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3. IL SILENZIO FEMMINILE: CULTI, MITI E STORIE D

3.4 Vulgo veritas iam attributa vino est

La donna ideale romana dunque, sulla scia di una delle prime regole giuridiche cittadine che è chiamata a perseguire, è dotata di una serie di qualità. Attribuita dalla tradizione a Romolo, ripresa anche da Numa, la regola qui presa in considerazione riguarda il divieto di bere vino. Nel caso in cui essa venga infranta, la colpevole rischia la morte241. Risulta spontaneo chiedersi l’origine di una regola di così eccezionale severità e, a proposito, sono state fornite diverse spiegazioni.

Secondo alcuni studiosi, tra cui Durry242, la disposizione giuridica si potrebbe collegare al divieto di abortire: sarebbero infatti state attribuite al vino, da parte dei Romani, capacità abortive.

Differente è il parere di Noailles243 e di altri studiosi, secondo i quali i Romani avrebbero creduto in un principio di vita contenuto nel vino, com’era nell’idea di molti primitivi. Se le donne avessero bevuto vino, avrebbero accolto un principio di vita estraneo e quest’atto sarebbe stato equiparato, in qualche modo, all’adulterio.

Un’altra interpretazione della regola avrebbe individuato la sua funzione nell’esercitare un controllo preventivo sulle donne: evitare loro di commettere più facilmente il reato dell’adulterio, se avessero bevuto in maniera spropositata. Leggendo la testimonianza di Valerio Massimo si esprime un altro pensiero riguardo all’antica norma, vale a dire la perplessità che, bevendo, le donne non compissero il loro dovere di tenere un contegno riservato.

[Magno scelere horum severitas ad exigenda vindictam concitata est,] Egnati autem Meceni longe minore de causa, qui uxorem, quod vinum bibisset, fusti percussam interemit, idque factum non accuatore tantum, sed etiam reprehensore caruit, uno quoque existimante optimo illam exemplo violatae sobrietati

241 Vd. D.H. 2,25,6.

242 Durry 1955, p. 108 sgg.

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poenas pependisse. Et sane quaecumque femina vini usum immoderate appetit, omnibus et virtutibus ianuam claudit et delictis aperit.

(Val. Max. 6,3,9)

[La severità di costoro fu mossa a prender vendetta da un grande crimine, mentre] un motivo assai meno grave, cioè aver visto la moglie bere, spinse Egnazio Mecenio ad ucciderla a frustate: e questo fatto non solo non suscitò accuse, ma nemmeno gli procurò biasimo, perché tutti giudicarono che ella avesse pagato il fio della violazione della sobrietà nella maniera più esemplare. E davvero qualunque donna sia smoderatamente avida di vino chiude la porta ad ogni virtù e l’apre ad ogni vizio.244

Secondo un'altra linea interpretativa c'era un solo vino vietato alle donne, il temetum, usato a fini rituali, e il divieto esprimeva il timore che le donne, a causa del vino, prendessero a parlare, intendendo il verbo “parlare” in due sensi: quello di fare profezie, di divinare (attività dalla quale le donne dovevano astenersi), e quello di chiacchierare, eventualmente divulgando segreti familiari245.

Il vino rappresenta così un ulteriore potenziale pericolo: il fatto che fosse vietato alle donne bere temetum sarebbe dipeso, si è detto, dalla sua proverbiale capacità di sciogliere la lingua. Vulgo veritas iam attributa vino est246. L’antica espressione pliniana doveva essere applicata in particolare alle donne, alle quali la lingua pareva sciogliersi, secondo il parere maschile, a causa del bere247. Non si spiegherebbe in altra maniera la stretta connessione tra l’obbligo della sobrietà, cui le donne non potevano sottrarsi, e quello del silenzio248. Non è privo di significato che anche questa proibizione risalga a Numa, al quale sono attribuite le varie disposizioni relative al consumo del vino e alla potatura della vite.

