Corso di Laurea magistrale (ordinamento
ex D.M. 270/2004)
in Marketing e Comunicazione
Tesi di Laurea
Strategie competitive e
performance in Cina
Relatore
Ch. Prof. Claudio Giachetti
Laureando
Giacomo Azzolina
Matricola 838027
Anno Accademico
2012 / 2013
INDICE
1. SCELTE DI DELOCALIZZAZIONE E PERFORMANCE AZIENDALI
1.1. Introduzione 1.2. Location choice
1.2.1. L’importanza della vicinanza tra produttore e utilizzatore 1.2.2. Agglomerazione o dispersione
1.3. Internazionalizzazione e performance
1.3.1. Diversificazione internazionale e performance
1.4. Offshoring
1.4.1. Offshoring e performance
1.4.2. Offshoring e produttività del lavoro
1.4.3. Un nuovo trend: l’offshoring di prossima generazione 1.4.4. I costi invisibili dell’offshoring
1.4.5. Creazione di valore attraverso il cambiamento economico
2. INTERNAZIONALIZZAZIONE NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO: OPPORTUNITÀ E MINACCE
2.1. I paesi in via di sviluppo e i vuoti istituzionali
2.1.1. Individuare i vuoti istituzionali
2.1.2. Istituzioni, risorse e strategie d’ingresso nei mercati emergenti 2.1.3. Sviluppo istituzionale e performance delle consociate estere
2.2. Affrontare la burocrazia nei paesi emergenti
2.2.1. Vuoti istituzionali e burocrazia: PayPal in Asia
2.3. La Cina
2.3.1. Barriere all’ingresso
2.3.2. La fiducia basata sulle conoscenze 2.3.3. Legami manageriali e performance 2.3.4. Come proteggersi dal rischio politico 2.3.5. Spillover di conoscenza e competizione
3. OFFSHORING E PERFORMANCE: UN’ANALISI DELLE IMPRESE OCCIDENTALI IN CINA
3.1. Obiettivi dell’analisi 3.2. Metodologia
3.2.1. Strumento di raccolta dei dati
3.2.2. Metodi statistici utilizzati: correlazione e regressione lineare
3.3. Risultati
3.4. Analisi critica dei risultati
3.4.1. Interpretazione dei valori medi più rilevanti
3.4.2. L’analisi di correlazione: prevalenza di effetti negativi della delocalizzazione
3.4.3. Le regressioni: gli effetti di moderazione della dimensione e dell’esperienza
3.5. Implicazioni manageriali, limiti e ricerche future
BIBLIOGRAFIA
1. SCELTE DI DELOCALIZZAZIONE E PERFORMANCE AZIENDALI
1.1. Introduzione
In questa ricerca si vuole analizzare quali siano le scelte di delocalizzazione di maggior successo che le aziende possono fare per entrare in un nuovo mercato geografico. In particolare cercheremo di capire come la delocalizzazione all’estero di diverse attività economiche della value chain impatta sulle performance aziendali. Per attività che si possono delocalizzare in un nuovo mercato non si intende soltanto quella produttiva, ma anche attività come quelle di ricerca e sviluppo, marketing, distribuzione, servizi post-‐vendita, o supporto amministrativo.
Per capire le diverse prospettive dalle quali si possono analizzare i fenomeni di delocalizzazione, partiamo da alcuni studi svolti negli ultimi anni, grazie ai quali è possibile introdurre vari criteri di analisi dell’argomento. Nella prima parte di questo capitolo ci concentriamo su quanto proposto dalle ricerche di Gertler (1995) e Alcácer (2006): gli autori analizzano la scelta della location ideale delle attività economiche, fornendo un contributo interessante per le aziende che intendono delocalizzare all’estero. Nella seconda sezione del capitolo esponiamo alcuni studi che indagano la relazione tra internazionalizzazione e performance aziendali (Cardinal, Miller e Palich, 2011), approfondendo la relazione tra diversificazione internazionale e performance (Hitt, Hoskisson e Kim, 1997; Lampel e Giachetti, 2013). Con la terza e ultima parte del primo capitolo analizziamo il fenomeno, per noi centrale, della delocalizzazione all’estero (in inglese “offshoring”). La nostra analisi dell’offshoring inizia esponendo alcune ricerche che indagano la relazione tra offshoring e performance (Jabbour, 2010). In seguito spieghiamo la relazione tra offshoring e produttività del lavoro (Ito, Wakasugi e Tomiura, 2008). Continuiamo poi la nostra analisi con la spiegazione di alcune delle più recenti tendenze che caratterizzano l’offshoring (Massini e Miozzo, 2012; Musteen e Ahsan, 2013). Successivamente esponiamo uno studio sui costi invisibili dell’offshoring (Larsen, Manning e Pedersen, 2013) e, infine, concludiamo con un’analisi riguardante i possibili risvolti socio-‐economici dell’offshoring (Farrell, 2005).
1.2. Location choice
Quando un’azienda considera la possibilità di delocalizzare alcune delle sue attività, il primo problema che dovrà porsi sarà la scelta della location ideale per raggiungere i propri scopi. Qui di seguito proponiamo due studi interessanti da questo punto di vista: la ricerca di Gertler (1995), che spiega quanto sia importante la vicinanza tra produttore e utilizzatore, e lo studio di Alcácer (2006), che ci permette di distinguere la differente disposizione geografica delle diverse attività a seconda di quali attività vengono delocalizzate.
