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2. Cinema documentario e Forme sperimentali

2.2. Autori, forme, racconti: il documentario negli anni Venti e Trenta

2.2.2. Joris Ivens e il cinema politico

Nello stesso periodo in cui in Unione Sovietica prende forma il lavoro di Dziga Vertov, in Olanda comincia a operare Joris Ivens. Nato a Nijmegen il 18 novembre del 1898 da un imprenditore e fotografo olandese, Ivens, pseudonimo di George Henri Anton Ivens, si specializza in chimica fotografia prima di dedicarsi alla settima arte. Il suo esordio cinematografico,

111 Pratica tipica anche di Dziga Vertov, nessuno dei suoi lavori infatti si basa sulla pedissequa riproposizione di un testo scritto a tavolino, quanto mira ad ingaggiare uno scontro creativo con il reale dal quale esportare stralci di vita e di realtà.

112 G. Deleuze, Logique du Sens, Minuit, Parigi 1969.

Il pensiero di Deleuze riguardo alla concezione di evento è complesso e difficilmente riassumibile. Il filosofo francese propone di rivedere i concetti di essere e divenire, inserendosi in un dibattito lunghissimo che trova le sue origini nei discorsi di Parmenide e di Eraclito, intendendo definire un nuovo concetto di reale e di realtà. L’ontologia, secondo Deleuze, non va più quindi pensata come il risultato dato dalla somma tra una sostanza e gli incidenti a cui va incontro, e la grammatica non è più intesa come l’accostamento di predicato ad un sostantivo già dato in quanto tale. Questo approccio non-logico e non-ontologico sfida apertamente il pensiero comune, giungendo a definire il divenire non come un processo da contrario a contrario, ma piuttosto come un movimento continuo in cui i contrari coincidono e coesistono, attribuendo al divenire un’istanza continua, diveniente, e non istantanea. Per poter proporre e sostenere un così drastico cambio di paradigma, Deleuze propone un cambio di prospettiva che sposti il centro dell’attenzione dalla sostanza intesa aristotelicamente, quindi il sostantivo, l’entità immutabile, all’incidente, al momento di contrasto, e quindi di mediazione, dei contrari. L’accidente diventa sostanziale, e quindi diventa evento.

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con Il ponte (De Brug, 1928), Frangenti (Brangen, 1929) e soprattutto Pioggia (The Regen, 1929) avvengono

all’insegna di uno sperimentalismo visionario, il cosiddetto cinema puro, dove l’elemento di realtà viene trasfigurato in una sorta di dinamismo visivo che rammenta l’estetica futurista. Convinto assertore della lotta di classe come strumento di liberazione dalle leggi e dalle costrizioni del capitale, Ivens (un tempo soprannominato wagnerianamente l’”olandese volante”, ma noi preferiamo l’altra definizione di “cineasta errante”) non si limitò, dunque, a registrare eventi che la storia presente forniva all’osservatore o all’uomo politico, ma volle essere con la macchina da presa ovunque lo esigessero lo sforzo del lavoratore salariato o le vittime delle guerre (e non più l’uomo nell’accezione flahertiana dell’eterno scontro con la natura, avendo bene in mente il fatto che non era quest’ultima da temere, ma l’uso strumentale che di essa ne fa il potere di sfruttamento capitalistico). La cinepresa registra i fatti al tempo stesso rivelandone le dinamiche interne, come ad esempio in

Borinage (idem, 1934), realizzato insieme a Henri Storck, sulla condizione di

sfruttamento dei lavoratori delle miniere del Belgio, primo film autenticamente militante distribuito sugli schermi d’Europa insieme al film di Buñuel Terra senza pane113.

