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Rivista di storia economica. A.06 (1941) n.3, Settembre

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(1)

RIVISTA

DI S T O R I A

ECONOMICA

D I R E T T A DA L UI GI E I N A U D I

G I U L I O E I N A U D I E D I T O R E • T O R I N O

(2)

OPERE DI LUIGI EINAUDI

Sono in programma per ora quattro strie, i cui volum i compariranno man mano che saranno pronti :

I. - SCRITTI DI ECONOMIA E DI FINANZA

1. Saggi sul risparmio e l'imposta, 1941. Un voi. in-8° di pp. XI-423, L. 30.

2. La terra e l'imposta.

3. L’ottima imposta.

4. Miti e paradossi della giustizia tributaria, 1940. Un voi. in-8° di pp.

VII-308, L. 21.

i

3-6. Saggi teorici diversi.

II. - SCRITTI STORICI

Saranno raccolti in questa serie scritti, sparsi in riviste e pubblicazioni acca­

demiche, intorno alla storia della scienza e dei fatti economici.

III. - LE CRONACHE ECONOMICHE ITALIANE

Saranno raccolti in questa serie, distribuiti per ordine cronologico di mace­

ria, gli articoli pubblicati in riviste e in giornali (principalmente nel «Corriere

della Sera», dal 1900 al 1923) su problemi di attualità. Sarà quasi una storia

ed un commento giorno per giorno dei principali avvenimenti economici italiani

per un lungo tratto di tempo. Non essendo pensabile, a causa della gran mole,

una pubblicazione compiuta, saranno esclusi gli articoli di mero riassunto o dove

si ripetano cose già dette altrove.

IV. - VARIA

(3)

RIVISTA DI STORIA ECONOMICA

DIRETTA DA LUIGI EINAUDI

D ilezion e: Vi.: Lamarmora, 60 • Torino. Am m inistrazione: Giulio Einaudi editore, Via Aiario Giuda, 1 ■ Torino — Abbonamento annuo per l'Italia L. 50. Estero L. 80. Un numero E. 15.

SO M M A RIO O K I, X. « - SK IT K M H K K 1911

L

uigi

E

in a u d i

:

Mercantilismo, calmieri, tempora e mores .

.

Pag.

153

G

uido

R

o s s e t t i

:

Dimensioni dell’impresa e stabilità d el pro­

fitto

...

»

177

Note e rassegne.

E

manuele

S

e l l a

:

Stasi o dinamismo? (a proposito delle

« Pre­

messe del ragionamento economico

» ) ...»

182

L

uigi

E

in a u d i

:

Sui fattori ( economici, morali ecc.) delle va­

riazioni s t o r ic h e

... »

184

Recension/.

L. E., R. U. F., su libri di E. Lindahl, Varii su Cournot, C.

Ru-delli, L a o ts e

...»

193

Tra riviste ed archivi.

(4)

I / direttore della rivista trae occasione da letture di libri di storia della

scienza economica per porre e discutere alcuni quesiti rilevatiti: è esatto

afferm are che la dottrina mercantilistica, per quanto riguarda il principio

della utilità per un paese di procacciarsi un saldo attivo nella bilancia dei

pagamenti, sia sorta ad una data suppergiù intorno al ’600, o, m eglio sia

nata dal prevalere degli interessi mercantili sugli ideali di vita riassunti

nella dottrina canonistica della giustizia commutativa negli scambi? In­

torno a questa domanda principale, altre sono poste: fra cui quella della

preferenza da darsi a questo o quel m etodo di scrivere storie

— e si espon­

gono in proposito le ragioni d el rigettare le storie di scuole o di indirizzi

e d el preferire m edaglioni di singoli scrittori

— ; e l’altra della fondatezza

delle accuse mosse ad Alessandro Manzoni di antistoricismo nei capitoli

della carestia e della peste; che è accusa frequentem ente mossa alle narra­

zioni storiche scritte dagli economisti classici.

Il maggiore

Guido Rossetti esamina, sulla scorta dei bilanci delle so­

cietà anonime italiane dal 1930 al 1939, se la stabilità d el profitto indu­

striale sia caratteristica più d elle grandi o delle m edie o delle piccole in­

traprese. Come il Lenti aveva riscontrato nelle medie im prese l'attitudine

ad ottenere i

« più alti » rendimenti, così il Rossetti riscontra in esse altresì

la capacità ad ottenere i redditi

« più costanti ». Se l’indagine estesa ad altri

periodi e paesi vedesse conferm ati i suoi risultati, illazioni d i importanza

eccezionale se ne potrebbero trarre rispetto alle asserzioni, non appoggiate

da serie dimostrazioni, le quali tuttora si ripetono intorno al prevalere fatale

d elle grandi dimensioni, dei consorzi, trusts ecc. ecc. nel mondo economico

moderno.

Emanuele Sella interviene nella discussione intorno alle premesse del

ragionamento economico insistendo su un suo originale punto di vista della

importanza delle opposte psicologie degli uomini statici e di qu elli dina­

mici. A volta a volta, il mondo passa attraverso a fasi d i stasi e di dinami­

sm o; e l’economia deve adattarsi alla tendenza, od andazzo che sia, dom i­

nante.

In una rassegna di due libri sui barbari e sui monasteri in Italia, il di­

rettore insiste sulla fallacia delle storie scritte sulla base della distinzione

dei

« fattori » della storia. Quasiché la storia non la facessero gli uomini!

In ogni caso il fattore

« economico » è servo e non padrone; il che è chia­

rito con l’esame delle vicende dei monasteri piemontesi dal 1000 al 1300;

fioren ti sinché gli uomini furono animati da alto ideale religioso, decadenti

quando i monaci intesero ad arricchire e godere.

, \

(5)

N O V I T À

A U D I

G. M. TR EVELYAN

STORIA

DELL’ INGHILTERRA

NEL SECOLO XIX

L i n 4 0

FRAN CO BAI.LAR1NI

(6)

Olivetti M.40

La Olivelli M. 40 per uificio 6 la macchina che meglio si pre­ sta dove il lavoro ò gravoso e continuo come noi Ministeri, nei Pubblici UHici, nelle Banche, negli Diiicl Professionali.

PICA - ELITE -

ITALICO

- I T A L I C O GRANDE

MEDIO ROMANO-ROMANO GRANDE-

ORDATO

m a n o - M y i i - t - i o- e l i t e i m p e r i a l e- perla

MIKRON

— IMPERIAL

- STAMPATELLO PICCOLO

(7)

MERCANTILISMO, CALMIERI, TEM­

PORA E MORES.

Er ic h Ro l l, A history o f economie thought. Faber and Faber, London, 1938. Un voi. di pp. 421.

Giu l io Ca po d a g lio, Sommario di storia delle dottrine economiche, 2;l ed. Giuffrè, Milano, 1941. Un voi. in 8° di pp. X-227. Prezzo L. 30.

M. Be e r, Early Bri/ish E conom ia jrom thè X lllth lo thè m iddle o f thè X V lllth century, George Alien and Unwin, London, 1938. Un voi. di pp. 250. Prezzo 8s. 6d. net.

Ja co b Vin e r, Studies in thè Theory o f International Trade. Harper and Bro­ thers, New York and London, 1937. Un voi. in 8" di pp. XI-650. Prezzo doli. 4,50. 1. — Raggruppo quattro libri di assai disuguale contenuto e valore, per trarne occasione a chiarire la diversità dei resultati ai quali si giunge partendo nella inda­ gine storica da premesse logiche differenti.

Tutti quattro gli autori ricordati hanno scritto storia di dottrine; coll’intendi­ mento i primi due di fornire un riassunto di esse agli studenti ed agli uomini colti; ed il Beer ed il Viner con quello invece di approfondire un particolare periodo o problema.