1.2.1. L’importanza della vicinanza tra produttore e utilizzatore
Attraverso le risposte ottenute con un questionario e una serie d’interviste, Gertler (1995) conduce un’analisi su una serie di aziende localizzate nel sud dell’Ontario che fanno uso di tecnologie avanzate per i processi produttivi. Tramite il suo studio, incentrato sulle relazioni tra imprese (business to business), l’autore sottolinea l’importanza della vicinanza tra produttore e utilizzatore della tecnologia. In particolare, Gertler spiega la rilevanza assunta dalla localizzazione di produttore e utilizzatore di macchinari avanzati nella stessa regione geografica, che costituisce una delle basi fondamentali per un’efficace interazione tra produttore e utilizzatore della tecnologia. Secondo quanto suggerito dallo studio, l’acquisto di una nuova tecnologia avanzata, soprattutto se di recente sviluppo, comporta molta incertezza: l’azienda acquirente non può conoscere con sicurezza le qualità dei macchinari che acquista, dovendo fare affidamento su quanto sostenuto dall’azienda produttrice della tecnologia. Questo permette di capire perché un’azienda esperta, quando deve effettuare un acquisto di tale importanza, preferisce instaurare una relazione a lungo termine con l’azienda produttrice: se effettuasse un singolo acquisto, per poi abbandonare ogni tipo di rapporto con l’azienda produttrice, l’azienda acquirente avrebbe molte difficoltà nell’utilizzare correttamente macchinari caratterizzati da tecnologie produttive complesse delle quali non ha mai fatto uso in precedenza. Grazie alla prolungata interazione tra fornitore e acquirente, invece, i nuovi utilizzatori della tecnologia riescono a imparare di più sulle proprietà dei macchinari. Inoltre, man mano che produttore e utilizzatore della tecnologia sviluppano un rapporto prolungato, le necessità tecnologiche dell’utilizzatore possono essere comunicate più facilmente, permettendo al produttore di sviluppare soluzioni che rispondono meglio alle esigenze
dell’azienda cliente. Con un’interazione più intensa s’instaura un rapporto di maggior fiducia tra le due parti, e questo permette una miglior personalizzazione del prodotto, perché il cliente consente all’azienda produttrice di venire a conoscenza di dettagli importanti del proprio processo produttivo. Allo stesso tempo, questo tipo di rapporto è fonte di benefici anche per l’azienda produttrice: il costante impegno nello sviluppo di tecnologie personalizzate costituisce una fonte importante di stimoli creativi, creando un processo di cosiddetto “mutual learning”, con il quale produttore e utilizzatore della tecnologia hanno modo d’imparare l’uno dall’altro condividendo il know-‐how delle rispettive aziende. L’instaurazione di un rapporto che implica una frequente interazione tra produttore e utilizzatore comporta non solo che le fasi di pre-‐installazione e installazione si svolgano più facilmente, ma anche che tutto il normale processo produttivo post-‐installazione prosegua con pochi imprevisti. Al contrario, effettuando l’acquisto per poi abbandonare i rapporti con l’azienda sviluppatrice della tecnologia, l’azienda acquirente sarebbe continuamente costretta a trovare da sola soluzioni a problemi imprevisti senza conoscere pienamente le caratteristiche del macchinario utilizzato, rallentando inevitabilmente la produzione.
La relazione costruttiva descritta sopra come formula per il successo, si rispecchia anche nel contesto internazionale: il tutto è però reso più complicato dalla maggior distanza fisica tra le parti. In un contesto globale, alla distanza fisica va anche aggiunta la cosiddetta “organizational distance”, che fa riferimento al diverso modo di pensare dei manager delle aziende e a come esse vengono gestite. Questo concetto può essere chiarito tramite un esempio suggerito da Gertler (1995): l’autore spiega che generalmente nelle aziende americane si ritiene che la tecnologia sia insita nei macchinari, aspettandosi una produzione efficiente e priva d’imprevisti come diretta conseguenza del semplice acquisto dei macchinari stessi; al contrario, nelle imprese europee e giapponesi si ritiene che il processo produttivo possa avere successo solo in presenza di una buona interazione tra macchinari e lavoratori capaci. Questo esempio permette di vedere un vantaggio immediato delle aziende europee e giapponesi, in quanto esse hanno compreso prima delle aziende americane quanto la corretta interazione tra lavoratori e macchinari sia fondamentale per un’impresa che intenda utilizzare con successo una tecnologia produttiva complessa.
Il fatto che produttore e utilizzatore della tecnologia si trovino almeno nello stesso continente, è giudicato un fattore importante dalla maggior parte delle aziende: i clienti
preferiscono che sia il produttore originale a prendersi cura della spedizione dei pezzi di ricambio, esso infatti è in genere giudicato più affidabile di altri fornitori; inoltre anche la semplice differenza di fusi orari aumenta le difficoltà di comunicazione, che potrebbero essere già presenti a causa di culture aziendali diverse.
I risultati della ricerca di Gertler (1995) mostrano che la vicinanza fisica è in media ritenuta più importante dalle aziende piccole, mentre quelle che fanno uso di stabilimenti più grandi riescono a superare più facilmente i problemi associati alle grandi distanze. Questa condizione è inoltre messa in risalto dal fatto che le aziende con gli stabilimenti più grandi ottengono anche migliori servizi, perché esse costituiscono i clienti più importanti per i produttori dei macchinari.
Uno dei maggiori vantaggi della vicinanza tra produttore e utilizzatore delle tecnologie avanzate è la maggior facilità di comunicazione (prima, durante e dopo l’installazione). Per ottenere i migliori risultati, la maggior parte di questa interazione deve avvenire faccia a faccia. Naturalmente, la possibilità che uno stabilimento riceva una visita nella propria sede dopo l’installazione diminuisce con l’aumentare della distanza tra produttore e utilizzatore dei macchinari. Inoltre, gli stabilimenti più piccoli hanno molte meno probabilità di ricevere queste visite personali rispetto a quelli più grandi, perché rappresentano un cliente meno importante per i produttori.
