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G abriele P epe , Il medio evo barbarico in Italia, Einaudi, Torino, 1941

Un voi. in 8° di pp. X-274. Prezzo L. 25.

Perché voglio consigliare agli economisti la lettura di questo libro? Non tanto perché vi si incontrano alcuni bei capitoli di storia economica : su « La vita economica sotto i Longobardi (il sistema curtense e communia e corporazioni, pp. 185-198) » e su « I monasteri (la formazione dei grandi monasteri ed i patri­ moni della Chiesa di Roma e le pievi, pp. 199-216) » ; e neppure perché dei singoli istituti e fatti e fatti economici l’a. ha una visione concreta, non indulgente a schemi aprioristici. Gran pregio è già questo in verità. La sopravvivenza delle corporazioni

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romane e bizantine, attraverso il medioevo, è giudicata, ad esempio, con sorridente ironia un « mito » accademico-politico :

« senza dubbio, resistono alcuni gruppi di gente che, forse, è corretto, nel gergo delle distin­ zioni sociologiche, chiamare artigiani, ma la nostra lingua ha annesso un cosiffatto senso di intelligenza, di gentilezza, di umanità a questa parola che noi non ci sentiamo di considerare artigiani gli osti, i macellai che dicono sopravvissuti in corporazioni di Ravenna od i saponai di Napoli.... Il bisogno tecnico della collaborazione nei sistemi di lavoro e di commercio, il bisogno legale della difesa, il bisogno economico del fissare il prezzo più vantaggioso, il bi­ sogno umano c religioso di raccogliersi e di pregare insieme per il buon andamento del la­ voro, per la celebrazione delle feste, per essere ricordati dopo la morte creano queste associa­ zioni, che ricordano così le antiche imperiali come, per certi aspetti spirituali, le posteriori confraternite, c, per altri aspetti di mutua assistenza, le moderne ».

Dove tutto è ben detto: dal giudizio storico sulle origini delle tenui associa­ zioni del primo medio evo alla preferenza data al vivo significato in lingua italiana propria delle parole in confronto del pallido gergo che il Pepe dice sociologico ed io direi nato dall'odierna esigenza burocratica di classificare gli uomini nelle finche, dentro ed a favore delle quali sono chiamati a pagare contributi obbligatori o volon­ tari, principali o suppletivi (1). Cosi pure, sono chiaramente scolpiti i monasteri benedettini; essi non sono un’organizzazione comunistica, come forse alcuni mona­ steri orientali. Rassomigliano alle domuscultae; organismi chiusi in se stessi, i quali dovevano economicamente provvedere coi propri mezzi alla vita di tutti coloro che ne facevano parte. II quadro che il Pepe traccia della corte medievale, sia che essa si costituisse attorno al monastero od alla casa-fortilizio del capo longobardo, è vivacemente rappresentativo:

« Quando Frontino diceva che i grandi proprietari avevano nei loro latifondi ‘ non scarsa popolazione ed addirittura dei villaggi intorno alla villa [o parte centrale del latifondo, la pars dom inica] perché si concentri ivi la difesa armata del latifondo ' non solo non esage­ rava, ma forse non vedeva tutto il carattere autarchico di queste rillae, che sembrano avere proprii ordinamenti, diritti di mercato, di imposte e, talvolta, immunità giurisdizionali. La parola curtìs.... designò nel periodo longobardico queste ville-latifondi romane occupate ora dai signori longobardi.... Per la necessità dell'anima barbarica ad imprimere il marchio della sua natura guerriera a tutte le manifestazioni della vita, il ‘ modus munitionis ' del quale

par-f i ) Perciò, al Pepe che scrive con epar-fpar-ficacia, si può dar venia se egli talvolta indulge ad imitazioni involontarie di parole correnti, come « potenziamento », « totalitario », « spazio vitale», «ordine nuovo», il cui significato è tecnicamente incerto; o se talvolta si sente tratto a polemizzare a proposito dei barbari goti o longobardi, come se si trattasse di moderni par­ tigiani : « è stupida o cinica ogni osservazione ( 1 2 } ) » ....« fa tti di cronaca dell'eterna stupi­ dità umana (181) » .... « A me secca parlare (181) » .... «Questa era roba da bestie (182) »...; o se, ancora, non sa spogliarsi di una vernice verbale che non c, ma sembra colorata di quel­ l'anticlericalismo di cattivo gusto che imperversava in Italia tra il '70 ed il '900 : « è come una vendetta della Storia (la « S to ria » pare talvolta personalizzata come la «Decadenza», la « Provvidenza » ecc.) che nel nome stesso dello Stato, gli usurpatori conservino documentata la sua origine economica e nel genitivo quel certo che di barbarico e di truffaldino che c'era nel fare il povero San Pietro titolare di diritti (153) ». Il che è detto a proposito della deno­ minazione di « Patrimonio di San Pietro » attribuita al primo stato pontificio. Al Pepe, che ha sentito profondamente l'influenza del pensiero crociano, avrebbe formalmente giovato lo sforzo di imitare, naturalmente secondo l'indole sua di scrittore, la dignità dello stile storico del Croce.

