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Anormalità, normalità Normalità, anormalità

Capitolo Terzo Apocaliss

3. Anormalità, normalità Normalità, anormalità

Una sistematizzazione, se vogliamo più filosofica, di quanto sin qui esposto relativamente al documento psicopatologico, così scandagliato, viene offerta dai brani raccolti, sempre nella Fine del

mondo, laddove Ernesto de Martino analizza i concetti di normalità e

anormalità, sanità e malattia, sintomo e rito259.

Il malato di mente non può non progettarsi un mondo, come abbiamo visto, ma questo mondo non è il medesimo per «sani e malati, uomini religiosi e fanciulli, sciamani e poeti».

In realtà «l’esserci-nel-mondo appartiene alla vita della cultura, e i pretesi “mondi” degli psicotici sono coglibili solo come sistematica negazione di qualsiasi mondo possibile, anzi come rischio di non- esserci-nel-mondo»260. Tali mondi degli psicotici sono comprensibili esclusivamente come rischio vissuto di non poterci essere in nessun possibile mondo culturale umano261.

258 FM, br 68 p. 138. 259 FM, br. 78-93 pp. 168 sgg. 260 FM, br. 78 p. 169. 261

Abbiamo già riportato, in coda al primo capitolo, la critica di Giovanni Jervis, proprio su questo punto. Ne riportiamo una sintesi esaustiva: «Coerentemente alla sua

Tali «mondi» sono antropologicamente significativi poiché denunciano una tentazione immanente al medesimo ordine culturale: annientarsi.

Ora, se in precedenza abbiamo messo in relazione la paradossia del documento psicopatologico con la paradossia del ritualismo, si tratta di delimitare, nel mondo storico-culturale definito internamente alla storia dell’occidente, mondi culturali e mondi dell’alienarsi. Per essere più espliciti, diremo con de Martino che

«[...] mentre i mondi del cristiano primitivo, dell’uomo medievale o rinascimentale, dell’indiano vedico, del cinese all’epoca di Confucio e dell’Aranda totemista costituiscono certe modalità della vita culturale umana, e sono effettivamente “mondi” in cui la comunicazione intersoggettiva e l’opera dell’uomo in società hanno avuto luogo – tanto è vero che quelle civiltà sono esistite –, il “mondo” dell’alienazione presenta carattere di non essere compatibile con nessuna vita culturale, e di segnare il crollo della stessa cultura come possibilità. Ciò vale per qualsiasi civiltà e per qualsiasi epoca, che hanno, tutte, i loro malati e che combattono a loro modo contro i rischi di un esperire che si viene privatizzando all’infinito e

impostazione di sempre, e non irragionevolmente, de Martino collocava all’origine della sua indagine ciò che gli era caro, l’idea della crisi esistenziale vista in generale; e anzi, più precisamente, l’idea della “crisi della presenza”. Ma la fine del mondo ne restava ancora distante. Purtroppo le mille esperienze e narrazioni di fine del mondo e le idee di trasformazione apocalittica erano troppo varie e, io vorrei aggiungere, troppo ricche di apporti culturali diversi per poter essere unificate sotto il segno della “crisi della presenza”. […] In parte, tuttavia, egli continuava a sperare che la psicopatologia lo aiutasse. Contava dunque sull’idea che lo studio delle esperienze psicopatologiche potesse indicargli la strada per una unificazione tematica di questa vasta materia. […] In genere, dunque, ossia nella maggioranza dei casi, si tratta di “vissuti” patologici che non si aprono realmente verso immagini ed elaborazioni di catastrofe universale, né – tanto meno – verso idee o immagini millenaristiche o apocalittiche. Altre volte invece, ma assai di rado, il tema emerge realmente come tale, ossia si esplicita senza equivoci come un vero tema di fine del mondo (a volte come un tema apocalittico) già nelle parole stesse dei malati di mente. Talora questo accade in casi di schizofrenia: talora invece (e peraltro con dinamiche psicologiche assai diverse) nei casi molto gravi di depressione con delirio di negazione; talora, poi, in rare forme di epilessia temporale.» (G. Jervis, Psicopatologia

che impedisce la comunicazione. In altri termini se l’esserci-nel-mondo costituisce la norma della presenza, la condizione del suo emergere e del suo impegnarsi sempre di nuovo nel processo di presentificazione, come potrà chiamarsi ancora “mondo” quello della presenza che rischia di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile?»262

Affiorano temi e significati quali «intersoggettività», in parte già visto, ma anche «comunicabilità» e «progettabilità». Il «disordine» psichico, argomenta de Martino, si definisce, nella sua coerenza interna, poiché i sintomi sono comprensibili una volta ammessa l’incoerenza fondamentale del «non-esserci-nel-mondo». Allora le concordanze fra sintomi dei disordini psichici e fenomeni magico- religiosi non possono e non devono essere istituite attraverso una comparazione astratta, ovvero con l’individuazione dei sintomi, da un lato, e dei simboli, dall’altro, isolati entrambi: i primi, dal concreto contesto della biografia individuale del malato, i secondi, dalla vita culturale. In questo modo una duplice astrazione conduce a individuare concordanze che diventano vere e proprie identità, ma costruite sulla fragilità dell’astratto.

