3. IL SILENZIO FEMMINILE: CULTI, MITI E STORIE D
3.2 A proposito di silenzio femminile: Plauto, Giovenale, Valerio
Valerio Massimo.
Nel mondo romano, come in quello greco, l’esistenza femminile deve sempre fare i conti con il silenzio che grava su di essa. Già agli esordi della letteratura romana, nella commedia, in un passo del Rudens di Plauto si legge:
tacitast melior mulier semper quam loquens.
(Plaut. Rud. 1114)
È sempre meglio una donna silenziosa che una loquace.
La portata della limitazione del silenzio, imposto al mondo femminile sin dalle origini e a cui consegue inevitabilmente una certa emarginazione, è valutabile pensando all’importanza del linguaggio, della capacità e della possibilità di esprimersi per qualunque essere umano. A questi aspetti conseguono limiti ancora più elevati nel far sentire la propria voce, se si prende in considerazione l’ambito della vita pratica e politica, terreni fertili per il sostegno delle proprie ragioni, per la capacità di persuadere, per la possibilità di opporsi. Si ha perciò una prima chiara percezione, tra le numerose esistenti, dell’esclusione delle donne dalla vita al di fuori delle mura domestiche, dove peraltro sono già chiamate a rispettare il silenzio, soprattutto in epoca arcaica.
Successivamente con l’evolversi dell’emancipazione femminile, in età repubblicana e soprattutto in età imperiale, le donne acquisiscono sempre di più, per meglio dire, si arrecano, fanno proprio l’uso della parola come possibilità di esprimersi oltre che in ambito privato anche in ambito pubblico. Il luogo comune delle donne tenute a rimanere silenziose continuerà a pesare anche quando la voce femminile tenterà, nel corso del tempo, di farsi spazio nel campo intellettuale o letterario, pur senza riuscirci totalmente e in egual misura rispetto a quella maschile. Basti, a tal proposito, il pensiero di Giovenale, che esprime la sua avversione al solo sentire la voce delle donne, avversione che si trasforma in
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pungente intolleranza, se costoro si esprimono in termini di poesia o di grammatica:
Illa tamen gravior, quae cum discumbere coepit, laudat Vergilium, periturae ignoscit Elissae, committit vates et comparat, inde Maronem atque alia parte in trutina suspendit Homerum. Cedunt grammatici, vincuntur rhetores, omnis turba tacet, nec causidicus nec praeco loquetur, altera nec mulier; verborum tanta cadit vis, tot pariter pelves ac tintinnabula dicas pulsari. Iam nemo tubas, nemo aera fatiget: una laboranti poterit succurrere Lunae. Inponit finem sapiens et rebus honestis; nam quae docta nimis cupit et facunda videri, cruere tenus medio tunicas succingere debet, caedere Silvano porcum, quadrante lavari. Non habet matrona, tibi quae iuncta recumbit, dicendi gneus aut curvum sermone rotato torqueat enthymema, nec historias sciat omnes, sed quaedam ex libris et non intellegat. Odi hanc ego quae repetit voluitque Palaemonis artem servata semper lege et ratione loquendi
ignotosque mihi tenet antiquaria versus nec curanda viris opicae castigat amicae verba; soloecismum liceat fecisse marito.
(Iuv. 6,434-456)
E ancora più insopportabile è colei che, appena a tavola loda Virgilio, giustifica Didone desiderosa di morire, fa paralleli tra i poeti, li paragona tra loro, sospende alla bilancia Virgilio da una parte e Omero dall’altra. I grammatici debbono ritirarsi, i retori sono sconfitti, tutti debbono tacere; non oserebbe più dire un parola nemmeno un avvocato, nemmeno un banditore, nemmeno un’altra donna oserebbe parlare. Tanta è la forza delle sue chiacchiere, che diresti che ne vibrano anche tutti i catini e i campanelli della
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casa. Non c’è più bisogno che nessuno si sfiati a suonar trombe o bronzi: lei da sola basta a dare aiuto alla luna in eclissi. L’uomo savio sa porre fine anche alle cose oneste; la donna, che vuol apparire a tutti i costi dotta e feconda, deve per forza tirar su la tunica fino a mezza gamba, sacrificare un porco a Silvano e anadre al bagno con un quadrante. Augurati che la matrona, che a mensa ti siede accanto, non parli secondo un suo stile o non ti folgori addosso, con espressioni involute, un tortuoso entimema; che non conosca tutta la storia, che non capisca tutto quello che legge. Odio la donna che si rifà di continuo al Metodo di Palemone, senza sbagliare mai una regola di lingua e, ostentando le sue anticherie, cita versi a me sconosciuti, e rimprovera l’amica ignorante per parole cui nessun uomo farebbe caso; io penso che il marito abbia il diritto di far qualche solecismo!
Si manifesteranno, con l’incedere della storia romana, numerosi esempi di vitalità femminile nel campo intellettuale e letterario, anche oratorio, in cui le donne pronte a esporsi, faranno sentire la propria voce, spesso però risultante fuori campo.
Sintomatica della difficoltà nel riconoscere alle donne la possibilità di avere o prendere la parola, soprattutto in ambito politico e oratorio, è la testimonianza di Valerio Massimo. Non a caso l’autore introduce così la narrazione al riguardo:
Ne de his quidem feminis tacendum est, quas condicio naturae et verecundia stolae ut in foro et iudiciis tacerent cohibere non valuit.
(Val. Max. 8,3)
Neppure bisogna passare sotto silenzio quelle donne, cui né il sesso né la verecondia dell’abito femminile valsero a far tacere nel Foro e nei tribunali.
Si riportano in seguito esempi di donne che levano la loro voce, anzi, il loro grido di difesa, connotandole per questo negativamente 236. Riferisce un solo
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Mesia Sentinate e Caia Afrania sono le due donne di cui Valerio Massimo (8,3,1-2) propone descrizioni volte a screditarle. Di seguito alcuni passi a riguardo: «Mesia Sentinate, essendo stata incriminata si difese… Costei, poiché nascondeva sotto l’aspetto di donna un animo virile, ebbe il soprannome di Androgine»; «Caia Afrania … naturalmente incline alle liti, si difese sempre da sé davanti al pretore, non perché le mancassero gli avvocati, ma perché era l’impudenza fatta persona. E così, stancando continuamente con le sue urla, insolite per il Foro, i tribunali, divenne la personificazione dell’intrigo femminile, al punto che alle donne di cattivi costumi si suole appioppare l’appellativo calunnioso di «Caia Afrania».
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esempio positivo, quello di Ortensia, per una ragione ben precisa: si tratta della figlia dell’oratore Quinto Ortensio. Valerio Massimo precisa infatti che Ortensia ottenne l’esonero per le donne dalla maggior parte delle forti tasse imposte loro da Cesare Ottaviano e da Marco Antonio, non senza fare riferimento al modo in cui ottene ciò: “riproducendo l’eloquenza di suo padre” e poi ancora “parve allora rivivere nella figlia Quinto Ortensio ed ispirarne le parole”.237
La parola femminile in privato, e soprattutto in pubblico, era praticamente inconcepibile.
Al di là degli sviluppi storici e politici, a livello letterario, possiamo riscontrare le radici del silenzio, talvolta mutismo, che le donne romane sono chiamate a rispettare? Esistono culti, miti, figure femminili che, sin dai tempi più antichi della storia romana, possono in qualche modo considerarsi esempi per il mondo femminile romano, che possono insegnare loro qualcosa sul silenzio?
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