3. OFFSHORING E PERFORMANCE: UN’ANALISI DELLE IMPRESE OCCIDENTALI IN CINA
3.4 Analisi critica dei risultati
3.4.1 Interpretazione dei valori medi più rilevanti
Avendo riscontrato che il fatturato medio delle aziende intervistate è di circa 360 milioni di euro, la nostra ricerca conferma (o comunque non smentisce) lo studio di Wagner (2011), secondo il quale le aziende che praticano l’offshoring sono quelle più grandi e più produttive. Inoltre i nostri risultati confermano quanto affermato da Jensen e Pedersen (2012): l’offshoring di attività manifatturiere che si basano sulle attività più semplici (per esempio quelle basate sulla manodopera non specializzata) è più diffuso rispetto all’offshoring di servizi avanzati (che richiedono maggior conoscenza). Infatti, secondo i nostri dati, il 70% delle aziende intervistate ha delocalizzato le attività di vendita e il 60% le attività di produzione, mentre il 40% ha delocalizzato le attività di ricerca e sviluppo.
Le aziende intervistate hanno attribuito un punteggio medio di 5.1 su 7 in risposta a quanto si trovassero d’accordo con l’affermazione “l’ingresso nel mercato cinese ha consentito all’azienda di rinforzare considerevolmente la sua posizione competitiva a livello internazionale”: anche questo dato è in accordo con lo studio di Jensen e Pedersen (2012), secondo i quali l’offshoring è in genere parte di una strategia
Low deloc vendita High deloc vendita
P er for man ce High esperienza Low esperienza HIGH LOW
dell’azienda finalizzata al raggiungimento della competitività internazionale, grazie all’accesso a risorse e fonti di conoscenza estere. Il punteggio di 5.1 su 7 relativo all’affermazione precedentemente enunciata è il più elevato che abbiamo riscontrato tra le domande riguardanti il successo del processo d’internazionalizzazione in Cina, e ci permette di concordare anche con quanto affermato da Musteen e Ahsan (2013), i quali sostengono che la delocalizzazione all’estero aiuta le aziende a raggiungere la competitività globale, soprattutto favorendo il processo d’innovazione.
Come già indicato sopra, il 40% delle aziende da noi intervistate ha delocalizzato attività di ricerca e sviluppo, permettendo alla delocalizzazione di questo tipo di attività di occupare il terzo posto tra quelle più delocalizzate. Questo dato della nostra ricerca ci suggerisce che, come sostenuto da Manning, Massini e Lewin (2008), l’accesso a personale qualificato sta diventando sempre più importante per le aziende che decidono di delocalizzare all’estero: secondo le tendenze più recenti osservate da Manning, Massini e Lewin (2008), il numero di scienziati e ingegneri altamente qualificati è in diminuzione nelle economie occidentali, mentre è in rapida crescita in India e Cina (Disher e Lewin, 2007). Questa tendenza, unita al fatto che la risposta con il valore più basso da noi riscontrato per quanto riguarda il successo del processo d’internazionalizzazione in Cina sia 3.9 riguardo l’affermazione “l’ingresso nel mercato cinese ha contribuito ad aumentare in modo consistente il fatturato complessivo dell’azienda”, ci permette di capire che i vantaggi di costo potrebbero iniziare ad essere posti in secondo piano rispetto ad altre esigenze delle aziende, come la presenza di personale qualificato (Bunyaratavej et al., 2007).
3.4.2 L’analisi di correlazione: prevalenza di effetti negativi dalla delocalizzazione
Grazie all’analisi di correlazione siamo stati in grado di capire che la delocalizzazione in Cina in generale sembra avere effetti negativi sul fatturato totale generato in Cina. In particolare, la delocalizzazione delle attività di vendita non contribuisce ad aumentare la capacità dell’azienda di operare sui mercati internazionali. La delocalizzazione delle attività di produzione e di vendita sembra influire negativamente sul fatturato totale generato in Cina. Invece, secondo i nostri dati, la delocalizzazione delle attività di distribuzione permette d’incrementare il fatturato complessivo delle aziende.