La ricerca di Gertler (1995) mostra che la vicinanza deve essere intesa non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello della cultura dell’organizzazione. L’autore rileva la necessità che le aziende cambino il loro modo di vedere le nuove tecnologie come soluzione diretta delle problematiche aziendali, e capiscano l’importanza della formazione e dell’esperienza del personale. Per rendere la formazione più efficace, la relazione tra aziende produttrici e utilizzatrici dei macchinari deve essere rinforzata. Secondo quanto concluso dallo studio di Gertler (1995), la vicinanza fisica da sola non implica il successo di utilizzatori e produttori di tecnologie avanzate, perché ad essa va aggiunta l’importanza della condivisione tra produttore e utilizzatore delle pratiche di lavoro e della cultura di formazione.
Un recente esempio di quanto la prossimità fisica e culturale sia importante è illustrato dall’articolo di Mozur e Dou (2013). L’articolo riguarda importanti multinazionali che producono robot automatizzati destinati a costituire le linee di assemblaggio di prodotti elettronici. Mozur e Dou (2013) spiegano come il mercato cinese stia diventando sempre più importante per queste aziende e come esse stiano
investendo sempre di più sulle proprie fabbriche che producono i macchinari direttamente in Cina, in modo da poter fornire al meglio questo mercato. Le problematiche che riguardano questi robot, oltre all’assemblaggio, comprendono il processo di riprogrammazione post-‐vendita: poiché il ciclo di vendita dei dispositivi elettronici è alquanto breve (dai 9 ai 18 mesi), ciò implica la necessità di una periodica riprogrammazione dei robot, che comporta necessariamente una stretta collaborazione tra l’azienda produttrice del macchinario e quella che lo utilizza. Per sottolineare l’importanza della prossimità al mercato al quale i macchinari sono destinati, si cita l’esempio dell’azienda tedesca Kuka AG, il cui recente investimento su una fabbrica cinese prevede di far aumentare la produzione annuale di robot di 5000 unità a partire da quella attuale di 1500-‐2000 unità all’anno.
1.2.2. Agglomerazione o dispersione
La tendenza all’agglomerazione porta aziende diverse a collocare nella stessa area geografica alcune attività della value chain; per dispersione s’intende l’effetto opposto, che consiste cioè nel tentativo da parte delle aziende di posizionare determinate attività il più lontano possibile le une dalle altre.
Secondo Alcácer (2006), che ha svolto la propria ricerca analizzando le scelte dei produttori di cellulari, quando le attività della value chain vengono delocalizzate, esse tendono ad essere disposte in maniera differente a livello geografico a seconda dell’attività considerata. Questo avviene perché le attività di ricerca e sviluppo, vendita e produzione fanno fronte a diversi costi di competizione e benefici di agglomerazione. In generale, le attività di produzione e vendita sono più disperse geograficamente, mentre quelle di ricerca e sviluppo sono più concentrate. La spiegazione fornita da Alcácer (2006) è che le attività di ricerca e sviluppo traggono maggior beneficio dall’agglomerazione grazie agli spillover di conoscenza e sono inoltre meno soggette agli effetti della competizione locale. Le attività di vendita, al contrario, sono quelle che hanno la minor tendenza all’agglomerazione, perché su di esse impatta maggiormente la competizione locale. Infine, le attività di produzione cadono nel mezzo: i prodotti potrebbero essere venduti lontano dal luogo di produzione, incoraggiando l’agglomerazione, ma le attività di produzione traggono meno benefici dall’agglomerazione rispetto a quelle di ricerca e sviluppo.
Secondo Alcácer (2006), indipendentemente dall’attività analizzata, le aziende più capaci tendono ad agglomerarsi meno rispetto a quelle meno capaci. Le imprese più capaci: (1) possono tenere i competitor fuori dal mercato, e (2) scelgono di isolarsi per ridurre spillover di conoscenza indesiderati proteggendo il loro vantaggio competitivo. Al contrario, le aziende meno capaci: (1) non sono in grado di entrare in mercati con un alto livello di competizione, sono facilmente espulse da tali mercati e devono concentrarsi in mercati periferici; oppure (2) decidono di agglomerarsi per usufruire dei benefici derivanti dai cluster.
Riassumendo il contributo di Alcácer (2006): gli effetti della delocalizzazione delle attività della value-‐chain sulla performance variano a seconda dell’attività considerata e a seconda dell’azienda (più o meno capace) presa in considerazione.
I risultati della ricerca di Alcácer (2006) non sono in contrasto con il caso della Silicon Valley. Come spiegato da diversi studi (si vedano Engel e del-‐Palacio, 2011; Fairlie e Chatterji, 2013), dal 1990 in poi la Silicon Valley è stata caratterizzata da una crescente concentrazione di start-‐up high-‐tech: in questo tipo di aziende le attività di ricerca e sviluppo giocano un ruolo fondamentale per la continua realizzazione di prodotti innovativi. È quindi possibile spiegare, seguendo la logica di Alcácer (2006), le motivazioni che hanno spinto molte start-‐up high-‐tech ad allocare le proprie attività di ricerca e sviluppo nella tessa area geografica. Ci sono due motivazioni, in accordo con quanto affermato da Alcácer (2006), che hanno spinto le start-‐up tecnologiche ad agglomerarsi nella Siclicon Valley:
1. essendo imprese il cui core business è in gran parte concentrato sulle attività di ricerca e sviluppo, esse traggono elevati benefici dagli spillover di conoscenza; 2. essendo aziende relativamente fragili (quindi identificabili come “aziende meno
capaci” secondo la definizione di Alcácer, 2006) perché ancora in una fase di sviluppo iniziale, è più probabile che esse decidano di agglomerarsi per usufruire dei benefici derivanti dai cluster.
