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II.6. L’erede: Francesco Parravicino e la finanza di guerra

III.1.4. Gli anni milanesi

Graduale ritiro dal giro degli affari internazionali, disimpegno di gran parte degli juros posseduti e investimenti in fruttuosi beni immobili sul suolo lombardo. Sono que- sti i binari principali lungo i quali si mosse Muzio Parravicino nell’ultimo periodo della sua vita, trascorso, come sappiamo, a Milano, dove dal 1603 aveva assunto la guida della Tesoreria e dove rimase fino alla morte, sopraggiunta nel febbraio del 1615.

L’inventario dei beni lasciati dal finanziere comasco testimonia con chiarezza il tipo di percorso da lui intrapreso dopo la partenza dalla Spagna e l’arrivo nella città lombarda. Dei numerosi juros al quitar sottoscritti a Madrid non era rimasto che quello assegnato sull’alcabala di Toledo, che gli rendeva ancora 30.000 maravedises di interessi all’anno. Restava poi la rendita garantita dal censo sui beni del duca di Osuna, scesa a 502.038 maravedises annui in seguito a una riduzione del tasso di ren- dimento dal 6,25% al 5%, e quella di un altro consistente censo di 612 ducati annui (229.500 maravedises) «che paga il Principe d’Ascoli sopra il suo Stato»84. Non erano

stati invece ridimensionati gli effetti posseduti sulle entrate dello Stato di Milano, che anzi si erano accresciuti grazie a nuovi (ma sfortunatamente non documentabili) acquisti. Il Parravicino lasciava infatti agli eredi un reddito annuo di 9.238 lire e spicci sulla ferma del sale, pari alla capitalizzazione al 6,5% di un investimento di 142.000 lire, e un altro di 780 lire sul dazio della mercanzia, rendimento annuo di un capitale 12.000 lire remunerato al medesimo tasso di interesse85.

Il Parravicino aveva dunque provveduto a ritirare le somme in precedenza inve- stite negli effetti del debito pubblico castigliano, riconvertendo il denaro in altre forme di investimento, evidentemente più sicure o comunque più facilmente control-

84Muzio vantava altresì dei crediti arretrati sui due censi: 6.000 scudi circa su quello dell’Osuna e

3.000 su quello del Principe d’Ascoli. Quanto a quest’ultimo, si trattava di un reddito pari a 8.171 ducati napoletani al tasso di interesse del 7,5%, per una rendita annua, in valuta napoletana, di 612 ducati, asse- gnata «ex introitis officiorum Magistrorum actatum et baiulationum civitatis Asculi et terra Atellae». L’ac- quisto di tale censo fu effettuato nell’ottobre del 1606 e il procuratore di Muzio incaricato di riscuoterne gli interessi era tale Scipione Maffa, di Salerno: ASMi, Notarile, cart. 22476, procura rogata da Giulio Cesare Marliano, Milano, 14 aprile 1614. Difficile dire quale fosse l’origine del debito del principe di Ascoli, don Antonio de Leyva, nei confronti del Parravicino: probabilmente un prestito da questo con- cessogli in passato, il cui rimborso fu consolidato nel censo, garantito su alcuni proventi fiscali della città abruzzese. Don Antonio de Leyva era figura di spicco dell’élite lombarda e dal 1607 era membro del Con- siglio segreto (Cfr. ARESE, Le supreme cariche cit., p. 136); egli risiedeva oltretutto nella stessa parrocchia

del Parravicino, in S. Stefano in Brolo, ed era probabilmente in rapporti costanti con lui: ASMi, Notarile, cart. 22479, obbligatio dell’8 maggio 1616 davanti al notaio Giulio Cesare Marliano.

85ASMi, Notarile, cart. 22478, inventario stilato da Giulio Cesare Marliano, Milano, 30 maggio 1615.

