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Alla ribalta i problemi della successione a Franco

LA «QUESTIONE IBERICA» E LA NASCITA DEI GRUPPI DEMOCRISTIANI ATTRAVERSO LE PAGINE DELLA

4. Alla ribalta i problemi della successione a Franco

Quello che più sembrava preoccupare l’opinione pubblica italiana, non era tanto il residuo di dittatura, rimasto dopo le varie leggi liberalizzatrici, quanto piuttosto l’incertezza del futuro. La prima domanda che ci si poneva fatalmente era «dopo Franco, che succederà?»; le previsioni basate sugli avvenimenti dell’Italia post-fascista sembravano non convincere nessuno soprattutto alla luce delle differenze fra i due regimi dittatoriali:

Chi volesse applicare al regime spagnolo lo schema storico del fascismo italiano rimarrebbe deluso. Il sistema franchista è un regime senza cartoline precetto, senza fiduciari, senza capifabbricato, senza Ovra, senza velleità imperialistiche e guerrafondaie: il Riff, sanguinosamente conteso negli anni ’20 agli insorti di Abd el Krim, il Riff caro alla giovinezza di tanti generali spagnoli, da Franco al vicepresidente del governo, Muñoz Grandes, è stato consegnato al Marocco, non appena dichiarata l’indipendenza, senza sparare un colpo di fucile; la politica spagnola nei territori africani ancora occupati è un modello di realistica avvedutezza.

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Anche nella tolleranza il regime di Franco si distingue da quello mussoliniano. I caffè sono pieni di oppositori che da anni fanno e disfanno il regime di domani, costituiscono nuovi partiti, che spesso prendono il nome proprio del locale dove si riuniscono i principali affiliati. Persino nei confronti dei ceti operai, prima assoggettati al pesante controllo della polizia assai più dura verso un mondo proletario reputato per principio avverso al regime che verso la dissidenza borghese, la vigilanza si è progressivamente attenuata. Lo «jus murmurandi» è stato poi sempre ammesso.

Il regime non è mai entrato nella sfera privata individuale. Le organizzazioni giovanili hanno sempre avuto un carattere volontario. Nessun bambino innocente è stato costretto ad indossare la divisa del «figlio della lupa» o del «balilla moschettiere» e a sfilare marzialmente al ritmo di tamburi e fanfare.

Il tentativo della Falange di adattare alla Spagna un regime di tipo fascista, di fare indossare la camicia azzurra a tutti gli spagnoli è fallito sul nascere per volontà di Franco. Il «Caudillo» ha liquidato i capi falangisti con una energia non minore di quella impiegata da Hitler nell’eliminare le S.A. I quadri dirigenti sopravvissuti alle stragi dei primi giorni della guerra civile son stati fin dal 1937, dall’epoca del famoso decreto di unificazione di tutte le forze politiche schieratesi con Franco, privati di ogni autorità. […] Tagliando le unghie alla Falange il generale Franco rinunciò a dare al regime un assetto simile a quello dei paesi fascisti dell’Europa centrale, quell’organizzazione, quella scenografia di massa che caratterizzava i fascismi a Roma e a Berlino. Venne fuori invece una grossa patacca alla Horthy: una coalizione eterogenea di monarchici, di liberali, di militari, di cattolici di destra e persino di massoni. Accadde insomma come se in Italia Mussolini avesse eliminato i Balbo, i Bianchi, i Rossoni e avesse governato con una compagine gremita di ex democratici costituzionali, di servitori leali della Corona, di transfughi del Partito popolare 216.

L’abilità di Franco risiedette nel non aver mai «scaricato» nessuna delle équipe entrate nella coalizione del ’36: tutte usufruirono di portafogli ministeriali o contentini nel sotto governo. Il «Caudillo» si limitò di volta in volta a pescare nei diversi gruppi gli uomini più adatti, sostituendoli poi con uomini della stessa provenienza, in modo da neutralizzare, giocando sagacemente tra i contrasti e le rivalità personali esistenti in ogni schieramento, qualunque tendenza centrifuga:

