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materia viva

4. Figure della crisi: forme dell’anacronismo

4.5. Rä di Martino: Controfigura (2017) e il cinema come universo complesso

4.5.1. Remake? Documentario? Backstage?

Il lavoro di Rä di Martino è infatti un tentativo di riconfigurazione dei parametri entro cui la forma cinematografica può muoversi, operando ai confini tra il documentario e la finizione, tra la narrazione e la ricerca stilistica, tra il cinema stesso e le altre arti. La principale linea narrativa dell’opera, quella appunto che segue l’avventura di Ned Merril attraverso le piscine, fatica a ritagliarsi un ruolo predominante all’interno dell’opera. La sinossi del film, operazione non facile per un’opera di questo calibro, sul sito della Dugong Films, casa di produzione dell’opera recita: «Una piccola

262 M. Bordino, Venezia 74: Controfigura, documentario e fiction per Rä di Martino. L’intervista, Artribune.com, 9 settembre 2017.

263 A titolo di esempio, la mostra fotografica No More Stars, realizzata nel 2010 si propone di indagare i set cinematografici costruiti nel deserto del Marocco utilizzati per le riprese della saga di Star Wars e successivamente abbandonati.

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troupe cinematografica si aggira per Marrakech e i deserti che la circondano. Sono in corso i sopralluoghi per il remake di un film americano in cui un uomo torna a casa a nuoto, attraversando tutte le case della contea, piscina dopo piscina. Corrado è la controfigura che viene usata per testare le inquadrature, location e piscine dove si muoverà l’attore principale»264. Lo scenario americano dell’opera originale si trasforma in quello nordafricano della città marocchina, e sullo sfondo della città si muovono Filippo Timi, erede del ruolo di Burt Lancaster e la sua controfigura, il suo doppio cinematografico Corrado (il quale nel film sarà balbuziente, come Filippo Timi nella vita di tutti i giorni), interpretato dall’artista e fotografo Corrado Sassi. È quest’ultimo però che preverrà all’interno del film – diventando di fatto il vero protagonista – dopo un precorso di ricerca interiore che lo porterà a mettere in discussione la sua natura di attore che presta il corpo per il lavoro di altri attori, calandosi sempre più nel corpo di quel personaggio che non avrebbe dovuto interpretare e guadagnandosi spazio nelle inquadrature pensate per un’altra persona. Da un lato quindi il percorso del protagonista, che nuota attraverso le piscine per giungere a una meta precisa, dall’altro il percorso di Corrado, che attraversa le inquadrature quasi in maniera furtiva e quasi impacciata, senza sapere dove sta andando precisamente265. Tuttavia, la meta che Ned-Filippo Timi-Burt Lancaster deve raggiungere lo spettatore non sarà mai mostrata, il personaggio non di questo film non si dirige da nessuna parte; durante tutte le scene in cui il è in scena non si vede mai all’orizzonte la casa dove lo attende la moglie, ma lo osserviamo ripetere in sequenze alternate le stesse azioni compiute da Corrado. Ned dunque è un personaggio incatenato ad una storia che non ha più sbocchi, che non

264 Il testo è tratto dalla scheda del film come appare sul sito della casa di produzione Dugong Films http://www.dugong.it/project/controfigura-2/

265 Si noti che nella lingua inglese il termine controfigura si chiama stand-in, enfatizzando dunque la dimensione di standing, ovvero di “stare”, “essere fermo”, annullando il concetto di movimento e, dunque, di direzione da seguire.

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conduce da nessuna parte; è paralizzato nella finzione del film e di conseguenza nella finzione di un cinema che ha esaurito la sua spinta creativa, che non riesce più a essere un modello di riferimento vivo e attuale a cui guardare, ma piuttosto un labirinto di forme da cui si può scappare solo se si riescono a trovare altre strade, anche più caotiche, come quella intrapresa da Rä di Martino. Scrive Alessio Galbiati a proposito dell’opera: «Del non-film non-finito di Martino giungono a noi sullo schermo frammenti caotici, sequenze copia dell’originale, ciak interrotti, spaesamenti attoriali, crisi esistenziali e crolli» e prosegue: «nel quadro dell’inquadratura irrompono tutte quelle figure solitamente dietro la macchina da presa, a partire dalla stessa regista e poi il produttore […], i macchinisti e tutta quell’umanità varia che ruota attorno al farsi di un film»266.

