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Giudizio di appello nelle cause matrimoniali: “reiectio in limine” e limiti della prova

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Academic year: 2022

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Piero Amenta

(avvocato del Tribunale apostolico della Rota Romana)

Giudizio di appello nelle cause matrimoniali:

“reiectio in limine” e limiti della prova *

ABSTRACT: The article is the resumé of a speech originally delivered to the members of the Arcisodalizio della Curia Romana. It examines the canonical discipline in matrimonial case as it is contained in m.p. Mitis Iudex, by pope Francis, with whom the Pontiff has reformed the discipline of the canonical process in matrimonial cases. The author explaines the new discipline, compares it with the old one replaced, and discuss the points that seem to be problematic, proposing possible solutions in the light of the Roman Rota Jurisprudence of recent times.

SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Introduzione - 3. Il processo ordinario di appello nel M.P. Mitis Iudex - 4. L’appello nel processo abbreviato - 5. I limiti della prova in fase di appello.

1 - Premessa

Quando mi fu rivolto l’invito a scrivere sul tema oggetto del presente studio, devo dire anzitutto che l’ho accolto con qualche iniziale preoccupazione, sia per la complessità dell’argomento - che qualcuno in sedi accademiche non ha esitato a definire un vero e proprio campo minato - sia a motivo del fatto che tal genere di argomenti è molto più confacente a un processualista di professione che a un operatore della giustizia. Tuttavia, ho abbandonato le mie perplessità a partire dalla considerazione che una giurisprudenza particolarmente qualificata, come quella che è richiesta al Tribunale Apostolico della Rota Romana, dev’essere pur sempre sostenuta e alimentata da una riflessione previa, prima di essere applicata ai casi singoli. La preparazione di queste annotazioni che propongo è stata perciò per me personalmente l’occasione propizia per operare una riflessione il più possibile approfondita sulla nuova legislazione processuale canonica quale delineata per la Chiesa latina nell’ormai a tutti noto M.P. Mitis Iudex Dominus Iesus, del 15 agosto

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2015, entrato in vigore l’8 dicembre successivo1. Certamente la materia avrà bisogno di ulteriori approfondimenti, sia in sede dottrinale sia in sede giurisprudenziale, perciò quanto segue non ha la pretesa di avere il crisma della definitività e meno ancora dell’esaustività. Per questa ragione, mi auguro che i lettori vorranno accogliere queste mie riflessioni come un primo tentativo di sistemazione della materia, con l’auspicio dell’avvento di studi ulteriori maggiormente completi. Eviterò di proposito di addentrarmi nei meandri delle singole questioni procedurali, che richiedono uno spazio che non ho a disposizione. Mi limiterò, invece, a proporre le questioni che la nuova legge pone o sembra porre all’operatore della giustizia e, sostenuto dalla sempre valida e benemerita giurisprudenza del Foro apostolico della Rota Romana, prospettare le possibili soluzioni.

2 - Introduzione

Passo subito alla dichiarazione di intenti, che parte dal chiarimento di cosa esattamente mi viene chiesto con il titolo propostomi. Anzitutto, credo che io debba delineare il processo d’appello come disegnato dalla nuova legislazione processuale. Non avrebbe senso, infatti, aggredire le questioni singole e le problematiche connesse senza aver illustrato - per lo meno a grandi linee - l’istituto del processo d’appello così come è previsto dalla legislazione ora vigente. Lo farò molto brevemente, vista l’esiguità del tempo a disposizione, con qualche richiamo alla legislazione abrogata perché possano meglio risaltare le differenze. Passerò poi a descrivere cosa si debba intendere precisamente con l’espressione “reiectio a limine”, quindi, in terzo luogo, cercherò, sempre sommariamente, di enucleare le problematiche relative all’istruttoria, nei casi in cui essa abbia luogo e quali i limiti imposti a essa dalla legge positiva.

L’istituto giuridico dell’appello - sconosciuto al diritto romano classico - è antichissimo nella Chiesa, dal momento che troviamo testimonianza di esso già nei concili niceno e sardicense, della prima metà del IV secolo dell’era cristiana. In quest’ultimo, si sanciva il diritto di appello di ogni fedele alla sede del vescovo di Roma2. Tuttavia, l’istituto è

* Contributo sottoposto a valutazione.

1 FRANCISCUS PP., Litt. Ap. M.P. datae: Mitis Iudex Dominus Iesus, 15 agosto 2015, AAS 107 (2015), pp. 958-970. Si fa qui riferimento al solo M.P. per la Chiesa latina.

2 Cfr. H. DENZINGER, A. SCHÖNMETZER, Enchiridion symbolorum definitionum et

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stato lungo i secoli disciplinato in forme diverse e adattato alle circostanze e necessità di tempo e di luogo, fatti sempre salvi il suo nucleo e la sua essenza, che sono in strettissima connessione con il diritto alla difesa e quindi con fondamento nel diritto stesso della natura3. Anche le legislazioni civili, di diretta derivazione romanistica, conoscono e disciplinano l’istituto: tuttavia, non sono mancati nella storia periodi in cui vi sono stati tentativi e progetti di abolizione dell’istituto, come ad esempio durante la rivoluzione francese. Tuttavia l’istituto è sempre stato mantenuto, pur nelle forme diverse, poiché, nonostante i suoi difetti e le incongruenze a cui può dar luogo, rimane il rimedio più adatto contro una sentenza ingiusta4. La Chiesa, mutuando l’istituto dal diritto romano di epoca tardo-imperiale5, assunse l’istituto e lo trasfuse nel diritto delle decretali, nelle quali si ammette l’appello in ogni tipo di causa fino a ottenere tre sentenze conformi. Tale disciplina dell’appello fu sostanzialmente mantenuta fino alla codificazione canonica del 1917, che, ricalcando la riforma di Benedetto XIV contenuta nella Cost. Dei miseratione, del 3 novembre 1741, impose l’obbligo della doppia conforme perché le sentenze in re matrimoniali potessero ottenere l’esecutività6. Il declarationum de rebus fidei et morum, Barcinona-Friburgi Brisgoviae-Romae 1976, ed.

