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Analogie e differenze fra le memorie sulla Resistenza nelle diverse comunità del Centro Cadore

della Resistenza in Cadore

6.3. Analogie e differenze fra le memorie sulla Resistenza nelle diverse comunità del Centro Cadore

La comparazione tra le memorie private che sono state raccolte nelle diverse comunità del centro Cadore, ha permesso di trarre alcune conclusioni: in primo luogo, a differenza di ciò che accade a livello nazionale, dove permane una varietà di memorie spesso contrastanti sui fatti della Resistenza, si è osservato

come esse non costituiscano un elemento di divisione sociale significativo tra la popolazione di una ristretta aerea geografica. Al contrario, è emersa la presenza di un'opinione dominante, la quale consiste nel considerare la guerra come la peggiore delle calamità, una catastrofe che viene imposta «dall'alto» e i cui effetti ricadono sulla gente, vittima impotente di qualcosa che non può essere controllato in alcun modo. Le conseguenze di essa, come bombardamenti, miseria e rappresaglie violente, vengono accettati, perché inevitabili e sono quasi «giustificati» in nome di qualcosa che trascende la dimensione privata e che rende inutile qualsiasi azione personale di contrapposizione ad essa. Il ché apparirebbe come un atto velleitario, fine a se stesso. Per questo, le gesta dei partigiani nelle realtà locale vengono considerate quasi delle «anomalie» del sistema, mentre non mancano i pareri favorevoli per la Resistenza, vista in qualità di «macro-fenomeno», di portata nazionale, avulsa quindi dalla dimensione ridotta della realtà quotidiana di ogni individuo. Sembra che si dia credito solo a ciò che «non si conosce», ovvero ciò che non può intaccare in alcun modo lo scorrere regolare della vita della collettività e che è bene che ci sia, basta non esserne direttamente coinvolti. Qualcosa di icastico quale un atto di sabotaggio avventato, un colpo di mitraglia, un crollo di un ponte, servono solo a creare disagio a tutta la comunità e non contribuiscono in alcun modo alla realizzazione di obiettivi di portata nazionale. Pare che non ci si renda conto (o ci si rifiuti semplicemente di farlo) che l'epopea della Resistenza in Italia ha avuto modo di esistere grazie ai piccoli focolai, sparsi in tutta la penisola, che, progressivamente, sono cresciuti fino ad avere l'intensità di un'unica grande fiamma. Subire la «bestia nera» della guerra con tutto ciò che comportava era l'unico atteggiamento da mantenere, nell'attesa che gli eventi ritornassero alla normalità e che l'onda di sangue e violenza sparisse improvvisamente, così com'era arrivata. Salvo rare eccezioni, l'unica via di fuga da questi orrori sembrava essere la passività e l'obbedienza all'autorità qualunque essa fosse, a costo di calpestare sentimenti e principi morali (lealtà) in nome del «quieto vivere». Se ancora oggi prevalgono

queste idee, significa che questa è stata l'ipotesi assorbita dalle radici della comunità, come una linfa vitale, per non stravolgerne gli equilibri. In secondo luogo, come è stato ribadito più volte, si è notata una comprensione e accettazione solidale della presenza delle forze straniere occupanti in Cadore, viste anch'esse, in alcuni casi, come vittime della situazione contingente. Ancora una volta, si può considerare come il «pensiero collettivo» sia prevalso e continui a prevalere su quello del singolo, nell'ambito del processi di sedimentazione della memoria storica.

7. Conclusione

Qual è stato l'obiettivo che si era prefissati di raggiungere narrando la vicenda di Terenzio Baldovin? Quali stratificazioni della memoria sono riemerse nei paesi del Centro Cadore in cui essa è stata raccontata? È stato utile esporla attraverso la pratica della Public History? A queste domande si proverà a dare una risposta, facendo soprattutto riferimento al ruolo effettivo che l'attività di un public historian può avere in una realtà sociale come quella delle comunità di montagna.

In primo luogo, riguardo alle finalità che mi ero proposto di conseguire attraverso la pubblica rappresentazione della storia del Baldovin, posso affermare che esse sono state principalmente di carattere didascalico: far conoscere alla comunità di cui faceva parte, la vita di una persona «dimenticata», cercando di coinvolgere in particolar modo le giovani generazioni. Non ho voluto strumentalizzarne il racconto per il perseguimento di intenti politici o ideologici, piuttosto, ho cercato di liberare la figura di Terenzio dai pregiudizi spesso ingiustificati, che l'hanno relegato in un angolo controverso della storia del suo paese d'origine. Rimuovere l'ideale strato di polvere sedimentatosi sulla sua vicenda non è stato affatto semplice e la difficoltà maggiore è stata avvertita soprattutto nel momento in cui mi sono confrontato direttamente con le persone, da cui ho cercato di ottenere il maggior numero di informazioni possibile, necessarie per arricchire l'esigua documentazione cartacea già in mio possesso. Del resto, non dev'essere stato facile nemmeno per i miei interlocutori, riportare alla mente un periodo così tormentato come quello della Seconda Guerra Mondiale, con le sue atrocità e contraddizioni. Se dire, in questa sede, di essere riuscito a restituire al Baldovin la giusta considerazione da parte del paese di Lozzo, sarebbe alquanto azzardato, non lo sarebbe affermare di essere riusciti a ravvivare il ricordo delle sue azioni, creando magari una scia di discussioni e dibattiti, che hanno riproposto temi di cui non si sentiva parlare da lungo tempo a livello