Corrado, nel suo percorso confuso e incerto alla conquista del film e del suo spazio nelle inquadrature, non riesce però mai ad arrivare a recitare le scene chiave della storia di riferimento. In particolare, di Martino ricrea con Filippo Timi la scena in cui Ned incontra una sua vecchia fiamma e si ferma a discutere con lei rievocando nostalgicamente i vecchi tempi e le avventure passate. Nella pellicola originale il ruolo di Shirley, l’altra donna rispetto alla moglie di Ned, è interpretato da Janice Rule, attrice molto conosciuta negli anni ’50 e ’60; la regista romana quindi sceglie di affidarsi a un’altra diva del cinema italiano, chiamando sul set Valeria Golino. Come successo per il Ned di Filippo Timi però, anche il personaggio della Golino sembra incastonato nel giardino lussureggiante in cui si trova la sua piscina, immobile sul lettino su cui è sdraiato, condannato perennemente a ripetere le proprie battute e i propri ciack senza la possibilità di evadere.

266 A. Galbiati, “Controfigura” di Rä di Martino e il non-finito esistenziale, RapportoConfidenziale.com, pubblicato il 04 dicembre 2017.

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Un ulteriore livello di costruzione di questa complessa opera cinematografia riguarda la rappresentazione della città in cui di Martino fa muovere la sua umanità. Marrakesh non è frutto di una scelta casuale, ma luogo denso di significati. Innanzitutto è una città che la regista conosce molto bene, avendoci lavorato già in precedenza, in secondo luogo è un spazio che richiama numerosi aspetti della location in cui The Swimmer era ambientato, ovvero Los Angeles e lo stato della California in generale, un luogo di confine, costruito al limitare del deserto e terra dei sogni per eccellenza, in ultimo è una città che vive di contraddizioni interne, territorio ideale per un’artista che vuole realizzare un’opera che si nutre di immagini fuori norma e apparentemente incongruenti. Marrakech come Los Angeles sorge ai confini del deserto, se già la città degli angeli rivela ad un primo sguardo il contrasto tra l’artificiosità urbana della metropoli e la desolazione naturale del panorama circostante, nella città marocchina – fondamentalmente priva di tutti quei sobborghi e piccoli quartieri che si estendono intorno a Los Angeles estendendone i confini – il confine è ancora più netto. Non è, tuttavia, solamente un confine territoriale, ma anche economico, di classe. Il contrasto maggiore si può trovare tra la povertà che inonda le strade e i suq cittadini, e lo splendore opulente delle ville e delle piscine in cui si sono ritirati i ricchi borghesi provenienti dalla Francia, dagli Stati Uniti e da tutto il mondo. E non è un caso che di Martino scelga di rappresentare queste due realtà in maniera differenti. Le riprese in cui Corrado corre per le vie e per le piscine comunali della città sono girate senza un’elaborazione estetica complessa, facendo affidamento sul portato sensoriale trasmesso dal “protagonista” e dallo sfondo in cui si muove; mentre le riprese in cui si mette in scena il remake vero e proprio del film, con protagonisti Valeria Golino e Filippo Timi (o le loro controparti arabe, a cui di Martino fa “provare” la scena, interpretate da Younes Bouab e Nadia Kounda, due stelle

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del cinema magrebino), sono incorniciate da una fotografia delicata, quasi onirica, e proprio per questo tradiscono l’artificiosità dell’operazione cinematografica nel loro differenziarsi così tanto dalle scene più vicine alla forma documentaria.