244 D.H. 2,25; 26,4; Plut. Rom. 29; Plin. nat. 14,13,89; Serv. Aen. 1,737; Val. Max. 2,1,5; Tertull.

apol. 6,4. In generale, si veda Gell. 10,23.

245

Piccaluga 1964 p. 212 sgg.

246

Plin. nat. 14,141.

247 A proposito di donne che bevono, e conseguentemente quindi parlano troppo, il teatro latino

abbonda. Cfr. la figura della lena nella Cistellaria di Plauto, della quale si dice et multiloqua et multibibula est anus (v. 149), mentre la donna stessa confessa: …quin ego nunc quia sum onusta mea ex sententia / quiaque adeo me complevi flore Liberi, / magi’libera uti lingua conlibitum est mihi, / tacere nequeo misera quod tacito usus est (vv. 126-129).

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La correlazione tra sobrietà e silenzio che le donne erano chiamate a tenere, nella società romana, in particolare dell'epoca arcaica, era considerata immancabile in una donna al punto che ancora in età imperiale ci si ricordava del doppio divieto di bere e parlare. Augusto teneva moltissimo al fatto che la figlia Iulia praticasse pur forzatamente le virtù basilari per ogni rispettabile donna romana, imponendole il silenzio e la sobrietà249.

Perché dunque si cercava, anzi si voleva a tutti i costi impedire il “parlare” femminile? Era questo fenomeno circoscritto al mantenimento di un contegno riservato e verecondo? Sicuramente questa è una motivazione plausibile in relazione al rigore generale che la donna doveva sempre mantenere. Il silenzio femminile induceva anche a non svelare ciò che doveva rimanere gelosamente custodito nel contesto del nucleo familiare o sociale250. Oltre a queste spiegazioni sui motivi più comunemente diffusi riguardo alla donna silenziosa, nel contesto della “relazione” con il vino, in un interessante articolo, I. Sandei va oltre:

esisteva infatti, oltre a questo, un ‘parlare’ del tutto singolare, la cui forza e le cui conseguenze erano di estrema importanza su un piano sacrale; di norma esso trascendeva la sfera umana, ma, in determinati periodi, anche le donne comuni mostravano di possederlo: si trattava piuttosto del parlare profetico, di quella facoltà dietro la quale si faceva balenare tanto l’uso di bevande inebrianti che la follia. (Sandei 2000, p. 30)

Sorge spontaneo il riferimento alle due figure per eccellenza del “parlare profetico”, la Pythia e la Sibylla.

L'interpretazione appena sopra riportata di Sandeis è collegata specialmente alla considerazione del fatto su un piano erudito. La studiosa nomina, a questo proposito, le diverse “soluzioni” che Cicerone presenta nel De

divinatione al problema delle facoltà superumane della Pythia e della Sibylla.

Inizialmente la questione viene affrontata con un diretto de vino aut salsamento

putes loqui, che è destinato a chiarire le cause del “parlare profetico”. In seguito

viene quindi posta una questione piuttosto sarcastica: quid vero habet auctoritas

furor iste, quem divinum vocatis, ut, quae sapiens non videat, ea videat […].251

249Vd. Suet. Aug. 64ss.

250 Cfr. Plin. nat. 14,141 e Plut. Num. e Lycurg. 3,10. 251

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Attenendoci sempre alle fonti letterarie sulla connessione tra vino e profetico esprimersi delle donne, un interessante passo di Plinio mette in luce un'altra possibile causa dei vaticini femminili. Egli infatti si riferisce al periodo mestruale delle donne252. Inoltre l'autore riporta l'irrimediabilità che questo potere

talvolta aveva, se si verificavano le condizioni astronomiche adatte, poiché non si trattava di semplici previsioni, che tali rimanevano, per quanto terrificanti potessero essere. Il risultato del potere profetico femminile si riversava addirittura in vaticini ad effetto magico.

