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materia viva

4. Figure della crisi: forme dell’anacronismo

4.4. Michelangelo Frammartino: L’autenticità del reale in Alberi (2013)

4.4.2. Alberi, o dell’incontro con il reale

Michelangelo Frammartino254 si distingue nel panorama artistico italiano per il tentativo di costruire immagini che siano il risultato di un rapporto autentico con il reale, secondo un’idea di cinema come «macchina della

253 M. De Beistegui, L’immagine di quel pensiero. Deleuze filosofo dell’immanenza, tr. it., Mimesis, Milano 2007, pp. 69-70.

254 Michelangelo Frammartino lavora da più di vent’anni tra il cinema, la videoarte e le installazioni audiovisive, alternando la pratica artistica con l’insegnamento in scuole, accademie e università. Tra le sue opere più note: Il dono (2003) e Le Quattro Volte (2010), vincitore del Nastro d’argento, in cui l’autore racconta il mondo suddiviso nelle sue componenti essenziali; minerale, vegetale, animale e umana.

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connessione»255. Nelle sue opere si può riscontrare un’ampia varietà di modelli stilistici e formali, insieme con una pluralità di discorsi e di pratiche mediali, che si pongono al servizio della ricerca di questo autentico contatto con il mondo dispiegato di fronte alla sua macchina da presa. I suoi film, così come le sue installazioni audiovisive, sono tra i più limpidi esempi di una sfida alle pratiche omologate della rappresentazione, ingabbiate entro i confini delle forme artistiche tradizionali.

In Alberi, una cine-installazione che mescola in maniera produttiva il passato e il presente, la macchina da presa di Frammartino non si limita a registrare passivamente ciò che gli si presenta davanti, ma opera una trasformazione della realtà che si rende possibile proprio nel momento privilegiato dell’incontro tra il regista e il mondo che vuole raccontare, secondo un’idea di film come: «luogo di mediazione fra sé e il mondo»256: la realtà torna a essere materia sensibile, visibile, e quindi rappresentabile.

L’intera opera si articola intorno alla figura del Romito, l’uomo-albero maschera della tradizione carnevalesca lucana; una figura che affonda le sue radici nella memoria storica di quei luoghi e che originariamente era un modo per le persone meno abbienti di chiedere l’elemosina, senza la possibilità di essere riconosciuti in quanto coperti da capo a piedi di rami e foglie. Questa tradizione si era persa nelle pieghe del tempo, rimanendo un ricordo lontano, fino a quando nel paese di Satriano di Lucania gli abitanti non hanno sentito la necessità di farlo tornare a vivere, per riaffermare il legame con il territorio e con la natura che avvolge questo piccolo paese. Tuttavia, nel momento in cui è riaffiorato, il romito ha mutato la sua natura, la sua realtà: si è fatto mito, culto arboreo. Il momento di mediazione tra la

255 M. Marelli, Sugli Alberi e le tradizioni, sullo sguardo e il legame con le cose, in “Cineforum”,

http://www.cineforum.it/focus/Filmaker_Festival_2013/Intervista_a_Frammartino

256 M. Bertozzi, Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, cit., p. 28.

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tradizione storica e gli abitanti di Satriano ha cristallizzato l’evento-romito (volendo intendere la sostanza del romito secondo la lettura di Deleuze precedentemente illustrata) in una nuova forma, in un nuovo reale. È in questo momento che il romito incrocia la strada di Frammartino e nuovamente si trasforma, si fa altro, all’interno del suo film. Il regista, sempre alla ricerca di una prospettiva che si opponga alla dominante centralità dell’uomo nelle rappresentazioni artistiche, individua nella figura del romito una sintesi compiuta tra uomo e natura e lo eleva a cardine del suo nuovo progetto.

Il film che ne deriva è un’opera che pone al centro proprio il rapporto tra queste due entità, mettendo in pratica un mimetismo inteso come:

un procedimento che destruttura l'immagine e ti dice che lo sfondo è protagonista. Il cinema deve essere quella macchina che ti riconnette alle cose, diceva Deleuze. Ecco il romito ti dimostra che il mondo è legato alla natura. E il cinema serve a questo: attivare un'ottica per vedere l'invisibile e riuscire a catturarlo, filmandolo257.