L’universo che quest’opera introduce è un sistema complesso di sovrapposizioni, contrasti, anacronismi e livelli di senso, che proprio da queste disfunzionalità riesce a trarre la forza per farsi racconto autentico di una realtà, testimone del reale. Non solo per tutto ciò che concerne il dietro le quinte del mondo cinematografico e quindi la narrazione del backstage di questo film, ma in senso più ampio lavora con le strutture stesse del dispositivo cinema, aprendolo, destrutturandolo e riassemblando i pezzi secondo nuove forme e nuove modalità. Come per altre opere di cui si è parlato, risulta evidente l’approccio della regista al dispositivo, inteso come medium in crisi, dai confini instabili e non più chiusi, ma aperti e disponibili a essere scardinati. In quest’ottica e in questo caso specifico è l’acqua che funge da veicolo attraverso in quale osservare le cose sotto un'altra prospettiva; l’acqua in cui, nelle scene iniziali, Filippo Timi si “trasforma” in Corrado Sassi, nel momento in cui vediamo l’attore tuffarsi in una piscina ma a emergere dal lato opposto è la sua controfigura; l’acqua che bagna lo stesso Timi, senza però lasciare tracce evidenti, infatti nella maggior parte delle sue scene, appena esce dall’acqua l’attore è sempre asciutto, simbolo della sua inefficacia a lasciare un segno e a liberarsi da quella condizione di eterno personaggio intrappolato; e infine l’acqua come canale attraverso cui Corrado riesce a evadere nell’ultima scena del film, in cui lo si vede correre nel deserto e poi nuotare in direzione di una grande diga (non più una piscina, non più uno specchio d’acqua controllato e sicuro) per poi superarla e avventurarsi nel mare, in territori inesplorati e poco sicuri, ma d'altronde più interessanti e stimolanti. Corrado alla fine si libera da quel ruolo di

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controfigura, di meta attore, di corpo al servizio di un’altra persona, scegliendo di perseguire strade diverse; e così fa questo film, che parte da un complesso di regole definito (il remake, il documentario, il backstage) per poi avventurarsi su strade non battute, sperimentando alla ricerca di una nuova forma che possa rendere autentica la rappresentazione che offre.

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Conclusioni

Il percorso di ricerca che si è voluto tracciare in questo lavoro necessita a questo punto una definizione finale. È stato osservato come la forma cinematografica si trovi in una condizione di riorganizzazione generale, un mutamento che si è indotti a leggere come una crisi, ovvero un momento di particolare incertezza. Il dispositivo cinematografico è costantemente stimolato dagli altri media, dalla sovrapposizione inevitabile che le tecnologie digitali consentono e in generale dalla proliferazione delle immagini, le quali sono diventate inestricabilmente connesse al tessuto stesso del reale. In questa situazione critica, tutti i dispositivi diventano fluidi e valicano i confini che separano le forme di rappresentazione; il cinema, le arti visive, la videoarte e le pratiche del web hanno aperto un dialogo che non può rimanere inosservato. Tra le molte modalità con cui gli artisti possono reagire a questa crisi, il documentario – che com’è stato ampiamente illustrato nelle pagine precedenti non risulta essere un genere tra i tanti, ma appunto una modalità, quindi un approccio documentario – si candida come quella che può affrontare al meglio le problematiche della rappresentazione del reale. Questo certamente in virtù delle sue capacità di dialogare con le altre arti e di produrre una visione totale, sintomo di una libertà data dal suo non essere istituzionalizzato e strutturato (almeno questo è il caso italiano, analizzato in questo lavoro, dove non esiste un’infrastruttura stabile per il documentario).

