L’arruolamento, la struttura e la composizione degli eserciti cittadini non sono state questioni particolarmente analizzate e dibattute188. Le ragioni del disinteresse arrivano da lontano, dalle
critiche che Marc Bloch e Lucien Febvre mossero alla storia militare, vista come la massima espressione di quella histoire historisante ed événementielle che aveva fortemente limitato l'evolvere della ricerca storica189.
In quegli stessi anni in Italia tuttavia si era intuito che lo studio delle istituzioni militari sarebbe stato fondamentale per comprendere l’affermazione e gli sviluppi dei regimi di popolo. Gina Fasoli pubblicò infatti un saggio sulle compagnie delle armi bolognesi in cui rifletteva sulla loro composizione, sulle interazioni con l'esercito, sul loro utilizzo e funzioni190. La presenza degli
eserciti di popolo all'interno della vita cittadina fu invece problematizzata in una lettera che Gaetano Salvemini scrisse all'allievo Piero Pieri:
«sono persuaso che molti dei fenomeni politici dei secoli dal dodicesimo al quindicesimo non si spiegano se non si tiene conto della struttura delle forze militari delle nostre città. Sono stato sempre convinto, per esempio, che il movimento popolare ebbe le sue radici nelle organizzazioni militari delle parrocchie e dei quartieri. I popolani non dovettero fare altro che impadronirsi della direzione dei gruppi militari locali nelle parrocchie e nei quartieri per ridurre a nulla il potere dei magnati”191.»
Pieri, influenzato dal clima del nazionalismo fascista, propose un’interpretazione secondo cui gli eserciti cittadini costituivano uno dei punti più alti dell'esperienza militare italiana.192 Il suo pensiero
è ben esplicitato in due studi: nel primo si interrogò sul perché le fanterie non avessero mai eguagliato la vittoria ottenuta nella battaglia di Legnano, mentre nel secondo ripropose la
vexatissima questio: l'inferiorità militare cittadina aveva determinato il declino della nazione193.
In seguito alla sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale il tema fu abbandonato, anche perché durante la dittatura fascista lo studio degli eserciti urbani fu incentrato sul tentativo di dimostrare non tanto un presunto spirito originario di libertà e indipendenza, quanto una propensione guerriera italiana, modello di certo non più proponibile. A partire dagli anni Settanta lo studio della storia militare fu protagonista di un rinnovamento metodologico che iniziò con i war
and society studies: alla analisi dei processi politico-diplomatici si affiancò anche quella di aspetti
economici, sociali e culturali194.
188Per una bibliografia completa sul tema si rimanda a Bargigia, Settia, La guerra. 189Bloch, Correspondance; Fink, Marc Bloch. Biografia di un intellettuale. 190Fasoli, Le compagnie delle armi a Bologna, pagg. 158-184, 323-340.
191Salvemini, Lettere dall'America, p. 140. Si veda anche Artifoni, Salvemini e il Medioevo, p. 78.
192Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, p. 89: “[la] guerra tende a divenire arte, a sostituire all'impeto
bruto dell'azione tattica risolutiva all'arma bianca, la sapiente combinazione dell'azione distruttiva dei tiratori e di quella risolutiva dei cavalieri, l'azione frontale e la manovra laterale, l'uso dei rincalzi e quello, più difficile e maggiormente redditizio, delle riserve, in uno, collo sfruttamento sapiente del terreno”.
193Id, L’evoluzione delle milizie comunali italiane.
194Nel 1976 era apparsa l'opera di Keegan, rivoluzionaria per l'approccio agli aspetti mentali della guerra. Keegan,
The face of battle. Pochi anni prima Philippe Contamine aveva dimostrato come si potesse fare una storia militare che
Il nuovo approccio permise di ridiscutere alcuni dei pregiudizi storiografici che avevano caratterizzato le trattazioni sugli eserciti cittadini, primo fra tutti quello di una crisi degli ordinamenti militari. Sul finire degli anni Sessanta Daniel Waley pubblicò un un saggio in cui analizzò le strutture dell'esercito fiorentino: il caso toscano da lui studiato ha dimostrato come l'uso di un congruo numero di milizie stipendiate fosse presente, in concomitanza con alcune emergenze belliche, già a partire dagli anni '30 del Duecento e non fu un fenomeno esploso con la fine del secolo195. Secondo Waley l'ascesa del primo popolo a Firenze non determinò particolari
stravolgimenti nelle strutture dell'esercito; dal 1280 invece, le milizie fiorentine furono l'espressione della volontà politica della parte guelfa e si modificarono in una sempre più ingarbugliata matassa di contingenti stipendiati e reparti cittadini.