Illustriamo ora un ulteriore esempio che dimostra alcuni dei punti indicati da Alcácer (2006), in particolare:
-‐ come le aziende più capaci possono tenere i competitor fuori dal mercato;
-‐ come quelle meno capaci vengono facilmente espulse dai mercati con un alto livello di competizione, vedendosi costrette a concentrarsi in mercati periferici.
L’esempio al quale facciamo riferimento è fornito da Strauss (2013). Nell’articolo di Strauss (2013) è illustrata la situazione del settore della grande distribuzione organizzata in Canada. Come descritto dall’autrice, la GDO in Canada è un settore stagnante, nel quale le grandi multinazionali statunitensi come Target e Wal-‐Mart stanno costringendo i competitor più deboli a rivedere le proprie strategie o a chiudere i negozi. Molti distributori più piccoli, come Red Apple, per continuare a competere, cercano di rivolgersi a delle nicchie. La strategia di Red Apple, ad esempio, è quella di restare radicati alle proprie origini rurali, abbandonando i mercati urbani: in questo modo Red Apple cerca di evitare la competizione diretta di Target e Wal-‐Mart.
1.3. Internazionalizzazione e performance
Secondo quanto esposto in precedenza sulla base delle ricerche di Gertler (1995) e Alcácer (2006), deduciamo che la scelta della location può influenzare la performance dell’azienda. Illustriamo ora le conclusioni di diversi studi che indagano se esiste una relazione tra internazionalizzazione e performance aziendali.
I risultati empirici degli studi di autori come Buhner (1987), Grant, Jammine, e Thomas (1988), Han, Lee, e Suk (1998), Chang e Thomas (1989), Collins (1990) hanno messo in evidenza una relazione lineare tra internazionalizzazione e performance, ma fornendo risultati diversi e contraddittori (si veda Cardinal, Miller e Palich, 2011, pag 175). Alcuni hanno fornito prova di una relazione positiva (ad esempio, Buhner, 1987; Grant, Jammine, e Thomas, 1988; Han, Lee, e Suk, 1998). Altri studi, tuttavia, hanno suggerito una relazione negativa (ad esempio, Chang e Thomas, 1989; Collins, 1990) o una relazione non significativa (per esempio, Gomez-‐Mejia e Palich, 1997; Morck e Yeung, 1991). Allo stesso tempo, altre ricerche hanno suggerito una relazione non lineare a forma di “U” rovesciata (ad esempio, Geringer, Beamish, e da Costa, 1989; Gomes e Ramaswamy, 1999). Infine, alcuni studi hanno supportato la forma a “U” (per esempio, Capar e Kotabe, 2003; Lu e Beamish, 2001) o la forma a “S” orizzontale (ad esempio, Contractor, Kundu, e Hsu, 2003; Lu e Beamish, 2004).
Le differenze nei risultati ottenuti sono dovute ai diversi contesti di riferimento, ai diversi lassi di tempo sui quali si sono basate le ricerche e alle diverse misure utilizzate dagli autori: tutte queste variabili rendono difficile trovare una relazione universale tra internazionalizzazione e performance. In particolare Hennart (2011) sostiene che l’utilizzo di diverse misure del livello d’internazionalizzazione sia di primaria
importanza nel raggiungimento delle diverse conclusioni da parte degli studiosi. Risulta perciò fondamentale comprendere in cosa consistano le misure d’internazionalizzazione:
-‐ FSTS, Foreign Sales to Total Sales (vendite all’estero su vendite totali), la misura più diffusa a partire dallo studio di Vernon (1971) a oggi;
-‐ FATA, Foreign Assets to Total Assets (asset all’estero su asset totali); FETE, Foreign Employees to Total Employees (impiegati all’estero su impiegati totali); FITI, Foreign Income to Total Income (entrate provenienti dall’estero su entrate totali);
-‐ FD, Foreign sales Dispersion (dispersione delle vendite all’estero);
-‐ CC, Country Count (numero di paesi nei quali l’azienda è presente con delle filiali);
-‐ HMD, Host Market Diversity (diversità dei paesi ospitanti in cui la società opera).
Nella Tabella 1.1 elenchiamo alcuni autori che hanno utilizzato le diverse misure d’internazionalizzazione sopra indicate.
Tabella 1.1
Autori e misure d’internazionalizzazione
Autori Misura internazionalizzazione
Vernon (1971), Li (2005) FSTS
Ramaswamy (1992), Kim et al. (1993) FATA, FETE, FITI Kim et al. (1989), Hitt et al. (1997) FD
Lu e Beamish (2004), Tallman e Li (1996) CC Goerzen e Beamish (2003) HMD
Fonte: Li, 2007
Visti i risultati contraddittori ottenuti fino ad oggi, Hennart (2011) sostiene che, contrariamente all’attuale tendenza a cercare tecniche statistiche sempre più sofisticate, sia necessaria un’analisi più approfondita della relazione teorica tra internazionalizzazione e performance.