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lava Frontino fu naturalmente esagerato e la curtís venne diventando sempre più un castrimi.... La villa comprende, talvolta, più curici, cioè più ex-latifondi; la curtís a sua volta comprende, spesso, numerosi molisi. In una curtís detta dominicata, risiedeva il signore, che vi raccoglieva dai varii mansi i prodotti agricoli e animali nello stato greggio: era quindi necessario lavo­ rarli. Ora, non possiamo dire con precisione sino a che punto la curtís fosse un sistema eco­ nomico chiuso che tutto producesse, distribuisse e consumasse senza rapporti col mondo este­ riore; non sappiamo, cioè, sino a quel punto la curtís fosse capace con i suoi servi ministe­

riales di trasformare la materia prima in manufatti o se avesse bisogno dell'opera di artigiani viventi fuori di essa. Sa di romanze più che di scienza la concezione di sistemi economici chiusi sufficienti a loro stessi e senza scambi monetari. Da un documento un po' tardivo, del- 1' 895, sappiamo che Nonantola, monastero più chiuso di una curtís, aveva fondato a Firenze un chiostro femminile con l'obbligo di filare la lana: esempio di una divisione del lavoro, che potrebbe rimontare a varii anni prima e essere più generale. L'economia a scambi esisteva, sia pure in forma embrionale: si sa di monete, di negozianti, di tariffe di operai ecc. ccc. Ce n e quanto basta per affermare che, mentre l'ossatura economica era costituita dal sistema cur­ tense, mentre le classi dominatrici vivevano del reddito delle loro curtes, persistevano l'econo­ mia a scambio, la divisione industriale del lavoro, il commercio marittimo e fluviale, e, sovra- tutto, restava sempre, sia pure in forma ridottissima, la vita economica cittadina, che, per miserabile che fosse, dato lo stato di abbandono delle città, non poteva vivere ai margini del­ l'economia rurale curtense, se non scambiando con essa i suoi prodotti. Un sistema economico come questo curtense italiano, cioè agricolo, bastante in generale a se stesso, con scambi, però, moderati, non dovrebbe portare di per sé a sperperi di ricchezze; anzi dovrebbe favorire nella

curtís dominicata il risparmio e l'accumulazione. Ma qui interviene l'elemento psicologico mo­ rale: il langobardo, il signore, cioè, che vive nella curtís dominicata, centro di raccolta della produzione, non pensa al risparmio, non accumula grano, non investe il reddito in costruzioni o riparazioni o tenta nuove culture. Lo dilapida; o, peggio, ammassa ori e gioielli, credendo cosi di diventare più ricco.... D'altra parte, dove lo scambio è più intenso, non resiste troppo l'economia curtense: nelle regioni dove si avverte ancora il traffico con l'Oriente non si ha quasi traccia di curtes-, il traffico, cioè, ha impedito che le sorti assegnate in origine ai lango- bardi si allargassero dando luogo al formarsi di queste forme di accumulazione, che han finito col coincidere con le antiche romane della decadenza (1 90-92)».

Il brano è quasi perfetto; e Io sarebbe del tutto, se il giudizio intorno all'illu­ sione di arricchirsi in che quei barbari sarebbero caduti accumulando oro o gioielli non peccasse di schematismo economistico. O che, in tempi di torbidi sociali, di instabilità politica, di guerre continuate il tesoreggiamento di qualunque cosa di pregio possa essere facilmente nascosta o trafugata non è la forma più « razionale » di risparmio? Non ragionava forse ottimamente quel contadino francese, di cui nacra Larochefoucauld, il quale, mentre lasciava penetrare nella sua capanna l’acqua attra­ verso il guasto tetto di paglia e si rifiutava ad arricchire il terreno di piantagioni, nascondeva il marsupio sottoterra? La colpa della scelta, che un secolo più tardi sarebbe stata irrazionale, non era sua ma del gabelliere, il quale, se avesse visto casa pulita e campi fiorenti, gli avrebbe cresciuta incomportabilmente la taglia. Non ragionava forse ottimamente Vilfredo Pareto quando nell’agosto 1914 con sguardo lungiveggente consigliava ad un amico come ottimo fra gli investimenti l ’acquisto di oro? Ma quasi sempre il Pepe vede bene, come nel brano ora citato, i legami che intercedono tra i varii aspetti della vita economica sociale politica e religiosa, ed, astenendosi dagli schemi in cui cade la gente sfornita di senso storico, pone