Anche Clemente Ancona, in un intervento pubblicato sulla Storia d'Italia Einaudi, tentò di ridiscutere la crisi degli ordinamenti militari cittadini interpretandoli come un “progressivo sfaldamento”: società armate di popolo e “societas militum” dalla seconda metà del Duecento si sarebbero sempre più misurate in scontri interni tra guelfi e ghibellini, magnati e popolani, ma di per sé questo non sarebbe stato sufficiente a determinare la transizione verso i regimi signorili. La grande presenza di milizie forestiere, dovuta a una generale crisi economica Europea, avrebbe reso disponibile una grande quantità di personale efficiente, esperto nell'uso dell'armi e disposto a seguire il miglior offerente196.
La struttura di un esercito di popolo fu oggetto di studio nel 1976, grazie al lavoro di Antonio Ivan Pini e Roberto Greci incentrato sulle Venticinquine, le liste di arruolamento bolognesi in cui erano registrati pressoché annualmente gli atti alle armi. Pini notò innanzi tutto come le società delle armi avessero quasi completamente sostituito l'organizzazione delle fanterie comunali, sia a causa della mancata necessità di reclutare contingenti numericamente importanti, sia perché questi erano prevalentemente utilizzati per ragioni di ordine pubblico. Questo processo avrebbe compromesso l'iniziale unità cittadina sottomettendola a logiche corporative. Il popolo inoltre non avrebbe mai concepito un uso professionale dell'esercito, da qui la necessità di arruolare milizie stipendiate con i conseguenti problemi economici. La volontà politica del popolo di sostituirsi attraverso sue istituzioni a quelle vincenti cittadine, determinò la decadenza dell'esercito bolognese che venne riformato con una serie di provvedimenti durante l'emergenza bellica tra gli anni 1296 e 1298197.
Terminata quella fiorente stagione si registrò un generale arrestarsi degli studi sul tardo Duecento, anche se, grazie a John Koenig, il popolo divenne oggetto di una trattazione specifica di ampio respiro. Il paradigma interpretativo che lo studioso adottò fu dei più classici: egli concluse infatti la sua trattazione intorno agli anni '70 del Duecento – considerati l’apogeo dell’esperienza popolare – che si contrapponevano al successivo periodo di crisi e decadenza. Non mancarono tuttavia nella sua opera gli elementi di novità: il popolo fu descritto come un organismo politico unitario, efficiente militarmente, promotore dell'egemonia cittadina a livello regionale e capace di organizzare una milizia interna per preservare il buono e pacifico stato nelle città in cui si affermò;
195Waley, The army of the Florentine Republic, pagg. 70 – 108. 196Ancona, Milizie e condottieri, pagg. 643 – 665.
197Pini, Greci, Una fonte per la demografia, pagg. 337 – 417. Circa un decennio prima William Bowsky aveva
proposto uno studio sulle capacità combattive del popolo, non approfondendo però gli aspetti militari: cfr. Bowsky, A
Medieval Commune, pagg. 3 – 17; Sulle venticinquine si veda anche il recente contributo di Paolo Pirillo: Pirillo, Le Venticinquine bolognesi, pagg. 53 – 71.
all’opposto della nobiltà, che – divisa in guelfi e in ghibellini – era occupata soltanto negli scontri di fazione198.
Nei decenni successi le questioni poste dalla storia militare rimasero inesplorate e gli studiosi si dedicarono principalmente ad approfondire alcune questioni tecniche199. A partire dagli anni
Novanta poi, tutte le trattazioni politico-istituzionali marginalizzarono la dimensione militare delle società cittadine. In quel clima culturale Aldo Settia propose tuttavia una serie di lavori incentrati sulla guerra. Gli eserciti cittadini non furono però studiati nei loro rapporti con la società e fu tralasciata tutta una serie di riflessioni sulle risposte politiche ed economiche dovute alla gestione delle attività belliche, per prediligere soltanto lo studio degli aspetti militari200. In quegli anni
tuttavia la materia stava vivendo un rinnovamento, ne sono una prova i contributi – alcuni non direttamente legati al mondo comunale e signorile – prodotti in area toscana, veneta e lombarda201.
Anche la storia militare nell'ultimo decennio si è rinnovata profondamente, ponendo nuove griglie di domande e schemi interpretativi incentrati principalmente nell’analisi della società attraverso la lente delle istituzioni militari. L'Italia del Trecento è stata così studiata da Duccio Balestracci attraverso Giovanni Acuto202, le strutture degli eserciti sono state invece approfondite da Fabio
Bargigia203. Le risposte cittadine agli eventi traumatici – quali furono gli assedi – sono state
indagate attraverso una ricerca coordinata da Gian Maria Varanini e Donata Degrassi: l'operazione, lamentando un vuoto storiografico in merito, ha avuto l'obiettivo di studiare tutti quegli aspetti culturali e sociali che emergevano dalle analisi di alcuni casi studio204.