comunitario. Ad esempio è stato dato nuovo rilievo alle dinamiche del rapporto tra partigiani e popolazione. Ciò che è emerso in questo senso è che nelle zone del Centro Cadore, non vi fu mai un'adesione incondizionata della gente alle bande di ribelli. Al contrario, se con il loro operato i partigiani proponevano l'idea del sacrificio, del martirio e del sangue, necessari per la liberazione, la comunità li riteneva giovani incoscienti che avevano messo a repentaglio la vita di tutti.

Si è potuto verificare che tale opinione non è stata solo il retaggio di un recente passato, portato dalle contingenze che la gente subiva in quel preciso momento storico, bensì si è protratto fino ai giorni nostri, come parte integrante di quel bagaglio intergenerazionale che i genitori trasmettono ai figli assieme al proprio codice genetico. Sovvertire questa situazione con un tentativo isolato come lo spettacolo sul Baldovin è impensabile, l'unica cosa che può essere fatta è non smettere di riportare in superficie storie come la sua, nella speranza che con il passare degli anni, certe posizioni si acuiscano e lascino spazio ad una presa di coscienza dei fatti più obiettiva. Per quanto riguarda la maniera in cui lo spettacolo su Terenzio è stato assorbito, si può osservare che, anche se nel complesso il bilancio è stato positivo, esso non ha avuto la stessa efficacia su ogni comunità a cui è stato proposto. Se nei paesi di S.Vito e di Lorenzago ho potuto constatare una numerosa affluenza di pubblico in sala, a Lozzo, dove pensavo fosse più evidente la necessità, da parte della popolazione, di assistere alla messa in scena di una frammento della sua storia, la partecipazione di autoctoni è stata davvero irrilevante, probabilmente proprio perché la maggioranza della gente si sarebbe sentita coinvolta nella vicenda e certi sentimenti mai assopiti avrebbero potuto riproporsi con forza. Rivivere insieme tali sensazioni, a mio avviso, sarebbe stata una sorta di «catarsi collettiva», una valvola di sfogo per antichi dissapori e l'esternazione di emozioni contrastanti, che sono la sostanza della pratica teatrale e della relazione tra attore e spettatore. In tal senso maggior coinvolgimento emotivo si è avvertito nell'ascoltare le testimonianze di chi ha raccontato la sua esperienza in un

contesto privato, nell'ambiente accogliente della propria casa, dove anche le lacrime possono scorrere dagli occhi senza il timore di essere visti dagli altri e una persona può esprimere liberamente le proprie emozioni.

Abbandonando il caso specifico di Terenzio Baldovin, è bene chiedersi se sia veramente utile praticare la Public History in una realtà sociale periferica, come quella delle piccole comunità di montagna. Innanzitutto si deve considerare che tale disciplina «si rivolge a pubblici eterogenei, non specialisti, ma interessati alla storia e alla memoria334» e che un public

historian rifiuta in senso assoluto la distinzione propria degli storici accademici tra storiografia e memoria, in quanto è convinto che entrambe siano manifestazioni del passato che devono essere conservate. In quest'ottica, la memoria non deve sostituirsi alla storiografia basata sulle «fonti tradizionali», ma esserne un importante strumento di supporto. Una distinzione va comunque fatta tra la memoria privata, semplice ricordo del passato, quindi della storia e quella collettiva, frutto di lunghi processi di mediazione sociale. Riproporre una storia perché non sprofondi nell'oblio è il compito di ogni public historian, che attraverso una «narrazione pubblica del passato» permette «alla memoria collettiva di farsi storia nel presente335.» Come si è potuto osservare anche nella

vicenda del Baldovin, la memoria che si è cercato di recuperare è derivata non solo da «fonti ordinarie», ma anche da luoghi, oggetti, documenti virtuali e testimonianze di storia orale. In questo modo non solo un individuo o un fatto, ma l'intera comunità diventa oggetto d'indagine. Infatti non è raro che la Public History promuova la storia come patrimonio culturale identitario di una nazione, di una regione o di un paese. Come è stato, ad esempio, per le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Anche queste commemorazioni sono la dimostrazione di come, con la storia, si possano «carpire le ragioni e la complessità del passato per illuminare il presente336».