L’opera di Ivens tradisce dunque fin da subito la passione per le dinamiche sociali e per la necessita di utilizzare la macchina da presa ai fini di un impegno politico radicale. L’autore olandese vuole imprimere le sue pellicole con immagini potenti, non caratterizzate da una bellezza effimera e vuota di significato. Non c’è in Ivens una ricerca stilistica uniforme – il suo approccio alla materia filmica non è teorico come quello di Vertov, senza che questo tuttavia significhi minare il valore espressivo dei suoi film –, ma una tensione visiva che lo porta a realizzare opere dal respiro corale, universale, consapevole del potere che le immagini hanno nell’influenzare e nel guidare il popolo. Ivens è molto più interessato a costruire opere che hanno impatto sul mondo che lo circonda, piuttosto che rimanere fedele ad un’estetica predefinita; per questo, all’interno di un corpus significativo (più di quaranta film in 60 anni di carriera) si possono identificare tematiche,

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tecniche e stili differenti. Come ricorda Fantoni Minnella in un passaggio in cui accosta Dziga Vertov, Robert Flaherty e lo stesso Joris Ivens: «Se nella storia del cinema il primo rappresentò la teoria (le sue elaborazioni teoriche sopravanzarono gli esiti artistici) e il secondo la poesia ([…]l’uomo in rapporto all’elemento naturale, Ivens, con il suo cinema “militante” e, dunque, l’instancabile presenza nelle più disparate latitudini, senza dubbio incarnò la dialettica»114. La natura dialettica del cinema, in questo caso del documentario, che impone la costruzione di una relazione tra spettatore e film, tra regista e mondo, tra regista e macchina da presa, e tra macchina da presa e soggetto. Su questa relazione Ivens ha costruito i suoi percorsi visivi che, non tradendo mai la ricerca dell’autenticità e del reale, imprime le sue opere di forme sperimentali e strategie tipiche dell’avanguardia. Si pensi a questo proposito a Regen, film di 15 minuti in cui Ivens si misura con la questione del tempo e dello spazio diegetico. L’intera opera si è sviluppata nell’arco di più di due anni di lavoro, ma per tutto il processo Ivens mantiene ben salda l’idea di costruire un racconto che si articoli nel corso di una sola giornata.

L’opera si apre con riprese di Amsterdam prima che la pioggia si riversi per le strade; ma il tema dell’acqua è già presente; si vedono infatti riprese di canali e corsi d’acqua sulle cui superfici la fioca luce del sole definisce sinuosi riflessi delle case della città. Le immagini seguenti, costruite attraverso un abile montaggio che alterna i tetti delle case, con i comignoli che sbuffano flebilmente, le navi attraccate al porto e le cime degli alberi appena mosse dal vento, contribuiscono a far crescere il senso d’attesa per l’evento che ormai sembra imminente, ovvero la pioggia. La città sembra in trepidazione, eppure allo stesso tempo immobile, consapevole che sta per accadere qualcosa che non può essere evitato e a cui bisogna solamente

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arrivare preparati. E infatti la pioggia arriva, ma Ivens, con estrema maestria, non ci mostra immediatamente le gocce di pioggia, ma si sofferma sul vento, che sfida un lenzuolo steso su un filo che cerca debolmente di resistere alle sue raffiche, oppure che si infila per i vicoli costringendo i passanti ad alzare il bavero della giaccia e a calcare il cappello sulla testa, o ancora che fa convogliare enormi nuvole nere cariche di pioggia facendo volare via gli uccelli dai loro trespoli alla ricerca di un rifugio più sicuro. Il selciato di una strada comincia pian piano a bagnarsi, gocce sempre più frequenti scendono dal cielo, la pioggia è finalmente arrivata. Il ritmo del montaggio in questa sequenza si fa più rapido, più concitato, cerca di tenere il passo della pioggia che cade e dei personaggi della città che cominciano a muoversi più velocemente. Una ripresa a piombo sul manubrio di una bicicletta mostra l’uomo che la guida accelerare per giungere in un posto coperto, la finestra di una mansarda che viene chiusa in fretta e furia per evitare che la pioggia allaghi l’appartamento, la ruota di un’automobile che sfreccia sulla strada entrando nelle varie pozzanghere che incontra durante il cammino, e poi le centinaia di persone che passeggiano a piedi per la città, le quali pian piano aprono i loro ombrelli, rincorrendo le tettoie più spaziosa o i tram più vicini. Ivens decide poi di creare una sequenza in cui alterna il punto di vista della macchina da presa, da una parte riprende i cittadini muovendosi alle loro spalle – quelli che camminano per strada, coperti da capo a piedi di abiti pesanti e al riparo sotto i loro ombrelli, così come quelli al rifugio nei vagoni del tram, dei quali però sceglie di mostrare particolari quali le mani, le nuche, e gli abiti inumiditi dalla pioggia, o anche quelli che si muovono con la bicicletta, alla mercé delle intemperie e costretti a percorrere le strade evitando le pozzanghere sul loro percorso –, dall’altra sceglie progressivamente di elevare la macchina da presa, facendola scorrere sopra i tetti osservando il brulicare delle vie cittadine dall’alto, accomunando la