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mente i limiti di ciascun tipo di vita. Dove scrittori poco raffinati vedono dapper­ tutto monasteri e corti signorili, sistemi chiusi in se stessi ed al più nelle poche città sopravissute, artigiani asserragliati in collegi o corporazioni, il Pepe osserva una vita, miserabile bensì, ma varia da luogo a luogo, monasteri e signori costretti a rapporti, sia pur scarsi, di scambio col mondo esteriore, germi destinati in avve­ nire a fiorire e a dominare.

La sua descrizione della vita economica del famoso monastero di Bobbio, fondato, sul fiume omonimo presso Piacenza, da San Colombano sullo scorcio del sesto secolo è veramente bella:

.... « Già una decina di anni dalla fondazione aveva l'estensione di « miliari.! quattuor ad omni parte basilice ' e, in più, aveva Vili pieni a t/i/e vocatur Penne (passo Penice); nel 643 vi vivono ben 150 monaci. Intorno alla Chiesa di Bobbio, al centro quindi di tutto il sistema monastico, vi sono sei edifìci centrali a più piani (case soiarie) e ben trenta edifici a un sol piano (case terrarie), abitate specialmente da servi. Un villaggio di trentasei edifici. Questa parte dei vasti possessi che ne costituisce come la capitale, ha immediatamente circostante uno spazio economico affidato a ventotto libellari con una produzione annua totale oscillante su 670 moggi di grano, 156 anfore di vino, 600 carri di fieno, neanche qui manca la selva, assai grande selva che può nutrire 2000 suini! Allontanandosi da questo centro, si hanno possedi­ menti terrieri con vari nomi (pralum dom inhu m , vaccaritia, pecoraritia, oliretum , caslanelum) che si raccolgono intorno a sette chiese minori ( oraeula). Più autonome formazioni sono le ‘ ccllae exteriores ' con loro terre, senodochi e pievi, costruzioni che sorgevano spesso lon­ tano dal monastero per evidenti ragioni di aiuto ai pellegrini e ai rurali disseminati nei campi. Pare che in complesso Bobbio potesse giungere a questa produzione annua diretta: 2100 moggi di grano, 1600 carri di fieno, 2700 libbre di olio c possedesse 5000 suini! Dalla produzione, poi, dei trecento libellari e trccentocinquanta massari ricava altri 3600 moggi di grano, 800 anfore di vino senza dire castagne, ccc. A questo reddito bisogna aggiungere quello rappre­ sentato dalle giornate lavorative gratuite prestate dai massarii, libellarii, accomandati : se ne può parlare per analogia a ciò che dice l'inventario di Santa Giulia di Brescia 4 sunt ibidem liberi homines quattordccim, qui illorum proprium ad illam curtem tradiderumt, ea scilicet ratione ut unusquisque in ebdomada diem unum faciat '. Il monastero tende anch'esso a una vita economica chiusa, autarchica non solo perche i tempi oramai non permettevano altro, ma perché cosi si potevano evitare i contatti con il mondo. A meno che si riuscisse a farselo di­ pendente questo mondo: perciò, il monastero tende ad attrarre a sé i liberi coltivatori e co­ loni trasformandoli in manentes, i padri dei servi alla gleba; tende a ruralizzare la città spin­ gendo le sue celle c le sue corti quanto più può nell'antica città romana; tende ad attribuirsi diritti a servilia; tende sopratutto a farsi donare le terre deprezzate con artigiani, molini, be­ stie, in modo da poter sempre meglio bastare a se stesso. Ma a questo punto risalta il carattere ritardatario dell'economia monastica. I monasteri, come le sale delle corti domenicali, erano centri di raccolta della produzione; ma, alcuni prodotti dovevano essere eccessivi, specialmente i prodotti animali. Che ne avveniva? Scambio no, ché tutti ne avevano. Controllo della pro­ duzione? un po'. Anche tenendo conto che tanta parte della povera produzione pastorale e agricola doveva andar distrutta per l'insicurezza della vita rurale (bestie feroci, rapine, epi­ demie, epizoozie) se qualcosa sovrabondava, si sviliva. Perciò era estremo il disordine econo­ mico e la sproporzione nel valor venale delle varie merci » ... Non si può negare ai monasteri l'attitudine alla tesaurizzazione, ma i loro risparmi vo­ lano via, o per ruberie di re, specie carolingi, o per dilapidazioni di abati, che saranno spesso più guerrieri che uomini di Chiesa. Un'assai marcata razionalità nel governo economico dei monasteri troviamo nell'ordinanza di Wala, abate di Bobbio (834-836); il principio