2. Il Roll è partito da due premesse: di cui la prima è che la comparsa di un principio teorico (certain ideas) non è fortuita ma dipende da cause atte ad essere scoperte e formulate e la seconda che rispetto al pensiero economico la causa

ultima determinante è la cangiante struttura economica di ogni data epoca storica. Egli aggiunge tuttavia che non è sempre possibile condurre l'analisi delle cause sino alla sorgente ultima e che tra i fattori, i quali si interpongono fra il pensiero pro­ dotto e la struttura economica, importantissima è — oltre e più delle teorie filosofiche e politiche correnti di tempo in tempo — la esistenza di un corpo costituito di teorie, continuamente elaborato e raffinato da studiosi specialisti (pp. 16-17). II Roll è

sif-153

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154 LUIGI EINAUDI

fattamente persuaso della correlazione causale fra la teoria pura e l'ambiente eco­ nomico da osservarlo anche nel campo delle scienze fisiche. Sembrerebbe, a quanto si legge enunciato, senza prove, in una nota (a p. 91), che le scoperte di Newton siano legate alle esigenze economiche del capitalismo commerciale. Certo è che Pla­ tone « era essenzialmente un aristocratico » ed « un uomo d’affari » ; e perciò dopo aver elaborato qualcosa come una teoria della divisione del lavoro, la quale antici­ perebbe « le analisi più raffinate deH’origine dello stato sulla base della divisione del lavoro, della proprietà privata e dell'antagonismo delle classi quali poi si legge­ ranno in Marx ed in Engels », si serve di quella teoria « per scopi essenzialmente reazionari ». Essa diventa per lui o una idealizzazione del sistema delle caste ed un argomento in favore della declinante tradizione aristocratica (p. 30). Natural­ mente, avendo scambiato l’occasione ovverosia spunto offerto dall’ambiente politico economico e sociale a chi compie ragionamenti economici colla « causa determi­ nante » del ragionamento medesimo, il Roll attribuisce ai singoli economisti peso e spazio proporzionati al suo principio di causalità: 18 pagine a Ricardo ma 47 a Marx, quasi un ottavo dell'intiero volume. Del Marx nessuno mette in dubbio la grandezza storica di creatore di movimenti sociali; ma bene a ragione il Capodaglio si sbriga delle sue teorie economiche in cinque (su 223) pagine e ne discorre solo per dichiarare — s’intende con parole più decorose delle mie insolenti — uno spro­ posito la sua teoria del valore-lavoro ed un non senso la tesi della necessaria ten­ denza dei profitti al ribasso.

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MERCANTILISMO, CALMIERI, TEMPORA E MORES 155

nella osservazione, appropriata ad una particolare limitata esperienza di quei tempi e dei nostri, una anticipazione della teoria del sopralavoro di Marx, teoria che par sia la cote alla quale egli opina debbano essere giudicate le teorie degli economisti passati presenti e futuri. Le analisi statistiche di Petty sulla composizione della ric­ chezza irlandese e la constatazione da lui fatta che la massa monetaria era solo una piccola parte della ricchezza irlandese, consentirono al Petty di capire che un paese poteva possedere troppo poca o troppo tanta moneta; e di tenersi lontano dagli errori più grossolani dei mercantilisti.

Dopo di che, nonostante la citazione di qualche frase illuminante — « il calo del peso di una moneta riduce la quantità di merce ricevuta in cambio di essa, eccetto che per quei tonti (fools) i quali accettano le monete per il nome che hanno e non guardano al loro peso e titolo » — ci si chiede : o perché tanti economisti reputati pongono Petty così in alto nella scala dei costruttori della nostra scienza? Per conto mio credo che Petty sia uno dei pochissimi i quali abbiano detto una parola deci­ siva in materia di imposte (« Vi sono due specie di ricchezze, l'una attuale l'altra potenziale. Un uomo è attualmente e veramente ricco a seconda di ciò che mangia beve veste od in qualunque altro modo realmente ed attualmente gode; ma coloro i quali, pur possedendo molto, usano poco il posseduto sono ricchi solò in potenza o in immaginazione. Li diremo meglio maggiordomi per conto altrui che possessori per proprio conto » (Cfr. citazione e commento in Saggi sul Risparmio e sull’im ­ posta, voi. primo dei miei «Saggi di economia e di finanza», p. 373); ma come si possono rintracciare le parole decisive quando si va alla caccia delle « cause » di esse? Cantillon (4 pagine contro 10 ai romantici tedeschi, che sarebbero Friedrich Gentz ed Adam Muller, uomini di gran rilievo nella storia politica ed in quella del pensiero politico, ma inesistenti nella storia della scienza economica), analizza i problemi monetari meglio di Locke e di Hume, precorre Adamo Smith nella teoria dei salari, e Malthus in quella della popolazione, è stato lodato da Marx perché la sua teoria sul valore della moneta è fondata sulla teoria del valore-lavoro, si avvicina a Petty per la teoria del pari fra terra e lavoro ecc. ecc. Di nuovo: se si bada al rias­ sunto, perché Cantillon fu un grande? Cossa nei suoi misuratissimi giudizi non an­ dava più a fondo; ma Cossa non classificava gli economisti a secondo del gruppo di « cause» a cui sarebbero risalite le idee ed in più forniva ai lettori una scelta biblio­ grafica degli autori ricordati.

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156 LUIGI EINAUDI

idea è venuta al mondo; non ricerca correlazioni fra strutture politiche e sociali e teorie economiche; e poiché il suo compito è far storia di una certa dottrina, senza trascurare di richiamare rapidamente accadimenti e pensiero politici e sociali, l’inte­ resse dello storico delle dottrine economiche si rivolge a queste dottrine e non ad altro, e fra i tanti pensamenti formulati dagli uomini nei tempi andati trasceglie quelli che hanno ancora valore per noi, in quanto abbiano contribuito, per consenso o per negazione, qualcosa al corpo di dottrine oggi ricevuto. Le trasceglie, badando a quel che gli originatori di ogni singola idea consapevolmente affermarono in qualità di teorici non a quello che essi poterono osservare come mero fatto.

Poiché il C. guarda a quel che gli scrittori dissero come teorici, egli non in­ dulge al vizio del nazionalismo. Gli italiani del secolo X V III sono giudicati per quel che sono : valorosi economisti politici taluni, battaglieri promotori di progresso altri. Ma due soli diedero un contributo alla scienza: Geminiano Montanari (La zecca in Consulta di stato, 1683, ma pubblicata nel 1750) lucido enunciatore della legge delle variazioni dei prezzi in funzione del variare dell'utilità delle merci e di quella del­ l’equilibrio nei prezzi in diversi mercati e Ferdinando Galiani, del quale sarebbe stato desiderabile fosse messa meglio in evidenza l’anticipazione dichiarata della teoria dei gradi successivi di utilità e la magnifica analisi degli effetti delle svalutazioni monetarie.

Non so in qual modo i teorici delle spiegazioni « causali » (da questa o quella struttura politica ed economica, da questo o quell’ambiente, da questo o quel predo­ minio di una data classe) diano ragione dell’avvento della teoria dell’equilibrio eco­ nomico. Roll, per non cadere in qualche imbroglio, prudentemente tace. Capodaglio spiega come si sia semplicemente trattato di una esigenza logica del pensiero me­ ditante, ossia della insoddisfazione provata da due uomini di genio, Walras e Pa­ reto, dinnanzi alle teorie precedenti. C’è bisogno di cercar altro?

4. — Nelle storie di tempi e problemi particolari si cerca naturalmente il par­ ticolare, l'informazione erudita, la ricostruzione precisa del pensiero anche degli scrittori minori. Ma sempre lo si cerca inseguendo un filo direttivo, un’idea atta a mettere ordine nell’intrico delle dottrine, delle polemiche, delle spiegazioni dei fatti accaduti.