Questa integrazione permanente di forze politiche eterogenee nel sistema è stata la forza principale di Franco che è riuscito in tal modo ad impedire la formazione di una opposizione all’interno del regime quindi il suo sfaldamento. […] Mantenere insieme una colazione socialmente e politicamente eterogenea, un irrequieto coacervo di codini arrabbiati e di tecnocrati moderni, di controrivoluzionari alla Mauras e di filo hitleriani, di nostalgici dell’Inquisizione e di anticlericali più o meno confessi non era un compito facile. Il «Caudillo» c’è riuscito con due strumenti: l’immobilismo e la spoliticizzazione. Consapevole che un conglomerato così raccogliticcio si sarebbe disgregato al primo contatto con delle precise scelte politiche, egli ha evitato di sottoporlo a prove difficili. A tal fine egli ha aggirato qualunque problema suscettibile di provocare dissensi all’interno del fronte governativo. Le grandi questioni nazionali sono state rinviate a tempi migliori od

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affrontate in un modo volutamente equivoco. La riforma agraria, richiesta a gran voce dal mondo cattolico, si è diluita in una serie di riforme locali e parziali, che hanno lasciate intatte le strutture arcaiche della grande proprietà fondiaria. […] L’accantonamento dei grandi problemi nazionali ha avuto come contropartita positiva l’abbandono di qualunque avventura in politica estera. La ripugnanza verso ogni rischio diplomatico è servita al generalissimo per giustificare di fronte alle masse il proprio regime. Pensiamo alle recriminazioni di tanti italiani, alla frase tante volte udita «se Mussolini non fosse entrato in guerra», ebbene Franco non è entrato in guerra, acquisendo così di fronte ai propri concittadini un merito: quello di aver dato loro la pace, una pace statica, letargica, ma pur sempre «la pace»217.

In questa pace si cullò a lungo la Spagna. La vita politica fu ridotta ad un nucleo puramente amministrativo; il Governo si trasformò in una camera di compensazione di interessi economici, agricoli o industriali. La stampa, rinunciando alla sua missione di orientamento politico, si lanciò nella rivalutazione di un nazionalismo provinciale, fondato più sul ricco patrimonio folkloristico nazionale che su velleità imperialistiche:

Ad ogni manifestazione di malcontento, ad ogni incrinatura del fronte governativo si è reagito ricordando i tempi neri della Repubblica e della guerra civile. Gli spagnoli sono stati costretti a guardarsi nello specchio deformante dell’età del furore e quindi invitati a gioire per la pace conseguita. Incarnatosi orleanisticamente in uno Stato amministrativo, severo ma non seccatore, che chiude un occhio sulle dichiarazioni tributarie, che vive e lascia vivere e che soprattutto lascia divertire (cosa essenziale in un paese latino) il regime poneva le premesse di una durata indefinita.

Ma lo sviluppo economico degli anni ’60, imprimendo una scossa al paese, ha ormai reso impossibile l’immobilismo del regime, diventato l’abito troppo stretto e troppo corto di un adolescente robusto. A poco a poco in diverse zone, quelle in cui prevalgono le nuove generazioni, si sono formate delle isole, le regioni più economicamente avanzate, l’università, il mondo operaio, il giovane clero in cui il controllo del regime è sempre più fievole218.

Ci si interrogava svariate volte sul dopo Franco, facendo varie congetture: da combinazioni tra tecnocrazia e esercito o tra sindacati ed esercito a quella della saldatura tra tecnocrati e l’opposizione più moderata:

Anzitutto il Caudillo non può trasmettere a nessuno dei collaboratori il carisma di legittimità conferitogli da una guerra vittoriosa. Nessuno dei capi militari che lo circondano possiede il suo prestigio. Nessuno di essi è in grado di proseguire il franchismo in quel ruolo di arbitrato autonomo ed assoluto che ne ha rappresentato l’essenza più intima. Ognuno di essi sarebbe totalmente condizionato dalle forze che ne favorirebbero la scalata al potere. La reggenza non eviterebbe dunque il trapasso del franchismo: essa aprirebbe le porte ad un 217

Ibidem. 218

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nuovo regime politico puramente militare. L’isolamento di un simile sistema governativo, che non avrebbe nessuna delle giustificazioni storiche del franchismo, potrebbe essere rotto da una demagogia di tipo nasserista o da un tentativo presidenzialista di tipo gollista. […] Ammesso che l’esercito sappia mantenersi compatto, i pretoriani trovano sulla loro strada due limiti inevitabili: la nuova classe dello sviluppo ossia i tecnocrati, i sindacati ossia la classe operaia. L’intervento militare può dar luogo solo a due combinazioni: tecnocrazia+ esercito=gollismo; sindacati+esercito=peronismo o nasserismo.