XXXVI emendata, pp. 133-135.

3 Il Lega, dopo aver esposto che appartiene al diritto della natura l’appello stragiudiziale, o improprio, mentre è fondato nel diritto positivo l’appello giudiziale, o appello propriamente detto, aggiunge: “DD. passim docent, appellationem quoad substantiam esse iuris naturae, quoad formam iuris positivi” e cita espressamente lo Schmalzgrueber (M. LEGA, De iudiciis ecclesiasticis, I, 2ª ed., Typis Vaticanis, Romae, 1905, p. 536). Della stessa opinione sembra essere il Wernz, che afferma: «Quamvis ex iure naturali legitima defensio nemini est neganda, tamen appellatio stricte sumpta non ita lege naturali est statuta, ut iuste negari non possit, secus vel ipsi R. Pontifices, qui non raro “appellatione remota” causas decidendas esse iusserunt, ius naturale violassent»

(F.X. WERNZ, Ius decretalium, V, De iud. eccles., Prati, 1914, p. 529).

4 Il Lega riferisce una riflessione del giurista romano Ulpiano, il quale descrisse i pregi e i difetti dell’istituto: “Appellandi usus quam sit frequens quamque necessarius nemo est qui nesciat, quippe quum iniquitatem iudicantium vel imperitiam recorrigat, licet nonnumquam bene latas sententias in peius reformet; neque enim utique melius pronuntiat, qui novissimus sententiam laturus est” (M. LEGA, De iudiciis ecclesiasticis, I, cit., pp. 535-536).

5 Giustiniano, nel Corpus iuris civilis, diede l’appello come rimedio contro gli errori, il dolo o l’imperizia dei giudici (cit. in C.M.F. GOYENECHE, De processibus, I, fasciculus alter, Romae [senza data], p. 168).

6 BENEDICTUS PP. XIV, Const. Dei miseratione, 3 novembre 1741. Sembra comunque che la Costituzione Apostolica benedettina prevedesse per le sole cause matrimoniali la possibilità di un IV grado di giudizio, e quindi la possibilità di una triplice conformità di

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Codice del 1983 pur mantenendo l’obbligatorietà della doppia sentenza conforme per ottenere il giudicato, recependo le innovazioni apportate dal M.P. Causas matrimoniales, del Beato Paolo VI, del 28 marzo del 19717, con il can. 1682, § 2, diede stabilità all’istituto del processus brevior di appello, già delineato nel predetto M.P. Causas matrimoniales8.

3 - Il processo ordinario di appello nel M.P. Mitis Iudex

La materia di nostro interesse è contenuta nell’art. 4 del M.P., ai cann.

1679-1682, che riformano l’art. 5 del capo I del titolo I della parte III del libro VII del Codice vigente.

In via preliminare, si deve osservare che la materia riformulata non riguarda esclusivamente il contenuto dei cann. 1681-1685 del Codice, che formano appunto l’art. 5 summenzionato. In realtà, il testo dei nuovi canoni riformula anche il contenuto di altri canoni appartenenti ad altre sezioni del Codice, come ad esempio il disposto del can. 1687, § 2, trasfuso nel § 1 del nuovo can. 1680, § 1; o anche il disposto del can. 1640, notevolmente snellito, che ora è divenuto il § 3 del nuovo can. 1680, e via dicendo9.

sentenze, quando ordinariamente nella Chiesa i gradi di giudizio previsti fossero solo tre.

Tale eventualità poteva accadere, data la possibilità, al tempo, del doppio appello e dell’istituto della confirmatio sententiae.

7 PAULUS PP. VI, Litt. ap. M.P. datae: Causas matrimoniales, 28 marzo 1971, in AAS 63(1971), pp. 441-446.

8 È evidente la diretta derivazione del can. 1682 del CIC 83 dal n. 3 del capo VIII del M.P. di Paolo VI, se solo se ne faccia una comparazione testuale: 1) Causas matrimoniales:

“Visa sententia et perpensis animadversionibus defensoris vinculi necnon, si exquisitae et datae fuerint, partium earumve patronorum, collegium suo decreto vel decisionem primi gradus ratam habet, vel ad ordinarium examen secundi gradus causam admittit. In priore casu, nemine recurrente, ius est coniugibus, qui alioquin non impediantur, decem diebus a decreti publicatione elapsis, novas nuptias contrahere”; 2) CIC 83, can. 1682 § 2: “Si sententia pro matrimonii nullitate prolata sit in primo iudicii gradu, tribunal appellationis, perpensis animadversionibus defensoris vinculi et, si quae sint, etiam partium, suo decreto vel decisionem continenter confirmet vel ad ordinarium examen novi gradus causam admittat”.

9 Per comodità del lettore, riporto qui di seguito la sinossi dei canoni nuovi con quelli del Codice, che ora risultano riformati:

Mitis Iudex CIC 83

1679 1682, § 1; 1628

1680, § 1 1687, § 2

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In sintesi, la materia contenuta in soli quattro canoni riforma la materia precedentemente contenuta in otto. Due sono le cose che primo ictu oculi risaltano all’attenzione del lettore non profano, vale a dire la riforma di due istituti di grande importanza: quello del processo “più breve” del vecchio can. 1682, § 2, e la notevole semplificazione della disciplina riguardante il vecchio can. 1644, che ora diventa il can. 1681, che tratta dell’istituto della nova causae propositio e di cui però non mi occuperò, in quanto non oggetto delle presenti annotazioni.

La prima novità è costituita dal can. 1679, che riprende il vecchio § 1 del can. 1682: scompare dalla formulazione la menzione esplicita dell’appello e dell’obbligo conseguente per il tribunale inferiore di trasmettere gli atti al tribunale superiore. Non scompare però la possibilità dell’appello, com’è facile vedere dal richiamo esplicito ai cann. 1630-1633.