Il Beer vuole descrivere il graduale sviluppo della scienza economica inglese dagli scolastici sino alla vigilia della comparsa della « Ricchezza delle nazioni ». Se c’è nel suo succinto chiaro libretto un’idea dominante, questa è di spiegare le parti­ colari idee economiche con le più generali concezioni religiose filosofiche ed etiche

del tempo. Siamo su un piano più elevato di quello del R oll; si spiegano idee con idee. Guardisi ad un problema determinato: quello della natura del mercantilismo. Il concetto rimase costante sino quasi alla fine del seicento e può essere compendiato, secondo il Beer, nel sillogismo : « La moneta, coniata o in verghe, è la ricchezza. Il commercio estero è l’unico mezzo atto a procacciare moneta ». Ma i metodi usati per applicare il concetto variano nel tempo. In un primo periodo, che va da Edoardo I (1272) o, più sistematicamente, da Edoardo III (1327) sino alla regina Elisabetta (1603), il monarca emanò ordinanze ed editti intesi a 1) proibire l’esportazione delle monete e dei metalli preziosi; 2) stabilire alti dazi sull'importazione e sussidi

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MERCANTILISMO. CALMIERI, TEMPORA E MORES 157

all'esportazione di merci; 3) determinare in quali città dette Staple towns dovesse concentrarsi il commercio delle merci inglesi; 4) attribuire ad un «cambiatore reale» il compito esclusivo di ricevere monete e metalli esteri e spedirli alla zecca; 5) obbligare gli importatori esteri a convertire il ricado delle loro vendite nell’ac­ quisto e nell'esportazione di merci inglesi, cosi da evitare qualunque invio di mo­ neta all'estero.

« I regolamenti, se si guardano isolatamente dalle premesse sociali e morali del tempo, intrigano per fermo l'osservatore contemporaneo, ma sarebbe antistorico condannarli senz'altro. Noi dimentichiamo facilmente che i regolamenti, le ordinanze e gli editti medievali erano fondati sui comandamenti di Cristo od almeno dovevano essere in un certo rapporto con ciò che al cristiano si insegnava essere morale o peccaminoso nella vita quotidiana (p. 70) ».

Perciò si tollerava l’incremento del tesoro regio, poiché il governo del re era il massimo bene. Ma tra uomo e uomo, la legge canonica richiedeva l'osservanza della giustizia commutativa, ossia uguaglianza negli scambi, senza lucro monetario. Perciò la legge ambiva in sostanza a ridurre il commercio ad un baratto di merce contro merce. Richard Aylesbury ufficiale della zecca sotto Riccardo II nel 1381-82 opinò :

« Si la marchandise qui va hors d' Ungi' soit ben et justement gouverne la monnaie qui est en Hngl' demeurra, et grani pleinte de monoie vendra de pari dela. C'cst assavoir que plus de marchandise ne veigne deinz le Roialme que la value n'est del marchandise denizeins qu'est isscut par dehors le Roialme (p. 78) ».

Il Beer interpreta il testo, da lui detto chiarissimo, nel senso che le esporta­ zioni debbono uguagliare le importazioni, e cioè non si debba acquistare più di quel che si venda, merce contro merce. In tal modo le esportazioni compenserebbero sempre le esportazioni, la moneta non abbandonerebbe il paese, anzi crescerebbe gra­ zie ài dazi ed alle imposte riscosse dal tesoro.

« Non basta far ricerche negli archivi pubblici e nella sezione dei manoscritti del museo britannico e studiare le leggi del regno per diventare storici. Bisogna possedere il dono di entrare nello spirito del passato di cui ci si occupa e ripensare il pensiero dei grandi del tempo. 11 tempo nel quale visse Aylesbury era il secolo di Duns Scotus, di Ockham, di Wycliffe, dei giuristi canonisti, i quali consentivano al commerciante di guadagnare solo un salario. A quegli uomini era estraneo ogni pensiero di collegare il commercio con una politica di lucro a carico del forestiero. Quando Aylesbury pensava alla diminuzione della moneta egli guardava al tesoro del re, il quale doveva rifornirsi grazie alle norme legislative vigenti ed alla parsimonia, ossia col non comprare più di quanto si vendeva, non mai col vendere normalmente di più al forestiero di quanto non si comprasse da lui ».

La idea di un guadagno, di un sovrappiù delle vendite oltre gli acquisti nacque almeno centocinquant’anni dopo il parere di Aylesbury ; e ci vollero settant’anni prima che la frase « bilancio del commercio » (balance of trade) fosse usata per indicare il nuovo concetto. Dovevano sorgere una nuova società ed una nuova economia con idee ad esse appropriate, prima che potesse essere formulata una nuova politica com­ merciale. Siamo nel secondo periodo, dall’avvento degli Stuardi (1603) all'accessione

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158 LUIGI EINAUDI

al trono degli annoveresi (1714). Non si guarda più sovratutto al tesoro del re. N el­ l’interesse del commercio e dell'industria, si afferma la politica della protezione del­ l’agricoltura e dell'industria. Non si mirò più all'equilibrio nella bilancia delle im portazioni e delle esportazioni; le esportazioni dovendo sopravanzare le importazioni. Il ceto mercantile si fece paladino in parlamento di questa politica, col risultato di espellere il mercante forestiero, di proteggere il commercio e l'industria nazionali. A'partire all’incirca dal 1550 la teoria della «bilancia del commercio», si intende una bilancia « favorevole », era un mezzo per fornir lavoro agli uomini e promuovere l’industria ed il commercio estero. Il trionfo della psicologia mercantile mise l’idea del nazionalismo economico al luogo di quello dell’universalismo medievale. Furono essi i fondatori dell'idea nazionale inglese e del patriottismo inglese. L’abbandono graduale dell'universalismo medievale nel commercio e nella religione era stato pre­ ceduto nella filosofia dall'abbandono degli universali in prò dei particolari (nomina­ lismo). Al luogo del principio dello scambio fondato sulla mera giustizia commu­ tativa, il quale poneva lo straniero alla pari del nazionale, si affermò il principio del guadagno. Si disse « bilancia del commercio » per affermare che la bilancia doveva pendere a favore del nazionale contro lo straniero.

« Le parole ‘ bilancia del commercio ’ da quando furono usate nel primo quarto del '600 da scrittori come Edward Missclden, Francis Bacon, Thomas Mun, John Locke, Isaac Newton, ed anche, a scopo di critica, da Adam Smith, supponevano sempre una disugua­ glianza nei conti commerciali, una differenza, un saldo dovuto ad una delle due parti con­ traenti. Un saldo attivo o passivo doveva essere il risultato necessario di una qualsiasi tran­ sazione commerciale (pp. 78-79) ».

5. — I testi contemporanei confortano la tesi del Beer? Ha ragione questi di ricorrere per la interpretazione del pensiero testuale dei finanzieri, degli zecchieri, dei politici, dei pubblicisti economici alle premesse ideologiche generali contenute nelle opere magne dei filosofi, negli insegnamenti della Chiesa e nei commenti dei canonisti? Dalla conoscenza di date regole di condotta morale e religiosa in un primo tempo e dal prevalere di interessi commerciali ed economici in un secondo tempo siamo noi autorizzati a concludere che 1’ azione concreta degli uomini fosse nel primo tempo informata ad universalismo, a trattamento uguale di stranieri e di nazionali, ad uguaglianza negli scambi e soltanto nel secondo tempo si af­ fermassero principii di esclusivismo, di nazionalismo, di guadagno a prò della nazione (favourable balance o f commerce)?