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tivo è il seguente : una divisione del lavoro tra le varie corti in modo che alcune provvedano all’olio, altre al fieno, altre al grano, altre alla produzione industriale. I senodochi erano invece perfettamente autonomi. Il chiostro centrale diventa allora non il luogo di un caotico ammasso di prodotti, ma un centro di ben ordinata raccolta e distribuzione, dove c'è il frate che amministra il raccolto gtanario, quello che bada alle vesti, quello che dirige i lavori dei fabbri, ciascuno col suo bravo nome particolare. Wala dava appunto precise indicazioni : « Has curtes ad victum fratrum », « has ad camaram » (vesti): « Fraxenedum est curtis in Tuscia.... ad quascumque necessitates, que evenire solent », una specie di gran riserva ».

Non però ancora per queste felici sintesi di un modo di vita, di un istituto economico, non per taluni scorci illuminanti : « il sistema economico dell’età impe­ riale che al liberismo tradizionale ha sostituito il colonato e il socialismo di stato » (3 ); non perché questo libro, che suppongo non sia stato scritto da uno spe­ cialista di economica, non contiene nulla che urti il senso economico, esso è sovra- tutto degno di riflessione. Non occorre affatto essere economista di professione per scrivere bene di storia economica. Bastano ed avanzano l'ingegno ed il buon senso che fanno acuto lo sguardo ed atto a scernere fra i tanti fatti insulsi quelli vera­ mente significativi. In più fa d’uopo la convinzione che il fattore economico è uno solo dei tanti fattori che fanno storia e neppure il più rilevante e certamente non è il fattore causale o determinante o primo o più profondo. Anzi, importa essere convinti, come, leggendolo, mi pare sia il Pepe, che tutta questa faccenda dei fattori politici militari religiosi morali economici è mero schematismo classificatorio, utile, al più, per distribuire la narrazione in libri e capitoli ed evitare ripetizioni ed oscu­ rità. Ma guai a prendere sul serio schemi e classificazioni ed immaginare che certe entità astratte chiamate proprietà profitto interesse lavoro capitale, ovvero statuto costituzione corporazione impero, ovvero peccato pena comandamenti morali ecc. c-cc. abbiano vita e virtù autonoma e di essi si possano narrare vicende, variazioni e storie ! La storia la fa l’uomo ed è narrazione di mutazioni di stati di spirito. Sovratutto perciò il libro del Pepe sembra a me significativo. Chi era il romano dell’epoca della decadenza e quando prese cominciamento la decadenza?

« In Roma la decadenza, che, come il medio evo, è categoria morale più clic determi­ nazione cronologica, a scavare profondamente si può ritrovare proprio nell’età più vistosamente gloriosa della storia romana, quella di Cicerone e di Augusto: se Cicerone vaneggia nel

Somnium Scipionis miti orientaleggianti, che Virgilio, nella quarta egloga specialmente accoglie con la compiacenza e la leggerezza dell'esteta, se un po' tutti, filosofi e poeti romani, bam­ boleggiano con i miti dell'età dell'oro, degli stati d'innocenza senza leggi e senza armi, è evidente che il processo di decomposizione della coscienza quiritaria patriottica degli Scipioni e dei Catoni è molto antico. Decadenza è l'orientalizzarsi della società romana il cui episodio più clamoroso fu il matrimonio del decadente Antonio con Cleopatra; il diffondersi di conce­ zioni filosofiche e religiose mortificanti della carne e della natura, e, di contro, il farsi tri- malcionico della società equestre; il sostituirsi alla vecchia classe dirigente, che ancora nei secoli dell’impero dava certi eroi di Tacito, dei barbari interni, dilapidanti immense ricchezze in opere di discutibile bellezza, ma di sfarzo orientale. Salviano, già, parlando dei suoi con­ temporanei disse : ‘ Erano i Romani contro se stessi tanto peggiori nemici dei nemici esterni, che, sebbene già fossero stati schiantati dai barbari, tuttavia da se stessi si distruggevano di più '.... Allo stato romano, aggregato di città indipendenti, creato e mantenuto dal liberalismo storico della repubblica e del primo impero è successo, per una evoluzione degli istituto