Una lettura al contempo sociale e militare delle città italiane, nel passaggio tra età consolare e quella podestarile fino all’affermazione del popolo è stata proposta da Jean-Claude Maire Vigueur. Lo studioso ha dimostrato come nelle città fosse presente un gruppo egemone, quello dei milites urbani, che oltre a dividersi i frutti della guerra occupava tutti i posti di potere all'interno del
198Koenig, Il popolo dell'Italia del Nord, in particolare pagg. 409 – 410.
199La scelta era frutto di ragioni storiografiche ben precise: se negli anni '70 la storia militare in generale era stata
fortemente influenzata dagli studi sugli aspetti mentali e culturali della guerra, negli anni '80 alcune opere fondamentali come quelle di van Creveld avevano dimostrato che l'istituzione militare nel mondo contemporaneo era stata in grado di mutare profondamente, ma non in virtù di scelte politiche – come si era tentato di dimostrare con i war and society
studies – ma grazie a una serie di innovazioni tecniche. van Creveld, Hitler's strategy; Id., Military lessons; Id. Supplying war.
Già negli anni '70 in Italia erano presenti alcuni studi sugli aspetti tecnici degli armamenti per opera di Boccia, si veda ad esempio: Boccia, L'armamento in Toscana, pagg. 193 – 212; per gli anni successivi Breveglieri, Armamento
duecentesco bolognese; Galletti, La società comunale di fronte alla guerra, pp- 35-98; Frangioni, Aspetti della produzione delle armi, pagg. 195 – 200; Voltmer, Il carroccio; Zug Tucci, Il Carroccio, pagg. 1-104.
200Settia, Comuni in guerra; Id., I mezzi della guerra, pagg. 153-200; De Rosa, Il controllo politico di un esercito. 201Per l'area veneta: Bianchi, Gli eserciti delle signorie venete, pagg. 163-200, Id., Fanti, cavalieri e 'stipendiarii',
pagg. 157-166; Varanini, La signoria scaligera e i suoi eserciti, pagg. 167-179. Per l'area lombarda: Covini, Per la
storia delle milizie viscontee, pagg. 35-63; Ead., L'esercito del duca; Ead., Guerra e "conservazione del stato", pagg.
67-104; per la Toscana si rimanda a: Cardini, Tangheroni, Guerra e guerrieri; Cardini, Gli ordinamenti militari, Frangioni, Armi e mercerie fiorentine.
In questo periodo si è ricominciato a teorizzare una Nouvelle histoire bataille partendo dalla critica che per troppi anni si siano studiati gli eserciti in tempi di pace e mai di fronte alla guerra: “la guerre proprement dite reste encore très
largment un domaine à explorer” p. 35. Cfr. Henninger, La nouvelle histoire bataille, in «Espaces Temps», 71, 1999, pagg. 35 – 46. Bargigia, Settia, La guerra, pagg. 25-27.
202Balestracci, Le armi i cavalli l'oro.
203Bargigia, Gli eserciti nell'Italia comunale, pagg. 9 – 87; si veda anche Settia, Tecniche e spazi. 204Degrassi, Varanini, Città sotto assedio.
governo cittadino: la milizia urbana contava dal 5 al 30% della popolazione e la provenienza sociale era piuttosto eterogenea205.
Paolo Grillo ha invece riproposto il problema dell'evoluzione degli eserciti urbani nelle città italiane studiandone anche la composizione e i comportamenti sul campo di battaglia. Dalle sue ricerche è emerso che le armate erano ben organizzate in contingenti e comandate dalle magistrature urbane; i reparti di pedites furono utilizzati anche in caso di tumulti interni, divenendo a tutti gli effetti una “milizia politica”206. Esclusioni e problemi politici misero gli eserciti di fronte a una serie
di problemi demografici tanto da spingerli a incrementare l'arruolamento di mercenari soprattutto nei momenti di emergenza, anche se non in misura tale da dover comportare una perdita di peso dei contingenti cittadini207.
Quando si sono occupati dell’arruolamento e della struttura degli eserciti cittadini, gli studiosi citati nel corso di queste ultime pagine hanno tendenzialmente accettato un modello di reclutamento basato su circoscrizioni territoriali, in cui vigeva una distinzione netta e facilmente riconoscibile – sia dal punto di vista militare sia sociale – tra fanteria e cavalleria208. Se si osserva la
documentazione bolognese però, quei principi vengono in parte smentiti; nel corso del Duecento infatti i criteri di reclutamento non furono infatti sempre i medesimi, ma mutarono a seconda delle esigenze politiche.