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MERCANTILISMO, CALMIERI, TEMPORA E MORES 159

e deflazionistica; le controversie sulla circolazione dal 1825 al 1865; il meccanismo internazionale moderno nell'ipotesi di circolazione metallica pura, ed in quella dell'esistenza di surrogati bancari; la dottrina dei costi comparati, e quella del mas­

simo del reddito nazionale; ecco i grandi capitoli nei quali è divisa l'opera. La quale torno a dire stupenda perché soddisfa all’ideale che, in fondo in fondo, anche quando ammiro e lodo altre degnissime maniere di scrivere storie di teorie economiche, pongo sopra ogni altro nella scala della difficoltà di consecuzione. I te­ deschi della scuola storica hanno compiuto un buon lavoro di scavo in questa materia; il libro dello svedese Heckscher è un contributo di prim'ordine anche dal punto di vista tecnico-teorico; lo stesso libretto di Beer, sopra ricordato, fornisce buoni punti di orientamento. Ma, alla fine, quando si sono studiate le connessioni delle teorie relative al commercio internazionale coll'ambiente storico politico sociale e religioso e con le idee filosofiche e religiose del tempo, quando ci si è bene infarinati di « Weltanschauungen » e di « Backgrounds » si resta col cuor sospeso e ci si chiede : che cosa veramente intendevano dire questi panfletisti, questi zecchieri o finanzieri o negozianti quando discorrevano di commercio intemazionale, di moneta, di bi­ lancia commerciale o dei pagamenti? A questo punto, per capire sul serio, per capire con precisione, fa d'uopo ricorrere all’economista, ad un Viner, elegantissimo scrittore di bilancie dei pagamenti internazionali (che per fare un paragone direi lo Jannac- cone nord-americano; ma il saggio di questi sul commercio internazionale italiano in Prezzi e mercati è forse più elegante di quello del Viner sul Canada), il quale applichi ai testi ed ai problemi dei secoli scorsi gli strumenti di logica economica da lui usati per dilucidare i problemi economici. Quel che fa cosi poco soddisfacenti tanti libri di storia economica e fa esitare noi ad adoperare persino i dati di fatto in essi riportati è che, a prima vista, ci si accorge che lo scrittore non è un econo­ mista, non sa niente o sa poco di teoria dei prezzi, di schemi dottrinali in ipotesi astratte di libera concorrenza o di monopolio o di concorrenza limitata, di costi com­ parati, di sistemi monetari, di banca o di borsa", di riporti o di deporti, di com­ pensazioni, di arbitraggi e dei loro infelici, moderni surrogati detti Clearings e contingentamenti. Costoro li vediamo subito sfuggire per le vie traverse delle dispute su liberismo, liberalismo, interventismo, classi sociali, sfruttamento, sopralavoro, usura, concezioni dello stato, evoluzione sociale, feudalesimo, capitalismo, tutte cose per fermo interessantissime, ma anche di pretta marca di fabbrica del laico orec­ chiante in materia di scienza economica.

(14)

deri-160 LUIGI EINAUDI

vazioni, il background, la weltanschauung ecc. ecc. di quelle idee di cui noi saremo riusciti a fissare il significato. Certamente l'economista non è tale se non ha dietro o dentro la testa un certo background, una certa concezione della vita; e, a cagion d'esempio, non riesco a persuadermi come chi vivesse in un mondo di coazione uni­ versale, senza libertà di scelta dei proprii atti e godimenti, possa configurarsi e lavorare attorno all'ipotesi di piena concorrenza od al suo equivalente astratto di perfetto comuniSmo con intiera libertà di scelta per gli uomini. Se riesce a fare quella od una qualunque altra ipotesi astratta, egli, se è economista sul serio, ragiona su quella e non, equivocando, su un fatto misto di concorrenza c di coazione con

contorno di monopoloidi.

6. — Orbene, che cosa ci dice Viner, adoperando i ferri del suo mestiere, sul problema sollevato dal Beer della contrapposizione tra i due periodi ambi detti mercantilistici, prima e dopo il 1603? l'uno universalistico e l'altro nazionalistico? l'uno commutativo e l'altro lucrativo? l'uno inteso ad arricchire unicamente il tesoro del sovrano, l’altro a far prosperare, nelle intenzioni, l’industria nazionale privata?

Chi riduca il problema alla sostanza economica chiede: è vero che prima del '600 non si parlasse di teoria della bilancia del commercio nel senso di eccesso delle importazioni sulle esportazioni o saldo « a ttiv o » della bilancia dei pagamenti? A prescindere dai testi del 1381-82 già ricordati dal Beer, secondo i quali la politica economica dello stato avrebbe lo scopo di « conservare in paese la moneta che già ivi esiste e di farne introdurre gran massa di nuova dai paesi d'oltremare » (opinione di Richard Leicester, ufficiale di zecca), quelli del cinquecento sono chiarissimi

(p. 7 ) :

« I soli mezzi di recare molto metallo dall'estero alle nostre zecche è di esportare oltremare gran quantità di merci nostrane e di importarne di meno (Clement Armstrong nel 1530)».

« Altro scopo della nostra politica è di far sì che le merci esportate valgano di più delle merci importate; altrimenti presto diventeremo un povero paese ed un povero popolo

(A discourse o f corporation del 1587)».

(15)

MERCANTILISMO, CALMIERI, TEMPORA E MORES 161

critica Misselden non perché costui avesse esposto il principio della bilancia — egli stesso l’aveva fatto anni prima — ma per il metodo imperfetto usato nel calcolarlo. Gira e rigira la contrapposizione tra i due periodi ante e post 1603 è uno dei tanti schemi con i quali coloro i quali guardano dal balcone della loro Weltanschauung — un bel balcone alto fiorito e tentatore, dal quale l'occhio spazia su praterie, colline e montagne e non si arresta sui campi ad uno ad uno veduti nella singo­ larità delle loro culture, nella precisa condizione particolare di ogni pianta, sole cose che il contadino vede — classificano idee vicende istituzioni nascondendole nella nebbia di color grigio del bullionismo trapassante nel mercantilismo, del capi­ talismo nascente che diventa capitalismo trionfante e poi degenera in alto (cosa vuol dire in lingua italiana alto?) e diventerà in seguito qualche altra cosa, ovvero del volontarismo il quale lascia il passo al naturalismo e poi questo di nuovo al volontarismo, dove queste curiose denominazioni sono usate a significato invertito e paiono applicarsi il volontarismo ad epoche in cui qualcuno vorrebbe legare gli uomini come salami e il naturalismo a quelle in cui altri predica di dar loro libertà affinché possano meglio domar la natura.

Viner, il quale ha letto i suoi vecchi testi senz'altra preoccupazione se non quella di appurare quel che essi dicono in materia di commercio, avverte quietamente : non montiamo in superbia, ché tante cose si dicono oggi che si sono dette prima e dopo il 1603. Già nel 1381 Aylesbury e Lincoln insegnavano che accanto alla bilancia del commercio (saldo attivo o passivo dello scambio delle merci) esisteva una bilancia più vasta dei pagamenti. O non spiegavano essi infatti l’uscita dell'oro dall’Inghilterra anche con le rimesse di decime alla Curia romana? Ed Armstrong nel 1535 non noverava tra i capitoli di credito per il paese le spese dei negozianti venuti in Inghilterra a comprare pannilana? Misselden nel 1623 aggiunge alle voci di credito i profitti della pescagione, il commercio di riesportazione ed i noli della marina mercantile; Malynes nello stesso anno vuole si tenga conto degli interessi pagati sui prestiti contratti all'estero; Robinson nel 1641 aggiunge le spese dei diplomatici all’estero. Mun, finalmente, nel 1630 elenca quasi tutte le voci le quali sono oggi incluse dai trattatisti nel calcolo della bilancia dei pagamenti internazio­ nali : noli della marina mercantile, spese degli eserciti combattenti all’estero, premi di assicurazione marittima, guadagni della pesca, perdita in mare di merci importate ed esportate, rimesse dei cattolici a Roma, spese e doni dei viaggiatori esteri e na­ zionali, interessi attivi e passivi, premi di assicurazione sulla vita e sulle cose. Child nel 1690 tenne conto delle rimesse all’estero dei redditi degli assenteisti e delle perdite su crediti inesigibili.

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cor-LUIGI EINAUDI reggono e lo perfezionano e lo tramandano ad altri ragionatori, che alla loro volta, costretti dalla necessità di ragionar bene, vi danno nuovo incremento, senza che al perfezionarsi dell'edificio scientifico mai possa darsi termine.

Senza dubbio, il mondo esteriore fornisce l'occasione e lo stimolo del ragionare e del perfezionare; e di ciò sono esempi stupendi i periodi dal 1797 al 1820 e di nuovo dal 1914 al 1933 quando si compierono i maggiori avanzamenti che mai si siano visti nelle teorie della moneta e delle crisi; così come nel tempo della ascesa economica dal 1896 al 1914 furono scritti taluni grandi libri sul movi­ mento sociale e sulle leghe operaie, che da quella ascesa trassero impulso a memo­ rabili vittorie. Ma gli avvenimenti sono l'occasione a scoprir verità scientifiche; non mai le spiegano c le condizionano; sicché, mutati i tempi, quelle non siano più verità e diventino errori. Una verità può essere corretta e perfezionata, perché diventano più numerose e più ricche di contenuto le premesse del ragionamento; ma nei limiti delle fatte premesse, se il ragionamento è stato bene condotto, la verità non può, per l’impossibilità dell'assurdo, diventare errore.