Resta la soluzione europea, un esercito ricondotto alla sua vocazione professionale nel quadro di una società democratica e pluralista. Purtroppo le Forze Armate spagnole, sono per ora tra le aree sociali meno europeizzate del paese219-

Tra la fine degli anni Sessanta e il 1975, anno della morte di Franco, si consumò un lento ma inarrestabile sgretolamento del regime. Le due tendenze che si evidenziarono con il nome di continuismo – sostanziale immobilità – e aperturismo – a indicare un riformismo controllato e moderato – acuirono i contrasti e le contraddizioni all’interno della compagine governativa. All’incalzare dell’opposizione e alla maturazione del processo di critica al regime in numerosi settori, Franco rispose con misure repressive che ebbero l’unico effetto di accelerare la saldatura tra rivendicazioni sociali e obiettivi politici:

Il regime sta rantolando. E il suo capo, il caudillo, rinchiuso nella residenza del Pardo, sulla collina di Madrid, sembra già fuori dal mondo. Si fa vedere sempre meno; da qualche anno diserta perfino la Plaza de

Toros. E di tanto in tanto corrono voci allarmanti sulla sua salute: l’arteriosclerosi progredisce e lo

condiziona terribilmente. Dicono che orami si interessa di poche cose: è l’elite del potere, che lui ha messo assieme in trenta anni di regno, che ora stringe in pugno le redini della Spagna. Franco è tranquillo: quest’elite non lo tradirà perché la sua forza è nel regime; esiste in quanto c’è il regime. Ed essa interpreta fedelmente il pensiero del generalissimo: la sua avversione per i partiti politici, per i liberi sindacati e per la libera stampa. Così il regime che rantola, sa ancora usare, come ai bei tempi, il pugno di ferro. I puntelli del regime continuano ad essere la censura, la spoliticizzazione, l’autoritarismo gerarchico, le repressioni. Tutto questo impedisce di scorgere una prospettiva futura. Eppure il momento del passaggio non può essere lontano. È vero, lo si dice da tempo: sono anni che ci si preoccupa dell’avvenire istituzionale della Spagna. Ed è chiaro, via via che passa il tempo, il problema assume un’importanza maggiore. […] Ma il paese quale soluzione vorrebbe? È l’interrogativo che appassiona. Le tendenze più diffuse possono ridursi a tre filoni: i lealisti, sono coloro che sostengono lo status quo; c’è poi il fronte degli innovatori monarchici, liberali e democristiani. Vi aderiscono, in numero sempre maggiore, soprattutto elementi della nuova borghesia del paese, uomini d’affari, commercianti. Sostengono la necessità vitale che la Spagna entri a far parte della Comunità Europea e sanno che il carattere autoritario del regime attuale rappresenta il maggior ostacolo220

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L. Vasto, Tecnocrati e sindacati tallonano i pretoriani, La Discussione, gennaio 1968. 220

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L’inizio della crisi del regime franchista diventò particolarmente evidente dopo la formazione del gabinetto monocolore tecnocratico del 1969 che venne accolta come una prova della vittoria dei tecnocrati dell’Opus Dei nei confronti delle altre «famiglie»

Rimpasto al vertice del governo spagnolo, non di ordinaria amministrazione e da ritenere il più importante cambio nei governi franchisti succedutisi dal 1938. Diciamo subito che l’importanza della crisi crediamo di riscontrarla in due fatti: 1) la crisi non è stata voluta e portata avanti da Franco. 2) per la prima volta ci troviamo di fronte ad un governo monocolore o quasi, cioè un governo nel quale si vede chiaramente la supremazia di un gruppo sugli altri, che tradizionalmente hanno integrato i governi di Franco. Dalla crisi esce ormai consolidato il gruppo di tecnocrati dell’Opus Dei che si raccolgono intorno al ministro del piano di sviluppo Laureano López Rodó. […] Con ciò non vogliamo dire che i tecnocrati di López Rodó siano riusciti ad imporsi su Franco: no, semplicemente che lo hanno manovrato a piacimento. È in fondo la fine di un dittatore che ha sempre governato sfruttando le divisioni e le contrapposizioni all’interno del suo regime. Anzi, Franco è stato sempre abile nel frenare, nel passato, qualsiasi eccessiva crescita di importanza di qualunque gruppo. Movimento, Opus, Propagandisti sono stati fino a ieri una specie di bussolotti che il dittatore collocava a piacimento. Dicevo fino a ieri, ma forse sarebbe più corretto dire fino all’altro ieri. I podromi, infatti, della vittoria tecnocratica sono da ricercarsi nell’operazione condotta felicemente nell’estate scorsa: mi riferisco alla nomina di Juan Carlos ad erede della corona spagnola. Quello fu il primo passo, poi è venuto il definitivo. […] Quello che è certo è che oggi si assiste per la prima volta in Spagna, dai tempi della guerra civile, al consolidarsi di un’oligarchia omogenea che di fatto prende le redini del governo e si prepara a egemonizzare il post franchismo, che l’età del dittatore non fa supporre troppo lontana221.