1.3.1. Diversificazione internazionale e performance
Focalizzando l’attenzione sul rapporto tra diversificazione internazionale e performance, Hitt, Hoskisson e Kim (1997) hanno riscontrato che è possibile descrivere tale relazione con una “U” rovesciata, con importanti implicazioni a livello teorico e manageriale. Hitt, Hoskisson e Kim (1997) hanno anche rilevato che la diversificazione di prodotto è un moderatore positivo della relazione tra diversificazione internazionale e performance. Secondo la ricerca di Lampel e Giachetti (2013), condotta analizzando i produttori di automobili a livello internazionale, anche la relazione tra diversificazione internazionale della produzione e performance è curvilinea, in particolare ha una forma a “U” rovesciata: questo significa che bassi e moderati livelli di diversificazione della produzione internazionale influenzano positivamente la performance, ma alti livelli di diversificazione internazionale della produzione producono effetti negativi sulla performance. Ai fini di evitare tali effetti negativi, i manager possono estendere le loro linee di prodotto per sfruttare le risorse già disponibili, poiché esse generano rendite attraverso diversi mercati a costi relativamente bassi. In particolare, la ricerca suggerisce che i produttori di automobili con un alto grado di internazionalità possono ottenere un ROI superiore se operano in segmenti di mercato che consentano lo sfruttamento di risorse complementari. I risultati dello studio suggeriscono che la co-‐ location delle attività di produzione e vendita può ridurre le conseguenze negative della diversificazione. La co-‐location consente alle aziende di ridurre i costi di coordinazione della produzione e dei fornitori attraverso diversi mercati. Secondo quanto concluso dalla ricerca, le aziende dovrebbero affrontare la co-‐location come un processo di continuo aggiustamento tra capacità e domanda, migliorando la capacità a servire il mercato locale, esportando in altri mercati, seguendo la domanda locale e focalizzando la produzione sui modelli che sono richiesti.
Riassumendo quanto affermato da Lampel e Giachetti (2013), per abbattere i costi in un contesto di produzione internazionale, l’ideale sarebbe agglomerare le attività di produzione e vendita.
L’esistenza di una relazione a “U” rovesciata tra diversificazione regionale e performance è confermata da Pan e Tsai (2012): secondo questo studio, quando la diversificazione è bassa, la performance è alta; quando c’è una maggiore diversificazione in diverse regioni, le differenze tra le diverse zone comporteranno un
aumento dei costi di gestione dovuti alla maggiore complessità della governance. Per raggiungere la migliore performance possibile, la ricerca suggerisce che con una bassa differenziazione regionale è consigliabile un sistema di controllo e allocazione di risorse centralizzati, mentre con un’alta differenziazione regionale è più appropriato un sistema decisionale decentralizzato.
Contrariamente a quanto riscontrato in precedenza, Lu e Beamish (2004) hanno per la prima volta ipotizzato una relazione a “S” tra diversificazione internazionale e performance. Anche secondo lo studio di Xiao et al. (2013), i quali si concentrano sullo studio di tale rapporto in Cina, la relazione tra internazionalizzazione e performance è a “S”. Questo significa che per livelli bassi o elevati di internazionalizzazione, la performance è bassa; le aziende traggono invece beneficio da un livello di internazionalizzazione moderato. In altre parole, questa ricerca indica che le aziende in Cina affrontano una diminuzione della performance se si focalizzano troppo o troppo poco sull’internazionalizzazione, beneficiando solo da un’internazionalizzazione moderata. Questo studio empirico suggerisce anche che non tutte le imprese beneficiano allo stesso modo dall’internazionalizzazione: solo le aziende in grado di sfruttare con successo le complementarietà istituzionali sia interne che esterne sono portate ad ottenere benefici sufficienti dall’aumento del livello di internazionalizzazione. In altri termini, Xiao et al. (2013) suggeriscono che, per trarre vantaggio dall’internazionalizzazione, saranno necessarie l'adozione di strutture di governance più orientate al mercato e lo sviluppo di vantaggi istituzionali derivanti da relazioni con il governo.
1.4. Offshoring
La delocalizzazione all’estero (in inglese “offshoring”) è una delle strategie d’internazionalizzazione più interessanti e discusse degli ultimi anni (Massini, Perm-‐ Ajchariyawong e Lewin, 2010; Massini e Miozzo, 2012; St. John, Guynes e Vedder, 2013; Musteen e Ahsan, 2013; Larsen, Manning e Pedersen, 2013). Grazie alla globalizzazione, le aziende hanno la possibilità di frammentare le proprie attività economiche delocalizzando ogni processo nei paesi più adatti ai fini della massimizzazione della performance: per svolgere le attività che richiedono una maggior quantità di lavoro, ci si può rivolgere a nazioni con salari a basso costo, mentre le attività che richiedono
maggiori competenze tecnologiche si possono delocalizzare in paesi più avanzati (Jabbour, 2010).
Come specificato da Jabbour (2010), è importante fare una distinzione tra “outsourcing” e “offshoring”. Fare outsourcing significa subappaltare a terzi alcune attività economiche dell’azienda, mentre si definisce offshoring la delocalizzazione all’estero di alcune attività dell’azienda. L’offshoring è una strategia d’internazionalizzazione, e quando essa avviene entro i confini dell’azienda stessa si parla di Investimento Diretto Estero verticale (vertical FDI); quando avviene attraverso transazioni di mercato si definisce outsourcing internazionale (international outsourcing).
L’offshoring può avere effetti positivi sulle performance: offrendo maggior flessibilità, permettendo all’azienda di concentrarsi sulle proprie “core competencies”, e dando modo di allocare al meglio le risorse disponibili (Abraham e Taylor, 1996). Grazie a questa strategia è possibile infatti subappaltare quelle attività nelle quali l’azienda non è sufficientemente competitiva e non possiede le competenze necessarie per diventare tale.
La strategia dell’offshoring implica però anche costi di governance e di transazione, i quali potrebbero provocare perdite di competitività (Antras e Helpman, 2004). Questi costi sono dovuti anche al processo di adattamento delle attività in un paese estero, il quale implica differenze nella lingua, nella cultura di gestione e nei sistemi legali.