Chi scopre verità scientifiche, non sono i tempi, l'ambiente, gli interessi di classe, gli accadimenti, le concezioni della vita. £ la mente umana ragionante, la quale lavora sulle premesse che essa vede e pone come rilevanti. Dalle stesse premesse lo sciocco trae illazioni inconcludenti, l'uomo di genio verità immortali.

Se ci troviamo dinnanzi tesi che poi furono riconosciute erronee, ma pur furono a lungo accettate come verità, è importante storicamente rendersi ragione del perché uomini, capaci per molti versi di ragionar bene, per quel verso ragionaron male. Viner si pone la domanda: perché i mercantilisti dal '300 al '700 rimasero attaccati all'idea erronea che un paese avesse convenienza di chiudere con un saldo attivo monetario la bilancia dei pagamenti internazionali cosicché nella media degli anni entrasse in paese più o meno grande quantità di moneta coniata o di metalli preziosi ? Egli chiarisce innanzi tutto che i mercantilisti intendevano davvero a conseguire un saldo attivo monetario. Nessuno di essi — salvo forse in un brano assai oscuro lo Stewart; ma questi era già un epigone contemporaneo di Adamo Smith — parlò di saldo monetario intendendo qualcos'altro, per esempio, un eccesso di esportazioni

impiegato nel fornire prestiti a paesi esteri.

« Se le merci nazionali esportate eccedono in valore le merci estere importate, è regola infallibile che il regno diventa ricco e prospera in patrimoni e fondi; perché l'eccesso deve per forza venir qui sotto forma di denaro (Misselden, 1623) ».

« L'esportazione è guadagno, ma tutte le merci importate cagionano perdita, salvo il denaro contante o quelle merci le quali, riesportate, ci fanno venir denaro d'altronde (Carew Rcynal, 1670) ».

« La misura generale del commercio europeo odierno sono l'oro e l’argento, i quali, quantunque talvolta siano merci, sono lo scopo ultimo del commercio; e se più o meno un paese ne ottiene, perciò diventa ricco o povero. Perciò se le esportazioni britanniche eccedono le importazioni, i forestieri debbono pagarci il saldo in contanti ed il paese arricchisce. Se invece le importazioni eccedono le esportazioni, noi dobbiamo pagare agli stranieri il saldo in contanti ed il paese impoverisce (Matthew Decker, 1744) ».

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MERCANTILISMO, CALMIERI. TEMPORA E MORES 163

anche la terra e le case e i mezzi di trasporto, e i vestiti c il mobilio; se Tommaso Moro in Utopia (1516) scrive:

« E questi metalli foro ed argento], a cui altre nazioni rinunciano con tanto gemito e dolore come se si togliesse loro la vita, se fossero tolti del tutto agli abitatori di Utopia, nessuno ivi crederebbe di aver perso il valore di un quattrino » ;

le frasi studiate nel loro contesto significano per Io più che le altre cose sono incluse nell'elenco delle ricchezze solo perché atte a procacciare in cambio oro ed argento; e queste altre cose sono reputate inferiori ai metalli preziosi perdié si ignora se, vendute all’estero, siano atte a procacciare denaro contante.

7. — Perché i mercantilisti pur consapevoli, i migliori di essi, dell'errore di considerare i metalli preziosi come la sola ricchezza, davano ad essi un peso ai nostri occhi tanto eccessivo? Le ragioni erano parecchie e, fa d'uopo riconoscerlo, di gran rilievo :

— in tempi nei quali ai principi era difficile accattar danaro a prestito e le imposte erano quasi una novità, importava allo stato possedere un vero e proprio tesoro in contanti, per provvedere a spese straordinarie, particolarmente di guerra. I più degli scrittori non sono tuttavia entusiasti del tesoro di guerra. Tommaso Moro vorrebbe fissare un limite ad esso, affinché il principe non diventi avaro e non estorca ai sudditi quel contante di cui essi hanno bisogno per i loro affari (1516). Mun consente, sì, che l’oro sia il nerbo della guerra; ma solo perché con esso si assoldano uomini e si procacciano vettovaglie e munizioni. « Ma se queste fanno difetto al giusto momento, che cosa ne faremo della moneta? » (1664).

— l'oro e l'argento sono assunti come manifestazioni tipiche del risparmio e dell'accumulazione. Lodare la parsimonia e ih risparmio equivaleva a dar pregio particolare ai metalli preziosi, i quali, più che qualunque altro bene, sono sottratti al consumo quotidiano.

«T u lle le altre merci finiscono in mano del consumatore; la moneta vive sempre, e più mani passa, meglio è, cosicché in un certo senso l'uso non la distrugge, come accade per le altre merci, ma la conserva come forza immortale (Hugh Chamberlain, 1696) ».

Perciò una nazione, la quale intenda risparmiare ed arricchire deve provvedere a un saldo attivo della bilancia del commercio.

« La seta, i pannilana, i vini ecc. sono ricchezza nei rapporti tra uomo ed uomo perché possono essere convertiti in oro ed argento; ma non meritano di essere considerati ricchezza delle nazioni, finché non siano, mercé l'esportazione all’estero, convertiti in oro ed argento e questi introdotti qui, perché essi sono beni corruttibili ed in breve volger di anni si riducono a nulla e non valgono più nulla (Pollexfen, 1697) ».

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164 LUIGI EINAUDI

interesse prova la scarsità della moneta : erano dottrine che nessuno, innanzi ad Hume (1757), metteva in dubbio:

« Il basso saggio dell'interesse è segno infallibile dell'abbondanza della moneta (William Paterson, 1694) ».

La confusione fra i due concetti di moneta e di capitale contribuiva dunque a crescere l’importanza attribuita alla moneta.

— l’analogia col buon padre di famiglia il quale, seguendo il concetto di Columella, porta al mercato più roba di quanta ivi acquisti :

« Noi dobbiamo sempre curare di non comprare dagli stranieri più di quanto vendiamo ad essi, perché così facendo noi impoveriremo noi stessi ed arricchiremmo altrui. Non sarebbe invero buon agricoltore colui il quale, non avendo altri redditi se non quelli ricavati dalla terra, comprasse di più sul mercato di quanto venda (Hales, 1581) ».

confortava la conclusione che il paese nel suo complesso dovesse arricchirsi solo quando riuscisse ad ottenere un saldo attivo nei suoi rapporti di commercio col resto del mondo.

— abbondanza di moneta può significare prezzi alti. Questi non erano ge­ neralmente desiderati dagli economisti; ma se i prezzi alti si accompagnano a com­ mercio vivace, il paese profitterà:

« £ molto meglio per il reame, aver le cose ad alto prezzo con abbondanza di moneta, ché gli uomini potranno trarre da vivere dalle loro occupazioni, piuttostoché aver tutto a buon mercato, con difetto di moneta e con lagnanze universali (Misseldcn, 1622) ».

— l'incremento della massa monetaria è di stimolo all’attività industriale e commerciale. Secondo William Potter in The Key o f wealth (1650) più moneta hanno gli uomini, più ne spendono e più rapidamente la spendono. Se gli uomini ottengono maggior copia di monete e la spendono subito ricevutala, le vendite dei mercinti e dei manifattori aumenteranno in proporzione. Se essi vendono, in valore, cinque volte più roba, ne produrranno cinque volte tanto ed anche più in quantità fisica, poiché essi potranno caricar prezzi più bassi su un volume maggiore di ven­ dite.

L’argomento perdeva forza agli occhi di quegli scrittori i quali pensavano che lo stesso effetto poteva ottenersi, invece che con l'oro e l’argento, con la carta moneta :

« S ia che in un anno il paese acquisti mezzo milione [di sterline in oro e argento] per mezzo del commercio internazionale o per mezzo di biglietti emessi, su buona garanzia, dalle

banche, il risultato è identico ».

