò, esitò e tornò al bancone. Manolo ritenne di dover rientrare.

«Andrò da quella parte» disse, e uscì con passi pesanti, dondolando il suo enorme ombrello nero. Gil bevve alcuni bicchieri di cognac e se ne andò. Consuelo lo vide sparire tra i turbini di pioggia che frustavano la strada. Lei restò lì pensando che non aveva un posto dove andare, tranne che nella stanza umida. Era tardi e dovette andarsene in mezzo al vento gelido che scendeva dalle montagne con una furia così violenta che non le permetteva di avanzare. Non aveva l'ombrello e in pochi secondi si ritrovò bagnata come una zuppa. Dallo stipite di un portone uscì Gil e la afferrò. Presa alla sprovvista si lasciò portare senza resistenza alla sua auto. Gil la infilò sul sedile posteriore e partirono a tutta velocità. Passarono davanti alla casa sul fiume, che in quel momento era avvolta nella tempesta e imboccarono la strada. Corsero attraverso la notte scura spazzata dal vento; la pioggia colpiva il parabrezza e fuori c'erano solo ombre fantastiche. Gil prendeva le curve a una velocità vertiginosa. Consuelo non aveva paura, era rassegnata. Cosa poteva fare in mezzo a una tempesta e davanti alla collera cieca di quel maniaco? All'improvviso l'auto si fermò in una cunetta vicino a qualcosa che sembrava una casa abbandonata. La violenza della tempesta sembrò aumentare, il vento gelido entrò dalle fessure dell'auto e la notte intera sembrò precipitare sul veicolo parcheggiato in quel luogo assurdo. Gil puntò i fari sulla casa sverniciata e invasa dalle erbacce. Consuelo vide la porta e le finestre condannate.

– I rossi ne uccisero molti. Li liquidavano di notte. Quanti ne ammazzarono? – chiese Gil.

– Non lo so. Io ero piccola e me ne andai con i miei genitori...

– In questa casa uccisero quattro dei tuoi assassini! Loro ne avevano ucciso

novantadue – rispose lui. La casa sverniciata, avvolta dalla tempesta, aveva qualcosa di

troppo tranquillo, immobile in un istante di orrore. Era intoccabile. Tutta la pioggia del

mondo non lavava il sangue accumulato. «Quanto rancore!», si diceva Consuelo, e

ricordò che in Messico c'era stata una rivoluzione e l'odio e il rancore personali erano

(26)

ormai cancellati. La gente era mossa da altre cose che guardavano al futuro, non stava parcheggiata a guardare con odio il passato, facendo i conti l'uno all'altro. Gil spense i fari e nell'oscurità lei non poté pensare a niente, solo alla caduta della pioggia e al soffiare del vento. Era paralizzata dal terrore.

– Posso farti scendere e darti una bastonata da lasciarti più rossa dei tuoi assassini – disse Gil.

Lei non rispose. All'improvviso seppe che era pericoloso lasciare quell'individuo ai suoi pensieri e chiese di accendere la radio per ascoltare la musica. L'uomo ubbidì e l'allegria della musica sembrò calmarlo. Dopo pochi minuti ripresero a correre a tutta velocità, attraversarono una paese e Gil fermò l'automobile davanti a una discoteca.

Occuparono un tavolo in fondo al locale. I raggi violenti dei riflettori verdi, viola e rossi illuminavano gli occhi ubriachi dell'uomo seduto di fronte a lei. Non avrebbe mai pensato che quella “passeggiata” sarebbe finita in una discoteca disgraziata e quasi abbandonata. Si sentì sicura.

– Voglio sapere cos'è la mia famiglia – disse con voce ferma.

– La sua famiglia? Rossa! Rossa fatta e finita. Ramiro è un bravo ragazzo, si è fatto da solo... – disse Gil con voce stanca.

– Non mi interessa che sia rossa. Voglio sapere perché sono la mia famiglia. Di chi è figlio Pablo? – Gil la guardò con i suoi occhi piccoli e iniettati di sangue, stese un braccio sul tavolo, sembrava che stesse per addormentarsi.

– Alfonso, il padre di Concha, e Adelina e Pablo sono figli di Lolina, la sediaia, della quale non si conobbe mai il marito...

– E mio zio José Antonio e mia zia Adelina quando morirono?

Gil si sollevò, la guardò con i suoi occhi privi di ciglia come quelli di un uccello e diede un pugno sul tavolo.

– Quelli non sono mai esistiti! Mai! Ho visto tutti i documenti del Comune e non sono mai esistiti... Povera Adelina! Suo padre, Alfonso, voleva che fosse una signorina e guarda ora! Bada ai maiali e scarica i sacchi. Concha è vedova di un cubano; non l'ha mai amato. Quella non ama nessuno! Eulogio e Ramiro sono ragazzi eccellenti.

Eccellenti!