L’inventario riporta per la verità anche altri quattro juros intestati a Muzio (sull’alcabala di Guadalaara e Bustalanze, sulle tercias di Cordova e sul diritto di estrazione delle lane), che non sono però conteggiati sotto la voce redditi, bensì figurano tra le carte rinvenute in un forziere d’ebano conservato nell’abitazione del tesoriere. L’impressione è che si trattasse degli atti di sottoscrizione di tali titoli, il cui disimpegno non era ancora stato evidentemente certificato. Documentazione successiva induce comunque a essere cauti nel ritenere esaustivo l’inventario redatto nel 1615; risulta infatti che nel 1624 il figlio ed erede di Muzio, Francesco, godesse ancora, oltre che del titolo sull’alcabala di Toledo, di un reddito annuo di circa 300.000

maravedises sulle saline di Murcia e uno di 75.000 su quelle di Atienza, relativi a juros sottoscritti dal

padre: AGS, CM, leg. 735, fasc. 7, atto di vendita di detti effetti a Giovanni Gerolamo Spinola, curato dal procuratore di Francesco, Settimio Greco, Madrid, 23 settembre 1624. Al momento della morte, inoltre, Muzio era ancora creditore di metà della somma (40.000 scudi) forzosamente consegnata al conte di Fuen- tes nel 1604 e di ben 90.000 lire messe a disposizione della compagnia di Giovanni Parravicino (il nipote) e Giovanni Angelo Chivati «per denari che essi girano a cambio».

labili da Milano: una parte minoritaria in titoli garantiti dall’Hacienda lombarda (assai più facili da incassare) e la quota più cospicua, come si vedrà, in beni immobili.

Il disimpegno degli juros castigliani fu realizzato a partire dal 1607 da Juan de Sal- zedo, un finanziere residente a Madrid che Muzio nominò quale proprio procuratore con il compito precipuo di chiudere i conti da lui lasciati ancora aperti in Spagna, sal- dare vecchie pendenze, incassare arretrati e, per l’appunto, recuperare il capitale inve- stito nei diversi titoli, alienandoli a terzi o retrovendendoli alla Corona86. La prima

operazione attestata è del novembre di quello stesso anno, allorché il Salzedo, otte- nuta la cedola reale di disimpegno su istanza personale di Muzio, incassò dal tesoriere di Castiglia, Garciamaço de la Vega, 682.500 maravedises per il «prezzo principale» del juro al quitar (al tasso del 7,14%) assegnato sull’alcabala di Madrid87. A questa

seguirono quindi tutte le altre dismissioni, distribuite negli anni compresi tra il 1609 e gli ultimi mesi di vita del tesoriere, nel 161588.

L’aspetto di gran lunga più interessante dell’inventario fatto compilare da France- sco Parravicino per accertare la consistenza dell’eredità paterna riguarda la sezione dedicata ai beni stabili. Da essa emerge infatti con estrema evidenza la svolta effettuata da Muzio negli ultimi dieci anni della sua vita, allorché l’investimento immobiliare divenne per lui predominante e la terra si trasformò nel ‘forziere’ ideale in cui river- sare denaro senza correre troppi rischi, ricevendo in cambio utili comunque signifi- cativi. Il periodo storico era inoltre quantomai propizio a questo genere di in- vestimenti, in virtù di un costante aumento del valore commerciale dei terreni agricoli iniziato nello scorcio finale del XVI secolo e ancora in atto nel primo quindicennio del Seicento, sostenuto da una forte domanda di tali terreni, dalla crescita dei prezzi dei prodotti agricoli e da una pressione fiscale ancora sopportabile89. Come sta a

dimostrare pure il comportamento di altre importanti famiglie lombarde dell’epoca – ad esempio i Frisiani e i Lucini, per citare solo i casi studiati da Aldo De Maddalena – l’investimento in terra non costituiva un mero rifugio, almeno fino alla conclusione della terza decade del XVII secolo. La remunerazione del capitale era ancora buona, così come alta si manteneva la redditività dei beni fondiari. In questo contesto, dun- que, le ambizioni extra-economiche – cioè l’anelito a risalire la scala sociale attraverso l’acquisizione di feudi e titoli nobiliari – si sposavano assai bene con le motivazioni di natura strettamente economica che muovevano l’operare di Muzio90.