Durante tutto l’arco del film Frammartino costruisce dei percorsi visivi che illuminano i momenti di incontro e di mediazione tra uomo e natura, tra passato e presente, tra mobilità e immobilità, tra organismi vivi e organismi morti, alla ricerca di un barlume di reale che possa scaturire da questi contrarsi: si pensi, a titolo di esempio, alla scena iniziale. Il film si apre mostrando il sorgere del sole, cominciando con un’inquadratura completamente nera - contrappuntata solamente dal rumore delle fronde e dal cinguettio degli uccelli – e arrivando pian piano a svelare i profili agili e slanciati degli alberi. Comincia quindi un piano-sequenza che da un’angolazione supina si muove nella foresta, cercando di non adagiarsi mai

257 A. Tristano, Dall'Italia al MoMA: intervista al regista Frammartino, in “Linkiesta”,

https://www.linkiesta.it/it/article/2013/12/03/dallitalia-al-moma-intervista-al-regista-frammartino/18104/

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su un’inquadratura ad altezza-occhi258. Dopo un lento e preciso percorso nel sottobosco, la macchina da presa si eleva, rivelando un’apertura tra i rami degli alberi e mostrando per la prima volta un paesino immerso nella natura, i cui confini sfumano nel verde che lo avvolge. Sembra quindi che Frammartino ci suggerisca che le due realtà (quella della foresta e quella del paesino) non siano delle entità preesistenti e immutabili, ma che la loro sostanza derivi dal continuo e costante rapporto che li collega. Il divenire della costruzione umana si confronta con il divenire della natura, e nell’immagine di Frammartino questo reale si fa divenuto, si mette in posa e viene catturato dalle sue ottiche. Si pensi altresì alle inquadrature ravvicinate che mostrano particolari delle persone vestite da romiti avvolti nelle foglie e nei rami che li coprono da capo a piedi. In queste inquadrature, l’occhio vispo di uno dei personaggi così come il dorso della mano di un altro, avvolti in una veste arborea si trasformano in qualcos’altro; riattivano le memorie sedimentate del culto dei romiti, e la singola persona sparisce lasciando il posto ad una figura senza tempo, colta anch’essa tuttavia nel suo manifestarsi concreto.

L’opera di Frammartino si fa dunque testimone non solo: «dell’impossibilità di descrivere esattamente la realtà […], di non potere far altro che riprendere lo stato in cui la realtà è osservata/perturbata nel corso delle riprese»259, ma del concetto secondo il quale la realtà di per sé non è mai una sola entità fissa e indistinguibile, quanto piuttosto è il momento di incontro tra eventi che dispiegano in un continuum.

Per concludere questo percorso interpretativo di Alberi secondo una lettura deleuziana, occorre discutere di un ulteriore aspetto che caratterizza quest’opera, la quale è stata definita, in apertura di analisi, una

cine-258 Secondo l’idea non umanocentrica del cinema di Frammartino presentata in precedenza.

259 M. Bertozzi, Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, cit., p. 15.

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installazione. Senza volersi soffermare troppo sulla categorizzazione in sé, e senza voler discutere eccessivamente della natura di un prodotto anfibio come quello qui proposto, è importante porre l’attenzione sul formato finale che questo prodotto audiovisivo ha assunto. Si tratta infatti di un loop continuo, della durata di trenta minuti circa, che è stato proiettato sia in sale cinematografiche più tradizionali (e.g. il cinema Manzoni di Milano durante l’edizione 2013 del Filmmaker Festival), sia in musei come il MoMa PS1 a New York dove è stato presentato per la prima volta. Una cine-installazione quindi, un prodotto che abbraccia diverse possibilità di fruizione e di visione. Il concetto di loop è caro a Frammartino che in un passaggio di un’intervista sostiene che: «un film si dimostri vivo quando invecchia […], all’interno del film si creano degli automatismi, che innescano questo strano loop ipnotico capace di far scaturire un’energia alle immagini»260. All’interno di questo loop infinito, lo spettatore può “incontrare” il film in diverse modalità, concentrandosi su differenti parti dell’immagine e ricavando di volta in volta un nuovo rapporto con la realtà che gli si dispiega davanti.

L’opera del regista non si struttura quindi come una granitica entità, ma come un prodotto malleabile, fluido, che nel suo perdurare, nel suo divenire in quanto evento filmico, permette a diverse realtà di farsi sensibili.

Nei termini di un confronto complesso tra tensione documentale e spinta costruttiva, creativa e sperimentale, la strategia stilistica di Frammartino può essere letta come la volontà di provocare lo spettatore sul piano della percezione del reale e del suo divenire deleuziano, secondo la lezione di Pietro Montani il quale sostiene che proprio nell’interazione tra diverse forme mediali (il cinema e l’installazione visiva in questo caso) si può:

260 A. Mastrantonio, Michelangelo Frammartino, una conversazione, in “Indie-Eye”,

https://www.indie-eye.it/cinema/strana-illusione/michelangelo-frammartino-una-conversazione.html.

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«sollecitare nello spettatore una riflessione sulla irriducibile alterità del rappresentato, sul suo irriducibile differire»261.

4.5. Rä di Martino: Controfigura (2017) e il cinema come