Ciò che scompare è l’obbligatorietà dell’appello e quindi l’obbligo di ottenere una duplice sentenza conforme perché si ottenga l’effetto dell’esecutività della sentenza affermativa. Infatti, fatta salva la facoltà (non più l’obbligo) di interporre appello, decade l’obbligo della trasmissione di ufficio al tribunale superiore poiché diventa esecutiva la sentenza che dichiara per la prima volta la nullità del vincolo. La formulazione del canone suggerisce che possa essere dunque indifferentemente la sentenza di primo o di secondo grado a divenire esecutiva. Vi può essere, infatti, il caso in cui una causa ottenga un responso pro vinculo in prima istanza e un responso pro nullitate in seconda. In questo caso, sarà la sentenza di secondo grado, se non appellata in terzo, a ottenere l’esecutività prevista dalla legge.

Dunque, la formulazione del testo si apre a scenari diversi: una sentenza pro nullitate in primo grado di giudizio che diventa immediatamente esecutiva, trascorsi i termini ad appellandum, oppure una causa definita negativamente in primo grado che viene riformata in secondo grado, ottenendo perciò un secondo responso pro nullitate, che diviene esecutivo senza obbligo di ottenere una conformità, effettiva o equivalente che sia. Detta così, la cosa sembra di piana comprensione e,

1680, § 2 1682, § 2

1680, § 3 1640

1680, § 4 1683

1681 1644, §§ 1 e 2

1682, § 1 1684, § 1

1682, § 2 1685

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tutto sommato, abbastanza semplice. Ma le cose divengono un tantino più complesse se si prosegue con la lettura del § 2 del nuovo can. 1680. Il testo in questione, infatti, presupponendo che coloro che hanno diritto a formulare un appello (di cui al § 1 del medesimo can. 1680) lo abbiano effettivamente interposto, prevede che il giudice di appello, una volta ammesso l’appello perché giudicato non meramente dilatorio, dispone la trattazione della causa per la via ordinaria (§ 3 del can. 1680). Qualora invece l’appello appaia meramente dilatorio, il giudice d’appello è tenuto a confermare la sentenza appellata. Metto da parte la necessità di stabilire cosa vogliano dire esattamente i termini utilizzati - compito che comunque non è di poco momento e che sarà necessario affrontare, seppure non in questa sede - e mi soffermo sulla difficoltà costituita dal fatto che qui non si dice esplicitamente, come invece nel vecchio can. 1682, § 2, che trattasi della conferma in appello di una sentenza pro nullitate.

Cosa pensare? Il Sussidio applicativo approntato dal Tribunale Apostolico nel gennaio 2016 non prende neppure in considerazione l’eventualità e dunque non risolve il dilemma10. Il testo, prout iacet, induce a pensare che si tratti della conferma della sentenza appellata, a prescindere dal suo esito, a prescindere cioè se essa sia stata affermativa o negativa. Lascio ai processualisti la soluzione definitiva della questione, se cioè si debba leggere il canone nuovo alla luce della vecchia disciplina (e quindi della tradizione canonica, come prescritto dal § 2 del can. 6) oppure se esso sia totalmente nuovo non solo nella lettera ma anche nello spirito.

D’altra parte, il tema è stato già dibattuto in seno alle conferenze tenutesi presso l’Arcisodalizio della Curia Romana e volentieri faccio rimando ai chiarimenti eventualmente intervenuti in quella sede e le cui conferenze sono pubblicate.

La prospettazione di una soluzione potrebbe venire da alcune considerazioni, sia di carattere esegetico, e sia anche alla luce di quanto ritengo sia stata la ratio legis nel caso di specie. La prima considerazione è che di per sé non sarebbe necessaria la conferma di una sentenza negativa11, dato che nelle cause de statu personarum non si dà un giudicato

10 TRIBUNALE APOSTOLICO DELLA ROTA ROMANA, Sussidio applicativo del Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, Città del Vaticano, 2016.

11 Ma Carlo Gullo informa che ciò è avvenuto: a una parte convenuta è stato concesso in Rota di chiedere la conferma di una decisione negativa e lei sfavorevole, per motivi di ordine contingente (C. GULLO, A. GULLO, Prassi processuale nelle cause canoniche di nullità del matrimonio, 4ª edizione aggiornata con le facoltà straordinarie concesse da Sua Santità Benedetto XVI a S.E. il Decano della Rota Romana l’11 febbraio 2013, Coll. Studi giuridici, n. CVI, Città del Vaticano 2014, p. 325, nota n. 25). Si tratta tuttavia di un caso

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formale (can. 1643). La prevalente giurisprudenza prevede che sia sempre possibile riassumere una causa decisa con una sentenza negativa sia attraverso l’istituto dell’appello, sia invocando l’istituto del beneficium novae audientiae o, se si preferisce, di una nova propositio causae12, a norma del (nuovo) can. 1681; ergo, non ci sarebbe necessità di una conferma della sentenza negativa di primo grado, poiché alle parti è sempre possibile riproporre la trattazione della causa in appello - senza l’obbligo di assoggettarsi ai termini di cui al can. 1630 - e all’appellante, dopo il rigetto dell’appello come infondato, si spalancherebbe comunque la porta all’altro rimedio della nova propositio causae, il quale, ricordo, non richiede una formale res iudicata.

Dunque, anche a voler ammettere negli ultimi provvedimenti legislativi una pregiudiziale a favore della dichiarazione di nullità, com’è stato avanzato in dottrina13, il testo dei nuovi canoni, giudicato nel complesso, conserva sufficientemente i remedia iuris previsti per la possibile riforma delle sentenze canoniche. Tale considerazione porta naturalmente alla conclusione che l’interpretazione più corretta è che il testo in questione tratti, in realtà, della conferma di una sentenza affermativa14. Né varrebbe l’obiezione che tale interpretazione permetterebbe la reviviscenza del processo breviore, di cui al vecchio can.

eccezionale, dovuto a esigenze di carattere morale avanzate dalla parte ricorrente.