Non è questa la sede per dilungarsi sull’importanza sacrale in genere attribuita dalle civiltà di tipo arcaico alla femminilità nelle sue espressioni più appariscenti e critiche, all'interno delle quali è impossibile non avvertire la presenza di qualcosa di incontrollabile, che quindi comporta pericolo. Si può dire che nel mondo romano, in particolare, si voleva evitare che le depositarie di questo potere subissero gli effetti di quello cui si è accennato parlando di temetum, ovvero di quest’altra forza oscura e da tenere racchiusa nel vino adoperato a fini sacrali. Tutto ciò al fine di costituire eventualmente per la società un pericolo tale da non poter essere scongiurato. Come controprova di quest'ipotesi si può considerare il fatto che sembra mancare l'applicazione del divieto di bere vino alle donne anziane, che potevano bere a loro piacimento. Per quale motivo si escludevano le donne attempate? Nel momento in cui cessava il loro ciclo mestruale, esse era ritenute inoffensive da questo punto di vista. Sempre in riferimento all'astinenza per le donne dal temetum per evitare il parlare profetico e per le sue conseguenze, nello stesso ambito religioso che portava tali imposizioni, c'era un precedente mitico, noto nella tradizione letteraria, cui non si può non accennare: Fauna-Bona Dea, una divinità femminile, dotata quindi di capacità divinatorie, che aveva bevuto trasgredendo la legge e, pur pagando per aver infranto la legge, continuava a bere nel culto. Chiarissima è in questo caso la connessione tra il vino e la conseguenza di vaticinare, a maggior ragione

252

Plin. nat. 28,23,77. Cfr. Piccaluga 1964, p. 212 sgg.; Minieri 1982, p. 158 sg. Sul ruolo del vino capace di potenziare le capacità profetiche femminili, vd. anche Guarino 1979, p. 85.

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trattandosi di una dea, che possiede già di per sé capacità divinatorie. Intrinseca è la concessione di bere vino essendo divinità, quindi trascendendo dalla natura. Inevitabilmente però gli uomini, nel caso specifico le donne, s'ispirano ad essa, essendo dea, quindi rappresentante il modlelo da seguire. In questo caso però la dea non può considerarsi il massimo di un modello positivo per le conseguenze che ciò comporta nelle donne che, ispirandosi a lei, bevono vino e iniziano a parlare, peggio ancora a profetizzare.

L. Monaco accoglie l'esegesi dell'interdizione del vino in chiave profetica mettendo in rilievo il rapporto preferenziale ed immediato che la donna aveva con il trascendente e con la natura, secondo gli antichi. Essa era indotta ad un rapporto più diretto con la sfera naturale, poiché l'unica considerazione che si aveva di lei era la sua funzione riproduttiva e di certo non connessa alla produzione sociale.

“Essa incarna l'aspetto irrazionale dell'esistenza, ed è solo attraverso il suo controllo che l'uomo può assicurarsi quello sulla natura e sul trascendente. Pertanto essa deve essere tenuta lontana non solo dal potere, ma anche da quei fattori che possono rafforzare il suo legame con il trascendente (vino, mantica) e con la natura (farmaci, veleni)”. 253

Si può concludere, dopo una rassegna di valutazioni sulle singole tesi, con una considerazione importante: una regola, nella fattispecie il divieto per le donne di bere vino, aldilà delle sue molteplici interpretazioni, è l'ennesima espressione della necessità di tenere sotto controllo la popolazione femminile, pur avendo bene in testa la sua unica funzione, quella riproduttiva, ma temendo che questa possa ampliarsi ad altre comprensibilissime funzioni ed azioni (come avverrà soprattutto dopo l'età arcaica, nella società romana, con risvolti non sempre positivi per l'immagine femminile). Essendo vigili sulle donne viene ad imporsi una riservatezza che prevede, secondo l'interpretazione di Piccaluga254, la virtù del silenzio, accanto alle altre note virtù della donna romana.

Effettivamente, oltre al fatto che sia questa l’interpretazione principale del divieto di bere, la considerazione del silenzio come virtù femminile tutt’altro che

253 Monaco 1984, p. 2020 sg.

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secondaria trova un perfetto riscontro in una tragica storia, quella di Tacita, la dea del Silenzio.

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