Le prime venticinquine, le liste di tutti gli atti alle armi, redatte tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Duecento, seguono il modello proposto dalla storiografia. In quegli elenchi furono infatti registrati tutti gli uomini residenti nella medesima cappella, rispettando la divisione fra
milites e pedites: i primi furono inquadrati nelle decene, liste di cavalieri previste anche dalle norme
statutarie, i secondi furono iscritti invece in gruppi di venticinque uomini, anche se in molti casi il loro numero varia sensibilmente209.
Accanto a quel modello di impianto comunale, il popolo creò un suo sistema di reclutamento basato sulla coscrizione degli immatricolati nelle società d’armi, per dare vita a suoi contingenti e a corpi di élite210. Le lotte interne e la polarizzazione fazionaria determinarono così – tra la cacciata
dei lambertazzi e gli anni Novanta del Duecento – alcuni cambiamenti nella composizione delle armate cittadine. Con l’affermazione del popolo e della parte geremea infatti, l’esercito fu allestito considerando soltanto l’appartenenza politica. Alcune liste delle imposizioni dei cavalli mostrano in modo chiaro l’evoluzione del processo che si sta tentando di delineare. Intorno agli anni Settanta quegli elenchi furono inizialmente redatti dividendo i cavalieri in lambertazzi e geremei; quelli
205Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell'Italia comunale, Bologna 2004. 206Grillo, Cavalieri e popoli in armi, p. 140.
207Id., «12.000 uomini, pagg. 233 – 253, citazione a pagina 241; Id., Processi decisionali pagg. 427-445.
208 Sull’organizzazione militare cittadina si vedano: Ancona, Milizie e condottieri; Bargigia, Gli eserciti, pagg. 87-
125; Bordone, la società urbana, Bowsky, City and contado, pagg. 75-98; Grillo, Cavalieri e Popoli in armi, pagg. 111- 124, Id, 12.000 uomini, pagg. 233-253; Marz, L’organizzazione militare del comune di Trieste, pagg. 193-224; Pieri,
Alcune questioni sopra le fanterie, pagg. 553-614; Id., L’evoluzione delle milizie comunali italiane, pagg. 31-90;
Roccia, L’organizzazione militare nella Torino del XIV secolo, Settia, Comuni in guerra, pagg. 71-89, Id., I milanesi in
guerra; Id., L’organizzazione militare pavese, pagg. 145-179.
209Pini, Greci, Le venticinquine, si vedano ad esempio le cedole del 1273 ASBo, Curia capitano, Venticinquine, b.
vii, P. Procola, cc. 12-18. Sulle decene si veda Fasoli, Sella, Statuti 1288, Rubrica XII De decenis militum, p. 197,
Ordinamus quod quilibet confalonerius militum teneatur facere decenas militum in suo quarterio et dare unum capitaneum ex dictis militus quilibit decene, ita quod in quilibet capitanerie sint decem milites ad minus.
210La prima busta delle matricole contiene infatti un elenco di venti uomini eletti per società d’armi responsabili
compilati pochi anni dopo mostrano invece che solo ai sostenitori della pars Ecclesiae era consentito servire nella cavalleria211.
È possibile riconoscere un percorso anche simile nell’evoluzione dell’organizzazione della fanteria. Come già accennato, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del Duecento le venticinquine smisero di essere compilate, tanto che i redattori degli Statuti del 1288 non inserirono alcuna rubrica a riguardo, al contrario di quanto invece stabilivano gli statuti del 1250212. Fecero invece soltanto
riferimento a un corpo di 2000 fanti dalla provata fedeltà politica, la cui esistenza è testimoniata anche da un registro del 1287 intitolato «Nomina duorum milium peditum populi et partis ecclesiae (eraso) et Hieremensium civitatis Bononiae»213. Gli uomini reclutati e coscritti erano eletti dai
ministrali delle singole società e i loro nomi erano poi sottoposti al consiglio dei Duemila che avrebbe dovuto accettare o cassare le nomine214.
A partire dal 1274 insomma, si affermò a Bologna il principio secondo cui l’arruolamento dell’esercito doveva essere regolato da un criterio politico, quello cioè dell’appartenenza al popolo e alla pars Ecclesiae. Le ragioni di quella scelta sono spiegabili alla luce dei pericoli in cui sarebbe incorso il regime se avesse armato i lambertazzi, ma al di là di quel dato bisogna anche considerare che il servizio militare, oltre a essere ritenuto un privilegio legato alla cittadinanza, aveva anche importanti ricadute economiche. La legislazione prevedeva infatti che i soli iscritti nelle società di arti e armi potessero servire come guardiani nei castelli o in città e questo era probabilmente un modo per redistribuire, tra i sostenitori di quel sistema politico, una parte del denaro incamerato215.