86AGS, CM, leg. 731, fasc. 43, procura rogata davanti al notaio Baldassare Caimi, Milano, 3 luglio

1607.

87 Ivi, negoziazione del 27 novembre 1607. Il Parravicino richiese espressamente al Consejo de

Hacienda l’opzione per poter disimpegnare il suo juro e ottenne il via libera della Contaduría nel giro di

un mese: AGS, Consejo y Juntas de Hacienda, leg. 480-14, memoriale del Parravicino, Milano, 2 ottobre 1607, e replica dei Contadores, Madrid, 9 novembre 1607.

88AGS, CJH, legs. 490-5, 495-13, 505-11 e 509-14.

89Cfr. A. DEMADDALENA, Formazione, impiego e rendimento della ricchezza nella Milano spagnuola.

Il caso di Gottardo Frisiani (1575-1608), in IDEM, Dalla città al borgo cit., pp. 46-92 e in particolare alle pp.

80-85. Anche D. ZANETTI(La demografia del patriziato milanese nei secoli XVI-XVII-XVIII, Pavia, Uni-

versità di Pavia, 1972) concorda su questo punto, convinto che almeno fino agli anni ’30 del Seicento gli investimenti nella terra del patriziato e della ‘borghesia’ lombarde rispondessero a precise strategie eco- nomiche e non fossero un rifugio inerte della ricchezza accumulata.

90Su questi temi si vedano le considerazioni di A. DEMADDALENA, L’immobilizzazione della ricchezza

Dopo un fallimentare tentativo di acquistare il feudo di Soresina, per il quale offrì inutilmente 25.000 scudi nel 1606, il Parravicino concentrò i propri investimenti nelle fertili pianure del Lodigiano, dove in pochi anni gli riuscì di mettere assieme una con- siderevole fortuna, pur senza poter acquisire il titolo nobiliare che invece il fondo cre- monese gli avrebbe garantito91. Nella lista riportata dal suo notaio di fiducia, Giulio

Cesare Marliano, figurano cinque possessioni, tutte localizzate nell’area a nord di Lodi:

– una di 850 pertiche a Montanaso, adacquata con l’acqua della roggia omonima (Montanasa) e dotata di una dimora nobiliare con un giardino, la casa del massaro, una cascina, una stalla, una casera e diverse piccole abitazioni per ospitare i braccianti;

– un appezzamento di terre prative, paludi e vigne, denominato le Basse, esteso su 600 pertiche, con tre case da massari e braccianti;

– un altro appezzamento di minor entità (400 pertiche), denominato la Malpiga, anch’esso solcato da una roggia e contraddistinto dalle abitazioni del massaro, dei braccianti e da una stalla;

– un fondo di 850 pertiche noto come il Pulignano, situato presso la Torretta, costituito da terreni prativi e arativi, dotato pure di cascina, stalla e case per i brac- cianti e il massaro;

– da ultimo, un appezzamento denominato la Canova, pari a 490 pertiche, «con i suoi edificij e una ragione d’acqua». Per quest’ultimo possedimento, così come per quello della Malpiga, al momento della morte Muzio aveva versato soltanto un anti- cipo e si era accordato con i precedenti proprietari – rispettivamente i fratelli lodi- giani Livio e Carlo Confalonieri e tale Bianca Margherita Visconti – per saldare il conto. La quota residua da versare era di 45.000 lire per la Malpiga e di 30.000 lire per la Canova92.

282. La questione dell’investimento di sempre più ingenti capitali mobiliari in beni fondiari, urbani e rustici è stato oggetto di grande discussione fra gli storici dell’Italia spagnola, intrecciandosi con il pro- blema della cosiddetta rifeudalizzazione; su tali argomenti, oltre all’ormai datato L. BULFERETTI, L’oro, la

terra e la società. Un’interpretazione del nostro Seicento, in Archivio Storico Lombardo, LXXX (1953), pp.