12 Si vedano le ragioni giuridiche espresse da G.P. MONTINI, De iudicio contentioso ordinario. De processibus matrimonialibus, II, Pars dynamica, 4ª ed., Romae, 2015, pp. 542- 543, che si appoggia su ragioni esegetiche, di tradizione canonica (alla luce del Codice abrogato) e su ragioni desunte dalla giurisprudenza del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Prescindo qui del tutto dalla controversia in atto tra la giurisprudenza della Rota che prevede la proponibilità dell’appello anche fuori termine contro una sentenza negativa non appellata e la posizione del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che ammette che, trascorsi inutilmente i fatalia appellationis, è possibile esperire solamente la nova propositio causae (la giurisprudenza in merito è riportata da C. GULLO, A. GULLO, Prassi processuale, cit., p. 325, nota n. 24).

13 C. GULLO, A. GULLO, Prassi processuale, cit., p. 18, sulle facoltà concesse l’11 febbraio 2013 dal Papa al Tribunale della Rota Romana, da cui discende la nuova norma del can. 1679.

14 Tale sembra essere il tenore di un recentissimo decreto coram Caberletti, del 2 febbraio 2016, che afferma: “Sane finis appellationis sistit in sententia reformanda, ideoque iudicium tribunalis appellati vertit in sententiam a tribunali primi gradus proditam, cuius vis pendet ex actis et probatis. Quapropter appellatio uti dilatoria patet si sententia obiectivum fundamentum ex actis susceperat; si vero, quamvis pars appellans fortasse rationes leves aut solummodo fumosas attulisset, sententia fundamento destituta a iudicibus appellatis aestimetur, quidem causa ad examen ordinarium remittenda est”

(Baren.-Bituntina, B. 10/2016, n. 2).

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1682, § 2, perché questo è stato definitivamente superato con la remissione di ogni causa appellata - affermativa o negativa che sia - all’esame ordinario, a tenore del § 3 del medesimo can. 1680.

D’altra parte, se si pone mente alla ratio legis sottesa alla norma, ho motivo di pensare che il Legislatore abbia inteso liberare il giudice di appello dalle strettoie impostegli dal vecchio can. 1682, § 2, che - a fronte di motivi d’appello validi o anche pretestuosi e infondati - non prevedeva né la possibilità del semplice rigetto a limine dell’appello e neppure la possibilità di emanare immediatamente una sentenza negativa ma lo obbligava al rinvio all’esame ordinario, se la sentenza di primo grado affermativa non poteva essere confermata sia per ragioni sostanziali sia per motivi di gravi carenze attinenti al rito. Per la pur breve esperienza personale, ho potuto constatare che non di rado il rinvio all’esame ordinario si traduce in una inutile perdita di tempo e dispendio di energie, una sorta di preludio a una sentenza negativa, perché chiaro fin da subito che alcune sentenze, soprattutto quelle provenienti da certe aree del mondo cattolico, non potrebbero mai contenere motivi validi per poter essere confermate, anche a seguito di un eventuale supplemento istruttorio. Fin dal mio ingresso nel collegio dei Prelati Uditori ho avvertito tale disagio, che mi pare condiviso da molti dei miei colleghi.

Pertanto, ho motivo di credere, alla luce di tale esperienza, che il Legislatore abbia inteso ovviare ai limiti imposti dal processo breviore quale configurato dal vecchio can. 1682, § 2, e permettere al giudice di appello di poter immediatamente giudicare la fondatezza o meno dei motivi dell’appello e agire di conseguenza. Se si ritiene valida questa considerazione, si dovrà concludere necessariamente per la possibilità della conferma indiscriminata di una sentenza negativa o di una affermativa.

Altro problema che pone il testo in parola è se qui si debba scindere l’opera del giudice di appello in una doppia attività: la verifica dell’ammissibilità dell’appello, di carattere meramente rituale prima, per passare poi eventualmente al merito, e cioè alla fondatezza dell’appello stesso. Mi pare sia la tesi avanzata dal prof. Llobell15. Ovviamente, una risposta negativa alla prima (inammissibilità dell’appello) precluderebbe al giudice l’esame del merito. Ma le due operazioni, se distinte sul piano logico, non lo sono sul piano operativo. Per il CIC 83, diversamente dal CIC 17, per la proponibilità dell’appello è necessaria non solo la

15 J. LLOBELL, Alcune questioni comuni ai tre processi per la dichiarazione di nullità del matrimonio previsti dal m.p. “Mitis Iudex”, in Ius Ecclesiae, XXVIII (2016), pp. 13-37.

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dimostrazione del gravamen o della soccombenza, ma anche i motivi di esso (“indicatis appellationis rationibus”, can. 1634, § 1). Ciò comporta che il giudice d’appello non possa prescindere del tutto dalla considerazione dei motivi dell’appello. Ci si potrebbe chiedere se questo sistema sia al fondo anche della nuova legge oppure la nuova legge abbia inteso trattare anzitutto l’ammissibilità dell’appello come una sorta di “reiectio a limine”, seppur non formalmente chiamata tale.

Personalmente ritengo che la difficoltà dell’interpretazione derivi da una formulazione del canone non del tutto felice: in effetti, a mio parere, sarebbe stato sufficiente prevedere l’obbligo del giudice, una volta giudicato inammissibile l’appello, di emettere un decreto di rigetto molto sommariamente motivato, lasciando alle parti e a coloro che hanno diritto a proporla, di interporre una querela di nullità, se non già proposta in modo cumulativo con l’appello, oppure una nova propositio causae, a norma del can. 1681. Tale soluzione avrebbe meglio rispettato il fine proprio dell’appello che è la riforma della sentenza appellata. Se questa non può essere ottenuta e concessa, non avrebbe senso una conferma di una sentenza negativa, ma basterebbe il rigetto in limine dell’appello. D’altra parte, non posso tacere la difficoltà, sempre che si accetti l’interpretazione secondo cui il giudice d’appello possa confermare una sentenza negativa di primo grado, costituita dall’espressione “sententiam […] confirmet”.