— contrastanti sono altresì le opinioni dei mercantilisti rispetto al vantaggio di tesaurizzare sotto forma di ornamenti, vasellame o di monete e verghe vere e proprie. Coloro i quali pregiavano i metalli preziosi per la loro virtù stimolante dell’attività commerciale ed industriale, erano contrari alla tesaurizzazione : \

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MERCANTILISMO, CALMIERI, TEMPORA E MORES 165

« Non fo differenza fra il cavar, con una buona legge, tesori dai forzieri di ferro ed il navigar mari difficili e vasti per ottener metalli preziosi col commercio (Anonimo, in

Taxes ito charme, 1690) ».

Nelle mani di scrittori più esperti la tesi del vantaggio di un saldo attivo nella bilancia del commercio internazionale si dissocia dalla tesi del vantaggio del possesso della moneta. Fin dai primi scritti mercantilistici (in H o tv t h è c o m e n p e o p l e m ay h e set lo w o r k e , 1530) e più frequentemente dopo, il saldo attivo è fatto

dipendere da aumento di esportazioni e decremento di importazioni e questi a sua volta cagionano aumento di lavoro all'interno :

« Una nazione la quale paga un saldo passivo nel suo commercio coll'estero, perde altrettanto capitale; c perde altresì se le sue esportazioni mantengono minor numero dei suoi abitanti di quanto le sue importazioni non mantengano abitanti di paesi esteri (Joseph Harris,

1757) ».

« Un saldo a nostro favore prova che gli stranieri acquistano maggior copia di pro­ dotti c manufatti da noi di quanto noi facciamo da essi. Il vantaggio è importantissimo, perché mette in luce almeno, una fortissima probabilità che essi occupino maggior numero dei nostri poveri di quanto noi facciamo dei loro (Arthur Young, 1772) ».

Con l'ipotesi della sostituzione della carta moneta ai metalli preziosi cadeva il castello di carta costruito sull’altra ipotesi della importanza singolare dei metalli preziosi. Se gli stessi effetti bendici — supponendo siano tali — si possono ottenere con biglietti di carta stampata e dipinta, a che prò angustiarsi tanto per ottenere un saldo attivo metallico?

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166 LUIGI EISAL'Dl

Manzoni nei « Promessi Sposi », la politica, usata nel Milanese, dei calmieri in mate­ ria di farine e di pane è spiegata con l'osservazione : ma quella non era politica spa- gnuola o veneziana o pontificia, era politica universale, che si rivide nuovamente durante la rivoluzione francese e la grande guerra del 1914-918; c convien perciò confessare che gli uomini non fossero atti a concepire allora altra politica e questa corrispondesse alle esigenze dei tempi, alle particolari circostanze dei luoghi, alle difficoltà dei trasporti, alle passioni degli uomini, delle quali i governanti debbono pur tener conto.

Viner ribatte che importa non confondere quella che è la spiegazione storica del fatto accaduto con la giustificazione razionale di esso.

« Lo storico economico sembra dedurre dalla proposizione corretta : — ‘ se fossero disponibili bastevoli informazioni, la prevalenza in un dato tempo di particolari dottrine po­ trebbe essere spiegala in funzione delle circostanze allora prevalenti ’ — la proposizione tut- t'affatto diversa e ben curiosa : ‘ quelle particolari dottrine potrebbero perciò essere giustificale sulla base di quelle circostanze '.

Parecchie ovvie difficoltà ci vietano di passare dalla prima alla seconda proposizione. Se il passaggio fosse lecito, ne verrebbe che nessun'epoca, ail'infuori della nostra, sarebbe capace di commettere gravi errori dottrinali. Si trascurerebbe il fatto che una delle circostanze storiche, le quali hanno subito una trasformazione, è la attitudine alla analisi economica. Più particolarmente sarebbe d'uopo dimostrare che la condotta tipica dei mercanti, la natura delle loro perdite e dei loro guadagni commerciali, l'indole del processo monetario e la portata della divisione territoriale del lavoro sono mutate a bastaanza dopo il 1550 od il 1650 od il 1750 da trasformare ragionamenti corretti per i periodi precedenti in ragionamenti logicamente scorretti per il mondo contemporaneo (p. 110-111)».

Qui è la soluzione del paradosso storico-logico : il capitolo di Alessandro' Manzoni sulla carestia e sulla rivolta del forno delle grucce è antistorico se noi assumiamo che il narratore del secolo XIX e, con più lunga esperienza e più raffinata dottrina quello d'oggi, il quale si accingesse a rifare l'inimitabile capolavoro, debba, narrando, partire dalle conoscenze di fatto e dalle premesse dottrinali medesime da cui avrebbe potuto partire la media dei cronisti e narratori ed osservatori appartenenti alla comune del popolo o delle classi colte o dei ceti medesimi governanti e diplo­ matici del tempo. Non è antistorico, se noi consentiamo che al narratore d'oggi, dopo essersi scrupolosamente (1) informato intorno agli ordinamenti del 1628, sia lecito

(1) Sulla «informazione» del Manzoni vedi il bel saggio su II Tumulto d i San Mar­

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narrarli al lume della critica venuta di poi intorno alla mancata corrispondenza tra i fatti quali furono allora osservati ed il giudizio che gli uomini d’allora ne diedero.

Il narratore odierno di fatti analoghi contemporanei, che, se fosse Manzoni redivivo, non sarebbe estraneo all'apparato logico contemporaneo, come egli non era a quello del tempo suo, dovrebbe, per usare altrettanta ironica indulgenza, supporre

sua fede di battesimo». Grossa esagerazione, pensa il N icolini; e, poiché soltanto il Tadino osserva che « il tormento si vendea nella città a lire 70, anzi lire 80 il moggio » e lo stesso Manzoni aveva detto del libro del Tadino essere stato « scritto con le gomita » ed i documenti parlano, al principio del novembre, di 40 a 45 lire e solo nel dicembre accennano a prezzi correnti fra le 45 e le 50 lire, conchiude trattarsi per « inverisimile che possa parere » di una « sbadataggine » del grande scrittore.

Sbadataggine per aver scritto; « e si vendeva fino ad 8 0 » ? Chiudiamo gli occhi e pensiamo a quel che accade intorno a noi. Calmieri e decreti parlano di frumento tenero portato progressivamente di anno in anno, inclusi premi diversi, da 120 a 140 a 160 a 175 lire; ma i giornali parlano di condanne per vendite a prezzi abusivi e voci corrono di sacchi venduti « sino a 300, a 400 ed a 500 lire » ; e si sa che, se il frumento buono mercantile vale 175 lire, i suoi cascami si contrattano correntemente a 300 lire. I dotti dell’avvenire, compulsando decreti e statistiche, non troveranno notizia alcuna delle 500 e delle 300 lire, delle quali, per l'indole loro stessa, nessuna traccia scritta può darsi ; e diranno che i Tadini d'oggi hanno esagerato fatti sporadici. L’olio d'oliva è calmierato ad 11 lire; ma si vocifera, forse non infondatamente, di vendite sino a 30 q persino 35 lire, senza che di ciò esista alcuna documentazione. Il solfato di rame quota lire 260 al quintale; ma non si racconta che alcuni viticultori lasciatisi sorprendere, senza provviste, dalla peronospora minacciante, l’abbiano pagato fino a 4000 lire? Prezzi illegali per fermo e siffatti da assoggettare ambi i contraenti a severe pene. Appunto perciò le statistiche non li possono registrare; ma lo storico dell'awenire, il quale dovrà narrare i fatti quali furono e non quali avrebbero dovuto essere, dovrà fare ogni sforzo per accertarli e valutarli. Le 80 lire del Tadino per il 1628 può darsi siano una invenzione; ma la probabilità che esse siano state pagate (e il Manzoni

dicendo « fino a ottanta » afferma trattarsi di casi limite) non è davvero piccola. Manzoni scrive:

« Gli incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre che non lo ven­ devano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai o che avessero il nome di averne, a questi si dava la colpa della penuria c del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l^ibbominio della moltitudine

male e ben vestita ». .