La prevalenza degli effetti negativi della delocalizzazione in Cina riscontrati dalla nostra ricerca è in accordo con la “transaction cost economics” (TCE) unita alla teoria
sui vuoti istituzionali. Secondo la TCE le aziende sono portate a delocalizzare all’estero guidate dalla speranza di sviluppare risparmi di costo (per esempio sul costo del lavoro), ma è importante notare che, con l’aumento dell’internazionalizzazione, aumentano anche i costi di transazione (Roza, 2010). L’offshoring è una strategia d’internazionalizzazione che mira a svolgere alcune attività all’estero al fine di ridurre la somma tra costi di transazione e di produzione (Coase, 1937). In particolare, la TCE spiega come le strategie di offshoring siano guidate dal basso costo del lavoro offshore, ma anche dai minori cosi relativi di governo e gestione delle attività offshore (Coase, 1937; Williamson, 1975). Per le ragioni appena elencate, la TCE è stata quindi applicata per spiegare l’offshoring (Stratman, 2008). Tuttavia, se consideriamo anche la presenza dei vuoti istituzionali che aumentano le inefficienze nell’operare sul mercato cinese (Khanna e Palepu, 2010), unita al fatto che le aziende delocalizzano all’estero non più solamente al fine di perseguire vantaggi di costo (Bunyaratavej et al., 2007), non è sorprendente che all’aumentare della delocalizzazione delle attività in Cina si riscontrino effetti negativi sul fatturato totale generato in Cina.
3.4.3 Le regressioni: gli effetti di moderazione della dimensione e dell’esperienza
Con la prima regressione abbiamo trovato che la delocalizzazione in Cina delle attività distributive ha effetti negativi sulle performance aziendali, ma tale relazione è moderata positivamente dalla dimensione dell’azienda. Ciò significa che gli effetti negativi della delocalizzazione delle attività distributive sono meno rilevanti all’aumentare delle dimensioni delle aziende. Questo risultato è in accordo con quanto trovato nella ricerca di Roza (2010), con la quale è stato riscontrato che, mentre le piccole aziende tendono ad applicare l’offshoring prevalentemente come strategia per raggiugere risparmi di costo, le aziende di maggiori dimensioni applicano l’offshoring come strategia di costo e allo stesso tempo come strategia per acquisire maggiori risorse (resource strategy). Come spiegato in precedenza, grazie alla TCE è possibile capire come la strategia di costo sia già di per sé una motivazione interessante che spinge le aziende a delocalizzare all’estero. Tuttavia, il fatto che le aziende di minori dimensioni implementino solo la strategia di costo, mentre quelle di maggiori dimensioni riescano ad implementare allo stesso tempo una strategia “resurce based” (con la quale raggiungono maggiori livelli di efficienza nella delocalizzazione), ci permette di spiegare perché la dimensione sia un moderatore positivo sulla relazione negativa tra
delocalizzazione delle attività distributive e performance: grazie ad una strategia che si basa anche sulle risorse, le aziende di maggiori dimensioni vanno oltre allo svolgimento delle attività in maniera più economica, avendo la possibilità di raggiungere un livello più elevato di efficienza e competitività (Jarillo, 1989).
Le nostre conclusioni sono in accordo con quelle di Schwens e Kabst (2011), i quali hanno riscontrato che la dimensione dell’impresa ha una notevole influenza sulle performance delle consociate estere. Come affermato nello studio di Schwens e Kabst (2011), questo risultato è in linea con gli studi precedenti, come quello di Johanson e Vahlne (1977). Le imprese con una base stabile di risorse sono in grado di affrontare meglio le difficoltà costituite dall’essere imprese straniere, aumentando così le prestazioni delle proprie consociate estere. Inoltre, le imprese di maggiori dimensioni hanno dimostrato di possedere una maggiore capacità di apprendimento, che rende per loro più semplice il processo di valutazione, selezione e assimilazione di nuove conoscenze tramite quelle già esistenti (Cohen e Levinthal, 1990; Zahra e George, 2002). Queste capacità aumentano la facilità di apprendimento delle aziende di maggiori dimensioni e, conseguentemente, le prestazioni delle loro consociate estere.