6-66; rinvio alle considerazioni di SELLA, L’economia lombarda cit., pp. 247-286; e a quelle più recenti

fornite da G. CHITTOLINI, Poteri urbani e poteri feudali-signorili nelle campagne dell’Italia centro-setten-

trionale fra tardo Medioevo e prima Età moderna, in Società e Storia, n. 81 (1998), pp. 473-510; e V. BEO-

NIOBROCCHIERI, «Piazza universale di tutte le professioni del mondo». Famiglia e mestieri nel Ducato di

Milano in età spagnola, Milano, Unicopli, 2003; quest’ultimo assai utile anche per ulteriori riferimenti

bibliografici.

91ASMi, CS, c. 379, verbale di seduta del Consiglio segreto, Milano, 21 giugno 1606. Muzio si impe-

gnò a versare in ducatoni d’argento la considerevole somma di 25.000 scudi per comprare il feudo di Sore- sina con «la giurisdizione et altre ragioni et entrate et col titolo di Conte». Tuttavia, per ragioni che non ci sono note e nonostante l’iniziale parere favorevole del Consiglio, la sua offerta non venne soddisfatta, benché fosse di gran lunga superiore al valore commerciale del fondo, calcolato in poco più di 13.200 scudi tra proventi fiscali ed entrate di diversa origine.

92 ASMi, Notarile, cart. 22478, inventario redatto da Giulio Cesare Marliano, Milano, 30 maggio,

1615. L’acquisto del fondo della Malpiga fu preceduto da quello di un censo di 2.650 lire di capitale, asse- gnato su 80 pertiche di terra, venduto al Parravicino dalle mogli dei due fratelli Confalonieri: Ivi, cart. 22475, atto del 2 maggio 1613. Il «pactum de emendo et vendendo» dell’appezzamento fu invece stipu- lato il 17 dicembre di quell’anno (Ivi, cart. 22476), sempre dal notaio Giulio Cesare Marliano. Per nes- suna delle due possessioni, sfortunatamente, viene indicato l’anticipo versato, sicché non conosciamo il prezzo finale di acquisto delle stesse.

È difficile, sulla base delle scarne cifre a disposizione, stimare il valore dei terreni acquistati dal Parravicino. Oltretutto tali terreni, pur essendo confinanti fra loro e della stessa natura – in prevalenza adacquatori e prativi –, sembrano essere stati valu- tati con criteri diversi, presumibilmente a causa del differente valore attribuito alle strutture (abitazioni, cascinali, stalle) ivi presenti. Non si spiegherebbe altrimenti il divario tra il prezzo pagato per il fondo del Pulignano, costato 34.244 lire (circa 40 lire la pertica), e quello dei già citati appezzamenti, che non è possibile calcolare con certezza, ma che fu sicuramente superiore alle 60 lire per pertica93.

Sfortunatamente l’inventario non fornisce ragguagli neppure sul rendimento di tali fondi, né si diffonde sulle forme contrattuali che ne caratterizzavano la conduzione. Pare comunque assai probabile (sulla scorta delle scarne indicazioni presenti nella documentazione archivistica, ma anche in virtù delle conoscenze generali acquisite circa la Bassa lombarda e della tipologia dei fondi in questione, dove le foraggiere si affiancavano alle culture cerealicole) che nelle proprietà di Muzio prevalesse l’affit- tanza con canoni in denaro.94

L’elenco dei beni del tesoriere prosegue con i proventi derivanti dalla concessione di alcuni diritti d’uso sui propri terreni, dai canoni pagati dagli affittuari di abitazioni e piccoli appezzamenti, nonché da alcuni censi. L’ammontare complessivo di tali voci tocca le 2.103 lire annue, così suddivise: 120 lire versate da Orazio Modignano per la locazione del diritto d’uso della roggia Montanasa; 100 lire pagate dall’anonimo affit- tuario del mulino di San Grato con le rispettive ragioni d’acque; 84 lire di interessi annui garantiti da un censo di 1.200 lire (dunque al tasso del 7%) acquistato da Romano Musesso; altre 156 lire per un censo di 2.200 lire (al 7,09%) comprato da Francesco Luca e assegnato su un fondo detto la Lazara; 124 lire corrisposte da Gio- vanni Beltiere per l’affitto di 40 pertiche di terra (comprensive di un censo di 28 lire); 144 lire per il canone versato da Antonio Novati, affittuario di un appezzamento di