La libertà di cui gode la forma documentaria, non incanalata in rigide strutture produttive ma capace di fiorire in contesti variegati, è certamente

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un sintomo della contemporaneità mediale, ma è anche una caratteristica che accompagna e ha accompagnato il documentario per tutto il corso della sua evoluzione. Lo si è visto attraverso l’analisi dei contribuiti di Bill Nichols e Malte Hagener, in cui l’origine di questa forma è da rintracciare nel momento di dialogo e contaminazione con le frange più sperimentali dell’avanguardia storica negli anni Venti e Trenta; lo si è visto anche attraverso le figure di autori che nel Novecento hanno inteso il documentario non come uno specchio del reale, ma come un luogo dove misurare la distanza fra la realtà e le sue infinite rappresentazioni; lo si è visto infine proprio nella contemporaneità, dove i nuovi autori, operando al confine tra il cinema, la videoarte, il web e le arti visive, reagiscono (anche in maniera radicale) alla crisi in cui si trovano.

Dunque, la temporalità “critica” che è stata discussa in queste pagine e attraverso i film analizzati, rivela il sintomo più evidente di uno spazio di collisione tra forme documentarie e pratiche sperimentali. Ciò che si è potuto constatare è infatti una tendenza, che siamo indotti a identificare come una zona di interferenza e di mescolanza tra pratiche documentarie e sperimentazioni artistiche, dove al centro prende forma una negoziazione tra la messa in forma del reale, la sua registrazione e la sua testimonianza, insieme allo statuto del medium cinematografico che viene forzato (hackerato) e verificato all’estremo delle sue condizioni d’esistenza e operatività. È un cinema che, in questo senso, mette in forma prima di tutto una crisi produttiva e costruttiva del documentario e delle sue matrici e sovrastrutture materiali, proprio nel luogo della sua iscrizione e nello “spazio” della sua operazione, ovvero il tempo.

Il percorso che si è delineato identifica una strada fruttuosa per il tentativo di dare conto delle modalità di rappresentazione della forma documentaria contemporanea, attraverso anche le sue interferenze con le

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frange più sperimentali e radicali dell’arte. Esso prende forma e si struttura proprio a partire dalle opere che sono state analizzate in questo lavoro, con la consapevolezza che queste rappresentano casi esemplari ma non esaustivi della sperimentazione nel documentario contemporaneo italiano.

Risulta oltremodo necessario sottolineare come la ricerca sperimentale applicata alla metodologia testimoniale documentaria individuata in queste pagine non vuole essere elevata a teoria unificatrice di una tendenza ben definita e ben delineata. Non si è voluto infatti descrivere questi fenomeni inserendoli forzatamente in una cornice unitaria, non si vuole pensare che oggi in Italia esistano delle pratiche ispirate a una sorta di manifesto sperimentale, associabili a una scuola o ad un movimento artistico come invece è più logico fare per le avanguardie storiche degli anni Venti e Trenta di cui parla Bill Nichols nella sua ricerca delle origini del documentario, o come si possono descrivere i Cineguf, i Gruppi Universitari Fascisti, in cui la sperimentazione aveva dei confini ben precisi relativi alla necessità di conoscere e maneggiare il dispositivo cinematografico, facendone esperienza.

Il documentario italiano contemporaneo si muove piuttosto in forma di reazione alla situazione attuale; sembra piuttosto manifestare – secondo l’ipotesi che si è voluta dimostrare ed è stata evidenziata – una conformazione radicale. Questa si staglia al crocevia di una riflessione critica, necessaria all’interno del clima di riconfigurazione del cinema nel contesto contemporaneo, sul ruolo della materialità dei dispositivi di mediazione (alla luce dei processi di migrazione e produzione dell’immagine dall’analogico al digitale) e di testimonianza, sulla funzione dello scambio creativo e spesso osmotico tra media e materialità differenti (insistendo sui “sedimenti” e gli scarti che le logiche di intermedialità producono nella

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messa in forma del reale), sulla localizzazione267 del medium cinematografico nel contesto mediale, sulle potenzialità della forzatura dei confini disciplinari (tra cinema, arte, architettura, tecnica militare ecc.) e sulle implicazioni riflessive e auto-riflessive che l’iscrizione del reale, alla luce di un tale scenario, produce.

267 Malte Hagener, Where is Cinema (Today). The Cinema in the Age of Media Immanence, “Cinema & Cie”, 11, 2008, p. 16.

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APPARATI

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