11 Nicolini pare opporre se non al Manzoni ai suoi laudatori, che incettatori ve n'erano nel 1628, come ve ne furono sempre, effetto e causa concomitanti insieme, in occa­

sione di tutte le carestie (p. 153).

Dell'esistenza degli accaparratori il Manzoni non dubitò mai; dubitò, come il buon senso economico consiglia, della esistenza di una relazione di causa ed effetto fra specu­ latori ed alto prezzo dei grani. Il Nicolini pare ritenere (p. 230) che il buon senso sia una qualità di poca importanza nella formazione della scienza economica; quando, in verità, nove decimi di coloro i quali scrivono di cose economiche, non sono economisti solo perché mancano di buon senso o, se l'hanno nelle faccende private, accuratamente lo perdono di vista quando scrivono, laddove non arcade mai di leggere in Manzoni una osservazione od un ragionamento economico sbagliato, perché, se anche non avesse letto Smith, Ricardo e Say, egli era ricchissimo di buon senso. Possiamo riconoscere senz'altro che, come osserva il Supino, citato dal N., le osservazioni di buon senso del Manzoni non abbiano « fatto pro­ gredire neanche di un passo la scienza» (p. 230); ma coloro che la fecero progredire pos­ sedettero tutti, in dose eminente, quella qualità e in più, s'intende, la dote divina di vedere le relazioni logiche generali fra le osservazioni di buon senso che essi facevano.

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168 LUIGI EINAUDI

nei governanti odierni, i quali ripetessero i medesimi errori, un grado di innocenza scientifica ben più appariscente di quello che bastò al Manzoni per gli uomini del 1628.

Se poi lo scrittore non narra storie, sia pure inscritte in un gran romanzo, ma analizza teorie economiche del 1628 o del 1550 o del 1750, egli non può qua­ lificare certe teorie — sulla bilancia del commercio, sulla moneta, sui calmieri ecc. ecc. — vere per il 1628 ed erronee per il 1827 o per il 1940. Può spiegare a se stesso

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o ad altri le ragioni per le quali quelle teorie — erronee allora ed oggi o vere al­ lora ed oggi — fossero nel 1628 generalmente (2) accolte e poi finissero per essere respinte nel 1827 e nuovamente venissero ricevute nel 1940; e questa è e rimarrà sempre una assai interessante ed importante e suggestiva — adopero la solita filza di aggettivi antipatici comunemente usati per indicare qualcosa che merita di essere fatto — indagine storica. Ma la spiegazione non farà mai si che lo stabilimento di un calmiere basso, in tempi di scarso raccolto, ubbidisse ad un principio teo­ rico vero nel 1628, falso nel 1827 e di nuovo vero nel 1940. L'errore, se si faccia la premessa della condotta degli uomini quale era allora e rimase costante d'allora in poi, resta errore nel 1628, nel 1827 e nel 1940. Bisognerebbe, per supporre che nel 1628 valesse un principio diverso da quello che fu valido nel 1827 quando il Manzoni pubblicò i « Promessi Sposi » e pare sia ancor valido oggi, supporre che, in assenza di tessere e cioè di distribuzione coattiva del pane, e in assenza di altre mutazioni, ad es. nell’ammontare dei redditi reali e della loro distribuzione, gli uomini nel 1628 consumassero minor quantità di pane a prezzo basso di quanto

allegazioni e spiegazioni che si leggono nei soliti documenti ufficiali, nei soliti rapporti di ambasciatori, nei soliti verbali di giunte e di assemblee. Perché si dovrebbe essere scettici solo per i documenti della guerra del 1914-18 di cui conosciamo o presumiamo di conoscere l'altro o gli altri lati della medaglia in essi taciuti e non dovremmo esserlo per quelli re­ lativi alle guerre ed alle carestie di secoli passati? A chi sia abituato a leggere con senso di realtà i documenti contemporanei c perciò a leggerli spesso alla rovescia, la bonaria ironia manzoniana appare pregna di profondo senso storico.

(2) Non però tanto generalmente come si crede. Il Nicolini, nel saggio ricordato alla nota 1 è riuscito a mettere in nuova e bella luce la figura del disgraziato vicario di provi­ sione, don Ludovico Mclzi, poi duca di Magenta. Fra le buone cose da lui operate — il N. mi pare le svaluti alquanto dandone il merito o la colpa agli interessi del ceto nobile proprietario di cui il Melzi faceva parte, ed a quelli della città, di cui era amministratore c le cui finanze andavano in malora a causa della perdita subita nel mantenere basso il prezzo del pane, come stavano andando al diavolo quelle italiane nel 1921 se il Giolitti non le avesse salvate abolendo il prezzo politico del pane — si ricordano il tentativo di serbare al prezzo del pane una certa adeguatezza a quello del frumento e persino filtro di istituire un rimedio impopolare ma necessario ed economicamente corretto quando i due prezzi sono squilibrati tra loro: le tessere per il pane, il burro c l'olio (cfr. pp. 135 e segg., 142 c segg.). Del resto non il solo don Ludovico Melzi ragionava bene a Milano in materia di politica annonaria e non solo questi è stato giustamente riabilitato dalle felici ricerche del Nicolini. Anche il capitano di giustizia, don Gambattista Visconti, colui che Alessandro Manzoni, facendo torto alla sua memoria, immortalò col sasso che « uscito dalle mani di uno di que' buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafìsica », anche il Visconti osò alla politica inaugurata dal conte di Fuentes opporre la tesi « che te­ nere artificiosamente bassi i prezzi dei viveri, se poteva momentaneamente giovare a qualche singola categoria di cittadini, finiva, in ultima analisi, col riuscire di gran danno alla comu­ nità » (Nicolini, p. 169). Verano dunque, nella Milano del 1628, almeno due uomini, il Melzi ed il Visconti, i quali ragionavano bene in fatto di politica economica; e ve n’è di perciò uno davanzo a rendere perfette, in sede storica, le critiche manzoniane alla moltitudine la quale, fosse collocata in alto o in basso, ragionava, allora come oggi, malissimo. Che bi­ sogno ci sarebbe stato, se fosse stata accolta la tesi del Melzi e del Visconti, del « rimedio » che solo il N. cita (p. 231) come «effettivamente adeguato .... a diminuire la sproporzione tra i viveri e il bisogno » ossia « l'importazione di granaglie forestiere », ad opera, s'intende, delle autorità cittadine o del governo (p. 138)? Il grano sarebbe venuto da sé, colle gambe degli immondi speculatori, cosi come ogni cosa corre là dove ha prezzo congruo, senza bi­ sogno della intromissione dei politici, buoni solo a impedire colle loro « provvidenze » che accada quel che naturalmente avrebbe luogo. Dico che finché si ha notizia, in un certo tempo e luogo, di uno solo il quale ragioni bene, lo storico ha ragione di dar poco peso ai pretesti senza fine con i quali i mali ragionatori giustificano LI loro operato. Ragionava malissimo

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avrebbero fatto a prezzo alto. Della quale proposizione nessuno finora ha tentato di offrire neppure il fumo di una prova, eccetto quella, notissima, del cresciuto con­ sumo del pane quando gli altri alimenti disponibili come succedanei e complemen­ tari al pane crescano di prezzo ancor di più di quanto non cresca il pane. Ma la prova suppone che nel 1628 fosse largo il consumo del companatico tra contadini e cittadini minuti, ed ampio il margine di reddito disponibile in caso di aumento dei prezzi del pane, ipotesi contrastante con quanto si sa delle condizioni di vita di quel tempo. Nessuno del pari ha sinora tentato di offrire alcun inizio di prova di quelle proposizioni stravaganti che sarebbe necessario premettere per dimostrare che nel 1550 o nel 1350 o nel 1750 non accadessero quei fatti medesimi che noi ammettiamo essere la conseguenza inevitabile di altri fatti ipoteticamente postulati. Come, ad esempio, si potrebbe dimostrare che, in regime di circolazione metallica, un iniziale saldo della bilancia dei pagamenti, crescendo la massa monetaria circolante aH'intcrno di un paese non fosse nel 1550 causa ivi, a parità di altre circostanze, di un aumento di prezzi e quindi di un aumento nelle importazioni e di un decremento nelle esportazioni epperciò di un rovesciamento nella situazione della bilancia dei pagamenti, così come accadrebbe oggi? Sinché non si dimostri che la condotta degli uomini era diversa allora da quella che è oggi, quella e non altra è la sequenza dei fatti; né