93Il prezzo di acquisto del fondo del Pulignano risulta dall’atto di vendita dello stesso, effettuato

presso il Magistrato straordinario dal procuratore del Parravicino, Geronimo Lavizzaro: ASMi, Notarile, cart. 22474, procura rogata da Giulio Cesare Marliano, Milano, 9 aprile 1612. Una pertica era pari a 654,52 metri quadrati ed era suddivisa in 24 tavole, a loro volta divise in 12 piedi e questi in 12 once. Per quanto riguarda il valore dei fondi è difficile esprimere valutazioni certe, ma pare di poter dire che non fossero particolarmente alti, forse perché non si trattava dei migliori terreni sul mercato. Aldo De Mad- dalena ha calcolato infatti che alla metà del Seicento, in una fase di prezzi calanti, i migliori terreni arativi nella Bassa milanese variavano tra le 70 e le 85 lire alla pertica e i prativi tra le 60 e le 70 lire: cfr. DEMAD-

DALENA, I bilanci dal 1600 al 1647 di un’azienda fondiaria lombarda. Testimonianze di una crisi economica, in IDEM, Dalla città al borgo cit., pp. 137-177, specialmente alle pp. 146-147.

94Il nesso tra affittanza e culture irrigue nella zona sud-occidentale della pianura padana è stato segna-

lato da F. BELLONI, La gestione di un’azienda agraria nella pianura irrigua pavese. Il fondo borromaico di

Camairano tra la metà del ’500 e la fine del ’700; e L. FACCINI, L’agricoltura della bassa Lombardia occi-

dentale fra XVI e XVIII secolo. Un approccio aziendale, entrambi in Agricoltura e aziende agrarie nell’Ita- lia centro-settentrionale (secoli XVI-XIX), a cura di G. COPPOLA, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 41- 58

e 59-78. Circa la diffusione del prato irriguo e lo sviluppo delle colture foraggiere si rimanda ad A. DE

MADDALENA, Il mondo rurale italiano nel Cinque e nel Seicento. Rassegna di studi recenti, in Rivista Storica

Italiana, n. 2 (1964), pp. 349-426. Notizie sulla situazione dell’agricoltura nel Lodigiano nella prima età

moderna si ritrovano anche in E. ROVEDA, La popolazione delle campagne lodigiane in età moderna, in

Archivio Storico Lodigiano, CIV (1985), pp. 5-173; e in IDEM, Una compatta ed estesa organizzazione agri-

cola fra Quattro e Cinquecento: la possessione di Sant’Angelo Lodigiano, in AA. VV., Ricerche di Storia

20 pertiche; 645 lire per gli affitti pagati dai contadini insediati sui suoi terreni e 730 lire per i livelli di Giulio e fratelli Quinteri.

Nella lista degli immobili redatta dal Marliano non figura alcuna abitazione citta- dina intestata al tesoriere. Il motivo è semplice: Muzio non era proprietario, bensì aveva affittato la casa in cui viveva, nella parrocchia di Santo Stefano in Brolo, a Porta Tosa (Porta Orientale). Si trattava di una grande abitazione appartenente alla famiglia dei Medici di Marignano, dotata di alcune stalle, un viridarium e un’annessa domun- cola. Il contratto di locazione era stato siglato nell’agosto del 1611 con il marchese Ferdinando de’ Medici, aveva durata quinquennale e prevedeva un canone annuo di 489 scudi. Nella primavera del 1613 era stato poi rivisto, con l’inserimento di una clausola che fissava il rinnovo automatico per altri cinque anni allo scadere del primo lustro. La domuncola e il giardino erano stati entrambi subaffittati dal tesoriere: la prima a Orazio Modignano per 48 scudi annui e il secondo a Paolo de Raimondi per 400 lire l’anno (circa 65 scudi), più l’obbligo della fornitura al locatore di verdura, legna e rose. In precedenza, tra il 1609 e il 1611, Muzio aveva abitato in un altro palazzo di proprietà della famiglia dei marchesi di Marignano, sito nella zona di Brera, sotto la giurisdizione dalla parrocchia di Sant’Eusebio. Ignoriamo invece dove il teso- riere avesse vissuto dal suo arrivo a Milano sino al 160995.