1.4.1. Offshoring e performance
Un primo fattore che si può considerare quando si studia la relazione tra offshoring e performance, è il processo di selezione che porta le aziende ad attuare questa strategia di delocalizzazione internazionale. Infatti, come specificato nella ricerca di Wagner (2011), le imprese che delocalizzano all’estero sono diverse da quelle che non delocalizzano. In particolare, come rilevato da Wagner (2011), le aziende che delocalizzano sono (già da un anno prima della delocalizzazione) più grandi, hanno una maggiore produttività del lavoro (definita dal valore “vendite per dipendente”), fanno un uso più intenso di capitale umano, e hanno una quota maggiore di esportazioni sul totale delle vendite rispetto a quelle che non delocalizzano. Jabbour (2010) concorda con quanto sostenuto da Wagner (2011), affermando che le aziende si “selezionano” decidendo di attuare o meno l’offshoring a seconda della propria efficienza e della
propria capacità di gestire i costi associati a questa strategia. Tuttavia, Jabbour (2010) aggiunge che l’offshoring influenza anche a posteriori le performance delle aziende: questo avviene attraverso gli effetti che la delocalizzazione all’estero comporta sui costi variabili, attraverso la possibilità di incrementare il livello di specializzazione e grazie ai benefici delle economie di scala. Come accade in ogni circostanza, le aziende scelgono la modalità di organizzazione che minimizza i costi. Ciò si verifica anche nel contesto dell’offshoring, quando la scelta deve essere effettuata tra “vertical FDI” e “international outsourcing”. Bisogna considerare che, come sostenuto da Joskow (2005), l’integrazione verticale comporta inefficienze dovute a maggiori costi di governance e riduce la capacità dell’azienda di acquisire informazioni esterne su cambiamenti tecnologici, prezzi e costi. Tuttavia, in presenza di specificità degli asset e incompletezza dei contratti, l’outsourcing internazionale comporta elevati costi di transazione. L’azienda deve quindi effettuare le proprie scelte bilanciandosi in questo trade-‐off costituito da inefficienze di governance e costi di transazione.
L’offshoring permette l’accesso a risorse a basso costo (specie quando effettuato in paesi con salari a basso costo), riducendo i costi della produzione, ma permette anche alle aziende alla ricerca di fonti tecnologiche di importare risorse dai paesi più tecnologicamente avanzati. La location ideale sarà quindi scelta sia in base alla minimizzazione dei costi di governance e di transazione, sia in base agli specifici vantaggi offerti dai diversi paesi: secondo Jabbour (2010) quelli in via di sviluppo offriranno principalmente manodopera a basso costo (riducendo i costi variabili e incrementando la redditività), mentre quelli sviluppati apriranno l’accesso alle più recenti tecnologie (non limitando i costi variabili, ma mettendo a disposizione opportunità tecnologiche non disponibili nel paese d’origine dell’azienda).
Lo studio di Jabbour (2010) mette in relazione offshoring e performance, focalizzando l’attenzione sulle industrie manifatturiere francesi. Secondo quanto conclude Jabbour (2010), le conseguenze dell’offshoring sulla performance dell’azienda dipendono molto sia dalla modalità di governance, sia dalla location nella quale la produzione viene delocalizzata. In questo contesto, i risultati suggeriscono che l’outsourcing internazionale nei paesi in via di sviluppo è il solo a migliorare la performance dell’azienda. Per le industrie manifatturiere francesi, indipendentemente dalla location della produzione, l’outsourcing internazionale è più efficiente rispetto all’Investimento Diretto Estero verticale. Le ragioni che motivano questo risultato sono
che l’outsourcing limita i costi di governance e incrementa la capacità dell’azienda di concentrarsi sulle proprie core activities. Nello studio di Jabbour (2010) si afferma che l’outsourcing internazionale nei paesi in via di sviluppo riduce i costi di produzione e influenza positivamente la performance.
Si possono osservare fondamentali differenze sugli effetti della delocalizzazione all’estero tra le aziende che intraprendono l’offshoring inserendolo in una strategia corporate e quelle che lo intraprendono senza basarsi su alcuna strategia. Massini, Perm-‐Ajchariyawong e Lewin (2010) spiegano l’importanza di avere una strategia nell’intraprendere l’offshoring. Le aziende che hanno implementato una strategia per la delocalizzazione all’estero tendono a guardare oltre ai semplici benefici derivanti dai risparmi di costo: esse riconoscono anche l’opportunità di far leva sui vantaggi specifici dei diversi paesi e integrano l’offshoring nella loro strategia globale. Inoltre, esse hanno una visione più ampia dei possibili rischi associati a questa strategia d’internazionalizzazione, mentre questi rischi sono spesso trascurati dalle aziende che non pianificano alcuna strategia. I risultati della ricerca di Massini, Perm-‐ Ajchariyawong e Lewin (2010) mostrano che, se viene adottata una strategia, essa viene implementata già nelle fasi iniziali del processo di internazionalizzazione dell’azienda. L’applicazione di una strategia è inoltre più probabile nelle aziende che considerano l’offshoring come parte integrante della loro strategia globale (non solo come un mezzo per risparmiare sul costo del lavoro, ma in generale come un tentativo di raggiungere una maggior efficienza di costo). Questo studio dimostra inoltre che nelle aziende che implementano l’offshoring senza la guida di una strategia sottostante, si tende a osservare un trend negativo nei risparmi sui costi, mentre quelle che seguono una strategia riescono tendenzialmente ad incrementare i risparmi di costo man mano che espandono il loro campo di delocalizzazione internazionale. Massini, Perm-‐ Ajchariyawong e Lewin (2010) osservano che l’offshoring delle attività d’innovazione ha un effetto positivo sia sui risparmi di costo, sia sui risultati ottenuti: essi sottolineano in particolare che i risparmi di costo tendono ad essere più elevati nella delocalizzazione di attività di ricerca e sviluppo, design di prodotto, servizi d’ingegneria e sviluppo di software. Ciò è dovuto al fatto che queste attività richiedono lavoratori esperti e di talento, dei quali c’è sempre maggior scarsità nei paesi d’origine delle
aziende, mentre i paesi “low-‐cost” ne costituiscono un’ottima fonte (Lewin, Massini e Peeters, 2009; Manning, Massini e Lewin, 2008).