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sua prospettiva a quella della pioggia. Con l’aumentare dell’intensità della pioggia le riprese si fanno via via più impersonali; la macchina da presa mostra i tombini allagati ai lati della carreggiata, le grondaie attraverso cui scorrono ingenti quantità d’acqua, i finestrini dei veicoli puntellati dalle gocce e i vetri delle finestre delle case sottoposti all’incessante tamburellare della pioggia. Ad un certo punto nel cielo, ancora coperto dai nuvoloni neri, comincia ad aprirsi uno spiraglio, segno che il sereno sta tornando sulla città di Amsterdam; le gocce si fanno sempre più diradate, le persone tornano a passeggiare per le strade senza bisogno dell’ombrello, i rami degli alberi non sono più scossi dal vento e le strade tornano ad essere asciutte.

In Regen, Joris Ivens costruisce un racconto orchestrandolo come se fosse un’esperienza corale; i dettagli, i particolari e gli oggetti che vediamo non si configurano in quanto protagonisti univoci e separati della narrazione, ma concorrono a formare un universo più complesso di situazioni. Costruzioni architettoniche, cittadini in movimento per le strade, automobili, biciclette, finestre e grondaie costituiscono un universo complesso e multiforme sul quale la pioggia agisce indisturbata. La macchina da presa inclinata verso il basso riprende una coltre di ombrelli che si muove isterica, rendendo le singole persone una massa indistinta, deumanizzando la persona. L’unica versa protagonista dell’opera resta la pioggia che, come la cinepresa di Ivens, osserva dall’alto la città e si riversa su di essa. In quest’ottica non è possibile ingabbiare il film nella stretta logica del documentare, ma risulta neccessario scardinare i confini della narrazione documentaria classica. Ivens opera una scelta audace, destrutturando il piano della temporalità attraverso il montaggio, per poi ricostruirlo in seconda battuta affidandogli un nuovo portato di senso, affidando alle immagini l’esperienza della pioggia, piuttosto che un semplice resoconto visivo. Regen ha in nuce molti elementi del cinema moderno, anticipando il dibattito sull’alienazione del

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cittadino e sulla spersonalizzazione dell’uomo nella società moderna capitalista; la pioggia che cade dal cielo fa perdere i tratti distintivi delle singole persone, assottigliando le loro differenze, appiattendoli sulla superficie piatta e indistinta della metropoli contemporanea. Un ulteriore elemento di interesse nella pellicola di Ivens è l’ombra che nelle immagini del regista olandese si eleva ad entità agente nello spazio scenico; allungandosi, deformandosi e assottigliandosi modella i corpi e gli oggetti che incontra giungendo, in alcune immagini, a riempire la quasi totalità del fotogramma, lasciando alla luce un esiguo spazio di manovra, come se Ivens stesse cercando di intrappolare i deboli raggi del sole negli angoli della città.

2.2.3. John Grierson e l’istituzionalizzazione del