Sappiamo che per un valido pronunciamento di dichiarazione di nullità, un giudice deve aver raggiunto la certezza morale della nullità del vincolo. Analoga certezza morale non è invece richiesta per un pronunciamento negativo, per il quale basta la mera presunzione di validità a fronte dell’insufficienza delle prove addotte. Orbene, chiedere al giudice d’appello di confermare una sentenza negativa significa chiedergli di aver esaminato la causa nel merito e di aver riscontrato l’insufficienza delle prove addotte, quando la mancata ammissione dell’appello per manifesta infondatezza di per sé precluderebbe al giudice l’esame del merito. Al contrario, chiedere una conferma, significa che il giudice, dopo aver giudicato l’inammissibilità dell’appello, sia passato all’esame del merito e avendo trovato la sentenza affermativa ben fondata, sottoscriva o ratifichi la certezza morale che portò il giudice del grado inferiore al pronunciamento pro nullitate.

Non mi soffermo oltre sulla questione. Mi basta aver offerto alcuni spunti, spero validi, di riflessione e di dibattito. Mi sono permesso di soffermarmi su questo punto solo per far osservare che eventualmente anche in questo § 2 del can. 1680 si possa trattare di una reiectio a limine, sostanzialmente tale seppur non formalmente così definita dal testo legale.

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4 - L’appello nel processo abbreviato

Alla materia non sono dedicati che due paragrafi del can. 1687, i §§ 3-4, in seno all’art. 5, che tratta appunto del nuovo istituto del processo breviore o abbreviato, che si tiene davanti al Vescovo. I due paragrafi trattano molto semplicemente del foro competente (§ 3) e della disciplina di trattazione dell’appello (§ 4). Il § 3 riserva l’appello contro la sentenza del Vescovo al foro del Metropolita, ripristinando così un’antichissima disciplina.

Vengono presentate varie fattispecie: l’appello contro la sentenza di un Vescovo suffraganeo, l’appello contro una sentenza del Metropolita stesso, l’appello contro la sentenza di un Vescovo non suffraganeo di una provincia ecclesiastica (i Vescovi immediatamente soggetti alla S. Sede), fatta salva sempre la possibilità di deferire l’appello al tribunale pontificio.

Un piccolo dubbio interpretativo rimane sull’espressione “ad antiquiorem suffraganeum” del § 3 del can. 1687: è da tenere presente la vetustà della diocesi o l’antecedenza della nomina dei Vescovi della provincia?

Il Sussidio applicativo chiarisce che si tratta del suffraganeo più anziano nell’ufficio16, quindi l’espressione di cui sopra dovrebbe essere interpretata come “nominatione antiquior”, espressione più aderente alla terminologia del Codice17. Non sono mancate altre interpretazioni, che invece fanno riferimento all’antichità della sede e con il sostegno di argomenti degni di considerazione, come la necessità che gli appelli siano stabilmente affidati a un organo e non siano soggetti a continui cambiamenti. Tuttavia, la questione appare chiarita dal Sussidio o, quanto meno, dovrà essere fatta oggetto di una interpretazione autentica da parte dello stesso Legislatore.

Di maggiore importanza processuale è il § 4 del medesimo can.

1687. Si parla qui di quel “rigetto a limine” dell’appello che mi è stato chiesto esplicitamente di commentare. Ho già sopra detto che non solo per il processo abbreviato ma anche per quello ordinario mi sembra che vi sia una sorta di reiectio a limine: e ciò per una sorta di analogia che l’antica massima legale raccomanda: ubi eadem ratio, ibi eadem legis dispositio.

Tale reiectio a limine dell’appello, di competenza del Metropolita o del Decano della Rota Romana, avviene quando esso appaia “meramente

16 “La sentenza ammette appello al Metropolita o al Decano della Rota Romana; se è stata emessa dal Metropolita, al suffraganeo più anziano nell’ufficio” (TRIBUNALE APOSTOLICO DELLA ROTA ROMANA, Sussidio applicativo, cit., p. 42).

17 Cfr. ad esempio can. 421, § 2.

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dilatorio”. Si fa quindi riferimento non a un giudizio di inammissibilità meramente formale dell’appello, per esempio per decorrenza dei termini o per difetto di legittimazione. Il testo legale non fa menzione dei termini ad appellandum, probabilmente perché il Legislatore ha ritenuto che anche in questo caso possa e debba valere la regola generale dei cann. 1630-1633, come risulta anche dall’analogia con il (nuovo) can. 1679, ma è evidente che il respingimento dell’appello - almeno quello contro una sentenza affermativa - può avvenire per il decorso dei termini legali. A me pare che l’inammissibilità eventuale vada giudicata non per ragioni meramente formali ma anche per ragioni di merito: l’espressione “meramente dilatorio”

a mio giudizio fa riferimento alla futilità dei motivi addotti. Cioè, sarebbe meramente dilatorio quell’appello non sostenuto da valide ragioni e proposto solamente per impedire l’esecuzione della sentenza. Perciò, è necessario che colui che è competente ad ammettere o a respingere il ricorso operi un esame, seppure sommario, sul merito. Si tratterebbe quindi piuttosto dell’infondatezza dell’appello che della sua inammissibilità. E il decreto che ne sancisce l’inammissibilità ne dovrebbe esprimere, almeno sommariamente, le ragioni, anche se la legge non lo prevede espressamente. La ratio legis mi pare evidente e non ha bisogno di essere ulteriormente illustrata. Piuttosto, sarebbe da chiedersi se l’esame del merito debba riguardare l’intero procedimento o meno. A mio modo di vedere, l’esame del merito della causa appartiene ai giudici di appello, mentre in questa fase di reiectio a limine, o ammissione dell’appello, l’esame del merito debba riguardare esclusivamente la qualità delle obiezioni addotte non anche la decisione di prima istanza emessa dal Vescovo. Ammettere il contrario significherebbe postulare un possibile conflitto tra il giudizio di colui che ammette l’appello e coloro che sono tenuti all’esame di secondo grado.