E diede un altro pugno sul tavolo.

(27)

– Sono eccellenti e sono rossi? Allora perché accusò me di essere comunista?

– Oggi lei era con Manolo, quel figlio di puttana. E guardi, Ramiro la conosce meglio di me, non importa se sia rosso, è eccellente! Lo è sempre stato. Inoltre Pablo mi deve molti favori, molti! – affermò Gil con le palpebre socchiuse.

Le luci rosse, verdi, viola e arancioni continuavano a passare sul volto asciutto dell'uomo, che con i suoi indumenti vecchi sembrava un pagliaccio usato e rotto.

– E questi zii, José Antonio e Adelina, che si è inventata lei non sono mai esistiti!

Mai! – ripeté Gil, scintillante di collera.

Consuelo capì che doveva tacere. Quando tornarono alla pensione continuava a piovere. Era zuppa e l'acqua le grondava dai capelli. Il paese sembrava essere affogato.

Scendendo dall'auto Consuelo si trovò paralizzata dal terrore, forse si era sforzata troppo di restare tranquilla davanti a quel demente e cercò di correre fino alla porta aperta della pensione. Salì la scala buia e a tentoni cercò la porta della sua stanza. Se avesse potuto trovare qualcuno di cui fidarsi! Si lasciò cadere sul bordo del suo letto.

Era disgustata: aveva sopportato insulti, paura, perché? Chi era quell'individuo minaccioso che negava che la sua famiglia fosse esistita? La pensione vuota e la porta aperta le fecero paura. Doveva lasciare il paese, andarsene, ma dove e con quali soldi?

Di notte la sala da pranzo era tranquilla, fissò lo sguardo sul suo piatto, nel quale si raffreddava un pezzo di carne con patate. Qualcuno la guardava. Alzò lo sguardo e vide la faccia di Ramona attaccata ai vetri della finestra che dava sulla stradina laterale.

Nell'oscurità della notte il volto della donna era nero e gli occhi brillavano febbrili.

Consuelo sembrò ipnotizzata e il nuovo ospite, il vecchio amico di Rosa, girò gli occhi rapidamente e sorprese Ramona. La donna sparì velocemente. Marcelo, il fi-noc-chio, come lo chiamò Manolo, mangiava con il coltello e masticava con decisione. Perico e Amparo cenavano indolentemente. Non c'era dubbio che avessero visto Ramona. Non seppe se andare al “Saltillo” o se prendere il caffè nel bar della pensione. Aveva bisogno di riflettere. Perico si spostò al suo tavolo.

– La vedo preoccupata, donna Consuelo. Mio fratello era un grande rivoluzionario e

passò tutta la vita in carcere. Tutta! Usciva e lo riarrestavano e pum! Pum! Pum! Lo

picchiavano tanto che tornava a casa distrutto... È morto l'anno scorso. Lo ricordo pieno

di sangue, quando tornava a casa, per poi essere di nuovo preso e pum! Pum! Pum!

(28)

Povero fratello, morì qualche giorno prima del Caudillo. Non ebbe quel piacere...

Consuelo lo lasciò parlare e osservò le sue labbra rosse e la sua pelata brillante.

Portava sue anelli di diamanti e i suoi gesti erano troppo eloquenti. I suoi occhi opacizzati e gonfi fingevano una simpatia non sentita. Consuelo ringraziò per le confidenze ed evitò di entrare nella stanza della televisione dove campeggiava Marcelo.

La ragazza tinta di biondo le sbarrò la strada.

– Non so cosa voglia Ramona. Niente di buono! No, niente di buono. Ieri notte l'ho trovata che guardava verso la sua finestra spenta. Mi fa paura, fossi in lei non tornerei più a casa sua. Papà le ha fatto molti favori. Papà è così! – disse con la sua voce aspra.

– Chi è tuo padre? – chiese Consuelo.

– Mio padre? È Pedro, e Amparo è mia zia.

Amparo apparve dalla porta del bar che comunicava con la cucina e la ragazza finse di leggere una rivista.

Una volta nella sua stanza, ricordò la frase di Gil: «Pablo e Alfonso sono figli di Lolina, la sediaia, della quale non si conobbe mai il marito». La sicurezza che tutti le mentivano le fece paura. Forse Manolo le avrebbe detto la verità. Nello specchio vide il suo volto livido e si sentì molto stanca.

La svegliò il chiasso del paese. Attraverso la persiana abbassata le arrivarono le campane che richiamavano alla messa per il patrono del paese. Poi tutti sarebbero andati alla processione, solo lei era sola, chiusa nella stanza di una pensione a una stella. Di notte si trovò in mezzo agli ospiti e ascoltò i loro commenti allegri: «Per un attimo mi credetti dentro un Renoir», disse Rosa, la maestra di arte, muovendo i suoi orecchini fatti di plastica blu. Si rivolse a Consuelo.