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ridici che si sono adeguati alla nuova civiltà romana orientale, lo stato dispotico, personali­ stico, capace di aperta signoria sui beni e sulla vita dei sudditi, lo stato poliziesco: ‘ Era accaduto qualche volta che, se un padre di famiglia, senza che fosse presente alcuno nell'in­ timità della casa, aveva sussurrato qualcosa alla moglie in un orecchio, il giorno dopo ne era a conoscenza l'imperatore (in Ammiano Marcellino, XIV, 1)'. Tutte le libertà sono crollate e con esse è crollata Roma : non quindi per cause esteriori, ma per la crisi interiore della li­ bertà, per la sfiducia che gli spiriti ebbero nella vecchia patria, nella vecchia religione, nelle vecchie leggi, sin da quando Cicerone condannava senz'appello i complici di Caldina (2-3) ».

Il « medio evo barbarico » nel libro di Gabriele Pepe è un'epoca di abbassa­ mento c di inaridimento dello spirito. Passano, illuminando i tempi ferini, alcune grandi figure: Cassiodoro, Boezio, San Benedetto, Gregorio Magno; ed esse, solo esse, salvano i popoli dal precipitare sino nel fondo, dove li trarrebbero le primi­ tive barbariche passioni; e li conducono a rivedere il sole. Romani e barbari, guer­ rieri e santi conducono una vita materiale, creano i mezzi economici i quali sono adatti al loro modo di concepire la vita. Non i tipi di proprietà, di colonato, di corti dominicali, o conventuali, non le strade, gli scambi, o l'autarcia foggiano la vita degli uomini. Chi sono gli uomini vissuti fra il 400 c l'800? Che cosa pensa­ vano? Quali erano i loro ideali di vita? Come l'opera di essi attuava quegli ideali? Nel quadro di quegli uomini vivono gli istituti giuridici economici politici e reli­ giosi.

Fr a n c e sc o Go s s o: Vita economica delle abbazie piemontesi (sec. X-XIV). In voi. XXII della « Series Facultatis Historiae ccclesiasticae » sectio B n. 4 delle « Analecta Gregoriana ». Editrice l’Università Gregoriana, Roma, 1940. Un voi. in 8° di pp. 216. Prezzo L. 25.

L’autore nella prefazione dichiara che il titolo dato al lavoro è più vasto della reale portata del lavoro, il quale ha come limiti geografici la regione racchiusa fra Torino, Pinerolo, Saluzzo, Cuneo, Alba, Chieri, Torino; come limiti cronolo­ gici i secoli X-XIV, come fonti i documenti delle abbazie benedettine di Breme, pet suo priorato piemontese di Pollenzo, di San Salvatore a Torino, di Santa Maria a Cavour e dell’abbazia femminile di Caramagna, delle abbazie cisterciensi di Staf- farda, di Casanova, di quella femminile di Rifreddo nell’antico marchesato di Sa­ luzzo e della prevostura regolare poi abbazia cisterciense di Rivalta torinese. I docu­ menti sui quali l'indagine è basata sono tutti editi nei volumi della « Biblioteca della società storica subalpina ».

Tra le abbazie benedettine, le quali raggiungono il massimo splendore nel secolo X II e decadono rapidamente dopo il 1250 e quelle cisterciensi, il cui maggior rigoglio, col ritardo di un secolo, si ha verso il 1250 e decadono dopo il 1300, a primo aspetto non si scorgono differenze: « a l centro il monastero colla sua grande tenuta madre, colle sue industrie e officine; alla periferia, un numero più o meno grande di tenute dipendenti, che nel sistema benedettino si dicono priorati alle corti e nel sistema cisterciense si chiamano grangie (147) ».

La diversità sostanziale è invece notevole. A capo della corte benedettina vi è un monaco, il quale governa e direttamente fa lavorare la terra dominica, sia a

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mezzo dei monaci sia a mezzo di servi del monastero, o con la prestazione di lavoro

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