Sono, al contrario, da approfondire e sviluppare, per de Martino cinque esigenze263: seguire il filone esistenzialista Husserl-Heidegger- Binswanger264, nel quale il concetto di «presenza» come «esserci-nel-

262 FM, br. 79 p. 170, corsivo nostro. 263 FM, br. 82 p 171. 264

Sul rapporto fra l’ultimo de Martino e il tardo Heidegger e sulla relazione fra l’antropologo napoletano e Binswanger, si vedano due specifici saggi di Placido Cherchi contenuti nel volume Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto de Martino, Liguori, Napoli 1994. A partire dalla dicotomia sanità-malattia, Cherchi stabilirà un parallelo fra la rivalutazione operata da de Martino circa il magismo, catalogato come irrazionalismo tout court dalla ragione egemonia, e quella di Binswanger circa l’universo psicotico, folle tout court secondo la ratio psichiatrica. Una premessa comune, dunque, anche se de Martino si muove dentro un orizzonte storicizzante delle categorie, che finisce per mettere in discussione anche le premesse ermeneutiche di una analisi che

mondo» si apre al concetto di «crisi della presenza» e al rischio di «non-esserci-in-nessun-mondo-possibile»; in secondo luogo stare alla lontana dagli «etnocentrismo occidentali nel giudizio che la scienza occidentale dà delle culture non occidentali»; in terzo luogo evidenziare i temi della storia individuale messi in luce dalla psicoanalisi; utilizzare le ricerche sul mito, sul simbolismo, sul rito, sul sacro; infine dare coerenza e unità a questi temi innovando la tradizione storicistica «e liberandola dai residui teologici del “piano” della storia universale».

Per questi motivi, che i «mondi» possano essere deliranti è un errore di interpretazione, generante molteplici equivoci. Forse più che di «mondi» dell’alienarsi potremmo parlare di modi dell’alienarsi della presenza. Ancora una volta teniamo ferma la distinzione «presenza»/«mondo», che, comunque, vediamo riaffiorare sempre, quale sottotraccia che attraversa gli scritti demartiniani. «Il mondo delirante ha proprio il carattere di non essere un mondo, cioè di nascere da una fondamentale esperienza di demondanizzazione e destorificazione: il “mondo delirante” è delirante proprio perché manca della comunicabilità culturale, perché isola il rischio, o disarticola la dialettica rischio-reintegrazione»265.

de Martino fa sua la necessità di una contestualizzazione storico- culturale: proprio per questo alla domanda se sia possibile distinguere il normale e l’anormale nei comportamenti umani, risponde indicando la imprescindibilità di analizzare il «senso» del comportamento

guarda in primo luogo ad una ontologia della persona. Ecco che far apparire “sano” il “malato”, alla fine, significa svuotare la stessa idea di devianza, mettendo in opera una “salute” più povera della “malattia”. Il limite di Binswanger sta proprio nel dare rilievo esclusivamente alle dinamiche psichiche interne alla persona, trascurando le componenti oggettive dell’esperienza e, soprattutto, la valenza della cultura e dell’ethos.

relazionandolo al «senso» della cultura universale o civiltà particolare entro cui tale comportamento è inserito. Il contesto, appunto266.

Definito questo ambito metodologico, viene ripresa la tematica del rapporto fra psichiatria culturale quale studio dei disordini mentali in rapporto al condizionamento socio-culturale. Il problema del rapporto fra disordini mentali e simbolismo mitico-rituale, allora, non è risolvibile banalmente – come fa la psichiatria classica –, ovvero spiegando determinati disordini psichici con interpretazioni magico- religiose, bensì riconoscendo che tale simbolismo assolve, in particolari condizionamenti culturali, una reale funzione catartica, riequilibratrice, reintegratrice e, in ultima istanza, terapeutica. In questo modo il concetto di «normale» e «anormale» di «ordine» e «disordine» così classicamente intesi dalla psichiatria vanno in crisi e la psichiatria culturale allarga un orizzonte confinato nell’«europeocentrismo» ponendosi il problema della genesi, della struttura e del funzionamento del simbolismo mitico-rituale, così come antropologi, storici della cultura, studiosi delle scienze sociali si sono resi conto di non potersi fermare allo studio della vita religiosa seguendo solo il piano della «normalità»267.

Per uscire dell’impasse occorre assumente come criterio per distinguere il sano dal malato non la realtà, ma la «realtà storica».

265

FM, br. 83 p. 172.

266

FM, br. 84 p. 173. Cosa comporta il giudizio su normalità e anormalità: dapprima il concetto di cultura come trascendimento della situazione, e come trascendimento secondo valori; secondariamente l’apprezzamento dei valori operanti in una determinata civiltà storica; quindi l’apprezzamento della dinamica in cui si inserisce il comportamento.

267

FM, br. 85 pp. 174-175. E più oltre, circa il nesso sanità-malattia: «il giudizio di sanità o malattia mentale è un giudizio storico, e non può prescindere dalla considerazione storica del rapporto fra comportamento e ambiente storico. Un comportamento è psichicamente sano quando riflette alternative e scelte pubblicamente accettate, quando trova nell’ambiente storico di cui si fa parte una rete di istituti e di tradizioni culturali vive destinate ad accogliere quel comportamento, e infine quando si