– Lei sa che la Repubblica era la mente e il franchismo la pistola – disse enfaticamente.

Il vecchio dallo sguardo di uccello sorrise e accompagnato da Rosa si diresse al suo tavolo. Era difficile sopportare la solitudine alla quale l'avevano condannata. La accusavano di qualcosa e lei trovava agli angoli solo Gil e l'orologiaio. Anche adesso erano dentro la pensione chiacchierando animatamente con Amparo. Cenò in fretta e tornò nella sua stanza. Era quella l'ospitalità tanto declamata?

Imbruniva quando passò davanti alla casa di suo zio José Antonio. Sulla pietra

(29)

dell'enorme portone c'erano ancora incise le sue iniziali: J.A.V. La casa era abbandonata, le finestre chiuse, i muri abbattuti e nel giardino gli alberi crescevano rotti in mezzo alle erbacce. Contemplò i vetri distrutti dei balconi. Una furia antica soffiò sulla casa per poi abbandonarla e lasciarla in silenzio. C'era un mistero che nessuno voleva decifrarle. In piedi davanti al portone, si sentì scoraggiata; era inutile bussare, non avrebbe risposto nessuno. La furia distruttrice la buttò fuori dalla sua casa e gli abitanti la guardavano con allegria. «La sua famiglia non è mai esistita!», disse Gil, e le iniziali incise nella pietra si lasciavano contemplare con tristezza. Girò l'angolo e vide che una delle finestre della sala era stata convertita in porta che dava accesso a una farmacia. Chi ruppe quella finestra? Chi distrusse la casa? Chi la chiuse? Entrò nella farmacia per trovare qualche traccia del passato e un uomo dai baffi a manubrio apparve dietro il bancone. Lei non seppe cosa dire, stordita dallo spettacolo inaspettato. Percorse con lo sguardo le vetrine, che contenevano flaconi dalle etichette piccole e pubblicità per la tosse, i calli, alimenti per bambini rachitici e oli per abbronzanti per la spiaggia. La farmacia era piccola, una porticina aperta tra gli scaffali conduceva all'interno ampio, una volta accogliente e lussuoso. L'uomo si pettinò i baffi. Nel suo atteggiamento c'era qualcosa di perverso.

– Dei sonniferi... – disse lei.

Era sorprendente trovarsi lì, a percepire aromi medicinali... in quel luogo che prima aveva mobili tappezzati di oro antico, tappeti, specchi, libri, fiori e i quadri che ora erano appesi nella Sala della Giunta del Comune. Dalla finestra trasformata in porta, lei contemplava il ponte romano situato a pochi metri da lì, in quel momento confuso nella pioggerellina. Da quella finestra lei vide piovere in passato, come adesso, solo che prima la legna ardente del caminetto profumava la stanza e illuminava le librerie.

Contemplò il ponte romano avvolto dalla nebbia e dalla pioggerellina. Le sue erbe e i suoi rampicanti la chiamavano, come fecero in passato. Cercò di ascoltare il fiume di acque gelide che scorreva sotto il suo arco e una donna la interruppe.

– Come trova il paese?

– Uguale... – rispose alla sconosciuta, che la guardava con troppa curiosità.

La sua interlocutrice sembrò sorprendersi: uguale! Ma se era tutto cambiato! Il

farmacista osservò la scena e intervenne nella conversazione quando si pronunciò il

nome di José Antonio, il quale la cliente non desiderava ricordare.

Riferimenti

Documenti correlati

Il percorso di consapevolezza della paziente: dalla diagnosi alla presa di coscienza e la paura della stigmatizzazione (quello che le donne dicono e non

 Cuffie a bassa pressione, di forma cilindrica, opache con palloncino pilota (colorazioni differenti per distinguere il tratto bronchiale e il tratto tracheale),

“Gli scatti del calendario non sono certo erotici, e nulla hanno a che fare con la nudità di ben altri calendari in cui l’immagine della donna viene umiliata e involgarita”

Si comunica che le classi 2°A SAS e 2° B SAS effettueranno un’uscita didattica a Rezzato presso la PINAC (Pinacoteca Internazionale dell’età evolutiva) il giorno 12 dicembre 2019.

Tali documentazioni, raccolte in modo chiaro e continuativo, offrono ai bambini l’opportunità di rendersi conto delle proprie conquiste e forniscono a tutti i soggetti della

so degli ultimi 30 anni, si sono rivelate quasi sempre più convenienti di quelle a tasso fisso – anche con­.. siderando che i tassi

EUH208 – Contiene Amyl cinnamal, Hexyl Cinnamal, Citronellol, Linalool.. Può provocare una reazione

Il giorno dopo mi ha dato altri quadratini, tanti, e mi ha detto che se avessi visto delle divise dovevo ingoiarli. Ho visto un gruppo di divise, mi ha preso il