Altra domanda che pone il testo è quale sia il soggetto legittimato all’appello. Il riferimento sarebbe al can. 1680, § 1, che prevede la legittimazione attiva in capo alla parte che si ritenga onerata, oltre che ai titolari del ministero pubblico. La domanda sorge nel momento in cui si consideri che il processo abbreviato richieda necessariamente, per poter essere introdotto e celebrato, il litisconsorzio attivo dei coniugi, almeno iniziale. Non entro qui - per evidente mancanza di tempo e spazio - nella questione di cosa si debba esattamente intendere per litisconsorzio attivo:

ne sono stati già date alcune interpretazioni, più o meno condivisibili. Mi pongo la domanda: se il processo abbreviato parte dall’accordo tra le parti e successivamente all’emanazione della sentenza uno dei coniugi ritenga di dover fare appello, tale appello sarà rigettato come meramente

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dilatorio, a prescindere dalle ragioni addotte, oppure potrebbe essere ammesso, sulla base delle ragioni addotte?

La risposta alla domanda dipende da cosa si intenda per litisconsorzio attivo dei coniugi. Se l’accordo iniziale riguarda solo il petitum e non anche la causa petendi - come io sono incline a credere - è chiaro che l’appello è ammissibile per la parte che dimostri la soccombenza di fronte a una sentenza, poniamo, affermativa per incapacità. Se invece si ritiene e pretende che il litisconsorzio attivo dei coniugi si estenda anche alla causa petendi, cioè al capo di nullità addotto da una delle due parti, sarebbe molto più difficile pensare a un appello avanzato da chi inizialmente si sia dichiarato d’accordo anche sulla causa petendi, e cioè sul capo di nullità invocato dalla parte attrice. Qualunque sia l’interpretazione che si dà dell’accordo iniziale delle parti per iniziare un processo abbreviato, è sempre possibile, a mio parere, che nel corso del processo, per quanto breve, una delle parti, di fronte a ragioni addotte dall’altra parte che sente di non poter accettare, di fatto ritratti il suo accordo iniziale. Se pertanto una delle due parti faccia appello, tale appello non può essere rigettato a limine e deve essere valutato alla stregua dell’appello ordinario. Non bisogna peraltro trascurare il caso (affatto raro) in cui la parte - che inizialmente non abbia rifiutato il consenso al processo abbreviato - di fatto poi non risponda alla citazione e non partecipi attivamente al processo e venga informata delle ragioni addotte dalla comparte solo alla lettura della sentenza, trovandosi di fronte a una versione dei fatti inaccettabile o anche di fronte a una versione non sostenuta da prove adeguate, pur avendo, per iscritto per esempio, o con altro mezzo, fatto giungere al tribunale le proprie osservazioni, che trova del tutto trascurate dalla sentenza. Sono queste e altre fattispecie possibili che consigliano l’ammissione dell’appello, anche se presentato da chi inizialmente si sia dichiarato d’accordo con la domanda attorea.

Un’ultima questione che mi pare utile chiarire è quella relativa all’eventualità del ricorso contro il rigetto dell’appello operato dal Metropolita, a mente del nuovo can. 1687, § 3. Il nuovo testo legale non ne tratta esplicitamente. A me pare che la possibilità debba essere ammessa e il ricorso presentato al Tribunale apostolico della Rota Romana. Nel caso in cui il Decano della Rota dovesse giudicare ammissibile l’appello, riformando la decisione del Metropolita, gli atti della causa dovrebbero essere rimessi al tribunale del Metropolita stesso, per l’ordinario esame, eccetto il caso in cui il Decano non decida di emettere un formale processo di avocazione per la trattazione della causa presso il medesimo Tribunale apostolico.

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5 - I limiti della prova in fase di appello

Nel processo breve di cui al vecchio can. 1682, § 2, non era possibile ammettere nuove prove. Qualora si ritenesse che la sentenza di primo grado o il capo giudicato tamquam in prima instantia abbisognassero di nuove prove, il giudice era tenuto a rimettere la causa all’ordinario esame.

La ragione è evidente: non potevano essere ammesse nuove prove senza che queste fossero fatte oggetto di un regolare contraddittorio, che mancava nel processo breve. Infatti, com’è noto, il processo breve non prevedeva una fase istruttoria né una vera e propria fase discussoria, tranne l’ammissione di Animadversiones. Esse non erano altro che considerazioni e osservazioni sulle prove già addotte18. Inoltre, almeno in Rota, le osservazioni delle parti vengono distribuite al solo Turno giudicante, e se, secondo una prassi non probata, esse fossero state commutate tra le parti, esse non godevano del diritto di replica19.

Nel M.P. il processo breviore d’appello è sparito o meglio, ha mutato veste atteso il fatto che l’ammissione dell’appello comporta obbligatoriamente la remissione della causa all’ordinario esame (can. 1680,

§ 3). Sic stantibus rebus, mutano anche le possibilità di ammettere nuove prove, che per l’adozione dell’esame ordinario a seguito dell’ammissione dell’appello divengono certamente più ampie.

È stato detto, e a ragione, che nel diritto processuale canonico due sono i principi che presiedono all’ammissione delle prove: il principio dispositivo e il principio inquisitorio20. Il primo fa riferimento all’iniziativa delle parti di addurre prove a dimostrazione del fatto principale e dei fatti controversi; il secondo, il diritto e anche il dovere del giudice di acquisire d’ufficio le prove, supplendo alla negligenza delle parti (cfr. can. 1452, § 2). I Codici civili mostrano il favore ora per l’uno ora per l’altro principio.

Il Codice canonico prevede un sistema misto, poiché ha dettato norme

18 “Partes […] in hac phasi processus novas probationes adducere nequeunt; illae, ad summum, afferre possunt censuras adversus sententiam affirmativam primae curae, aut satagere ut melius in luce ponantur rationes et argumenta, iam in praecedenti gradu iudicii allata” (coram Bruno, decr. del 23 aprile 1993, RRDecr., vol. 11, 67, n. 5). Si veda anche G. ERLEBACH, L’impugnazione della sentenza e la procedura ex can. 1682, in H.