§2. 2 Le società d’armi e la guerra
I contingenti di 2000 uomini reclutati tra i membri delle società d’armi furono costituiti annualmente ed ebbero compiti legati sia alla tutela dell’ordine pubblico, sia specifiche funzioni
211Milani, L’esclusione, pagg. 236-237.
212Statuta Populi 1250, p. 10, De ponendis per in XXV illos qui non sunt de societate. Statuimus (quod) ançiani dent
operam quod illi, qui non fuerunt de societatibus armorum, ponantur per se in XXV separatim ab aliis societatum. Et quilibet C habeant unum capitaneum cum una banderia, que habeat spetiale signum. Una rubrica molto simile era
presente anche negli statuti di Bologna del 1250: Statuti Bologna 1250, vol. II, p. 83, rubrica LXXVII, De hominibus a
ponendis in decenis et XXV. […] quod omnis homo de civitatis maior XVIII annis usque ad LXX annos debeat se facere scribi si fuerit pedes in vigintiquinquina cum suis convicinis si erunt tot.
213ASBo, Assegnazione cavalli, b. 10/a, reg. 5.
214ASBo, Assegnazione cavalli, b. 10/a, reg. 2. ASBo, Capitano del Popolo, Liber matricolarum I, fasc. 27, contiene
l’elenco dei 2000 fanti dell’anno 1292.
215Statuti 1288, rubrica XXI, De officio supraguardie noctis, p. 97: Et dicimus quod nullus, qui sit scutifer vel
pactualis alicuius, possit esse supraguardia noctis, vel qui non habeat extimum in comuni Bononie et non sit de parte ecclesie et Ieremensium civitatis Bononie. Le riformagioni specificano invece che le guardie di notte dovevano
appartenere alle società: ASBo, Riformagioni, reg. 147 c. 247r. Statuti 1288, Rubrica XIII, De ellectione capitanei et
custodum Castrifranchi, Castri Sancti Petri, Bixani, Stagni et Barçi et aliorum catrorum et eorum feudo, p. 104, Et sit quilibet ex eis de societate artium armorum vel cambii vel mercadandie. Le società d’armi non hanno goduto di
particolare fortuna storiografica: Fasoli, Le compagnie delle armi a Bologna, si vedano anche i saggi in De Vergottini,
Studi di storia del diritto italiano, in particolare: Arti e «popolo» nella prima metà del secolo XIII pagg. 397-467; Il «popolo» di Vicenza nella cronaca ezzeliniana di GerardoMaurisio, pagg. 335-352; Il «popolo» nella costituzione del comune di Modena sino alla metà del XIII secolo, pagg. 263-332; Note sulla formazione degli statuti di «popolo», pagg.
377-386. Artifoni, Una società di «popolo», pagg. 545- 616; Id., Corporazioni e società di «popolo», pagg. 387-404; Bortolami, Le forme societarie di organizzazione del Popolo, pagg. 41-79.
militari, ma non furono i soli uomini arruolati dalle corporazioni216. Il popolo mirò infatti fin dalla
sua affermazione a mantenere un controllo stringente sia sull’esercito sia sulle attività militari, tanto che fin dal 1245 era in vigore una norma che prevedeva che nessun consiglio di Bologna avrebbe potuto allestire e inviare alcun tipo di reparto senza l’autorizzazione delle società, che sarebbe potuta avvenire soltanto attraverso l’invio di una cedola217.
Una volta affermatosi il regime di popolo, tutto il sistema militare bolognese, almeno per quanto riguardava la fanteria, si basò sulle compagnie d’armi218; queste erano distribuite in modo più o
meno omogeneo in tutta la città e, sebbene non fossero coincidenti con le cappelle, il reclutamento da loro operato e la successiva mobilitazione rispettarono la suddivisione topografica dei quartieri219. Il dato però forse più interessante è costituito dal fatto che le società elaborarono una
serie di norme interne, più o meno simili, volte a tutelare i propri immatricolati nelle attività belliche, come l’assistenza medica in caso di ferite e il pagamento del riscatto in caso di prigionia220.
Non solo, i soci si impegnavano l’un l’altro nel fornire auxilium et consilium ai propri membri in caso di discordie o inimicizie, di vertenze legali, o ancora difesa e soccorso reciproco – anche