La politica abitativa del Parravicino non deve stupire: era la norma, infatti, per l’a- ristocrazia cittadina e per le categorie sociali più elevate di Milano (ma non solo) affit- tare la casa in cui si viveva e cambiare frequentemente residenza. Stefano D’Amico l’ha dimostrato analizzando gli stati d’anime del 1576 e del 1610, dai quali è emerso come, proprio negli anni in cui il tesoriere comasco affittò l’abitazione di Porta Tosa, soltanto il 40,9% dei nuclei nobili cittadini figuravano quali proprietari delle rispet- tive abitazioni96. Anche l’ubicazione della casa scelta come propria dimora da Muzio

non è casuale dal momento che, in genere, i ricchi uomini d’affari e i gentiluomini pre- ferivano aree tranquille e appartate, distanti dai grandi assi commerciali e dalla vita caotica del centro: caratteristiche che contraddistinguevano appunto la parrocchia di Santo Stefano in Brolo, dove, specialmente oltre i navigli, abbondavano giardini e spazi aperti97.

L’inventario dei beni, nella sezione dedicata a quelli mobili, fornisce qualche ulte- riore informazione sul palazzo in cui il Parravicino trascorse gli ultimi anni della pro- pria esistenza e, soprattutto, permette di farsi un’idea del tenore di vita e dello status sociale che egli aveva ormai raggiunto. Argenteria, stoffe, tappeti e tendaggi pregiati, quadri e altri oggetti di valore impreziosivano l’arredamento della casa, che doveva essere estremamente curato in tutti i particolari. Sotto la voce tappezzeria, accanto a

95ASMi, Notarile, cartt. 22473, 2474, 22475, 22476 e 22477, atti del 24 dicembre 1610, 31 agosto e

12 dicembre 1611, 3 settembre 1612, 22 aprile 1614.

96D’AMICO, Le contrade e la città cit., p. 71.

97Era peculiarità della zona di Porta Orientale, ove si trovava la parrocchia in questione, l’alternanza

di agglomerati poveri, orti e giardini e aree edificate di carattere nobiliare. Qui risiedevano infatti alcune delle famiglie più note della città: i Balbi Casati, i Marescalchi, i Trotta, oltre a personaggi di spicco del patriziato come il senatore Papirio Cattaneo, il giureconsulto Pietro Antonio Pallavicini e il presidente del Senato Giacomo Mainoldi. Cfr. D’AMICO, Le contrade e la città cit., p. 39.

paramenti, tappeti e panni di varia natura, c’erano delle portiere, cioè delle tende da affiggere alle porte, fatte realizzare nelle Fiandre, alcune delle quali recavano i simboli dei Camarena e dei Parravicino (un cigno su sfondo rosso), mentre una presentava lo stemma della comunità di Montanaso. Tra le pitture, per lo più di soggetto religioso, spiccavano alcuni ritratti della moglie, sia viva che morta, e dei figli minori Gaspare e Tommaso, tutti in cornici preziosamente guarnite di oro ed ebano. Segni inequivoca- bili questi, non diversamente dagli stemmi, di una volontà di assimilazione alle forme esteriori in cui si manifestava l’appartenenza alla nobiltà titolata, nelle cui fila il teso- riere aveva senza fortuna ambìto di entrare con il frustrato tentativo di acquisire il feudo di Soresina e il relativo titolo comitale98. In questo contesto rientrava anche la

ricchissima quantità e varietà di abiti posseduti – un centinaio, fra casacche, cappe e