Antonio Ferrcr quando pretendeva che i grossisti del Broletto, fornitori di farina a quasi tutti i fornai milanesi, solo perché « gente ricca » e che effettivamente si era « molto avvan­ taggiata per il passato », si acconciassero a perdere vendendo sino al nuovo raccolto del 1629 farina e pane sottocosto, nella speranza di rifarsi col raccolto del 1629 (Nicolini, p. 148 e Manzoni prima : « Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di ca­ rattere, rispondeva che i fornai s'erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s'avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell'abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento »). Sentii ripetere il medesimo ragio­ namento durante la guerra del 1914-18 da chi non aveva mai letto od aveva dimenticato i «Promessi sposi» male compitati a scuola; e sempre il ragionamento mi parve pessimo: 1) Chi ha ottenuto profitto coll'esercizio dell'industria, ha dimostrato con ciò di sapersi go­ vernar bene e non vi c ragione al mondo perché oggi abbia a dar prova di insipienza col perdere; 2) Perdendo, egli innanzi tutto fa cosa contraria al proprio interesse e poi cagiona danno alla collettività la quale non trae vantaggio dalle perdite dei singoli e nel caso parti­ colare sarebbe stata tratta, come fu, a sprecar farine; 3) se, nell'interesse comune, giova sopportare una perdita, questa va accollata alla collettività secondo una regola determinata e non a casaccio su una categoria particolare di cittadini ; su « tutti » i ricchi, poniamo, e non solo sui ricchi « fornai » ; 4) la promessa di una ingiustizia futura, come sarebbe il mante­ nimento del prezzo del pane ad un livello superiore al ragguaglio col nuovo prezzo del frumento, non vale a compensare la ingiustizia precedente. Altri sono i fornai avvantaggiati poi da quelli beneficati prima e lo sono in proporzioni diverse ed altri i consumatori che sono poi assoggettati al risarcimento in confronto a quelli che erano stati prima beneficati. I risarcimenti a distanza di tempo partoriscono solo effetti di recriminazione e rinfocolano le ire; come si vide nella Germania post-bellica quando si volle risarcire talun portatore di valori pubblici per gli effetti dannosi della svalutazione. Pare, a veder l’opposizione incontrata da Antonio Ferrer, che qualcuno a Milano ragionasse ottimamente su tal punto. Né monta costoro fossero fornai o grossisti di farine; ché ai suoi inizi la scienza economica sorse e crebbe appunto per il battagliar di opuscoli e fogli volanti scritti o fatti scrivere dai rappre­ sentanti di interessi opposti; e solo col tempo nacque un ceto di studiosi cultori disinteressati di quella disciplina. N é è a dire che gli studiosi odierni nulla abbiano ad imparare dallo studio delle allegazioni contrastanti dei difensori dei proprii interessi. Anzi! Gran parte dell'indifferenza con la quale gli insegnamenti della scienza economica sono oggi accolti deriva da ciò che gli economisti di professione si occupano troppo spesso di problemi inesistenti o che non interessano nessuno od interessano solo ristrette categorie di politici ancor più. di­ soccupati intellettualmente di quanto quegli studiosi non siano. '

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giova invocare tempora o mores mutati; ché per questi rispetti essenziali del com­ prare e vendere imitati non sono. Possono, è vero, mutare le premesse del ragiona­ mento. Poteva nel 1350 o nel 1550 il principe minacciare graticole roventi, squar­ tamenti con tanaglie e forche a chi si attentasse ad esportare oro od argento fuor del reame e sarebbe per fermo elegante indagine teorica quella dello studio degli effetti di affocamenti ed attanagliamenti ; così come oggi sono elegantissime, sebbene sinora non siano sorti i Goschen atti a darne la teoria limpidamente semplice, le indagini intorno al comportamento dei cambi esteri in regime di monopolio dei cambi e di compensazioni statali binarie o multiple. Ben altre premesse del discorso possono mutare. Il commercio internazionale poteva nel 1628 essere in parte affidato a com­ pagnie privilegiate per questo o quel paese; ed invece potè nel 1827 essere del tutto abbandonato all'iniziativa privata; e di nuovo nel 1940 affidato ad enti pubblici ov­ vero addirittura allo stato. Mutando le premesse, mutano le conseguenze; non già tuttavia perché la verità del 1628 non fosse più tale nel 1827 o tenda a ridiventare in parte verità nel 19-10. La verità ragionata per il 1628 rimane perennemente tale ogni qualvolta nella storia si ripetano le medesime somiglianti premesse di fatto; e così quelle ragionate nel 1827 e nel 1940.

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172 LUIGI L IS AUDI

volontaristiche naturalistiche cattoliche protestanti e maomettane. Ognuno si pro­ caccia i divertimenti a se stesso confacenti.

Che quella degli indirizzi e delle scuole come canovaccio delle storie della economica sia una vera peste non v’ha dubbio.

O si fa storia di dottrine, generali o particolari, c le scuole non hanno niente a che vedere con essa. Che un certo teorema sul saldo della bilancia di pagamenti o sui costi comparati lo esponga un cattolico od un protestante, un liberale o un socialista, un corporativista medievale o un corporativista secolo decimottavo, uno scolastico od un matematico non ha nessunissima importanza rispetto al problema che interessa noi in punto a quel teorema: se esso sia vero od erroneo, si intende date le premesse poste e date le limitazioni richieste dal tipo di ragionamento adot­ tato. La storia della economica o delle dottrine economiche, piaccia o non piaccia ai laici, non è storia di capitalismi c di socialismi, di lotte o di collaborazioni di classe, di ricchi e di poveri che sono oggetto di altre degnissime storie, suppongasi anche di storia economica nel senso di storia dei fatti e degli accadimenti econo­ mici; ma è esclusivamente storia di teorie del valore, dei prezzi, dei salari, dei costi comparati, della moneta e simiglianti teorie antipaticissime alla comune dei lettori. Si può fare storia di dottrine badando sovratutto, come fece lo Schumpeter, alla concatenazione necessaria di ogni particolar dottrina con le altre pure particolari e con quelle più generali che insieme le stringono e le unificano; ovvero si può perseguire sovratutto un determinato filone, ad esempio quello delle teorie del com­ mercio internazionale, come ha fatto il Viner, scavando in profondità, senza però trascurare i legami del filone prescelto con la costituzione generale geologica del territorio in cui il filone si trova. Trattasi di divisione del lavoro scientifico c di attitudini diverse proprie dei ricercatori. In ogni caso, di qualunque teoria, generale o particolare, si faccia la storia, il fattore « scuola » è mero ingombro, inutile ciar­ pame scolastico.

10. — £ mero ingombro anche se, nel far storie di dottrine, invece di per­ seguire il lento formarsi e consolidarsi e perfezionarsi delle astrazioni teoriche — tutte le teorie economiche sono mere astrazioni, anche quando, complicandosi, me­ glio si avvicinano alla realtà, — ad un certo punto, impazienti di tener dietro ad astrazioni, chiediamo: a chi è dovuto il meglio di queste astrazioni; chi formulò le verità fondamentali; chi rinnovò il modo di pensare economico? Qui non incon­ triamo scuole ed indirizzi, ma uomini viventi : non mercantilisti, ma casomai l’extra- vagante Cantillon, non fisiocrati, ma Turgot, non classici liberali, ma Adamo Smith, Ricardo e Ferrara, non matematici, ma Walras e Pareto, non austriaci, ma Bohm Bawerk e Menger e cosi via.

Scrivevo nel 1935 :

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