Il post-franchismo era dunque già cominciato:

Il dittatore ha fallito, in quello che è stato, forse, il suo sogno più ambizioso: dare alla Spagna un assetto politico, istituzionale che rimanesse tale e quale, nella sostanza, anche dopo la sua morte. Perfino i legittimisti più accesi non hanno il minimo dubbio: quando Franco non ci sarà più ogni soluzione di governo diverrà possibile nel paese, ed è difficile capire quale potrà prevalere. Un’altra costante di tutte le dittature sia di destra, sia di sinistra: quando cadono o si esauriscono o scompare il «capo» resta lo stesso vuoto che c’era nel momento in cui sorsero: resta insoluto, drammaticamente spesso, il problema delle istituzioni. È una logica spietata: in Spagna sono passati trentun’anni dall’alzamiento, giova ripeterlo; e Franco ha cercato di risolvere il problema della successione, non soltanto adesso che è vecchio e malato: la restaurazione monarchica risale all’immediato dopoguerra, al 1946. Poi, l’anno passato, ha preso due iniziative che vennero definite fondamentali per il futuro assetto del paese, della Spagna senza Franco: ha nominato re Juan Carlos e ha formato un nuovo governo in cui prevalgono i quarantenni, non compromessi con la guerra civile, ideologicamente scoloriti, efficienti sul piano tecnico: la scalata dei tecnocrati, è stato osservato. Ed ecco la Spagna di domani, secondo l’ottica tutta particolare del generalissimo. Un monarca dotato di poteri

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vastissimi; un governo che faccia poca politica, che continui anzi a smorzare i fermenti politici e che in compenso amministri: lo stato che si configura come una società per azioni. Infine, lo stesso partito unico che c’è ora: il Movimiento nacional, che è tutto tranne un partito, perché attraverso gli anni Franco lo ha spoliticizzato; lo ha definito null’altro che una vaga «comnion de todos los españoles». Dunque, secondo il dittatore, il futuro dovrebbe innestarsi nel presente, senza scosse, senza sommovimenti. Presunzione o illusione? Dicevo che nessuno crede a questo futuro: sembra improbabile che vi creda lo stesso generalissimo […]222.

La dittatura era stata legittimata dalla vittoria in una guerra civile ed era stata amministrata per decenni da una coalizione di militari, falangisti e cattolici: Forze armate, Movimento e Chiesa avevano fornito il personale politico. Prendere le distanze da quelle origini per rifondare alla fine degli anni Sessanta una legittimità basata sull’efficienza, sulle opere pubbliche e sull’amministrazione, vale a dire su uno Stato governato da un’alta burocrazia sostenuta dal potere personale di Franco, rappresentava una contraddizione; Nel dicembre 1969, a un pranzo a cui parteciparono Fraga Iribarne, Nieto Antúnez, Solís e l’ex ministro dell’Agricoltura, Adolfo Díaz Ambrona, venne fatta una battuta ironica sul ruolo limitato che Franco aveva avuto nella crisi, battuta che poi prese a circolare e che suonava così: «Al tempo di Franco non sarebbero mai successe cose del genere»223. Nel giro di un mese, un Franco lacrimoso insinuò con Fraga Irribarne che il rimpasto era stato fatto contro la sua volontà