Come risulta da quanto appena esposto, l’inserimento della delocalizzazione internazionale all’interno di una determinata strategia è di fondamentale importanza. Questo è confermato anche dalla ricerca di Jensen e Pedersen (2012), i quali concentrano la loro attenzione sull’offshoring di attività avanzate. Essi rilevano che l’offshoring di attività avanzate è in genere parte di una strategia dell’azienda finalizzata al raggiungimento della competitività internazionale, grazie all’accesso a risorse e fonti di conoscenza estere. Questo studio mostra inoltre che le aziende sono spinte a delocalizzare all’estero attività avanzate più per accedere a conoscenze e competenze di alta qualità, piuttosto che per risparmiare sui costi. Jensen e Pedersen (2012) sottolineano tuttavia che tuttora l’offshoring di attività manifatturiere avanzate “experience-‐based” sembra essere più diffuso rispetto all’offshoring di attività di servizi avanzati.
Recenti studi mostrano che l’implementazione dell’offshoring negli ultimi anni non avviene più solo come una scelta tra Investimento Diretto Estero verticale e outsourcing internazionale, ma può avvenire anche come accordo di partnership. Tramite un’analisi della letteratura, St. John, Guynes e Vedder (2013) dimostrano che, nell’ambito dell’offshoring, molti rapporti cliente-‐fornitore sono passati da “relazioni strategiche con poco coinvolgimento reciproco” a “partnership strategiche più collaborative”. Essi spiegano come la comunicazione costituisca un fattore fondamentale nella delocalizzazione all’estero, ed evidenziano come vi sia una relazione positiva tra comunicazione e fiducia, anch’essa molto rilevante in questo tipo di rapporti. Grazie a quanto deducono tramite la loro ricerca, St. John, Guynes e Vedder (2013) sono convinti che la relazione di partnership, vista come strumento di mediazione, sarà positivamente correlata al successo dell’offshoring.
1.4.2. Offshoring e produttività del lavoro
Esistono diversi studi che analizzano la relazione tra offshoring e produttività del lavoro. Dal nostro punto di vista questo rapporto è importante, poiché un incremento della produttività può migliorare in maniera indiretta la performance dell’azienda.
Una prima ricerca interessante è quella di Grossman e Rossi-‐Hansenberg (2008), i quali hanno introdotto una prospettiva diversa da quella convenzionale: essi si basano sull’attuale tendenza al commercio di funzioni/mansioni (task trading) piuttosto che far riferimento all’impostazione classica del commercio in beni. Gli autori hanno riscontrato che una diminuzione del costo in “task trading” aumenta direttamente la produttività dei fattori i cui task diventano più semplici da muovere offshore. Secondo quanto trovato da Grossman e Rossi-‐Hansenberg (2008), se il conseguente adeguamento dei prezzi relativi non è troppo elevato o l’impatto sui prezzi dei fattori non è troppo forte, tutte le aziende nel mercato domestico possono beneficiare dei guadagni derivanti dal miglioramento delle opportunità di delocalizzazione.
Un’altra ricerca importante da menzionare rispetto a questo tema è quella condotta da Görg e Hanley (2005). Gli autori si sono basati sull’analisi di dati relativi a imprese irlandesi nel settore dell’elettronica per il periodo 1990-‐1995. I risultati di Görg e Hanley (2005) forniscono delle prove che l’offshoring possa aumentare la produttività del lavoro, e i loro risultati implicano anche che i benefici derivanti dall’offshoring sono diversi a seconda delle funzioni delocalizzate.