Quella del public historian non è una storia come quella del «romanziere

334 Cit. Da Noiret, La Public history: una disciplina fantasma?, p. 9. 335 Cit. Da Ibidem, p. 10.

perché si basa sull'inchiesta storica e sulla discussione delle prove che permettono di far prevalere il vero sul falso337». Inoltre, la sua attività è volta a

risolvere il problema dell'incomunicabilità della ricerca accademica; dal momento che spesso «il vasto pubblico appassionato di storia ignora scritti degli specialisti, specie quelli di storici di professione autoreferenziali, poco comunicatori338». Riguardo alla Public History che conserva la capacità di

colmare la distanza tra gli storici ed il pubblico Nicola Gallerano ha affermato che essa è «tutto ciò che si svolge fuori dai luoghi deputati della ricerca scientifica in senso stretto, della storia degli storici, che è invece scritta di norma per gli addetti ai lavori e un segmento molto ristretto del pubblico339

Da questo punto di vista, un gran sostegno è dato dai moderni mass-media, che, oltre a preservare la memoria di un evento, ne permettono la diffusione in larga scala e, come dice Serge Noiret, favoriscono «le auto-rappresentazioni memoriali340». Nel caso di Terenzio Baldovin, la creazione di un blog ad hoc,

da parte di Tullia Zanella, ha permesso di facilitarne la divulgazione della storia e ha consentito anche a coloro che non hanno assistito allo spettacolo, di venirne a conoscenza, consultando telematicamente documenti (quali lettere e biglietti inviati dal campo di Bolzano) e visionando fotografie.

C'è da dire che spesso la Public History viene confusa con le pratiche di «uso pubblico della storia», che si svolgono nell'ambito di associazioni pubbliche e private, biblioteche, archivi e che sono legate a degenerazioni strumentali della storiografia, la quale s'inchina alle ragioni del momento politico. In realtà, essa non serve per la creazione di «guerre strumentali sul passato», bensì per la «promozione pubblica della storia al servizio della società341». Le rievocazioni storiche più intense, che vanno ad intaccare la

costruzione della memoria collettiva, sono quelle che si servono dei medesimi

337 Cit. Da Ginzburg, Mythes, emblèmes, traces morphologie et histoire, p. 38.

338 Cit. Da Francesca Maria Anania, I media motore della storia nel tempo presente, in

Ricerche Storiche, a. 39, nn. 2-3, maggio-dicembre 2009, p. 273.

339 Cit. Da Nicola Gallerano, Storia e uso pubblico della storia, Franco Angeli, Milano,

1995, p. 17.

340 Cit. Da Noiret, La Public history: una disciplina fantasma?, p. 22. 341 Cit. Da Ibidem, p. 22.

«veicoli culturali della memoria342» e che non trovano un consenso generale

nella comunità e nel tessuto civile ed in alcuni casi si contrappongono a commemorazioni di segno opposto343.

È anche attraverso la Public History che un paese può ricercare una propria natura fondante ed è portato a riflettere su processi identitari innovativi, composti da memorie condivise, rituali e tradizioni344. In questo modo la

storiografia stessa si affida a nuove tecniche di narrazione ed utilizza «veicoli della memoria» quali oggetti e documenti rilevati da musei e mostre, che sono gli spazi della memoria organizzata, destinati altrimenti alla sola funzione espositiva.

Oltre alla mera conoscenza della storia si viene a creare un'accettazione del passato di una comunità che attraverso una rievocazione può non solo contemplare, ma anche partecipare e rivivere i fatti narrati, immedesimandosi in essi e facendoli ancor più propri. Si rafforza così il senso di appartenenza dell'individuo ad un contesto socio-culturale ben definito.

Quando un ricordo assopito riaffiora alla mente di una persona esso va a costituire il filo di un intricato tessuto che è quello della memoria collettiva, su cui un intero popolo regge la sua struttura sociale e attraverso il quale si pone in relazione agli altri popoli. Far riemergere quel pensiero soverchiato dalle sabbie del tempo e riproporre la storia nella sua dimensione più oggettiva, credo sia il compito principale per ogni public historian, il quale può essere un utile mezzo di diffusione culturale nella complessità ed eterogeneità del mondo contemporaneo.

342 Cit. Da Alon Confino, Collective Memory and Cultural History: Problems of Method,

in The American Historical Review, vol. 102, n. 5, dicembre 1997. p. 1387.

343 Si veda Vera Caroline Simon, Rivoluzione e Unità. Vent'anni di cultura della memoria

nella Germania Unita, in Celebrare la nazione. Anniversari e commemorazioni nella società contemporanea, in Memoria e Ricerca, n. 34, maggio-agosto 2010, pp. 81-94.

344 Si veda Bo Stråt, Myth, Memory and History in the construction of Community:

Appendici

Documenti e fotografie sono allegati a parte su cd e sulla versione cartacea.

Fonti primarie