A trentaquattro anni di distanza la giovane borghesia franchista del ’36 ha realizzato la rivoluzione industriale, riavvicinando la Spagna all’Europa. La vecchia coalizione di destra del ’36 che Franco aveva tenuto insieme con una sagacia e con un’abilità da Presidente del Consiglio d’Amministrazione di una banca londinese si è dissolta. La falange non esiste praticamente più, rinsecchita nelle sovrastrutture burocratiche. Le camicie bianche hanno sostituito le camicie azzurre. I monarchici dei due rami si sono neutralizzati a vicenda. Il giovane Principe di Spagna, per quanto legittimo erede del ramo Alfonsino, sarà il re di una monarchia ben distinta da quella vagheggiata dai realisti delle due sponde. Restano i cattolici: i popolari di Gil Robles sono divisi in frammenti inaspriti dall’illegalità, la nuova generazione cattolica offre al governo i suoi López Rodó, i suoi López Bravo, i suoi Silva. La generazione del’36 è quasi scomparsa, più di metà della Spagna è nata dopo la guerra civile, i diversi ministri erano bambini a quell’epoca. Il nuovo governo è l’espressione omogenea di quella «tecnocrazia cristiana» che si avvia ad essere la variante iberica della tecnocrazia gollista o post-gollista.

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Nella Spagna degli anni Settanta le speranze e le incognite dell’Italia ’45, La Discussione, 20-27 dicembre 1970.

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La Spagna spaventosamente viva del ’36 è rimasta ingessata per decenni, si è svincolata lentamente negli anni ’60 dalle strutture repressive, si presenta ufficialmente disinfettata ed asettica. Sostanzialmente ha la sua contestazione universitaria a Madrid e Barcellona, ha i suoi fremiti postconciliari, ha anche il suo piccolo «autunno caldo» nelle Asturie. Per ora sono fenomeni solo di sfondo. Ciò che conta è che Franco è da 34 anni al potere (da 31 su tutta la Spagna), proponendo una revisione generale dei giudizi e delle valutazioni. Il Franco della guerra civile appartiene alla storia. Il Franco al potere nell’anno di grazia 1970 non ha nulla del leader armato è un Guizot, o l’incarnazione moderna di un Guizot un Pompidou, con i suoi tecnocrati, con i suoi calcolati irrigidimenti, le sue calcolate tolleranze224.

Tramontato orami il mito del miliziano in esilio, superati dalla storia i vecchi partiti eredi della sfortunata esperienza repubblicana, venne profilandosi una moderna e coraggiosa alternativa al sistema e al malessere delle fazioni escluse dalla nuova ripartizione del potere venne ad aggiungersi il maggiore attivismo delle diverse opposizioni antiregime. Ma tutti i progetti di aperturismo rimasero praticamente congelati a causa dell’atteggiamento di Franco di volersi impegnare senza limiti in una sorda lotta per continuare a gestire il potere. Nel messaggio di fine anno del 30 dicembre 1969 il Caudillo apparve fiducioso e, ricorrendo a una metafora nautica che avrebbe impiegato infinite volte negli anni del tramonto, dichiarò: «Todo ha quedado atado, y bien atado». In realtà gli ormeggi non erano poi così solidi: nelle università, nelle fabbriche e nelle varie regioni continuava a crescere un’opposizione di tipo radicale. Fu, in seguito, la celebrazione a Burgos di un consiglio di guerra contro i membri dell’Eta a portare il governo sull’orlo del collasso ed ha rivelarne tutte le contraddizione:

È legittimo chiedersi se il processo di Burgos contro i 16 indipendentisti baschi dell’ETA fa parte della lotta fra i due gruppi che si disputano l’eredità del morente potere di Franco o non è invece l’inizio di una svolta in senso autoritario a prova di una situazione mutata e paradossalmente sfuggita anche al controllo stesso del Caudillo. […] Uno strano processo questo che è la sintesi di tutte le contraddizioni e le debolezze dello Stato franchista225.

Il regime e il suo capo, seppur moribondi, non erano dunque ancora crollati. L’irrigidimento venne confermato all’inizio del 1975 con la promulgazione dello stato di emergenza nel Paese basco e il sequestro di numerosi giornalisti che avevano trasgredito le libertà concesse. Nel settembre 1975 il secondo processo di Burgos con la condanna a morte di tre terroristi dell’Eta e del Frap sottolineò come il franchismo della fine –

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F. Mazzetti, La «Rivoluzione» in camicia bianca, La Discussione, 28 febbraio 1970. 225

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indifferente a un vasto movimento d’opinione internazionale contrario – avesse ritrovato quel volto crudele che alcuni credevano dimenticato:

La violenza di un regime moribondo, che uccide per mantenersi attaccato alla vita. Un processo celebrato secondo le modalità che secoli di civiltà hanno codificato forse avrebbe portato a scoprire la debolezza delle