FRANCESCHI, J. LLOBELL, M.A. ORTIZ (eds.), La nullità del matrimonio: temi processuali e sostantivi in occasione della “Dignitas Connubii”, EDUSC, Roma, 2005, p. 260 ss.

19 G. ERLEBACH, L’impugnazione della sentenza, cit., p. 262.

20 G. MARAGNOLI, La funzione e i poteri del giudice istruttore, in H. FRANCESCHI,J.

LLOBELL,M.A.ORTIZ (eds.), La nullità del matrimonio, cit., pp. 94-95.

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processuali che prevedono un bilanciamento dei due principi. Accanto a questi, vale anche un principio generale dispositivo del processo canonico, che sembra essere una specificità del diritto processuale canonico nel senso che esso non trova un vero parallelo nei Codici civili, in particolare del Codice di procedura civile italiano: faccio riferimento al principio dell’ammissione delle prove solo a seguito di un provvedimento formale con cui il giudice ammette le prove presentate dalle parti o stabilisce l’acquisizione delle prove ex officio21. Ciò vuol dire, evidentemente, che è compito del giudice di procedere alla valutazione dell’ammissibilità e dell’utilità della prova (cfr. can. 1527, § 1). Ricordo che la Dignitas connubii, all’art. 157, § 1, ha ulteriormente precisato i contorni del can. 1527 stabilendo: “Illicitae autem probationes, sive in se sive quoad modum acquisitionis, ne adducantur neque admittantur”. È evidente a questo punto la responsabilità del giudice nell’ammissione delle prove.

Tali norme presiedono all’acquisizione delle prove in ogni grado di giudizio. Ma cosa succede quando tale attività del giudice e delle parti dev’essere esplicata in fase di appello?

Non va dimenticato che l’ammissione delle prove in appello, per quanto ampia possa essere, rimane un fatto eccezionale:

«processus appellationis non novus omnino processus est circa eandem controversiam in primo gradu iam definitam, quasi primi gradus sententia lata numquam fuisset. Potius controversiae obiectum in gradu appellationis “in eo tantum versari potest, ut prior sententia vel confirmetur vel reformetur sive ex toto sive ex parte”

(cfr. can. 1320 § 1 CCEO). Eapropter in gradu appellationis, haud secus ac post conclusionem in primo iudicii gradu, instructio est quid exceptionale et non ordinarium. Iudicium appellationis in se seu ut tale consistit in denuo aestimandis probationibus in priore gradu iam collectis, qua re “novae autem probationes admittuntur tantum ad normam can. 1283” (cfr. can. 1320 § 2 CCEO)»22.

Tali riflessioni, operate sotto la vigenza delle vecchie norme processuali, a mio avviso mantengono immutato il loro valore anche per il presente.

Il § 4 del can. 1680 non pone problemi di rilievo, dal momento che non fa altro che riprendere alla lettera il disposto del vecchio can. 1683, che dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere una esplicita eccezione alla regola generale del can. 1639, secondo cui generalmente

21 Art. 184, Codice di Procedura Civile.

22 Coram Jaeger, decr., 29 ottobre 2014, Inter-Eparchialis Maronitarum, B. 159/2014, n. 7.

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l’appello deve svolgersi negli stessi termini della sentenza appellata e sostanzialmente con la stessa procedura adottata nell’istanza precedente.

Si noti che la legge tratta della possibilità di ammettere un nuovo capo, non dell’obbligo: l’ammissione del nuovo capo, che in Rota è riservata al Turno23, è giustificata se la parte rinunci ai capi originariamente presentati e negativamente definiti nell’istanza precedente, di modo che rimanga il solo capo introdotto e da trattare tamquam in prima instantia. Nonostante la prassi sul punto non sia sempre tale, non è evidente invece la necessità dell’ammissione qualora la causa sia matura per la decisione, di modo che sospendere tutto, ammettere il nuovo capo e ricominciare con l’istruttoria si risolva in fin dei conti in un ingiusto gravame per la parte non appellante. Vale sempre, anche in questo caso, l’antico mutare quis consilium non potest in alterius detrimentum24. In ogni caso, la mancata ammissione di un nuovo capo in appello non provoca alla parte proponente alcun pregiudizio, poiché essa potrà eventualmente proporre il nuovo capo, se non destituito di fondamento, davanti al tribunale di primo grado competente25.

Ciò che qui deve brevemente impegnarci è il disposto del can. 1639,

§ 2: “Novae autem probationes admittuntur tantum ad normam can.

1600”. Il richiamo esplicito al can. 1600 - a mio avviso - fa comprendere chiaramente che il disposto del § 2 del can. 1639 si riferisce non alle prove che riguardano il nuovo capo eventualmente ammesso in appello (can.

1683), ma le “nuove prove” eventuali che riguardano i capi già trattati nell’istanza inferiore. Va da sé, infatti, che un capo noviter admisso non fa parte del processo di appello e abbia bisogno di essere adeguatamente istruito attraverso l’iter ordinario e segue un suo corso autonomo.

La possibilità di addurre nuove prove in appello è limitata dunque alle fattispecie previste dal combinato disposto del can. 1639, § 2, con il can. 1600: il primo è richiamato espressamente dal nuovo can. 1680, § 1, mentre il secondo è espressamente richiamato dal § 2 del medesimo can.