Con la seconda regressione abbiamo visto che la delocalizzazione in Cina delle attività di vendita ha un effetto positivo sulle performance aziendali, ma tale relazione è moderata negativamente dalla mancanza di esperienza dell’azienda in Cina. Il significato del nostro risultato è che, sebbene la delocalizzazione delle attività di vendita abbia effetti positivi sulla performance, un’azienda con minore esperienza sul territorio cinese avrà probabilmente una performance meno positiva rispetto a quella di un’azienda di maggiore esperienza (a parità di altre condizioni). Con i dati a nostra disposizione possiamo quindi dedurre che, per incrementare la performance delocalizzando le attività di vendita, le aziende sembrano dover fare affidamento su un processo di apprendimento basato sull’esperienza (Levin, 2000; Martin e Salomon, 2003). Il nostro risultato è perciò in contraddizione con quanto sostenuto da Massini, Perm-‐ Ajchariyawong e Lewin (2010), i quali sottolineano che le aziende di maggior successo sono quelle che si basano su una strategia, non su un processo di apprendimento “sul posto”. Siamo invece in accordo con quanto già osservato da Manning, Massini e Lewin (2008), i quali hanno rilevato che molte aziende tendono a sviluppare le competenze per gestire le attività di delocalizzazione internazionale “strada facendo”, affidandosi
perciò ad un processo di apprendimento graduale derivante dallo svolgimento delle attività direttamente sul luogo d’interesse.
Contrariamente a quanto da noi riscontrato, secondo la ricerca di Schwens, e Kabst (2011) il numero di anni di operatività sul mercato estero non influenza in alcun modo la performance delle aziende. Schwens e Kabst (2011) hanno condotto la loro ricerca analizzando giovani imprese tecnologiche, e sostengono che il sorprendente risultato ottenuto sia giustificato dalla specificità del campione che hanno utilizzato nella ricerca:
-‐ le aziende del campione da loro utilizzato erano tutte già di successo dall’inizio delle attività d’internazionalizzazione;
-‐ la maggior parte di aziende appartenenti al campione da loro utilizzato operano in mercati di nicchia con prodotti particolarmente “knowledge-‐intensive”.
Dal momento che le aziende appartenenti al campione da noi utilizzato non sono state selezionate secondo la caratteristica di essere già di successo fin dall’inizio dell’implementazione delle loro attività di delocalizzazione, e soprattutto non sono esclusivamente aziende che operano in mercati di nicchia, possiamo affermare che il nostro risultato possa essere considerato coerente: la mancanza di esperienza può moderare negativamente le performance aziendali. Infatti, come affermato nello studio di Roza (2010), il processo di apprendimento basato sull’esperienza avviene tramite l’adattamento delle aziende alle pratiche commerciali e alle norme locali (Eriksson et al., 1997), tramite assunzione di dipendenti che hanno lavorato per i concorrenti e l'utilizzo di fornitori locali (Almeida, 1996), e infine sviluppando sistemi aziendali interconnessi (Cantwell, 2009). È del tutto comprensibile che l’implementazione delle attività appena elencate richieda l’investimento di un certo ammontare di tempo da parte delle aziende, e che abbia dirette conseguenze sulla performance. Precedenti ricerche hanno dimostrato che il processo di apprendimento aiuta a migliorare le performance organizzative e fornisce un contributo positivo rispetto alla competitività dell’azienda (Levinthal e March, 1993). L'apprendimento è importante anche per il miglioramento delle performance organizzative e il rafforzamento del vantaggio competitivo (Luo e Peng, 1999). L'espansione internazionale nelle attività connesse, in particolare, è risultato influenzare positivamente la performance aziendale (Barkema, Bell, e Pennings, 1996).