È interessante introdurre a questo punto il lavoro di Ito, Wakasugi e Tomiura (2008), che si propone di fornire prove empiriche degli effetti dell’offshoring sull’efficienza della produzione e di capire se l’offshoring influisce sulla crescita della produttività del lavoro delle imprese. Con la raccolta di dati dettagliati a livello d’impresa sulle attività economiche in gioco e sulle destinazioni nel contesto dell’offshoring, il lavoro di Ito, Wakasugi e Tomiura (2008) ha esaminato i diversi impatti che l’offshoring ha sulla produttività a seconda delle operazioni delocalizzate e a seconda delle destinazioni scelte. Essi hanno stimato il modello di produttività dinamica su un ampio campione d’imprese manifatturiere giapponesi per i periodi 1999-‐2000 e 2004-‐2005. Bisogna notare che, mentre Görg e Hanley (2005) hanno guardato solo le funzioni delocalizzate, Ito, Wakasugi e Tomiura (2008) hanno considerato che anche la destinazione scelta ha un impatto sulla produttività. Questo risulta di grande importanza: infatti, al fine di aumentare la competitività dell'azienda, sta diventando sempre più importante trovare fornitori offshore in grado di fornire alta qualità a costi più convenienti rispetto ai fornitori del paese d'origine. Ciò è di ancora maggior rilievo se si considera che la delocalizzazione avviene sempre più anche per servizi finanziari, legali e di assistenza ai clienti. Dal momento che fattori specifici del mercato (quali le
istituzioni, il livello di sviluppo, ed i costi) influenzano la produttività delle operazioni di outsourcing, è interessante esaminare come l'impatto della delocalizzazione cambia a seconda della destinazione. Secondo lo studio di Ito, Wakasugi e Tomiura (2008), la delocalizzazione all’estero di attività per la produzione di beni intermedi e di attività per l’assemblaggio finale, così come la delocalizzazione delle attività di ricerca e sviluppo e di servizi d’informazione, influenza positivamente la crescita della produttività, mentre l'esternalizzazione di altre funzioni di servizio non ha un impatto significativo sulla produttività. Nello studio di Ito, Wakasugi e Tomiura (2008) è stato rilevato che le imprese che hanno delocalizzato negli Stati Uniti o in Europa hanno ottenuto maggior efficienza di produzione, seguite da quelle che hanno delocalizzato in Asia, mentre quelle che non hanno effettuato l’offshoring sono state le meno produttive. L’ultimo studio che vogliamo citare in questo contesto è quello di Moser, Urban e di Mauro (2009). Questi autori hanno riscontrato che un’impresa media che pratica l’offshoring ha una maggiore occupazione, una maggiore produttività e una maggiore quota di mercato nazionale ed estero rispetto a un’impresa che non delocalizza all’estero. Dal loro studio risulta che, indipendentemente dall’attuazione dell’offshoring o meno, la profondità della produzione rimane invariata, indicando che l’offshoring opera prevalentemente attraverso una sostituzione di fornitori domestici con fornitori esteri, piuttosto che attraverso una riduzione della produzione nel mercato domestico. Moser, Urban e di Mauro (2009) hanno trovato che un aumento della quota di input intermedi esteri sugli input totali ha un significativo effetto positivo sull’occupazione nell’azienda nel mercato domestico. Secondo questo studio, quindi, le imprese che praticano l’offshoring aumentano la loro produttività media del lavoro, migliorano la loro competitività, aumentano la loro quota di mercato nazionale ed estero rispetto a imprese “gemelle” che non delocalizzano all’estero.
1.4.3. Un nuovo trend: l’offshoring di prossima generazione
Assumiamo ora una prospettiva che ci permette di capire la direzione presa dalle aziende che delocalizzano all’estero seguendo gli sviluppi più recenti che sono stati osservati.
Manning, Massini e Lewin (2008), partendo dall’analisi sull’Offshoring Research Network (ORN) cominciata nel 2004, hanno rilevato che, tra 2004 e 2006, l’accesso a personale qualificato è diventato la seconda motivazione alla base dell’offshoring dopo i
risparmi di costo. Per lo stesso periodo essi hanno riscontrato inoltre che, dopo le Tecnologie d’Informazione, lo sviluppo di nuovi prodotti è la seconda attività più delocalizzata all’estero. Le motivazioni alla base di questo recente sviluppo sono molteplici: da un lato c’è sempre maggior richiesta di scienziati e ingegneri altamente qualificati, dall’altro le economie occidentali non stanno riuscendo a mantenere un livello adeguato di offerta di personale dotato di queste specializzazioni, mentre allo stesso tempo nelle economie in via di sviluppo si stanno creando importanti cluster di scienziati e ingegneri altamente specializzati. I risultati dell’ORN 2006, analizzati da Lewin e Couto (2007), mostrano che le aziende tendono a delocalizzare sempre più dove hanno modo di trovare i maggiori talenti, e per talenti s’intende personale con adeguate capacità e qualifiche. Il numero di laureati nelle aree d’interesse risulta stagnante in Stati Uniti ed Europa fin dalla metà degli anni novanta, mentre le fonti di questi laureati stanno aumentando rapidamente in paesi come India e Cina. Secondo Disher e Lewin (2007) le spese globali in attività ingegneristiche in tutte le industrie aumenteranno del 30% tra 2006 e 2020 (da 850 a 1100 miliardi di dollari), e tutto questo aumento di lavoro verrà svolto al di fuori delle economie occidentali. Recenti studi mostrano che la delocalizzazione all’estero delle funzioni più avanzate è principalmente guidata dalla presenza di personale qualificato, a dispetto della diminuzione dei vantaggi di costo (Bunyaratavej et al., 2007). Grazie ad un continuo miglioramento dei sistemi educativi, i laureati nei paesi in via di sviluppo stanno diventando sempre più comparabili a quelli delle economie occidentali. Inoltre, si sta invertendo la fuga dei cervelli: molti studenti originari di paesi in via di sviluppo conseguono la laurea in occidente per poi tornare nel paese d’origine a lavorare. Questi sviluppi stanno contribuendo alla formazione di concentrazioni geografiche di lavoratori qualificati e fornitori di servizi specializzati in India, Cina, e altri paesi in via di sviluppo, creando poli d’attrazione sia per le multinazionali, sia per le aziende locali. Questi nuovi cluster geografici tendono a svilupparsi attorno a specifiche funzioni o servizi a monte, piuttosto che attorno a particolari industrie. Confrontando diversi paesi nei quali tali cluster si sono formati, l’India resta il più importante, soprattutto per i servizi e lo sviluppo di nuove tecnologie riguardanti le Tecnologie d’Informazione e Comunicazione (Dossani & Kenney, 2007; Henley, 2006; Lieberman, 2004). Tuttavia, in termini d’investimenti diretti esteri, compresa la produzione, la Cina è sempre stata davanti all’India come destinazione per l’offshoring (UNCTAD, 2005). Ora però anche la