1639. La lettura combinata permette di osservare che le prove ammesse in appello sono:

a. uno o più documenti che non fu possibile ottenere in precedenza senza colpa dell’interessato (appellante)26;

23 Art. 55, § 2, NRRT.

24 De Reg. Iuris, 75 (l. 20 D.).

25 C. GULLO, A. GULLO, Prassi processuale, cit., p. 332.

26 A questo proposito, un decreto coram Huber del 28 aprile 2009 (Panormitana, B.

63/2009, n. 3) affronta il caso della allegazione al Restrictus, da parte del Patrono, di

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b. il giudice di appello può convocare ancora gli stessi o altri testimoni oppure ordinare altre prove non richieste in precedenza, con le cautele previste al can. 1600, § 1, 2°, cioè “auditis partibus et dummodo gravis exstet ratio itemque quodlibet fraudis vel subornationis periculum removeatur”27;

c. l’ammissione di nuove prove è sempre possibile in appello, anche senza le restrizioni appena menzionate previste dal can. 1600 § 1, 2°, se consti che la mancata ammissione di nuove prove o anche di una sola potrebbe dar luogo a una sentenza ingiusta.

A questo proposito, Grocholewski28 menziona tre casi o tre fattispecie in cui questo si potrebbe verificare:

a. il caso in cui la sentenza appellata si fonda su prove poi rivelatesi false29;

alcuni documenti ritenuti rilevanti per la causa. Nel caso di specie, si è ritenuto di non rigettare i documenti presentati, che sono stati notificati all’altra parte e al Difensore del vincolo, dando a essi la facoltà di esibire un Restrictus responsionis o Animadversiones alterae, per salvaguardare il principio che le prove siano sempre e necessariamente soggette al legittimo contraddittorio, anche se - si precisa - lo ius replicandi non appartiene di per sé allo ius defensionis.

27 Si noti che il processo canonico prima della codificazione, quindi quello regolato dal diritto delle Decretali, non prevedeva l’audizione di testi già ascoltati in precedenza “super eisdem articulis, propter periculum subornationis” (A. REIFFENSTUEL, Jus canonicum universum, II, Venetiis 1735, p. 411, n. 15). Il principio mi pare ancora valido e dunque si ravvisa la necessità della cautela del giudice nell’applicazione del can. 1600: cautela che consiglia il richiamo eventuale di testi già ascoltati da interrogare però solo su determinate materie o fatti non sufficientemente chiariti in precedenza, onde evitare la ritrattazione di affermazioni già fatte o l’incompatibilità tra le affermazioni precedenti e le susseguenti, con evidente difficoltà a stabilire sia la verità dei fatti sia a sciogliere il nodo sulla credibilità delle prove orali. Per questo il giudice prudente, nell’ammettere una nuova audizione delle parti e dei testi, se essa avviene a istanza delle parti stesse, richiederà necessariamente che il richiedente precisi esattamente su quali materie o fatti determinati si voglia richiedere una seconda audizione.

28 Cfr. Z. GROCHOLEWSKI, L’appello nelle cause di nullità matrimoniale, in Forum, 4 (1993), pp. 19-64.

29 A questo proposito, si veda la sentenza coram Lefebvre del 19 luglio 1975 (RRDec., vol.

67, p. 523, n. 5) e il decreto coram Stankiewicz del 26 aprile 1990, nel quale la motivazione addotta, del tutto condivisibile, tra l’altro è quella “ad amovendum periculum animae […]

si observantia sententiae fieret nutritiva peccati” (RRDecr., vol. 8, p. 81, n. 4). Si veda anche il decreto coram Stankiewicz del 30 giugno 1998 che aggiunge un ulteriore elemento a favore della necessità di ammettere le nuove prove: “ad reparandam Ecclesiae deceptionem, si, v. gr., postea deprehensae fuerint falsae partium vel testium opiniones declarationesque” (ibidem, vol. 16, p. 237, n. 5).

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b. la scoperta successiva alla sentenza di documenti che rivelerebbero fatti nuovi e tali da esigere una decisione contraria;

c. il caso in cui la sentenza futura potrebbe essere ingiusta perché emessa per dolo ai danni dell’altra parte o contro la verità oggettiva.

Si tratta di fattispecie contemplate dal disposto del can. 1645 e sono le medesime che suggeriscono al giudice la concessione del beneficio della restitutio in integrum della causa.

La ragione per cui il Legislatore prevede le predette limitazioni è di per sé evidente: la necessità di evitare istruttorie pletoriche e l’ammissione di prove che siano realmente complementari rispetto all’istruttoria del grado inferiore che, come abbiamo detto citando il decreto coram Jaeger, conserva tutto il suo valore.

Nella giurisprudenza generalmente il problema della limitazione imposta alla presentazione di nuove prove è strettamente connessa al retto esercizio del diritto di difesa e provoca non di rado la presentazione della querela di nullità insieme all’appello. Vale sempre a questo punto la cautela espressa in un decreto coram Erlebach del 16 ottobre 200830, nel quale apertamente si ammette che non sempre nei fori ecclesiastici viene osservato il disposto del can. 1639 collegato con il can. 1600, e si ribadisce il concetto che il giudice deve trovare l’equilibrio tra due principi sacrosanti della nostra giurisprudenza: da una parte il fatto che è il giudice a valutare la liceità e l’utilità delle prove addotte ai fini della definizione della causa, dall’altra il dovere (tenetur) del giudice di supplire alla negligenza delle parti, “quoties id necessarium censeat ad vitandam iniustam sententiam” (cfr. can. 1452, § 2, che cita espressamente il can.

1600). Anche il rifiuto delle prove, fatto sulla base di elementi oggettivi presenti nel diritto e nella giurisprudenza, va compiuto in modo tale che il modo di procedere non vada a detrimento delle esigenze obiettive della verità e della giustizia31

30 Venetiarum, B. 114/2008, n. 3.

31 D’altra parte, se una determinata prova viene rigettata, è sempre possibile che la parte insista per la sua ammissione e la questione venga deferita al Turno che “de re expeditissime videre debet” (can. 1527, § 2). La mancata ammissione di una o più prove rigettate dal tribunale di primo grado perché non corredate da congrui motivi, possono dare luogo non a una querela nullitatis sententiae, ma piuttosto alla concessione di una nova propositio causae, precisa ancora il sullodato decreto coram Erlebach (n. 12).

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